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Autore: Kim WinterNight    20/07/2017    4 recensioni
Scappare non è sempre simbolo di codardia. Ognuno di noi ha un motivo valido per cui vorrebbe scappare da qualcuno o qualcosa: chi per dimenticare, chi per liberare la mente, chi per accompagnare qualcun altro nella fuga, chi per uscire di casa, chi per volere di un'entità superiore...
Ma tutti, forse, lo facciamo per cercare un po' di libertà e per rendere noi stessi più forti e capaci di ricominciare a lottare.
DAL TESTO:
Una vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. [...]
Notai una figura rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.
«Non vuole uscire di lì... non so più cosa fare» sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte. [...]
«Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a invitarti personalmente al mio matrimonio.»
Digrignai i denti e osservai, senza neanche vederli, gli automobilisti a bordo dei loro veicoli che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare contro di me e schiacciare sul clacson con fare contrariato. [...]
«Avresti potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia sul petto.
«Avresti rifiutato» si giustificò.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daron Malakian, John Dolmayan, Nuovo personaggio, Serj Tankian, Shavo Odadjian
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ReggaeFamily

Peace after the Storm

[John]




Al mio risveglio mi ritrovai nel bel mezzo di un casino pazzesco: il mio letto sembrava un'isola intatta, circondata da un mare di spazzatura e macchie sospette sul pavimento; lattine, bottiglie e bicchieri erano disseminati per la camera inondata dai raggi del sole.

Il temporale sembrava ormai un miraggio, lo stesso che mi aveva messo in agitazione qualche ora prima si era volatilizzato nel nulla e mi venne il dubbio di non averlo per caso sognato; ma le immagini della nottata appena trascorsa erano chiare e limpide nella mia mente, e a dimostrarlo c'era anche il disastro che i ragazzi avevano combinato in camera mia e di Shavo.

Vagai con lo sguardo per la stanza e notai due fatti preoccupanti: per prima cosa, la porta era spalancata e non riuscivo a capire come fosse possibile; in secondo luogo, Daron si era addormentato per terra, accanto al mobile del televisore: era rannicchiato su se stesso e aveva la faccia rivolta verso il muro. Ispezionai il letto di Shavo e mi sorpresi nel notare che era vuoto. Mi alzai e andai a controllare in bagno, ma neanche lì c'era traccia del bassista; anche Leah e Bryah erano sparite, forse erano tornate nelle loro stanze a un certo punto della notte...

Poi mi ricordai, all'improvviso, del momento in cui il mio amico aveva insistito per conoscere la verità da Leah e l'aveva trascinata fuori dalla stanza; da allora non si erano più visti ed effettivamente mi ero chiesto cosa avessero di così tanto elaborato da dirsi per sparire così a lungo.

Mi accostai a Daron e lo scossi con forza per svegliarlo. «Malakian, perché cazzo ti sei addormentato per terra?» lo apostrofai.

Lui borbottò qualcosa di incomprensibile e si agitò come un pazzo, per poi aprire gli occhi di botto e voltarsi nella mia direzione. Sbadigliò rumorosamente e notai che aveva un'espressione piuttosto stravolta.

«Ma che cazzo ne so? Sono indolenzito dalla testa ai piedi, merda...» farfugliò, mettendosi faticosamente a sedere. Si guardò intorno con fare frenetico, poi si alzò e barcollò pericolosamente sul posto, mentre si allungava verso il mobile per afferrare qualcosa.

«Non hai altro a cui pensare, eh?» lo punzecchiai, osservando il suo occorrente per costruirsi una bella dose di erba di buon mattino.

«Che vuoi?» si limitò a replicare, poi si avvicinò alla finestra e la spalancò, inspirando profondamente mentre armeggiava sapientemente con la cartina e la marijuana che ci stava mettendo dentro.

«Sono stravolto» ammisi.

«Il temporale è passato, non preoccuparti» commentò il chitarrista con noncuranza, ma nelle sue parole sentivo di poter trovare conforto, perché lui, a dispetto di quanto potesse sembrare, si preoccupava molto per le persone a cui teneva davvero.

«Già, meno male. Sai per caso che fine ha fatto Shavo?» gli domandai, mentre notavo che si frugava nelle tasche dei pantaloni della tuta.

Sbuffò contrariato e si voltò a ispezionare la stanza. «Mi passi l'accendino? Comunque, no, sarà rimasto con Leah...» insinuò in tono divertito.

Afferrai l'oggetto richiesto dal mobile e glielo lanciai. Daron non riuscì ad afferrarlo al volo e imprecò tra i denti, si chinò a raccoglierlo e poi mi incenerì con lo sguardo.

«Be'? Solo l'erba fa rivivere i tuoi sensi intorpiditi? Sei proprio messo male, amico!» lo canzonai, dirigendomi verso il bagno. Nel tragitto, mi fermai a controllare il mio cellulare e notai che erano quasi le undici del mattino.

«Pensa per te, santarellino» bofonchiò il chitarrista con la sigaretta tra le labbra, poi fece scattare l'accendino e un istante dopo il familiare profumo dolce e intenso della marijuana si diffuse nella stanza.

«Anche oggi niente corsa mattutina» mi lamentai, entrando in bagno e lasciando la porta aperta. Mi gettai con la faccia sotto il rubinetto e lasciai che l'acqua gelida mi rinfrescasse le idee.

«Che palle. Sei venuto in vacanza o ti stai preparando per la maratona verso Santa Monica Beach?» gridò il mio amico dall'altra stanza.

«A quella ho già partecipato, stronzetto!» esclamai.

«Ma devi allenarti per l'anno prossimo!»

«Non prendermi per il culo!» strillai, per poi scoppiare a ridere. Mi accostai alla porta e la richiusi, dopo aver spedito Daron al diavolo.

Dopo essermi lavato e preparato, uscii di tutta fretta dalla camera, lasciando il chitarrista che ancora fumava e scrutava il panorama fuori dalla finestra.

Per prima cosa, dovevo trovare Shavo e capire cosa avesse combinato durante la notte; notai che la porta della stanza di Leah era aperta, proprio come la nostra, così mi avviai in quella direzione. La nottata era stata devastante per tutti, evidentemente, perché nessuno si era preoccupato di chiudersi in camera e preservare la sua privacy. Quando giunsi sulla soglia, rimasi immobile a osservare la scena che mi si presentava davanti agli occhi: Leah e Shavo erano abbandonati sul letto della ragazza, uno accanto all'altra, e dormivano profondamente. Il bassista lasciava penzolare un braccio dal materasso, mentre Leah gli circondava il petto con un braccio e riposava con la testa contro la schiena di lui.

Mi ritrovai a sorridere come un bambino, erano davvero carini insieme, e chissà che tra loro non fosse successo qualcosa durante quel temporale pazzesco.

La cosa che mi fece maggiormente piacere fu constatare che probabilmente si erano chiariti e non avevano trascorso il loro tempo a litigare senza risolvere niente. Annuii tra me e me e richiusi piano la porta, per evitare che qualcuno li disturbasse. Se Daron li avesse sorpresi a dormire insieme, avrebbe preso a gridare e li avrebbe risvegliati bruscamente, cominciando immediatamente a dire stronzate su stronzate, come soltanto lui sapeva fare.

Mi affacciai nuovamente in camera mia. «Tu vieni a fare colazione o ti basta quella roba per sfamarti?» volli sapere dal chitarrista.

«No, questa roba mi fa venire ancora più fame. Andiamo!» esclamò allegro.

Lo osservai: indossava una t-shirt spiegazzata arancione fluo e i pantaloni grigi della tuta, era scalzo e i suoi capelli si mostravano in un groviglio incomprensibile.

«Pensi di farti vedere in giro con me in quelle condizioni? Almeno lavati la faccia!» dissi contrariato.

«Nessuno ti ha mai detto che sei una piattola, Dolmayan? Lasciami un po' in pace!»

Dopo qualche minuto in cui battibeccammo, riuscii a convincerlo a lavarsi il viso e a indossare un paio delle mie scarpe.

Ci dirigemmo verso l'ascensore e Daron domandò: «Hai trovato Shavo?».

«No» mentii. «Starà bene, sa badare a se stesso, a differenza tua» lo canzonai, mollandogli una gomitata nelle costole.

«Mi fai male!» si lagnò.

«Ma sta' zitto, te lo meriti!» affermai.

«Perché mi odi, Johnny?» cantilenò, mentre salivamo in ascensore. Mi si accostò e mi rivolse un'occhiata da cane bastonato, atteggiando le labbra a un broncio piuttosto patetico e buffo.

Non potei evitare di sorridere. «Fatti un esame di coscienza e poi ne riparliamo.»

«Ma non è giusto!»

«Oh, sì invece!»

Le nostre risate si persero nell'aria quando ci ritrovammo sulla terrazza. La giornata sembrava piuttosto limpida e del temporale non c'era più alcuna traccia.

Mi sentivo decisamente meglio.


Mi rigirai il biglietto tra le dita, poi mi decisi a prendere il cellulare. Posai entrambi gli oggetti sul tavolino e, dopo aver intrecciato le mani sotto il mento, li studiai con estrema concentrazione.

Ero certo che Bryah fosse tornata in città, e questa consapevolezza mi faceva sentire uno strano vuoto all'altezza del petto; non sapevo se l'avrei rivista, ma non volevo rischiare. Avevo riflettuto molto, mentre tutti si divertivano e cercavano di distrarmi dal temporale, su ciò che avrei voluto dalla giornalista, ed ero giunto alla conclusione di non voler stare con le mani in mano. In effetti, non era un problema mio il fatto che Bryah avesse un compagno, anche perché probabilmente non l'avrei mai più rivista in seguito a quella vacanza. Certo, lei aveva più volte affermato di voler lavorare su una biografia del mio gruppo, ma dubitavo fortemente che la cosa fosse possibile.

Sbloccai il cellulare e, preso da un impulso quasi incontrollabile, composi il numero della donna che mi stava dannando l'anima in quegli ultimi giorni; prima di far partire la chiamata, lo salvai in rubrica e accartocciai in un gesto teso il suo biglietto da visita.

Portai lo smartphone all'orecchio e udii i primi squilli. Forse non avrebbe risposto, forse non avrebbe dato ascolto a nessuna delle mie stronzate, forse si era già dimenticata di avermi consegnato quel cartoncino con su scritto il suo numero di cellulare.

Quando Bryah rispose, sobbalzai leggermente ed espirai all'improvviso, rendendomi conto di aver trattenuto il fiato fino a quell'esatto istante.

«Bryah Philips» esordì lei in tono professionale.

Mi schiarii la gola e affermai: «Sono John. John Dolmayan».

«John, ehi! Ciao! Come ti senti stamattina? Io sono già in ufficio da un paio d'ore e sto schiattando dal sonno, però mi sono divertita con voi, sul serio!» replicò con entusiasmo Bryah, e potei quasi immaginarla con un sorriso luminoso a incresparle le labbra carnose e dal profilo perfetto.

«Sto meglio, grazie. Sono un po' sconvolto dal sonno, però è tutto sotto controllo, finalmente» la rassicurai, sentendomi improvvisamente più sereno. Parlare con lei mi rilassava e svuotava la mia mente da pensieri cupi e malinconici.

«Sono contenta! Nel pomeriggio devo uscire per un servizio, non so se ce la farò. Vorrei soltanto dormire» scherzò.

«A chi lo dici... Bryah, ascolta...» Deglutii e puntai lo sguardo sul biglietto da visita accartocciato sul palmo della mia mano destra.

«Dimmi tutto!» mi incoraggiò.

«Ci rivediamo?» buttai lì, tentando di non utilizzare un tono di voce troppo serio.

«E me lo chiedi? È ovvio! Ho un'idea: perché questo pomeriggio non venite tutti in città? Verso le sei dovrei riuscire a liberarmi e ho in mente di portarvi in un posto fantastico. Potresti proporlo tu ai ragazzi da parte mia?» La donna sembrava veramente felice all'idea di trascorrere ancora del tempo con me e i miei amici, ma questo non mi aiutava a capire se il suo interesse si limitasse alla comitiva in generale o se celasse qualche tipo di riguardo nei miei confronti.

«Direi che si può fare. Dove ci incontriamo?» domandai.

«Nei pressi del Fyah, poi da lì vi scorto io a zonzo per la città. D'accordo?»

«D'accordo» confermai. «Parlo con i ragazzi e ti faccio sapere.»

Bryah ridacchiò. «Accetteranno, vedrai. Okay, devo andare, ci aggiorniamo più tardi. Scrivimi su WhatsApp!» concluse, poi mi salutò di tutta fretta e pose fine alla telefonata.

Mi ritrovai a sorridere tra me: il primo passo era stato fatto, ora dovevo soltanto trovare il coraggio per continuare su quella strada disseminata di sensi di colpa e infiniti dubbi.

La cameriera che era di turno in terrazza quella mattina mi si accostò e sorrise brevemente, poi raccolse la tazza da cui avevo bevuto il mio caffè amaro e forte.

«Daron come sta?» mi chiese all'improvviso, spiazzandomi e costringendomi così a dedicarle maggiore attenzione.

Mi strinsi nelle spalle. «Sta bene.»

«E dov'è? Prima mi è sembrato di vederlo, ma ora è sparito...» indagò ancora la ragazza.

«Ha ricevuto una chiamata importante» tagliai corto. Non capivo minimamente dove volesse andare a parare.

«Oh, immagino.» La cameriera ghignò. «Puoi dargli un messaggio da parte mia?»

Mi limitai a fissarla senza replicare. Era una persona piuttosto strana, non mi era facile inquadrarla.

«Digli che Lakyta deve parlargli perché non c'è più tempo» spiegò con calma, poi mi sorrise freddamente e se ne andò ancheggiando, senza più degnarmi di alcuna attenzione.

Sospirai e mi alzai, scuotendo appena il capo. In questo albergo lavoravano dei personaggi piuttosto singolari, ed era come se io e i miei amici li calamitassimo irrimediabilmente. Ero certo che, in ogni caso, Daron ne avesse combinato un'altra delle sue, coinvolgendo quella cameriera in qualche faccenda a me ignota e a cui non mi andava di pensare.

Mi diressi giù per le scale, intenzionato a raggiungere la hall. Una volta al piano terra, notai che al bancone della reception c'era Dayanara, il quale era intento a parlare con una coppia di clienti. Insieme ai due coniugi, un ragazzo sui sedici anni se ne stava imbronciato in un angolo: era completamente vestito di nero, aveva i capelli lunghi e ribelli sugli occhi e indossava una felpa dei Carcass.

Aggrottai la fronte: come poteva andare in giro con una felpa a maniche lunghe? Faceva un caldo bestiale e anch'io mi ero ormai convinto di dover usare delle ciabatte da spiaggia per evitare di morire a causa dell'afa che impregnava la baia, specialmente in seguito alla perturbazione della notte precedente.

L'adolescente ascoltava della musica con gli auricolari e ogni tanto muoveva la testa a tempo, facendo ondeggiare la chioma crespa. Sollevò per un attimo lo sguardo dal suo cellulare e mi notò. Lo vidi sbiancare per un attimo, poi si strappò via le cuffiette e rimase a fissarmi con la bocca semiaperta.

«Ma che cazzo...?» balbettò.

Mi strinsi nelle spalle e lanciai un'occhiata al receptionist, sperando che si decidesse a registrare i nuovi arrivati, in modo che potessi liberarmi al più presto di quel ragazzino che mi aveva evidentemente riconosciuto.

«Ehi, ma tu sei il batterista dei System!» esclamò, facendo qualche passo verso di me. «Non è possibile, ma cosa cazzo ci fai in Giamaica?» proseguì, per poi cominciare a sghignazzare.

Lo fissai con aria perplessa, senza però prendermi il disturbo di rispondergli, altrimenti sarei potuto risultare scortese e non volevo.

«Merda! Non ci credo! Ehi, possiamo fare una foto?» insistette imperterrito il sedicenne, sventolando il suo I-Phone come fosse un'arma.

Ero piuttosto irritato, tuttavia annuii e mi sforzai di regalargli un debole sorriso. «Va bene» acconsentii.

«Grande! Che gran botta di culo ho avuto, eh? Aspetta, facciamo un selfie...» strepitò il ragazzo, piazzandosi al mio fianco. Mi si accostò e sollevò il cellulare di fronte a noi; io rimasi praticamente impassibile mentre lui si esibiva in espressioni da duro e mostrava le corna alla telecamera.

«Grazie, amico! Ehi, sono emozionato!» blaterò ancora lui, osservando lo schermo del telefono con aria soddisfatta.

«Grazie a te» risposi in tono piatto, sperando ardentemente che i miei colleghi non spuntassero nella hall proprio in quel momento.

«La pubblico subito su facebook!»

Sospirai. «Puoi evitarlo, per cortesia? Non è ufficiale che mi trovo in questo albergo» chiarii.

«Non lo scrivo dove sono, tranquillo» ammiccò ancora, per poi strizzarmi l'occhio.

Mi costrinsi a non sollevare gli occhi al cielo e mi accostai finalmente a Dayanara, mentre i genitori del mio fan gli intimavano di seguirli verso l'ascensore.

«Perché arrivano tutti qui?» chiesi più a me stesso che al receptionist, appoggiandomi con i gomiti sul bancone e sospirando.

Lui rise. «Ah, be'! Siete delle rock star, dovete aspettarvi questo e altro!» commentò divertito.

«Speravo che non venissimo riconosciuti, invece anche la tua amica Leah lo sa perfettamente. Glielo hai detto tu?» indagai, studiando il ragazzo di fronte a me, il quale mostrava un'aria piuttosto stanca.

«No, io e Leah non abbiamo parlato di voi. Non sapevo niente di questa storia. Comunque, in cosa posso esserle utile?»

Sorrisi appena. «Andiamo, non mi dare del lei, mi fai sentire anziano. Volevo solo chiederti di mandare qualcuno su in camera mia e di Shavo, stanotte abbiamo combinato un bel casino e quella stanza ha bisogno di una pulita. Tranquillo, non abbiamo rotto nulla» spiegai.

Dayanara annuì. «Ho sentito dire dallo stagista che stanotte qualcuno ha fatto casino al terzo piano, ma quel babbeo non è stato in grado di capire in quale palazzina fosse successo» borbottò.

«Mi scuso a nome di tutti noi, non volevamo arrecare disturbo.»

Il receptionist fece un gesto noncurante con la mano. «Tanto io non c'ero, non mi importa. Bene, chiamo subito una cameriera e la mando nella vostra stanza.»

Lo ringraziai e mi allontanai. Intravidi Daron che stazionava addossato al bancone del bar e decisi di raggiungerlo. Fortunatamente il sedicenne che mi aveva fermato poco prima non pareva averlo notato.

Mentre mi incamminavo, mi ritrovai a chiedermi come sarebbe andata a finire tutta quella vacanza, ma soprattutto mi domandai cosa ancora sarebbe potuto succedere. Non ne avevo idea, ma sentivo che l'apparente quiete dopo la tempesta non sarebbe durata a lungo.

  
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