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Autore: _Agrifoglio_    15/07/2017    5 recensioni
Si tratta di un racconto molto breve, in soli quattro capitoli, che rivisiterà, fra il serio ed il faceto, uno dei punti di svolta della trama e che rappresenterà, per André, il momento di non ritorno, la grande scelta della sua vita.
Genere: Introspettivo, Satirico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: André Grandier, Luigi XV, Marie Antoinette, Oscar François de Jarjayes, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La collera del Re

– Portate immediatamente al mio cospetto l’attendente di Madamigella Oscar! – tuonò il Re con voce stentorea ed adirata – Ha messo in pericolo la vita della Principessa Maria Antonietta ed io gli infliggerò una punizione esemplare!
– Maestà, con il dovuto rispetto, sarebbe, forse, preferibile non farsi trascinare dalla collera e raccogliere ulteriori informazioni sugli eventi occorsi questa mattina o, addirittura, soprassedere – disse con tono pacato, ma fermo, il Conte di Mercy-Argenteau – In fin dei conti, la Delfina è uscita incolume dall’incidente e, a parte un grande spavento e qualche livido, non ha riportato la benché minima conseguenza dall’accaduto. Il costosissimo purosangue è stato recuperato illeso e nessuna spesa aggiuntiva sarà affrontata dalla Casa Reale. L’attendente Grandier ha sempre svolto un servizio impeccabile ed è rinomato, a Corte, per l’onestà, l’educazione ed il contegno rispettoso. La Famiglia Jarjayes è, da tempo immemorabile, fedele e devota alla Corona e non merita di essere colpita e macchiata da una durissima condanna, inflitta ad uno degli uomini al suo servizio.
– La misura è colma! Non si può mettere in pericolo la vita di un membro della Famiglia Reale ed uscirne indenni come se nulla fosse! Troppe idee strane stanno animando questo secolo bizzarro e ribelle! Adesso, un qualsiasi attendente, un Grondet quisque de populo, può fare imbizzarrire il cavallo della sua futura Sovrana e farla franca?! Magari pure con una pacca sulla spalla?!
Mentre il Re parlava, le vene del suo collo si erano gonfiate a dismisura ed una, in particolare, sembrava prossima al collasso.
– Maestà, Vi imploro di ascoltarmi, proprio perché i tempi in cui ci è dato vivere sono quelli che Voi avete sinteticamente, ma brillantemente descritto, non dovreste essere affrettato nel prendere decisioni di dubbia opportunità che potrebbero essere strumentalizzate da uno dei Vostri nemici e ritorcersi contro di Voi. Il mondo non è più quello di Carlo Magno o di Ugo Capeto, in cui la vita di un uomo del popolo valeva quanto quella di un insetto. Nuove idee stanno prendendo forma in Europa, si stanno diffondendo in tutti gli strati della popolazione, persino fra gli stessi nobili e la Maestà Vostra non può fare a meno di tenerne conto. Se permettete, mi farò carico io stesso di eseguire le opportune indagini e di raccogliere testimonianze sul comportamento dell’attendente del Capitano delle Guardie Reali.
– Conte di Mercy-Argenteau, non mi contraddite ulteriormente altrimenti sarò costretto a congedarVi in modo definitivo. La decisione è presa. Io ho intuito in abbondanza e capisco subito quando una persona è a posto e quando non lo è e quel Grondet non mi è mai andato a genio. 
La vena del Sovrano era sempre più gonfia.
Il Conte di Mercy-Argenteau comprese che ogni ulteriore tentativo di perorare la causa di André Grandier – nonché della ragionevolezza stessa – sarebbe stato inutile e rischioso per la stessa tenuta dei rapporti diplomatici (oltre che della vena giugulare di Sua Maestà), perché il Re, a quanto pareva, ne aveva fatto una questione personale e, quando le cose si mettevano così, non c’era molto da fare. Si inchinò rispettosamente ed uscì dagli appartamenti di Luigi XV.
Il Re, ormai, tratteneva a stento la collera.
La situazione economica del Regno non faceva che peggiorare ed ogni tentativo di farvi fronte aveva avuto un successo scarso, per non dire inesistente, perché suscettibile di scontentare questa o quella parte sociale.
Lo scenario non era più tranquillo dal punto di vista religioso, perché i Gesuiti odiavano i Giansenisti e questi, di rimando, detestavano quelli di tutto cuore.
A Corte, poi, nessuno era mai contento del suo vicino e tutti avevano da dire su tutti. Le sue figlie criticavano la giovane Delfina e la favorita e quest’ultima non faceva che protestare, perché la Principessa, dopo essere stata costretta a rivolgerle la parola, aveva ripreso ad ignorarla del tutto ed a sbeffeggiarla pubblicamente e, considerata l’abituale loquacità della giovane Asburgo, l’afasia di cui era destinataria la sola Contessa du Barry ben difficilmente poteva essere imputata a raucedine.
Come sempre accadeva quando era sotto pressione, gli tornarono alla mente l’attentato subito nel 1757, ad opera di quell’alienato, mentecatto Robert François Damiens, la conseguente pena di morte per squartamento inflitta all’uomo e tutto il clamore che ne era conseguito.
Indulgendo in questi pensieri, la paranoia si impossessava di lui e lo rendeva irascibile.
Oltre a ciò, effettivamente, quell’André Grondet non gli era mai andato a genio.
Il Re amava mostrarsi ai cortigiani nelle pose di uomo scherzoso ed istrioneggiava volentieri, spesso atteggiandosi a vecchio svampito mentre, in realtà, si accorgeva di tutto e pochi erano i particolari che non erano da lui percepiti.
André era sicuramente diverso da tutti gli altri attendenti e servitori e tutto sembrava tranne che un uomo del popolo. La signorile dignità e la serafica compostezza che mostrava nel reagire alle villanie o agli atteggiamenti di degnazione ai quali, a volte, il suo basso rango lo esponeva, erano interpretate dal Re, uomo più gioviale e scanzonato di lui, come sintomi di un enorme sentimento di sé. Quel capo fiero si inchinava, ma non si umiliava. Fosse stato soltanto questo il problema, il Re avrebbe catalogato André fra i tanti palloni gonfiati che popolavano la sua Corte e tutto sarebbe finito nel nulla. Una cosa, però, non riusciva assolutamente a perdonargliela: la sfumatura di controllata, ma evidente disapprovazione che gli coglieva nello sguardo, quando egli, il Re, indugiava con gli occhi sulle acerbe e delicate forme della sposa di suo nipote. La deplorazione di quell’impudente ed oscuro attendente diventava, poi, collera fredda, sebbene abilissimamente dissimulata, quando i regali sguardi erano indirizzati, non alla Delfina o a qualsiasi altra giovinetta, ma al Capitano delle Guardie Reali.
Luigi XV voleva essere considerato un bonaccione e lasciava spesso correre per diplomazia e quieto vivere, ma non tollerava – e l’affaire che aveva coinvolto Maria Antonietta e la favorita lo aveva ampiamente dimostrato – che le sue azioni o le sue scelte fossero contestate. Non sarebbe stato l’ultimo dei popolani a bacchettare, con la sua superbia e con la sua riprovazione, il comportamento di un Re di Francia.
Un suddito, per giunta plebeo, che portava così poco rispetto al suo Sovrano poteva essere capace di qualsiasi scelleratezza, figurarsi di una balordaggine o di un’imperizia. Chi, se non lui, era da biasimare per l’imbizzarrimento del cavallo?
Non ci sarebbe stato un secondo squartamento a funestare il suo Regno, ma la forca, a quel Grondet, non gliel’avrebbe tolta nessuno.






Ringrazio, per l’accoglienza riservata a questo mio lavoro, tutti coloro che lo hanno commentato.
Iniziando dalla vena ironica, ho deciso di utilizzarla perché il primo capitolo vi si prestava perfettamente. L’invadenza dei cortigiani che accompagnava i membri della famiglia reale in ogni momento della loro vita, da quando si svegliavano, a quando si coricavano, mangiavano, partorivano o, come in questo caso, si infortunavano, se guardata sotto una certa angolazione, ha del ridicolo. Facendo muovere, in questo scenario, dei personaggi così esagerati da sfiorare il grottesco, il capitolo ironico e divertente si scrive quasi da solo.
Un’altra ragione che mi ha indotta ad utilizzare questa tecnica è il peccato originale dell’intera puntata che è stato ben colto ed evidenziato da Tixit: quel “tagliategli la testa” (che, nella mia versione, si rivela essere un’impiccagione, ma poco importa) non è adatto alla Corte di Versailles, ma risente fortemente della provenienza della storia dalla società nipponica, quella sì, rigidamente feudale fino ai primi decenni del ventesimo secolo. Nella Francia del XVIII secolo, non bastava essere plebei e puzzolenti per essere presi per le orecchie e trascinati davanti al Re e, da lì, seduta stante impiccati. Anche i popolani erano sottoposti a giudizio e, dei casi più gravi, si occupava il Parlamento di Parigi che processò, fra gli altri, Jeanne de Valois con i suoi complici e Robert François Damiens, l’attentatore di Luigi XV. Se André fosse stato accusato di avere attentato, dolosamente o colposamente, all’incolumità della Delfina, sarebbe stato il Parlamento di Parigi ad occuparsi di lui. Anche lo stare inginocchiati, in mezzo alla sala del trono, davanti al Re, è adatto più ad un samurai che ad un frequentatore della Corte di Versailles.
Come scrive Pamina, però, i racconti ironici sono difficili da gestire e, soprattutto, molto dipende dallo svolgersi della trama. C’è dell’ironia, sebbene ad intervalli, anche in questo secondo capitolo. Ce ne sarà un poco di più nel terzo mentre, nel quarto ed ultimo, i passaggi ironici diminuiranno e ciò per due motivi: prevarrà l’introspezione ed il protagonista assoluto sarà André, personaggio che all’ironia si presta pochissimo, perché è costantemente misurato e, quando esagera, lo fa esclusivamente nella direzione della tragedia.
Alle probabili ragioni dell’imbizzarrimento del cavallo saranno dedicati dei fugaci passaggi nel terzo capitolo mentre proprio non so cosa ci facesse André nelle stalle. Si sarà addormentato lì mentre si gingillava a chiedersi perché Oscar non gli fosse più amica? In ogni caso, si trattava delle stalle di Palazzo Jarjayes e non di quelle della Reggia e, quindi, ciò non ebbe nulla a che fare col nervosismo del cavallo. Non fu il bel destriero offerto in dono da Luigi Augusto a Maria Antonietta a sorbirsi, per tutta la notte, le lamentazioni del giovane attendente.
   
 
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