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Autore: Adeia Di Elferas    02/07/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ludovico si fece passare le due lettere dalle mani secche dello scrivano che aveva profumatamente pagato per creare quei due falsi.

La grafia di Savonarola era stata copiata da una vecchia missiva che era arrivata anni prima a Milano e il Moro sperava che nessuno di permettesse di mettere in dubbio l'autenticità di quei due nuovi messaggi che aveva lui stesso ideato, di comune intesa con sua moglie Beatrice.

Il Duca lesse con molta attenzione la prima lettera, indirizzata pomposamente a re Carlo VIII.

Con un certo gusto per le frasi a effetto – così come sarebbe stato se l'autore fosse stato davvero il domenicano – i paragrafi si inseguivano, chiedendo con sempre maggior veemenza il ritorno del francese in Italia.

Con un cenno di assenso, Ludovico appoggiò il foglio alla scrivania e passò alla seconda lettera.

In questo caso il destinatario era un tal Niccolò, nome scelto del tutto a caso, sperando che tra gli amici del frate ne figurasse almeno uno, e il contenuto andava a mettere suddetto ipotetico sostenitore di Savonarola in guardia contro l'Arcivescovo di Aix.

Si sosteneva che costui, ambasciatore francese a Firenze, altro non fosse che uno spergiuro e un traditore, pronto a lavorare alle spalle di re Carlo e a propugnare la disfatta della repubblica fiorentina.

Quei messaggi falsi, soprattutto a dire di Beatrice, sarebbero bastati a dimostrare a tutti la malafede di Savonarola e la sua indole da guerrafondaio. Mentre il papa, ufficialmente, invocava la pace sulla penisola, uno dei suoi, un ministro di Dio, chiedeva una nuova guerra e si occupava più di politica che non di fede.

Era sufficiente per far scoppiare uno scandalo grosso quanto lo Stato vaticano.

Lo scrivano osservò il Moro, mentre questi terminava la lettura con gli occhi iniettati di sangue per via della lunga notte insonne passata a discutere ancora con Lucrezia, e poi chiese: “Dunque, mio signore? Sono di vostro gradimento?”

Il Duca sporse in fuori le labbra e il suo doppio mento tremolò nel dire: “Sì, possono andare.” poi lanciò uno sguardo penetrante al falsario e sottolineò: “Siete stato ben pagato. Se una sola parola esce da questo palazzo, vi faccio strappare la lingua e tagliare le mani.”

L'uomo, a quella minaccia, si prese d'istinto una mano nell'altra.

Era abbastanza vecchio da ricordare molto bene quando il fratello del Moro, il folle Duca Galeazzo Maria Sforza, aveva fatto tagliare le mani a Tonio Vismara, primo console all'Università degli Armorari.

Anche se poi Vismara aveva avuto la sua vendetta, facendo uccidere il Duca, come tutta Milano aveva poi scoperto, aveva comunque dovuto vivere come uno storpio e un reietto fino alla fine dei suoi giorni.

“Io non dirò mai nulla.” confermò lo scribacchino, raccogliendo in fretta le sue cose dalla scrivania e proponendosi in un inchino servile.

Ludovico già non lo stava più ad ascoltare. Lasciò che si profondesse in saluti pomposi e dichiarazioni di fedeltà, e poi si diresse verso lo studio del suo cancelliere.

Il piano era a metà del suo corso. Quelle lettere avrebbero destabilizzato l'alleanza franco-fiorentina e, denunciandone la scoperta al papa e alle altri corti, Milano avrebbe messo in cattiva luce Savonarola, forse abbastanza da metterne a rischio il governo.

Così, nell'aria cupa e immobile di quel 23 agosto, il Duca andò da Bartolomeo Calco e, porgendogli le due missive, annunciò: “Chiudetele e poi riapritele. Dopodiché fate partire la denuncia.”

 

Dopo il primo, fallimentare, tentativo di imporre alla Contessa Sforza un accordo, Simone Ridolfi aveva evitato la rocca di Ravaldino, ben pensando che, prima di muoversi di nuovo, fosse necessario informarsi meglio sulla donna che aveva nel suo mirino.

Aveva scoperto abbastanza in fretta che bastava aggirarsi per Forlì per sentire sulla Tigre di tutto e di più. Era difficile capire quali storie fossero vere e quali no, ma davano comunque al fiorentino un buon metro di giudizio.

Giovanni era stato sordo a ogni sua richiesta, quando lo aveva pregato di parlargli meglio della Contessa e così Simone aveva finito per fare da sé.

Quella sera di inizio settembre, per esempio, era stato in una locanda e aveva cenato da solo in un tavolo un po' riparato. Da lì aveva potuto sentire le chiacchiere, appena impastate dal vino, di due altri avventori, seduti a poca distanza da lui.

“Sì, ti dico.” aveva confermato il più giovane dei due, un tipo dalla spalle larghe e con folti capelli scuri, che, da com'era vestito, doveva essere un soldato: “Mi è arrivata lì e ha fatto la sua proposta senza tante cerimonie.”

L'altro aveva fischiato, addentando un pezzo di pane nero e aveva incitato l'amico a continuare, dicendogli con voce bassa, da cospiratore: “E poi? Com'era?”

Il più giovane, con il classico fare di chi si vanta di una conquista particolarmente difficile, aveva gettato un momento la testa all'indietro e aveva assicurato che, benché 'madama' fosse stata molto esigente, ne era valsa la pena.

“Ma è vero quello che dicono di lei?” aveva indagato ancora l'altro: “Che a volte si lascia prendere la mano e...”

Purtroppo Simone non aveva sentito il resto, perché i due si erano avvicinati, continuando il discorso con bisbigli nelle orecchie e risatine insinuanti, come due ragazzini che discutono di argomenti proibiti.

Tuttavia, dopo qualche minuto, quando già Ridolfi si stava convincendo a lasciare la locanda, il più giovane s'era allontanato dall'amico e aveva esclamato, a voce più alta: “Sì! Ma fidati! Perché non mi credi?”

“Ma figurati..!” aveva bofonchiato l'altro, ridacchiando: “Un coltello sotto le gonne...”

“Me l'ha anche puntato alla gola, a un certo punto, se proprio lo vuoi sapere!” si era riscaldato l'altro, non sopportando l'incredulità dell'amico.

“E perché mai l'avrebbe fatto?” chiese l'altro, con il tono di chi comincia a convincersi.

Siccome poi i due erano ripartiti con le loro confidenze sussurrate, il fiorentino aveva ben pensato di ritirarsi.

Il giorno dopo, però, aveva provato a buttare l'amo con Giovanni.

Mentre camminavano in mezzo alla piazza, occhieggiando i vari banchetti del mercato, gli aveva detto, con fare molto casuale: “Al giorno d'oggi c'è da stare attenti a tutti e a tutto. Bisognerebbe girare sempre armati. Anche le donne dovrebbero farlo. Dimmi, ma è vero che la nostra Contessa porta sempre un coltello nascosto tra le sottane?”

Senza scomporsi, il Popolano aveva detto solamente: “Sì, è vero.”

“E tu come fai a saperlo?” aveva chiesto Simone, bloccandosi a metà passo, senza riuscire a trattenersi.

Apposta per punzecchiare il cugino e, dopotutto, dicendo la verità, Giovanni aveva accelerato un po' l'andatura, lasciandolo indietro e rispondendo: “Perché l'ho visto coi miei occhi.”

Ridolfi, ribollendo di curiosità, non era più riuscito a estorcergli nemmeno mezza parola e così aveva chiuso il discorso, passando ad altro: le lettere di Savonarola che il Duca di Milano aveva detto di aver intercettato appena prima che arrivassero in Francia.

 

Francesco Gonzaga si sentiva ancora un po' nauseato e stare in sella era un vero supplizio, ma non poteva tirarsi indietro.

La notizia era gravissima e lui, che si trovava già così vicino a Somma, sarebbe stato tacciato come minimo di tradimento, se non fosse accorso all'istante al capezzale del re che aveva detto di voler servire.

Senza contare la parentela stretta e indissolubile che legava il giovane re a Isabella Este, moglie del Gonzaga. Gli Este e gli Aragona erano uniti a filo doppio e così anche Francesco era prossimo a Ferrandino, che gli piacesse o no.

Appena arrivò al palazzo, si fece portare fino alla stanza in cui si era ritirato il re. Quando lo vide, quasi non lo riconobbe.

Malgrado avesse appena ventisette anni e fosse un uomo dal fisico temprato da una vita passata con in mano lance e spade, nel suo letto sembrava più simile a un piccione arruffato e malaticcio.

I suoi capelli lunghi, di una sfumatura di biondo rosso che a Francesco ricordò con una certa inquietudine quello di sua moglie Isabella, erano divisi in ciocche unte e il suo viso era scavato e lucido di sudore.

Quando l'eroe di Fornovo si avvicinò al letto, il re diede appena a intendere di averlo visto, ma era abbastanza chiaro che non lo avesse nemmeno riconosciuto, né che avesse intenzione di scoprirne l'identità. Sembrava già del tutto estraneo agli affari della vita terrena.

“Ormai è in questo stato da giorni...” disse una voce di donna alle spalle del Gonzaga.

L'uomo si voltò di scatto e si trovò davanti una diciottenne il cui volto tradiva come non poco la sua stretta parentela di sangue con Ferrandino.

“Si è ammalato all'improvviso e nemmeno i medici migliori di Napoli sanno che fare per salvarlo...” sussurrò Giovanna d'Aragona, zia e moglie del re, andando con passo lento accanto a Francesco: “Di questo passo, morirà a breve.”

Ferrandino roteò un momento gli occhi, difficile capire se avesse inteso le parole della moglie o meno.

La donna gli poggiò una mano sulla fronte e scosse il capo, prima di dire: “Se dovesse morire ora, senza aver generato figli, non ci sarebbero alternative a Federico, mio fratello, come suo successore.”

Il Marchese di Mantova guardò un momento Giovanna d'Aragona, poi ancora Ferrandino, un tempo così tracotante e sprezzante e ora, a nemmeno trent'anni, ridotto alla larva dell'uomo che avrebbe potuto essere.

Non resistendo più al tanfo di malattia e morte che aleggiava nella stanza, Francesco si scusò e andò alla porta, ben deciso ad andarsene il prima possibile. Aveva prestato il suo tempo per rendere omaggio al re in agonia, non poteva pretendere altro, da lui.

Appena fuori da Somma, riscoprendosi più sensibile a certi brutti segni del fato che mai, volle parlare con l'astrologo che seguiva la sua carovana.

La colonna si fermò un momento in aperta campagna e il Gonzaga disse con lo studioso delle stelle che, prima la malaria e poi l'inspiegabile malattia di re Ferrandino l'avevano messo in guardia sul suo viaggio di ritorno a casa.

L'astrologo aveva consultato le sue mappe, aveva guardato il cielo, benché fosse giorno, e aveva decretato: “Se passerete da Napoli, là troverete la morte.”

Il Marchese di Mantova, che in altri momenti avrebbe riso in faccia a quel ciarlatano che parlava di costellazioni e congiunzioni astrali come se si fosse trattato di palle di cannone e falconetti, si guardò in giro sconfortato e ordinò al suo secondo: “Eviteremo Napoli. Passeremo da Capua e poi da Fondi e da lì risaliremo verso Mantova.”

 

Caterina si era messa a prendere un po' di fresco su una della panchette del corridoio. Aveva aperto i vetri che davano sul cortile e, armata di una caraffa di vino, un calice e un piccolo libro di poesie latine, si era messa di buona volontà a passare il tempo.

Non riusciva più stare nella sua stanza. La notte era al suo culmine e l'alba troppo lontana. Gli incubi la perseguitavano e, malgrado avesse sonno, non voleva più rivedere il corpo straziato di Giacomo, né quello esangue di Ludovico Marcobelli, tanto meno quello di sua madre o suo figlio Livio. E dunque doveva restare sveglia.

Di giorno riusciva ormai a contrastare abbastanza bene i suoi ricordi e tutto quello che si portavano appresso, ma quando il sole calava e restava sola, tutto diventava più difficile.

Non aveva praticamente più toccato le sue pozioni e, dopo un episodio che l'aveva messa in allarme, aveva cercato di rifuggire la compagnia occasionale di uomini che non conosceva. C'era ricaduta un paio di volte, ma era riuscita a trattenersi in altrettante occasioni.

Quello che era capitato era stato l'arrivo di una lettera, da parte di un soldato dislocato a Forlimpopoli. L'uomo, di cui Caterina aveva scoperto il nome solo leggendo il messaggio e di cui non serbava praticamente alcuna memoria, le dichiarava il suo amore e le confessava di non essre più riuscito a dimenticare la notte passata assieme, qualche mese prima.

La Tigre aveva fatto a pezzi la lettera, sperando che si trattasse di un unicum e che nessuno si permettesse mai più di fare una cosa del genere. Nelle mani sbagliate, quel messaggio, scritto con una grafia stentata e qualche errore, sarebbe stato una condanna.

Per scappare a tutte quelle cose, dunque, aveva ben pensato di trascorrere l'ultima parte di notte lontana dalla propria stanza.

Così, alla luce della torcia, il tempo scandito da qualche suono metallico di uomini in armatura che si muovevano anche a quell'ora nella pancia di Ravaldino e sui camminamenti, Caterina si immerse nelle parole cariche di amore e sentimenti violenti di uomini morti da secoli.

Dopo qualche tempo, per riposare gli occhi, la Contessa sollevò un istante lo sguardo dalle pagine un po' rovinate del libro e quasi non credette vero di scorgere in fondo al corridoio il profilo di Giovanni Medici.

L'uomo l'aveva notata, ma sembrava indeciso se avvicinarsi o meno. Cedendo alla voglia di trovarselo vicino, la donna gli fece segno con una mano di raggiungerla.

Dopo la cena a cui aveva preso parte anche Simone Ridolfi, in realtà, l'ambasciatore e la Tigre avevano cominciato a chiacchierare molto spesso. Capitava che nei momenti morti si incontrassero in giro per la rocca o nel cortile e così si mettevano a parlare del più e del meno, come due amici.

Caterina trovava la compagnia di Giovanni così piacevole e rilassante che a volte finiva perfino per dimenticarsi chi lui fosse in realtà e cosa ci facesse alla sua corte.

“Dormite molto poco.” notò la Sforza, facendo segno all'uomo di sedersi accanto a lei.

Il Popolano, in vesti molto informali, quasi da appartamento privato, si sistemò al suo fianco e non disse nulla.

Quella notte non era riuscito a chiudere occhio. Da tutto il giorno aveva una caviglia gonfia e, anche se il dolore era sotto controllo, la paura data dalla consapevolezza che un giorno la sua malattia l'avrebbe portato alla tomba l'aveva sconvolto.

Si era ricordato di quando lui e suo fratello avevano ricevuto la notizia della morte del loro cugino, il Magnifico. Si era ricordato di come Lorenzo ne fosse entusiasta e di come lui, invece, avesse provato pietà per il loro parente. Si era ricordato anche di come avesse cercato di scacciare la paura di fare la sua stessa fine. Però, quella notte, non era riuscito a fare altrettanto.

Aveva cominciato a ragionare sulla propria mortalità e su quello che sarebbe stato dopo.

Aveva sentito la mente cadere preda delle vertigini, quando aveva sfiorato il dubbio che dopo potesse non esserci nulla. Aveva tentato di trovare conforto nella preghiera, ma nella sua anima s'era aperta una faglia tale che nemmeno Dio in persona avrebbe potuto sanarla.

Così, dopo un paio d'ore passate a rigirarsi nel letto divorato dal terrore di morire – e da giovane, per giunta – si era risolto ad alzarsi, mettersi i primi abiti che gli erano capitati sottomano e uscire per camminare un po'.

Caterina chiuse il libro e l'appoggio accanto a sé, mentre il calice di vino, ancora quasi pieno, venne sistemato in terra accanto alla brocca. Dopodiché si mise a guardare il fiorentino.

Dai suoi occhi chiari traspariva un tormento senza fine e la donna non sapeva né che fare per consolarlo, né che chiedere per capire meglio quale pena lo affliggesse.

L'unica cosa che le parve opportuno fare in quell'occasione, fu abbattere in parte le distanze tra loro, passandogli un braccio dietro la schiena e permettendogli, con un movimento lento e accogliente, di appoggiare la testa sulla sua spalla.

Giovanni, la fronte premuta contro il collo della Leonessa e il suo sentore nelle narici, fece un paio di respiri lenti e poi, come un bambino che finalmente trova sostegno e protezione, chiuse gli occhi e cercò di godersi quel momento di pace.

Quando le prime luci dell'alba arrivarono, la Contessa e l'ambasciatore erano ancora l'uno appoggiato all'altra e solo i passi frettolosi di Cesare Feo, che si stava avvicinando di gran lena, li convinsero a dividersi.

La Tigre riprese il suo libro, infilandolo nel tascone del suo abito e recuperò da terra la caraffa e il calice.

Mentre il castellano si avvicinava, salutando la sua signora con un rapido chinar di capo, Caterina lanciò un ultimo sguardo a Giovanni e, senza dire nulla, si allontanò.

Il Popolano raddrizzò la schiena. Si sentiva tutto rotto per colpa delle ore passato immobile, ma, nonostante i doloretti che aveva in tutto il corpo, la sua anima stava meglio.

Era bastato restare assieme alla donna che amava per un po' e la paura di morire era tornata a nascondersi nell'angolo più buio della sua mente.

“Riporto questi in cucina – sentì dire la Contessa, che stava mostrando la caraffa e il calice a Cesare Feo – e poi sono subito da voi.”

Il castellano si oppose: “Fateli riportare nelle cucine da uno dei servi...”

“Ho bisogno di fare due passi.” fece subito la donna e così Cesare non ribatté più.

“Buongiorno, ambasciatore.” disse l'uomo, quando riconobbe Giovanni.

Il Popolano lasciò la panca e ricambiò il saluto del castellano con un sorriso un po' tirato.

Mentre gli passava accanto per andare nella sua stanza a cambiarsi in vista della giornata appena cominciata, il fiorentino sarebbe stato pronto a giurare che gli occhi di Cesare Feo lo avessero trapassato da parte a parte, in cerca di qualcosa che non riusciva ad afferrare.

 

Bona di Savoia stava guardando fuori dall'ampia vetrata della tenuta di Fossano e trovava il panorama già tremendamente autunnale.

Suo nipote Filiberto non le aveva ancora concesso ufficialmente quella dimora, ma le aveva permesso di passarci tutto l'agosto e, con un po' di fortuna, l'avrebbe lasciata lì anche in settembre.

La donna voleva convincerlo a lasciargliela in pianta stabile. Quella tenuta sembrava fatta apposta per lei e, in più, quella era la terra che l'aveva vista bambina.

Inoltre, era chiaro a entrambi che la corte di Francia non fosse adatta a lei. La donna ormai non sopportava più la politica, le tensioni, i discorsi sulle guerre...

A quarantasette anni, Bona aveva i capelli completamente bianchi, il corpo, un tempo degno degli sguardi audaci di tutti i giovani che la incrociavano, s'era sfatto in fretta e il suo volto era una maschera di pieghe e rughe incise con cura dagli anni e dai dolori.

Ormai il mondo non faceva più per lei e, se il buon Dio non pareva intenzionato a chiamarla a sé presto, allora non le restava che ritirarsi a vita privata, allontanandosi una volta per tutte dai salotti e dalle feste.

Sapeva vagamente che re Carlo concupiva ancora il regno di Napoli e con esso tutti gli altri Stati italiani, ma, con un velo di egoismo con cui negli ultimi mesi Bona aveva imparato ad ammantare ogni aspetto della sua esistenza, tutte quelle cose la sfioravano solo marginalmente.

“Mia signora...” la sua dama di compagnia, originaria del Ducato di Milano, era entrata nel salottino profondendosi in un inchino elegante.

“Mi stavate cercando?” chiese Bona, che, affezionata com'era alla pronuncia lombarda, aveva voluto a tutti i costi almeno una domestica che le ricordasse quella che era stata casa sua negli anni più belli e in quelli più brutti della sua vita.

“Sì. È arrivata questa, da Forlì.” spiegò la giovane, mostrandole una lettera.

Nel sentire la provenienza del messaggio, il volto di Bona passò dal suo cereo color rosa a un acceso rosso: “Avanti, apritela!” la pregò: “Leggetela!”

Da qualche tempo, infatti, la donna faticava a vedere con chiarezza i caratteri minuti dei libri e delle lettere e dunque si faceva aiutare dalla sua domestica che, tra i suoi pregi, oltre a essere del milanese, aveva avuto la fortuna di un'istruzione basilare presso un convento di suore.

La serva spezzò il sigillo che portava la biscia sforzesca affiancata alla rosa dei Riario e si schiarì la voce. Lesse con attenzione tutta l'intestazione, con cui si dichiarava destinataria unica di quella comunicazione Bona di Savoia e poi passò al messaggio vero e proprio.

“Madonna Lucrezia Landriani è morta di malattia nel corso d'un epidemia che colpì in questa calda estate la nostra città e con lei ha perso malauguratamente la vita anche Giovanni Livio Riario, figlio della Contessa Caterina Sforza Riario.” lesse la donna.

Bona sentì il cuore perdere due colpi e dovette sedersi. Ci mise un minuto per capire quello che la lettera diceva, ma le ci volle molto di più per afferrare l'impersonalità e la freddezza di quel messaggio.

“Chi l'ha firmato?” chiese, cominciando a piangere sommessamente.

“Il cancelliere della Contessa Sforza Riario.” parafrasò la serva, interpretando gli svolazzi in calce e facendosi aiutare dalla serie di titoli che l'uomo si era premurato di ricordare a chi leggeva.

“Non l'ha nemmeno scritta di suo pugno...” sussurrò Bona, stringendo i denti e piangendo un po' più forte.

La serva, abbandonando la lettera sul bordo del camino, andò dalla sua padrona e la strinse a sé in un caldo abbraccio: “Mi dispiace per le vostre perdite...” disse, andando a intuito.

Bona non le aveva mai parlato di sé. Mai della sua famiglia, tanto meno della sua vita alla corte prima del marito, in veste di Duchessa, e poi del cognato, come prigioniera.

Però la serva sapeva che la sua padrona aveva come figlia adottiva la Leonessa di Romagna, che era diventata famigerata in tutta Italia per la sua crudeltà e la sua ferocia. E una lettera che arrivava da Forlì non poteva che essere partita proprio dalla corte di Caterina Sforza.

Tirando su con il naso, Bona si impose di non piangere più. Pensare che Lucrezia, l'amica e l'alleata della sua giovinezza, fosse morta la gettava nello sconforto, ma sapeva che non aveva senso disperarsi per lei.

Lo stesso poteva dire di suo nipote Giovanni Livio. Non l'aveva mai conosciuto e non poteva provare per la sua morte nulla più che un cordoglio di prammatica.

Aveva saputo quello che sua figlia Caterina era stata capace di fare alla morte del suo amante. Le voci riguardanti la sua cieca vendetta erano arrivate fino in Francia e Bona era inorridita nel sentire i pettegolezzi che la volevano colpevole di uno sterminio della sua stessa classe nobiliare.

Dicevano che nei primi momenti di rappresaglia fossero morti quaranta prigionieri al giorno, e che molti fossero stati uccisi dalla Contessa Riario in persona.

Nel sentire quelle cose, Bona si era sentita in parte colpevole. Aveva ripensato al passato, a quando aveva scoperto che suo marito aveva concesso la piccola Caterina in sposa, a soli nove anni, al nipote di papa Sisto IV. Aveva rivissuto i lunghi mesi, anzi, gli anni che erano seguiti. Si era ricordata di come la figlia fosse cambiata in modo radicale e di come avesse perso una volta e per tutte il rapporto di fiducia e affetto che le legava.

“Andiamo a mangiare un po' d'uva in giardino?” chiese Bona, asciugandosi le guance un po' cadenti, sentendosi più simile che mai a una conchiglia vuota: “I vignaioli mi hanno detto che i primi grappoli sono pronti per essere assaggiati...”

La dama di compagnia annuì e aiutò la padrona ad alzarsi dall'alcova della finestra in cui si era seduta per guardare il panorama.

Con passo ciondolante, aggrappandosi alla sua cameriera, Bona andò incontro all'aria di fine estate, chiedendosi quanti altri colpi il suo povero cuore avrebbe dovuto subire, prima di fermarsi e potersi riposare una volta per tutte.

 
   
 
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