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Autore: JacquelineKeller01    16/07/2017    1 recensioni
[MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Lea ha diciassette anni quando torna nella sua città natale in seguito ad alcuni problemi familiari. Tutto ciò che vuole, dopo un anno intero passato a guardarsi le spalle, è recuperare il rapporto con suo padre e un po' di sano relax. Ma sin da subito il destino sembra prendere un'altra piega.
Isaac è l'essere più irritante che Lea abbia mai incontrato nella sua vita, con quella sua arroganza e i repentini cambiamenti di umore, porterà novità e scompiglio nella vita della giovane.
Tra un rapporto che fatica ad instaurarsi, vecchie ferite non ancora del tutto sanate ed un patrigno che sembra darle la caccia, Lea si ritroverà ad affrontare sentimenti che non sapeva essere in grado di provare, specialmente non per uno come Isaac Hall.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Harpool Bay, 19 Giugno, 2012.


Il diciannove giugno era incominciato, per il giovane Hall, come un giorno come tanti.
Si era alzato tardi, aveva fatto una doccia veloce, era sceso al piano di sotto ed aveva salutato distrattamente sua madre per poi uscire, diretto verso casa di Isabella.
Niente di speciale, era ciò che faceva tutte le volte da una decina di giorni a quella parte, ma gli sarebbe bastata qualche ora per apprendere che quella mattina, apparentemente perfetta, non era che la calma che precede la tempesta.
«Cos’è un isotopo?» Domandò Isabella Monroe, stretta nel suo vestitino a fiori, sedendosi a cavalcioni su di lui.
Isaac le rivolse un breve sguardo, trattenendo a stento un sorrisetto divertito, prima di tornare con gli occhi puntati sul soffitto in legno della stanza della giovane. «Un atomo?» Tentò.
«Un atomo, come?»
«Non lo so!»
«Come non lo sai? L’ho ripetuto adesso!»
«Non cambia il fatto che continuo a non saperlo!»
Isabella sbuffò sonoramente, spingendogli, poi, la copertina del libro di chimica contro il viso.
Era esasperata. Non era certo quello il livello di attenzione che aveva preventivato quando si era proposta di aiutarlo con lo studio estivo…
Erano fermi su quell’argomento da un paio di ore, ma Isaac non sembrava affatto intenzionato a collaborare. Anzi, sembrava avere la testa da tutt’altra parte.
Isabella, in parte, lo capiva; anche lei avrebbe di gran lunga preferito essere altrove, magari al mare, con le sue amiche, a godersi la spiaggia e le vacanze, ma, invece, se ne stava lì, con lui, a ripetere cose che sapeva alla perfezione, perché sapeva quanto gli bruciasse quel fallimento al corso di Chimica, così come gli bruciava il solo pensiero che, se non fosse riuscito a rimettere in sesto la sua media con il test di inizio anno, avrebbe dovuto abbandonare il sogno di entrare alla Brown.
«Posso sapere, allora, perché sei ancora qui?» Domandò la giovane, inclinando il capo di lato.
Nessuno lo aveva costretto ad accettare il suo aiuto così come nessuno lo stava trattenendo lì; la scelta era stata solamente sua, se voleva andarsene poteva benissimo farlo.
Volendo essere sinceri, uscendo di lì avrebbe fatto un piacere anche a lei che non avrebbe continuato a spendere energia sopra qualcosa che non avrebbe portato a nulla e si sarebbe impegnata a portare avanti quelli che erano i suoi progetti per l’estate.
Isaac portò le mani alla sua vita e la ragazza sentì un brivido percorrerle la spina. «Perché sei bella da guardare.» Disse semplicemente.
Bella arrossì e nascose la cosa dietro una ciocca di capelli.
Quel ragazzo le faceva uno strano effetto.
Quando la guardava, si sentiva come se un intero zoo si fosse trasferito nel suo stomaco, ma non voleva lo sapesse. Era convinta che, altrimenti, prima o poi, avrebbe trovato il modo di usare la cosa contro di lei e non era certo intenzionata a restare vittima dei suoi stessi sentimenti.
Isabella Monroe era una donna indipendente e non avrebbe mai permesso alle sue sensazioni di limitarla o farle del male.
Qualche istante dopo, il giovane portò una mano sotto il suo mento, costringendola a voltarsi verso di lui.
Aveva lo sguardo perso, fisso sulle sue labbra.
Stava per baciarla. Bella lo sapeva benissimo. Aveva quello sguardo ogni volta, come se tutta la sua vita dipendesse da quell’unico, breve, contatto.
Isaac si alzò a sedere e la ragazza si fece più vicina, stringendo le braccia attorno al suo collo. La sua fronte contro quella di lui.
Erano talmente vicini che la giovane era convinta l’altro potesse sentire il suo cuore battere.
Quando il cellulare del giovane Hall intonò le prime note della suoneria, Isabella non seppe se definirsi sollevata o infastidita. Lo amava, su questo non c’era alcun dubbio ma prima che qualsiasi cosa si facesse troppo seria voleva essere sicura che anche lui provasse lo stesso.
Il giovane imprecò tra i denti, buttando la ragazza, bruscamente, dall’altro lato del letto ed alzandosi.
Giurava di prendere a pugni chiunque fosse il mittente di quella stupida chiamata.
«Chi è?» Ringhiò, passandosi una mano tra i capelli.
«Isaac? Sono Peter, Peter Wilson!»
Isaac non aveva idea del perché Peter Wilson lo stesse chiamando o del perché il suo tono non mascherasse una certa nota di urgenza, ma con il senno di poi, avrebbe preferito continuare a non sapere.
«Devi tornare a casa. E’ successo qualcosa a tua madre.»


Isaac correva, correva come non aveva mai fatto in vita sua, veloce e disperato, incurante della gente che, fissandolo confusa, non vedeva che un ragazzino strano.
La chiamata del signor Wilson era stata la mazzata finale. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso e che, inevitabilmente, aveva mandato in frantumi tutto il suo mondo.
Non poteva essere vero.
Non poteva star succedendo davvero.
Non a sua madre.
L’aveva lasciata quella mattina, seduta all’isola della cucina. Faceva le parole crociate e mangiava pancake.
Ciò che il signor Wilson aveva detto non poteva assolutamente essere vero.
La sua mamma non poteva essere morta.
Era impensabile. Doveva trattarsi di uno scherzo. Adesso, sarebbe rientrato a casa e l’avrebbe trovata seduta sul divano, a leggere un vecchio libro giallo e con in mano la sua fedele tisana ai frutti di bosco. Quella con il sapore orribile, che ad Isaac faceva gonfiare la lingua. Doveva essere così. Per forza.
«Mamma, Mamma!» Esclamò il ragazzo, spalancando la porta di casa.
La prima cosa che vide fu suo padre, seduto sul divano, con il busto piegato e le mani tra i capelli. Tutt’attorno a lui la squadra dello Sceriffo Tucker si stava muovendo di tutta fretta. A terra, a pochi passi dalla porta del bagno del piano di sotto, c’era un sacco nero, ancora aperto.
Il volto di sua madre era bianco, cadaverico, e aveva le labbra blu. I capelli, ancora bagnati, le stavano attaccati alla fronte. Gli occhi chiusi.
Isaac sentì l’impulso di vomitare, ma era pietrificato.
«Ragazzo, non puoi stare qui!» Tuonò Camden Reynolds, uno degli agenti, aggiustandosi il cappello sul capo.
Il giovane Hall avrebbe voluto replicare che quella era casa sua, quella a terra era sua madre e quel mostro sotto shock era suo padre e che quindi aveva il diritto di stare dove cazzo voleva, ma tutto ciò che uscì dalle sue labbra fu solo un versetto strozzato.
«Me ne occupo io, Rey. Lascia fare a me.»
Le braccia di Peter Wilson gli si strinsero attorno alle spalle, trascinandolo all’indietro. Isaac lo lasciò fare, consapevole che quella stretta era l’unica cosa a mantenerlo in piedi.
Voleva urlare, sbraitare, strapparsi i capelli, riuscire a trovare un appiglio che gli suggerisse che, quello, era tutto un sogno…
Invece restò immobile. Non riusciva nemmeno a piangere.
«Isaac! Guardami!» Tuonò il Signor Wilson, poggiandogli le mani sulle spalle. Aveva uno sguardo distrutto o forse era solo il riflesso dei suoi occhi, non avrebbe saputo dirlo. «Andrà tutto bene, penserò io a te.»
Isaac, istintivamente, gli si strinse addosso e le braccia dell’uomo lo circondarono. Solo in quel momento riuscì a scoppiare a piangere.
Era forse quello, ciò che la gente chiamava, l’amore di un padre?



Harpool Bay, 4 Dicembre, 2016.


Erano state ben poche le volte in cui Isaac Hall poteva dire di aver avuto davvero paura.
La prima, indimenticabile, risaliva a quando era solo un bambino. Si era svegliato nel bel mezzo della notte ed era sceso al piano di sotto per prendere un bicchiere d’acqua.
Aveva beccato i suoi genitori durante un litigio ed era rimasto nascosto dietro la porta dello sgabuzzino ad origliare. Quando suo padre lo aveva scoperto gli aveva fatto passare la voglia di farsi gli affari degli altri.
Sette costole ed uno zigomo rotto.
La seconda risaliva ad una decina di anni più tardi. Ne aveva quindici e correva per le strade di Harpool Bay come se avesse il diavolo alle calcagna.
Quando era rientrato a casa sua madre era già morta.
La terza, ed ultima, invece, era avvenuta qualche mese prima. Alla festa di Scott Norris.
Quando aveva visto Lea, in preda al panico, seduta a terra e con le lacrime agli occhi, aveva sentito le ginocchia tremare. Sapeva che non avrebbe dovuto lasciarla sola con Patrick e lo aveva fatto lo stesso.
Era stata l’idea che, in parte, fosse stata anche colpa sua a spaventarlo a morte.
Credeva che non sarebbe più successo, credeva di avere sotto controllo la situazione, poi tutto era andato a rotoli.
Suo padre era scappato ed Isaac non sapeva cosa fare.
Lo aveva cercato per tutta la città e non era riuscito a trovarlo. L’idea che fosse morto, chissà dove, gli faceva perdere la testa.
«E’ sparito!» Esclamò, portandosi le mani tra i capelli. «Mio padre è sparito.»
Peter Wilson, ancora fermo sulla porta di casa, fissò a lungo quel ragazzo che per lui era stato come un figlio. Si era presentato lì pochi minuti prima e si era fiondato all’interno nel preciso istante in cui gli era stata aperta la porta.
Sembrava sconvolto.
Sudava freddo, tremava, era pallido e sputava fuori frasi incomprensibili.
Durante la sua longeva carriera di infermiere ne aveva viste di situazioni del genere. Sapeva come gestirle e calmarle, eppure, in quel momento, fu come se ogni nozione imparata negli anni avesse abbandonato la sua testa.
Si avvicinò con passo stanco al ragazzo.
Aveva da poco finito la seduta di chemio quindi si sentiva bene, ma non così tanto bene.
Maledì se stesso e quella malattia che gli impediva di mantenere fede alla sua promessa.
Poggiò una mano sulla spalla del ragazzo che, però, continuava a muoversi come una trottola per il salotto, incurante, o forse ignaro, dello sguardo spaventato della piccola Carmensa.
Isaac era consapevole di star spaventando tutti, ma davvero non era capace di trovare una soluzione. Era una situazione più grande di lui ed aveva bisogno di qualcuno che l’aiutasse a gestirla.
Il Signor Wilson era sempre stato il suo porto sicuro, la decisione di affidarsi proprio a lui era stata del tutto istintiva.
Non aveva calcolato che gli anni e la malattia potessero limitare il suo “potere”.
«Ragazzo!» Esclamò l’uomo, costringendolo a fermarsi. «Calmati. Siediti e raccontami quello che è successo!»
Cosa era successo? Cosa era successo?
Diamine, avrebbe dovuto raccontagli cosa non era successo. Avrebbe sicuramente fatto prima.
Isaac prese un profondo respiro, passandosi una mano sul volto.
Non si sedette. Sapeva che, poi, non sarebbe stato capace di rimettersi in piedi; aveva le gambe come gelatina in quel momento.
«Eravamo al cimitero…» Mormorò, gesticolando. Lo faceva sempre quando era nervoso, era un modo per riuscire a mantenere un contatto con la realtà e non perdere la lucidità. «Lui non è mai voluto venire. Ma… ma questa mattina era diverso. Si, diverso.»
«Diverso come?» Inquisì il Signor Wilson.
«Non lo so, diverso.» Disse. «Si era vestito da solo… voleva venire a trovare mamma. Era… era un papà diverso da quello che conoscevo io! Siamo arrivati lì e lui è scoppiato a piangere e farneticava… poi io… io mi sono allontanato per un secondo. Ero andato a prendere dell’acqua e quando sono tornato lui…»
«Lui non c’era più.» Concluso l’uomo al posto suo.
Il giovane annuì, riprendendo a camminare per il salotto. Il cuore gli batteva in gola.
«Se ne è andato e non so dove sia.» Pigolò.
«Hai già chiamato la Polizia?» Domandò Marìa Eléna, facendo il suo ingresso in salotto. Teneva tra le mani un bicchierino basso, pieno di un liquido trasparente. Glielo porse.
Isaac lo bevve tutto d’un fiato e sentì la gola bruciare.
Alcool. Ovviamente.
Tossì. «Vodka?»
La donna lo fissò con un mezzo sorrisetto di scuse, insaccando le spalle. «Aiuta a calmare i nervi.» Sussurrò. «Insomma? Hai già chiamato la polizia?»
Il ragazzo scosse il capo.
Non ci aveva nemmeno pensato. Aveva semplicemente corso in giro per la città urlando, come un pazzo, il nome di suo padre. Non era riuscito a pensare razionalmente, ma aveva dei forti dubbi qualcuno ci sarebbe riuscito, in una situazione simile.
«Allora lo farò io!» Esclamò, avvicinandosi per lasciargli una carezza sul viso. «Lo troveranno. Fidati di me.»
La Vodka, fortunatamente, aveva già preso a fare effetto. Isaac si sentì già più calmo e con la testa più leggera.
Odiava bere, ma non poteva non ammettere che in quel caso si fosse rivelato un vero e proprio toccasana.
«Hai detto che tuo padre stava farneticando!» Esclamò Peter Wilson, prendendo posto sul divano. Batté il palmo sulla seduta accanto alla sua e, questa volta, il giovane Hall, non ci mise che un istante ad accettare l’invito. «Su cosa stava farneticando?»
Il ragazzo poggiò il capo contro la testiera, passandosi le mani sul volto. Persino la lingua sembrava non impicciargli più in bocca. «Qualcosa sul non essere mio padre.» Mormorò, chiudendo le palpebre.
Non voleva credere fosse vero.
Infondo, Norman Hall non era certo il tipo d’uomo che si prendeva cura del figlio di un altro. Eppure perché, allora, non gli era mai sembrato così sincero?
Sperava che Peter Wilson ci ridesse sopra e lo convincesse del contrario, invece…
«Quindi te lo ha detto!» Sussurrò.
Isaac rizzò il capo, fissando l’uomo con occhi spalancati. «Detto cosa?» Domandò, assottigliando lo sguardo.
«Ti ha detto la verità. Ti ha raccontato del tradimento di tua madre.»
«Il tradimento di mia madre?»
«Aspetta, quindi non sai tutta la storia?»
«Non sapevo nemmeno ci fosse una storia, ma immagino lei ne sia a conoscenza.» Ringhiò tra i denti.
Era davvero possibile che, per tutto quel tempo, gli avessero mentito? Tutti quanti loro? Che sapessero molto più su di lui di quanto sapesse lui stesso e fossero rimasti zitti?
No. Non poteva davvero essere così.
Il Signor Wilson, quel padre che non aveva mai avuto, non poteva, davvero, averlo tradito così.
«Si, la conosco.» Disse semplicemente l’uomo, puntando i suoi occhi grigi in quelli del ragazzo. «Ma non spetta a me raccontartela.»
«A chi spetta, allora?»
«Dovresti chiederla a tuo padre!»
«Quale? Sa com’è, sono passato dall’averne a malapena uno ad averne due. La sua domanda lascia un po’ troppo spazio all’immaginazione.»
«Isaac.» L’ammonì l’uomo.
«Cosa?» Sbraitò, alzandosi in piedi. «Vuole seriamente riprendermi? Vuole davvero sgridarmi per il mio comportamento?» Era incredulo.
Come pensava l’avrebbe presa? Che si sarebbe stretto nelle spalle e gli avrebbe chiesto un altro giro di Vodka?
Diavolo no.
Era arrabbiato, terribilmente arrabbiato e Peter Wilson non aveva il diritto di biasimarlo per questo.
Le persone che più amava al mondo gli avevano mentito per tutta la vita. Gli avevano tenuto nascosto una parte della sua esistenza che avrebbe potuto cambiarlo radicalmente.
Riprese a camminare per la stanza, esattamente come qualche minuto prima. Questa volta, però, non serviva per placare il panico quanto la ceca rabbia che stava prendendo piede dentro di lui. Strinse con forza i pugni, fin quando non sentì le unghie penetrare nei palmi e la pelle delle nocche tirare.
Stava per avere un’altra crisi, se lo sentiva.
«Da quanto tempo lo sa?» Domandò, prendendo un profondo respiro.
Non doveva scoppiare. Non doveva scoppiare.
Se lo ripeteva come un mantra, ma non sembrava sortire l’effetto sperato.
L’uomo si prese qualche istante, poi parlò. «Il giorno in cui è morta tua madre.» Disse, passandosi una mano sul volto. «Prima che succedesse il tutto è passata a casa mia. Mi ha consegnato una lettera e mi ha chiesto di dartela solo quando sarebbe stato il momento adatto. Non sapevo di cosa stesse parlando, ma, in buona fede, ho accettato. Quando tuo padre l’ha trovata, nella vasca da bagno, con entrambi i polsi tagliati, ho capito.»
Da quel giorno di quattro anni prima, Peter Wilson si portava dietro un fardello enorme.
Se non aveva mai aperto la bocca era sempre stato per il bene del ragazzo. Anche se, molte volte, solo nella sua stanza, o mentre faceva la chemio, si ritrovava a pensare a quante cose sarebbero potute andare diversamente se gli avesse consegnato quella busta sin da subito…
«Perché non me lo ha detto?» Domandò, nuovamente, il ragazzo.
Quella era, probabilmente, la risposta che più gli premeva sapere.
«Non c’è mai stato il momento giusto.»
Isaac rise, una risata gutturale e senza allegria. «Non c’è mai stato il momento?» Ripeté, inarcando le sopracciglia verso l’alto. «Mi sta prendendo in giro? E tutte le volte che sono venuto da lei a farmi ripulire le ferite che mi faceva quel mostro? Tutte le volte in cui le ho detto di volerla fare finita perché non sapevo più come vivere una vita simile? Le bastano? No, perché ho milioni di altri esempi per rinfrescarle la memoria.»
«So come ti senti, ma…»
«Sa come mi sento? No, non lo sa. Dubito che lei sappia cosa significhi essere traditi da qualcuno nella quale si ripone massima fiducia.» Fece una breve pausa, prendendo un paio di profondi respiri. «E’ stato lei ad accompagnarmi a scuola quando mi svegliavo tardi, a venire ai miei colloqui genitori insegnanti, che ha preso le ferie per stare con me quando ho avuto quel terribile incidente in moto e che mi ha sgridato e tenuto il muso quando ho lasciato il college. Lei è stato come un padre per me e non mi ha mai detto niente. Dubito sia mai stato tradito così.»
Peter Wilson abbassò lo sguardo.
Aveva sbagliato, ammetterlo ad alta voce non avrebbe certo placato la rabbia di Isaac, anzi, se possibile, sarebbe stato capace di farlo arrabbiare ancora di più e non era il caso.
La sua unica possibilità, adesso, era quella di fare la scelta giusta.
Si alzò in piedi, con non poca fatica, e si avvicinò all’attaccapanni. Dentro la tasca del suo giaccone blu, quello che non gli era mai servito e che sostava, ancora inutilizzato, lì, da anni, c’era una busta bianca.
La calligrafia ordinata e tondeggiante di Soraya spiccava. L’uomo se la portò alle labbra e vi lasciò sopra un bacio.
Sperò che, almeno lei, potesse perdonarlo.
Quando si avvicinò nuovamente al ragazzo, Isaac gliela strappò letteralmente di mano.
«L’ha letta?» Domandò, evitando di incontrare il suo sguardo.
Peter Wilson annuì. «Lì dentro troverai tutte le risposte che cerchi!»
Annuì a sua volta, imboccando la strada per la porta.
Dentro quella casa l’aria si stava facendo irrespirabile e lui non voleva spendere un altro secondo della sua vita lì. Non insieme a persone che gli avevano mentito per tutto quel tempo.
Una parte di se era arrabbiata persino con se stesso.
Aveva rinunciato a tutto per suo padre. Tutto.
Non era andato a riprendersi Isabella, aveva rinunciato alla Brown, non aveva girato il mondo… tutto per prendersi cura di un uomo che non gli era niente.
Sentiva di aver sprecato la sua vita dietro un relitto d’uomo e questo lo faceva incazzare a morte.
Attraversò il giardino ed imboccò il vialetto di casa sua.
Non si soffermò nemmeno a guardarlo quando gli passò accanto.
«L’ho trovato fuori casa mia, ubriaco marcio! L’ho riportato qui.» Esclamò Rebecca, poggiandogli una mano sulla spalla. Isaac se la scrollò di dosso bruscamente. «Dove lo metto?»
Il giovane infilò la chiave nella toppa ed aprì il portone di casa. «Abbandonalo in autostrada. La gente fa così quando non vuole più gli animali tra i piedi, no?»
   
 
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