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Autore: Adeia Di Elferas    01/07/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Per il piccolo banchetto tenuto in onore di Simone Ridolfi, la Contessa aveva deciso di far cucinare il cinghiale cacciato assieme a Giovanni, accompagnandolo con alcuni dolci tipici di Milano.

Le portate sarebbero state poche, in modo da ridurre al minimo il tempo necessario per consumarle, ma si sarebbe comunque trattato di una cena degna di un ospite di riguardo quale era il nuovo messo fiorentino.

La donna aveva dispensato i figli più piccoli da quell'incombenza, mentre Ottaviano, Cesare e Bianca erano stati caldamente invitati a prestare la loro presenza e porgere formalmente gli omaggi al fiorentino.

Aveva dato loro l'ordine il giorno stesso della cena, pensando di non trovare alcun tipo di ostruzione. Invece tra i tre, quello che di norma era sempre stato il più remissivo, si permise di alzare la cresta e di opporsi, anche se solo a parole.

“Perché dobbiamo esserci anche noi? Lo Stato che voi comandate non ha quasi più nulla a che fare con noi.” aveva chiesto Cesare, facendosi scuro in volto, senza guardare la madre.

Caterina ci aveva pensato un secondo, pensando agli eventuali problemi che costringere il figlio a presenziare avrebbe potuto comportare e poi, scegliendo una linea abbastanza morbida, gli aveva risposto: “Hai ragione. Questo Stato non ha quasi più nulla a che spartire, né con te, né con tuo fratello. Dunque, se non vuoi, non è necessario che ci sia anche tu. Ormai sei affare della Chiesa.”

Tuttavia il ragazzo, che forse era in realtà in cerca di uno scontro più acceso e non delle parole quasi apatiche della madre, aveva stretto un pugno sul petto e aveva sentenziato: “No, ci sarò anche io. Non voglio sembrare un figlio irrispettoso.”

Durante quel breve scambio di battute, Ottaviano, che era presente come Bianca, non aveva sollevato gli occhi dal pavimento nemmeno per sbaglio. Da quando era stato liberato non aveva osato contraddire la madre in nessun modo, neppure una volta, nemmeno con il linguaggio del corpo.

Sua sorella aveva provato ad aprire la bocca, forse per pacificare un po' Cesare e la madre, ma poi si era zittita all'istante, quando la Contessa aveva sospirato contrariata e aveva concluso: “Cercate di fare conversazione con il nostro ospite e con il suo seguito in modo affabile, ma non date loro troppa confidenza.”

Oltre a Simone, infatti, quella sera erano attesi anche i suoi segretari.

Giovanni aveva cercato di far desistere il cugino, pregandolo di sfoggiare un po' meno la propria disponibilità economica, dato che la corte della Sforza era tutt'altro che sfarzosa, tanto che, addirittura, la Contessa non indossava mai gioielli. Si diceva che quella mancanza fosse dovuta al fatto che i monili della Tigre erano stati in parte venduti e in parte impegnati dal Conte Girolamo Riario, ma, per il Popolano, il fatto che la Leonessa si mostrasse con abiti modesti e senza fronzoli era solo un valore aggiunto, quale che fosse la ragione reale di quella scelta.

Malgrado tutte queste spiegazioni, però, Simone non aveva voluto sentire ragioni.

“Tu vuoi esserle amico – aveva detto, tralasciando una volta tanto il suo gusto per i doppi sensi e le prese in giro – ma noi rappresentiamo Firenze. Non dobbiamo compiacere la Tigre di Forlì, ma farle capire che siamo più forti di lei. Deve arrivare al punto di rendersi conto che o accetta la protezione della nostra repubblica alle nostre condizioni, o sarà la nostra repubblica a distruggerla.”

Il Popolano non aveva preso bene quell'animosità, riconoscendo nel cugino la vecchia sete di fama e potere che già si era fatta sentire in lui quando era ragazzino, anche se poi le circostanze della vita non gli avevano mai dato modo di sfogarla.

Probabilmente Ridolfi sperava, portando a casa un ottimo risultato con la famigerata Leonessa di Romagna, di guadagnarsi un posto tra i grandi di Firenze.

 

La Contessa era pronta per andare nella sala dei banchetti, quando incrociò Giovanni, che stava per fare altrettanto.

“Medici...” lo chiamò, a mezza voce, e il Popolano si fermò subito e l'aspettò.

Quando furono affiancati, Caterina gli fece segno di continuare pure a camminare. In fondo al corridoio c'era Cesare Feo che stava impartendo ordini al capo delle reclute e, man mano che avanzavano verso la sala dei banchetti, incrociavano soldati e servi e la Contessa non voleva che qualcuno potesse carpire più di tanto di quello che stava dicendo.

Così, guardando dritto davanti a sé, chiese, a voce bassa: “Che cosa mi devo aspettare da vostro cugino, questa sera?”

Il fiorentino rimase un po' spiazzato da una domanda tanto diretta, ma, sulla lealtà che nutriva verso Firenze e la propria famiglia, sentì prevalere quella verso la donna che amava, così parlò il più chiaramente possibile: “Simone sa essere un uomo astuto. Ha la lingua lunga e può sembrare vanesio, ma, quando vuole, sa dove colpire e quando farlo. Non so nemmeno io che cosa voglia proporvi. Immagino che abbia ricevuto direttive da Firenze, ma non saprei dire in merito a cosa.”

Caterina si accigliò e, mentre scendevano le scale, domandò: “Ma l'ambasciatore non sareste voi?”

“Simone è molto ambizioso.” spiegò Giovanni, allacciando le mani dietro la schiena: “Penso che cercherà di mettersi in mostra con Firenze. So che davanti alla possibilità di avere un ruolo di spicco, sarebbe pronto a passare sopra a chiunque. Magari non sopra di me, che sono suo amico ancor prima di essere suo parente, ma sopra di voi, che con lui non avete alcun legame, passerebbe senza farsi alcuno scrupolo.”

Siccome ormai erano all'ingresso del salone, la Leonessa ringraziò Giovanni e chiuse il discorso senza aggiungere più nulla.

Quando Ridolfi arrivò alla rocca assieme al suo breve seguito, la Contessa lo accolse con il sorriso sulle labbra e gli presentò i suoi tre figli maggiori, indicando Bianca come la moglie di Astorre Manfredi, Cesare come futuro prelato romano e Ottaviano semplicemente come suo primogenito.

Simone si congratulò con Cesare per il suo futuro radioso, espresse grande piacere nel poter finalmente conoscere di persona Ottaviano, e poi guardò per un istante Bianca, un sorriso insinuante che gli illuminava gli occhi: “Il vostro deve essere un matrimonio molto difficile e sofferto, per una dama della vostra età. Quando si è così giovani, è doloroso stare lontani dal proprio innamorato.”

La figlia della Tigre aveva assunto un'espressione di circostanza e la madre le corse in aiuto con un semplice: “Astorre Manfredi è poco più di un bambino. Mia figlia si trasferirà nella sua casa quando sarà abbastanza grande da poterle assicurare la protezione che merita.”

A quel punto, rotto il ghiaccio, si erano messi tutti a tavola e, almeno per buona parte della cena, nessuno aveva trovato argomenti pericolosi di cui parlare.

Mentre Bianca conversava amabilmente coi segretari dei fiorentini, dimostrando di avere una cultura molto ampia e interessi eclettici, Ridolfi aveva speso parole molto entusiaste sulla qualità del vino e su quella della carne e si era preso gioco di Giovanni, quando aveva notato che il cugino aveva mangiato appena un paio di pezzetti di stufati di cinghiale.

“Avanti...” gli aveva detto, sollevando in sua direzione il calice a mo' di incoraggiamento: “Non sei una ragazzina! Manda giù un po' di carne!”

Giovanni lo aveva guardato storto e Simone si era subito distratto di nuovo, mettendosi a conversare con Cesare Riario. Anche se il ragazzo, vestito di nero e di poche parole, rispondeva in modo secco e indisponente alle domande del fiorentino, che voleva sapere di più sulla sua istruzione e sui suoi piani per l'avvenire, Caterina fu contenta nel vedere che Ridolfi finalmente allentava un po' la presa su Giovanni.

Pareva che il cugino, quella sera, fosse il bersaglio preferito del nuovo arrivato e la Contessa avvertiva uno sgradevole fastidio nel vedere l'ambasciatore di Firenze trattato a quel modo, anche se solo da un parente un po' alticcio.

“La carne era ottima. Ditemi un po', mia signora, i vostri cacciatori dove hanno preso questo cinghiale?” chiese Simone, quando vennero portati in tavola i dolci.

Ottaviano stava mangiando voracemente una porzione di spongata – in quei giorni divorava di tutto, come a riprendersi dai lunghi mesi di mezzo digiuno sopportati da prigioniero – e quasi si strozzò quando sentì la madre rispondere: “L'abbiamo catturato e ucciso insieme io e vostro cugino, in un boschetto poco lontano da questa rocca.”

Alla Contessa non sfuggì la reazione del figlio, perciò lo tenne d'occhio con discrezione mentre Ridolfi esclamava: “Giovannino, non me l'avevi detto!”

Siccome Ottaviano, dopo un colpetto di tosse e un sorso di vino, aveva ricominciato a mangiare come nulla fosse il suo dolce, occhi bassi ed espressione spenta, Caterina aveva riabbassato subito la guardia.

“Non vedo perché avrei dovuto dirtelo.” si difese il Popolano.

Simone prese un pezzo di torta e la guardò un momento, prima di attaccarla, dicendo: “Ho capito, non sono affari miei.” poi, dopo aver deglutito il primo boccone, guardò la padrona di casa e, un po' rosso in viso per il troppo vino, esclamò: “Lasciatevelo dire, però, avete un modo molto particolare di intrattenere gli ospiti che vi aggradano! Uccidere assieme una bestia non è proprio l'idea che avrei avuto io...”

La Contessa fece un sorriso vago e per fortuna Ridolfi non insistette su quel punto e la cena arrivò alla sua naturale conclusione senza troppe difficoltà.

“C'è una cosa di cui vorrei parlarvi.” fece Simone, quando la tavola fu sgomberata, i suoi segretari omaggiato Sua Signoria per poi andare ad aspettare il loro padrone fuori e i due figli maschi della Contessa si furono congedati.

Bianca era rimasta un attimo indietro per discorrere con Giovanni su un passo della Commedia di Alighieri. La ragazzina aveva scoperto per caso che il fiorentino conosceva quell'opera molto bene e, siccome lei ne aveva da poco fatta acquistare una copia e la stava leggendo voracemente in quei giorni, voleva confrontarsi con qualcuno più esperto di lei per vedere se avesse inteso bene alcuni passaggi.

Caterina guardò verso il Popolano e lo trovò del tutto assorto nella discussione con Bianca. Perciò, pensando di essergli abbastanza lontana, puntò gli occhi su Ridolfi e gli fece un cenno con il capo per permettergli di proseguire.

L'uomo, dal fisico notevole, si piegò appena in avanti in modo da poter parlare in un sussurro. Il suo alito era un po' vinoso eppure, quando cominciò il suo discorso, la Tigre comprese subito che, malgrado le grossolane battute di spirito e le risate sguaiate, il suo ospite era tutt'altro che ubriaco.

“Credo che siate a conoscenza delle tensioni tra la nostra repubblica e Venezia.” iniziò Simone, incontrando subito lo sguardo imperscrutabile della donna che, tuttavia, parve non intimidirlo affatto: “Ma Firenze ha anche un altro nemico. Siccome le nostre forze andranno concentrate contro la Serenissima, se una guerra dovesse scoppiare, è necessario, per noi, assicurarci un buon esito sull'altro campo.”

Caterina non disse nulla e così Ridolfi, allargando appena le spalle, proseguì: “Pisa ci sta dando dei problemi. Nulla di serio, sia chiaro...” sorrise l'uomo: “Però vogliamo poterla tacitare in fretta. Non ci garba vedere una città tanto insignificante ergersi contro una potenza come la nostra.”

“E io che c'entro in tutto questo?” lo interruppe la Contessa, mentre i suoi occhi verdi ogni tanto correvano a Giovanni che stava ancora chiacchierando con Bianca.

“La preparazione eccelsa del vostro esercito è ormai nota anche ben al di fuori dei confini dalla Romagna.” fece Simone, seguendo per un attimo lo sguardo della donna e ridendo tra sé nello scoprire che andava a suo cugino.

Vedere come quella che tutti chiamavano Tigre non fosse altro che una donna, per di più sola, senza nemmeno un valido erede al suo fianco e palesemente invaghita di Giovanni, diede una nuova spinta a Ridolfi, che si fece ancor più rilassato nel dire: “Avete creato delle truppe professioniste, addestrate in modo rigoroso e in servizio ormai da molto tempo. Quelli che li hanno visti all'opera durante la vostra breve guerra di espansione li hanno paragonati ai lanzi svizzeri, anche se male equipaggiati e decisamente peggio armati.”

“I miei soldati non sono mercenari.” fece prontamente la donna, inclinando appena la testa: “I mezzi che ho per armarli sono le sole sostanze del mio Stato.”

“Lo so.” convenne Simone: “Ecco perché sono qui a chiedervi di accettare un ingaggio per il vostro esercito. Con la sua preparazione e le armi che Firenze potrebbe...”

“E voi credete di poter così ottenere delle truppe valide quanto quelle svizzere, ma a un decimo del prezzo, giusto?” controbatté la Leonessa, non lasciandolo finire, con la voce appena più alta, tanto, almeno, da attirare lo sguardo di Giovanni, che stava discorrendo di Cerchi e Gironi.

“Non è quello che...” cominciò a dire Ridolfi, ma era chiaro che la Contessa avesse centrato in pieno la questione, smascherandolo ancor prima che si arrivasse a parlare di soldi.

“Non se ne parla. Se proprio ci tenete, allora dovrete pagare i servigi del mio esercito quanto paghereste un'eguale squadra di lanzi o di stradiotti.” decretò Caterina, avviandosi a passo svelto alla porta: “Passate una buona notte, messer Ridolfi.”

Simone restò con un palmo di naso e sbiancò quando la Contessa, passando accanto a Giovanni, esclamò: “Mi avevate detto che vostro cugino era un uomo ambizioso, ma di questo passo la vedo molto difficile, per lui.”

Poi, scuotendo il capo, la Tigre guardò la figlia: “Avanti, adesso lasciamo i nostri ospiti. Messer Medici riaccompagnerà messer Ridolfi ai suoi appartamenti. Continuerete a parlare di libri domani.”

E a Giovanni non restò altro da fare che esibirsi in un profondo inchino verso la Leonessa e sua figlia e poi cercare di portar via di peso Simone, che ancora stava al suo posto, incredulo per essere stato trattato a quel modo. Da una donna, per giunta.

 

“Che donna impossibile!” si lamentò Ridolfi, dopo essere arrivato nei suoi alloggi: “Il suo primo figlio sembra un cane bastonato e l'altro è sulla buona strada per trasformarsi in una cornacchia come quel fanatico di Savonarola! E tacciamo della figlia!”

Giovanni restava sulla porta, le braccia incrociate sul petto e l'espressione contrita, mentre il cugino continuava a dar fiato ai suoi pensieri iracondi: “È già una sgualdrina come sua madre!”

“Simone!” scattò a quel punto il Popolano, allargando le braccia e lanciandogli uno sguardo di rimprovero.

Simone alzò le spalle e si fece sulla difensiva: “Ebbene? Che c'è? La vedi anche tu, no? Una ragazza della sua età che si mette a chiacchierare con tanta disinvoltura con uomini che nemmeno conosce!”

Giovanni scosse la testa: “Bianca Riario è solo intelligente. E ha avuto un'istruzione che le ha permesso di non essere legata alle solite...”

“Ma stai zitto!” lo fermò Ridolfi, cominciando a togliersi con gesti stizziti il giubbetto per prepararsi per la notte: “Istruita o no, a nessuna quindicenne salterebbe in mente di passare tutta una cena a discutere con degli uomini, che in più non ha mai visto prima, di macchine da guerra e sistemi erariali! Non era minimamente in imbarazzo! E si è anche fermata a parlare con te di letteratura... Non sa stare al suo posto! Tale e quale a quella strega di sua madre! Io proprio non capisco come faccia a piacerti quella poco di buono della Sforza!”

Giovanni fece un sospiro irritato e poi mise una mano sulla maniglia della porta: “Parli così solo perché la Contessa ha sminuito il tuo ego. Calmati e ne riparleremo domani.”

“Il mio ego!” sbuffò Ridolfi: “Quella ha preso a pesci in faccia Firenze! Non speri di vedersi tendere altre mani, perché..!”

“Ma si può sapere che cosa le hai detto di preciso?” chiese a quel punto il Popolano, che, nel riportare il cugino al palazzo degli ambasciatori non aveva potuto indagare meglio su quell'incidente diplomatico, per via dei segretari che li seguivano.

“Le ho offerto una condotta per il suo esercito. Firenze lo vorrebbe impegnare contro i pisani. Le ho anche detto che i suoi uomini sono di pari valore di quelli dell'Impero e della Svizzera, ma quella pazza ha rifiutato prendendomi anche per stupido!” la voce di Simone s'era fatta acuta, stonando in modo impressionante con la sua stazza e l'ispida barba rossiccia che gli cresceva sul mento: “Noi avremmo ottenuto una truppa d'eccezione a un prezzo andante e lei in cambio avrebbe avuto la nostra protezione! Che c'era di così scandaloso?!”

“E secondo te una come lei avrebbe accettato un accordo del genere? Era come dirle: dacci i tuoi soldati, resta sguarnita e diventa un nostro protettorato.” gli fece notare Giovanni, capendo finalmente cosa avesse fatto scattare la Leonessa.

“E allora? È una donna! È sola! È debole! Se non accetta un patto così, cosa accidenti crede di poter fare?” fece Simone, togliendosi anche la camicia e raspando nella cassapanca in cerca di una vestaglia da notte.

“Tu non la conosci proprio.” concluse Giovanni, capendo che per quella sera sarebbe stato inutile far ragionare il cugino: “Cerca di riposare. Ci vediamo domani.”

Poi, quando già aveva aperto la porta e Simone si stava slacciando il cinturone, il Popolano ci ripensò e aggiunse, con un tono perentorio che raramente usava: “E, d'ora in poi, fai in modo di informarmi in anticipo di qualunque cosa tu voglia proporre alla Contessa Sforza. L'ambasciatore sono io. Tu sei qui solo di supporto. Anche una sola iniziativa personale, e farò in modo di farti richiamare a Firenze.”

 

Ludovico Sforza ascoltò con attenzione le parole del suo relatore e poi guardò Calco e Beatrice.

La Duchessa aveva da poco ripreso a parlargli, quando si era accorta che il marito e Lucrezia Crivelli avevano litigato. Non gli aveva ancora concesso il beneficio del perdono, ma quei giorni si stavano facendo abbastanza concitati, alla corte del Moro, e la giovane donna non aveva intenzione di permettere ai propri affari privati di influire troppo su quelli pubblici.

“Quella del nostro ambasciatore è un'accusa molto grave.” commentò il Duca, passandosi la manica sulla fronte sudata.

Milano, in agosto, era come un calderone ribollente e lo Sforza non vedeva l'ora che arrivasse settembre e poi l'autunno e infine l'inverno. Fosse anche nevicato tutti i giorni, gelando i porti e i fiumi, sarebbe comunque stato meglio di quel caldo torrido.

“Decisamente.” convenne Calco: “Vi prego, potete rileggere il passaggio in cui parla del banchetto?” chiese poi, guardando il relatore.

L'uomo annuì e rispiegò la lettera per poi declamare: “L'ambasciator fiorentino, Giovanni dei Medici, è d'abitazione d'uso alla rocca e, la sera passata, lui assieme con il compare suo Simone Ridolfi, nobile fiorentino di larga parentela con il Medici, sono stati ospiti d'eccezione al desco di madama. Quando chiesi di poter ricevere medesima grazia in quanto vostro emissario, il cancelliere di madama spiegommi che suddetto banchetto era solo indetto per amicizia tra madame e il Medici e non in veste ufficiale. Eppure io so per certo che grandi affari si muovono già intra Firenze e madama. Tanti cominciano ad avvedersi della propensione di Giovanni dei Medici per vostra nipote e in molti sanno ch'ella l'ha portato a caccia, come solea fare con il suo amante, il Barone Feo, e che non è suo costume tenere a vivere alla rocca uno straniero e che dunque questa scelta deve avere motivi seri. Par sempre più che la Leonessa penda per Firenze e Firenze diviene ogni dì più potente e con il suo corvo domenicano rischiasi di mettere a ferro e fuoco l'Italia tutta.”

“Dobbiamo fare qualcosa per indebolire Firenze.” disse subito Beatrice, dopo aver scosso la testa contrariata a ogni parole dell'uomo che lei stessa aveva mandato a Forlì.

“Posso provare a minacciare mia nipote.” disse piano il Moro, scervellandosi per pensare a un modo efficace di smontare le eventuali mire di Caterina.

“Non possiamo pensare di spezzare i piani dei fiorentini agendo solo su tua nipote.” spiegò la Duchessa, guardando il marito: “Bisogna agire alla fonte. Si deve screditare Savonarola. Buttando giù lui, manderemo Firenze nella confusione più nera e muovere guerra a chicchessia sarà il suo ultimo pensiero.”

 

Francesco Gonzaga riaprì gli occhi e si sentì per qualche istante così confuso da non capire nemmeno se fosse coricato in terra o su una nave che dondolava in mezzo a un mare in burrasca.

Quando riuscì a mettere a fuoco, comprese di essere ancora a Teano. Ricordava molto bene quella stanza. Era la stessa in cui si era sentito male, cadendo in terra e sbattendo anche la testa contro il pavimento.

“State tranquillo...” sussurrò il cerusico che si stava prendendo cura di lui: “Siete fuori pericolo, ormai, ma è meglio che non facciate sforzi.”

“Che diamine è successo?” chiese il Marchese di Mantova, riconoscendo a stento la propria voce, fine e arrochita.

“Avete preso la malaria.” disse l'altro, passandogli una pezza bagnata sulla fronte: “Come molti altri uomini del nostro esercito, purtroppo. Questo caldo... Ma vi state già riprendendo e questo è bene.”

Francesco sentiva la testa pulsare in modo spiacevole e avvertiva nelle ossa la sensazione della febbre appena passata.

Quell'inconveniente proprio non ci voleva. Aveva appena ottenuto dai veneziani il permesso di tornarsene a Mantova da sua moglie, ed ecco che subito si prendeva una malattia fastidiosa come la malaria.

“Datemi da bere...” sussurrò, richiudendo un istante gli occhi, battuto dalla debolezza.

Il cerusico lo aiutò a sorbire un po' d'acqua e poi, forse per voglia di far conversazione o forse per cercare di tenere sveglio l'eroe di Fornovo, cominciò a raccontargli quello che era successo in quegli ultimi giorni: “Gli Orsini che avete catturato verranno trasdotti a Castel dell'Ovo molto presto, su ordine del papa. Re Ferrandino ha accettato subito di portarli in prigione a Napoli. E adesso s'è sposato con Giovanna d'Aragona. I due hanno lasciato Napoli e stanno andando a Somma. Dicono che, per le nozze, la sposa indossasse...”

Mentre il cerusico parlava, Francesco si sforzava di respirare lentamente, cercando di valutare il reale stato del suo fisico.

Voleva rimettersi in fretta. Voleva tornare da Isabella. Voleva conoscere la sua nuova figlia, Margherita.

E poi, a Dio piacendo, voleva godersi qualche mese di pace, prima della prossima guerra.

 
   
 
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