XIII
La
richiesta di accesso al porto e al pianeta sottostante è solo una delle tante
giunte alla capitaneria orbitale.
Il
controllore inserisce la comunicazione nei programmi di volo odierni. I codici
trasmessi sono corretti. Ora di arrivo, luogo di provenienza e durata
prevista della sosta.
Legge,
distratto e annoiato, il giornale di bordo della nave mercantile.
Bastano
le prime pagine.
Non
si aspetta nulla di diverso. Non è mai nulla di diverso.
Trasmette
l’autorizzazione all’ingresso. I fari che indicano la rotta da seguire per
imboccare l’orbita planetaria illuminano la via siderale.
bocchediporto
aperte
La
nave d’argento e vetro bianco latte supera le boe di segnalazione. E’ un
insieme cristallino di ombre e riflessi, e nastri e onde di deboli luci
iridescenti si susseguono nelle profondità traslucide della sua superficie.
E’ più simile a una creatura marina che a un mezzo di trasporto.
Del
via vai fra gli universi, la sola cosa che cambia è l’architettura delle
navi.
*
* *
I
due bambini si rincorrono nella sala da almeno mezz’ora, senza interrompersi
un istante, lanciando risate e grida acutissime, urtando e infastidendo un gran
numero di presenti. Ne ricavano sguardi più o meno indulgenti, più o meno
irritati.
I
genitori non accennano a intervenire.
urlo,
corsa, urlo, corsa, avanti indietro avanti indietro avanti indietro
Hō’ike
I Maka si sfrega le tempie per focalizzarsi sui suoni musicali e i pensieri
della creatura marina immersa nel canale di fronte a lui, piuttosto che sul
frastuono, fisico e mentale, che lo circonda.
Preferirebbe di gran lunga lavorare nell’isolamento del suo ufficio, ma è il cliente ad avere voce in capitolo e questa cliente vuole l’atmosfera chiassosa della sala. Ondate di soddisfazione e appagamento sono un continuo ronzio melodico che ne marca i pensieri consci.
Non
ha idea del perché desideri rumore e folla. Le ragioni delle sue preferenze
giacciono in abissi troppo profondi del suo inconscio perché possa percepirle.
In ogni caso, non è detto che sarebbe in grado di capire un sistema di
valutazione alieno.
Forse
per lei è solo curiosità. Qualcosa che sperimenta così raramente, nel suo
regno acquatico, da diventare un piacere da assaporare, come un cibo esotico.
La
creatura alza la mano palmata per indicare una delle pause che deve compiere a
intervalli regolari per non disidratare l’epidermide e le branchie delicate.
Si
immerge con il movimento liquido di un delfino. Nella manovra espone il dorso, dove la forma umanoide si fonde in quella di pesce.
Hō’ike
cerca di rilassarsi.
Dalle
vetrate convesse, si gode un perfetto panorama del tramonto su un oceano color
rame. Ma pesanti nubi violacee dagli orli abbacinanti si ammassano all’orizzonte
e schermano il Sole, lasciando filtrare solo alcuni raggi rossastri.
La
luce è gialla e brillante, priva di sfumature. Le cose illuminate oppure buie,
senza toni intermedi, ma le zone oscure si espandono in fretta, le ombre
discendono le scogliere, le trasformano in masse nere disseminate di luci
artificiali.
A
questa latitudine, la
notte cala quasi all’improvviso.
I
due bambini strillano e ridono e schivano a malapena un gruppo di leonesse coricate
di fronte a una delle grandi finestre, intente a conversare e leccarsi
reciprocamente.
Uno
dei felini scopre le zanne all’indirizzo dei disturbatori e sbatte
nervosamente la coda. Il flusso di collera e voracità è un lampo accecante,
subito represso quando una delle sue compagne la colpisce gentilmente sul muso.
La
leonessa si rovescia sulla schiena e torna alle chiacchiere con le amiche.
I bambini continuano a correre.
Lasciarli
liberi così…
Un
atteggiamento insensato, da parte dei genitori.
Insensato
e molto imprudente.
avanti
indietro avanti indietro avanti indietro avanti indietro
Non
c’è neppure la speranza che la confusione si plachi con l’avanzare della
sera.
Nella
città porto non c’è differenza fra giorno e notte. L’attività non si
interrompe mai, le navi giungono e partono in qualsiasi momento, la folla è un
flusso sempre uguale, nella sua infinita differenza.
A
scandire le ore ci sono solo i programmi di viaggio e per chi proviene da un
altro universo non ha senso riferirsi al tempo locale di un pianeta.
La
sirena riemerge e smuove delicatamente l’acqua con la coda verde e viscida,
richiamando la sua attenzione.
*
* *
Abbraccia
le loro menti e ognuna di quelle menti comprende anche quelle dei propri
famigli.
Le
contiene tutte nella morsa del suo pensiero, collegate in modo da farle agire
come la mente di un unico organismo.
Li
tiene come terrebbe delle farfalle fra le mani, senza stringere troppo per non
schiacciarle, senza allentare troppo la stretta per non farle fuggire.
Fuggiranno
ugualmente. Non può trattenerli, non può legarli, non può unirli. A meno di
distruggerli.
Può
solo, per un po’, far credere loro di essere una sola cosa.
E’
una fune di fili avvolti su fili. Un insieme più forte della somma delle parti.
due
in uno
E’
un coro. Voci diverse, ognuna si aggiunge e porta il suo contributo alla
sinfonia, a comporre un suono impossibile per una sola voce.
tre
in uno
E’
una sinergia.
molti in uno
I
loro sensi diventano suoi.
Diventa
loro, diventa tutti.
La
rete mentale si allarga nello spazio e sul pianeta.
*
* *
Le
leonesse smettono di conversare per osservare qualcosa al di là delle vetrate
ricurve. Anche i due bambini si fermano e richiamano i genitori perché vengano
ad ammirare con loro quel fenomeno.
Dove
non è coperto di nubi, pennellate e veli ondeggianti di luce verdastra danzano
nel cielo notturno.
*
* *
Il
tempo è stato rappresentato come un fiume, come una corrente, come un’onda.
E’ stato figurato come una ruota, una serie di eventi ciclici e ripetuti,
oppure come una continuità lineare e misurabile di circostanze, messe in fila
come perle di una collana. E’ stato immaginato come un albero, con un tronco
da cui diparte un numero infinito di rami.
Innumerevoli
razze e culture hanno dato la loro interpretazione del tempo.
Luxord
non immagina il tempo e non usa né parole né concetti per descriverlo. Sa
com’è.
Una
cosa, però, può dirla.
Il
tempo è plastilina. Può essere modellato.
*
* *
Per
un istante, il flusso empatico in cui è immerso si è interrotto.
Non
solo il continuo e soddisfatto ronfare mentale della sirena. Tutto. Quello della
persona di fronte a lui, su cui è concentrato, quello di fondo delle entità
presenti nel porto, persino il substrato emotivo più o meno forte, più o meno
mutevole, più o meno comprensibile, ma sempre presente, del pianeta, formato
dalla somma di tutte le creature viventi su e intorno a esso.
Impossibile.
Eppure,
l’interruzione c’è stata.
Il
lavoro di traduttore al porto dimensionale non consente errori e non percepire
le giuste sensazioni è la prima fonte di errori, quando si ha a che fare con
alieni.
Hō’ike
si
scollega dal pensiero della cliente per effettuare una ricognizione dello spazio
mentale.
Tanto,
la creatura non se ne accorgerà.
Si
porta istintivamente una mano alla fronte, accecato.
Non
un errore. E’ stata un’interferenza.
Nel
mondo mentale si è generata una singolarità, un punto infinitesimo. E’ la
sorgente dell’armonica negativa che ha cancellato le frequenze empatiche e
provocato il vuoto nello spettro emotivo planetario.
La
singolarità esplode.
Un
lampo. Non di luce. Di buio.
Impossibile.
L’onda
di disturbo si spiega e si espande in progressione esponenziale.
¿cosa?
Lo
hanno avvertito tutti coloro capaci di addentrarsi nel mondo mentale. L’etere
si riempie di confusione, curiosità, stupore.
¿cosacosacosacosacosacosacosa?
Diventa
cosciente che alcuni dei presenti nel porto si stanno meravigliando per
un’aurora boreale. Registra l’evento e lo accantona.
Il
fronte d’onda della singolarità lo investe insieme al suo mondo e cancella le
domande.
La
dimensione mentale si ottenebra, inghiottita da un velo d’ombra.
Poi,
il tempo si interrompe.
*
* *
La
rete che cabla le comunicazioni planetarie subisce un arresto. In casi simili, i
sistemi suppletivi si riattivano con un ritardo dell’ordine dei picosecondi.
Questa
volta non si riattivano più.
E’
un’interruzione nella continuità temporale. Istanti o anni, è ininfluente.
Luxord dilata quell’atomo di tempo per dare alla sua gente tutto il tempo che
occorre.
E
c’è lo spazio e anche lo spazio può essere plasmato, ripiegato, compattato.
Al
limite superiore dell’atmosfera, la nave rilascia uno sciame di piccoli
moduli, come uova di un corallo nella corrente.
Due
figure ammantate di nero, avvolte in gusci di fulmini e correnti di plasma
incandescente, si materializzano nella ionosfera, l’una agli antipodi
dell’altra, alle estremità opposte di una perpendicolare all’asse
che unisce i poli magnetici del pianeta.
Nubi
di elettroni ad alta energia e di fotoni frangono l’uno con l’altro.
Ultrafili di Luce si spiegano in strutture a ragnatela espanse in ogni
dimensione locale di quell’universo.
Uno sciame di vascelli di cristallo bianco emerge dal Mondo in Mezzo.
I
satelliti globulari si insediano nelle orbite stabilite e iniziano a trasmettere
rilevamenti alle navi.
Nello
spazio contratto, nel tempo dilatato, gli eventi diventano simultanei.
L’attacco è contemporaneo su tutto il pianeta.
*
* *
L’atmosfera
del pianeta si è trasformata in un maelström di luci accecanti in migliaia di
colori, una tavolozza rimescolata da un moto incessante e frenetico.
La luminosità non proviene da nessuna fonte. E’ l’aria che genera luce.
E’ diventata, essa stessa, luce. Le ombre sono completamente obliterate.
Nella
luce, compaiono strane forme.
Un
movimento continuo, erratico, apparentemente casuale. Sembrano non esistere
neppure sempre in questo mondo. Slittano dentro e fuori dalla dimensione e non
è possibile prevedere dove appariranno l’istante seguente.
Nonostante
la sua familiarità con creature di ogni genere, non riesce a definirle altro
che cose. Spettri. Incubi.
corri
Hō’ike
non ha mai creduto di poter avere paura della luce.
*
* *
Vento.
Un
sibilo. Un fischio. Un urlo.
Alza
la sabbia, i sassi. Solleva l’acqua, la spezza, la riduce in gocce. Trasforma
le gocce in aghi, la sabbia in chiodi.
Ogni
ago e ogni chiodo porta via un frammento di pelle, carne e ossa.
Coloro
che ne sono toccati si sgretolano e si sciolgono e adesso il vento porta via
anche aghi di sangue e lascia dietro corpi scarnificati.
Al
centro dell’uragano, una figura nera e sei vortici. Soffiano come nidi di
serpenti e ruggiscono come draghi.
I
vortici si allargano, coprono terre e mari. Trascinano con sé correnti di aria
incandescente, cenere e rocce vaporizzate, roventi flussi piroclastici.
Il
respiro del pianeta diventa fame.
*
* *
corri
Una
moltitudine di creature di forme, masse, dimensioni diverse, si riversa in una
fuga spontanea e incontrollata nelle strade della città scavata nella montagna,
a quel punto trasformata in una trappola.
I
fuggiaschi incespicano e si intralciano a vicenda e sbattono contro gli ostacoli
sul loro cammino. La luce li rende ciechi quanto l’oscurità.
Esseri
biancastri li fiancheggiano. Si lanciano fra loro, li falciano con arti
simili a rasoi.
Un
gruppo di soldati coperti da pesanti corazze schermate combatte contro quelle
figure bianche. Alcuni cercano di indirizzare i civili e coprire loro la fuga.
Hō’ike
fa di tutto per restare in mezzo alla folla. Fra tanti, le probabilità che
attacchino proprio lui diminuiscono.
Si
ritrova sbatacchiato tra corpi multiformi, trascinato dalla massa stessa. Ha
intravisto la Direttrice Hane’elekia. Per un po’ hanno corso insieme, ma, in
qualche momento durante la fuga, sono stati separati e, in un istante, lei è
sparita.
L’attacco
è stato talmente rapido che può essere definito istantaneo. Non c’è stata
transizione. Non è che non riesce a ricordarla. Non c’è stata.
L’istante
prima tutto appariva normale. L’attimo dopo il pianeta era in fiamme.
Solo
quel lampo telepatico che ha oscurato il mondo mentale, ma nel mondo mentale il
tempo è differente. Al di fuori, non è stato avvertito nulla.
Come
se il tempo avesse effettuato un salto tra una condizione precedente e una
successiva, dimenticando tutto quello che ci sta in mezzo.
L’aurora
boreale. C’è stata l’aurora.
Gli brucia la pelle, come se fosse scaldata dall’interno,
e ha un po’
di nausea.
Un
soldato apre il fuoco e la creatura si consuma in una fiammata azzurra.
Lampi
di energia mentale si confondono nella luminosità diffusa, ma sono deboli. Si
disperdono nell’interferenza che ottunde l’etere. Si è in gran parte
dissipata, ma non consente una focalizzazione fine.
Guerrieri
dotati di facoltà metapsichiche impegnano i loro avversari con attacchi
telecinetici e pirocinetici. Almeno quelli funzionano. Possono essere scagliati
senza la sottigliezza necessaria alla fragilità della comunicazione telepatica.
Un’intera
parete si scioglie, scorre e si risolidifica intorno agli esseri bianchi in una
massa di plastica cristallizzata. Le creature ci passano attraverso.
Prima
di essere del tutto completato, il processo di solidificazione si inverte e
resta solo una pozza di plastica liquida.
Un
bambino, uno di quelli che giocavano nella sala del porto, si scaglia contro una
delle ombre bianche. C’è una fontana di sangue e il bambino è solo carne e
fluidi organici che filtrano nel pavimento.
corri
*
* *
Il
mare si solleva. Le onde si rompono in schiuma. Si formano creste, prima solo
dove frangono sugli scogli e sui bacini di ancoraggio, poi anche sulla distesa
sabbiosa della spiaggia.
L’ultima
onda non defluisce del tutto. Il riflusso rallenta e si interrompe, l’acqua si
solleva, assume una forma, umana e grondante.
Mormora
fra sé, una specie di mugolio musicale.
C’è
un suono di risucchio e il mare si ritira in sé stesso. Si scopre tutta la
spiaggia, il bagnasciuga e bassi fondali, e le acque continuano la loro fuga.
L’oceano sembra scomparire.
I
pesci, sorpresi dalla secca improvvisa, sussultano in agonia.
All’orizzonte,
cresce una muraglia d’acqua.
*
* *
Alla
fine, Hō’ike ha abbandonato le moltitudini in fuga. Ora, la sicurezza del restare in
mezzo a una massa è inferiore al pericolo che essa stessa rappresenta.
I
fuggiaschi non sopravvivranno in nessun caso. Se non saranno distrutti dai
nemici, finiranno per farsi a pezzi da soli. Oppure saranno sterminati dai
soldati.
Non
può certo biasimare questi ultimi per avere aperto il fuoco sulla folla.
Alcune
di quelle creature sono dotate di un armamentario naturale letale, che usano
istintivamente nel momento in cui si trovano in pericolo. Contro gente con cui,
fino a pochi minuti prima, hanno conversato. Ma, adesso, non pensano più. Sono
solo paura cieca e tutto quello che si para davanti al loro cammino è un nemico
da spazzare via, compresi coloro che cercano di difenderli.
Fanno quasi più vittime degli stessi attaccanti.
Meglio
tentare le vie secondarie che precipitarsi lungo le grandi arterie principali e
finire schiacciati o dilaniati.
Nel
mare di luce allucinata ha seguito tentoni le pareti, sino a quando non ha
raggiunto la prima rampa di scale e ha cominciato a scenderla, tenendosi
aggrappato al corrimano.
Come
si è salvato sino a quel momento, non ne ha idea.
Forse
grazie all’abitudine a controllare i propri pensieri, a tenerli ben distinti
da quelli di coloro che incontra. A non essere travolto da emozioni estranee. A
non essere travolto da emozioni di nessun genere, perché quando si ha a che
fare con alieni, le emozioni possono rappresentare una rovina.
Di
quello può essere orgoglioso. Non avere perso il controllo, non essersi
lasciato andare al panico, non arrendersi alla follia che ha seguito l’arrivo
delle cose bianche.
Non
avere fatto come quelli che si sono lanciati contro di esse, urlando rabbia e uccidiuccidiuccidiuccidi
e, urlando, sono morti.
Sono
stati tanti. Più di quanti avrebbe mai creduto possibile. Non solo coloro
appartenenti a specie naturalmente aggressive. Anche quelli che avrebbero dovuto
solo tremare, di fronte a esseri simili.
Potrebbe
persino essere sopravvissuto grazie alla stessa nova mentale che ha offuscato le
sue capacità telepatiche.
E’
stato come muoversi in una nebbia fitta e, forse, non è riuscito a percepire
quello che hanno provato quelle persone.
Almeno,
non ha dovuto ascoltare le grida di morte di tutte quelle creature intrappolate,
ma,
adesso, la nebbia psichica si è dissolta qual tanto che basta perché, anche se
la comunicazione è ancora impossibile, la visione casuale e caotica non sia
altrettanto repressa.
Gli
arrivano immagini.
Sono
solo pensieri vaganti, scene fissate negli occhi di testimoni quasi certamente
già morti, trasmesse nell’etere come testamento.
Il
pianeta è perduto. Su questo non ha dubbi.
Non
arriveranno aiuti.
Hanno
accecato il mondo. Lo hanno reso sordo.
Coloro
che usano il pianeta come svincolo per navigare fra le dimensioni si
accorgeranno presto dell’accaduto, ma non abbastanza presto. Chi si trova qui,
è solo.
Possono
scappare dove vogliono. Quelle cose appaiono dovunque. Non ci sono aree da
difendere, né luoghi dove nascondersi.
Diluvi
di fulmini, mirati come se fossero guidati da una volontà senziente, si
abbattono sugli approdi.
Vagamente,
capisce la tecnica dei loro aggressori. Il terrore è solo una delle armi che
usano. Un’arma efficace, che alimenta sé stessa.
Non
hanno intenzione di catturare un mondo popolato. Vogliono la sua posizione ed è
un’operazione di pulizia, quella che effettuano. Il che significa che non c’è
possibilità di arrendersi o trattare.
Il
solo modo per salvarsi è lasciare il pianeta e per il solo modo per lasciare il
pianeta è salire su una delle navi in decollo. Ma i moli sono al livello del
mare e, per arrivare a quel livello, deve scendere la città piano per piano. A
piedi, perché ogni sistema elettromagnetico è saltato, compresi gli ascensori.
In
queste condizioni, credere di percorrere chilometri di scale e corridoi è
irreale. Comunque, le navi non possono effettuare il salto dalla superficie e
non sa quante, di quelle in grado di partire, siano ancora ormeggiate.
Tanto,
non ci pensa.
Raggiungere
una nave è un traguardo nebuloso posto in un futuro improbabile, anche questo
non lo trattiene dal provarci.
A
non fare nulla, si pietrificherebbe nella paura.
Basta
solo limitarsi alle azioni concrete.
Scendere
una rampa di scale. Arrivare a un livello. Cercare ed evitare presenze nemiche,
o anche amiche, perché in questo momento c’è poca differenza fra le due
cose.
Sopravvivere
ogni secondo successivo al presente.
Il
mare si solleva in successioni impossibili di onde anomale.
Il
dorso delle mani è diventato nero a causa di emorragie sottocutanee e di
bizzarre ustioni. In alcuni punti, l’epidermide comincia a staccarsi in
sfoglie accartocciate.
Radiazioni.
La
luce significa solo quello. Le pareti rocciose che proteggono questa città
scavata nella montagna servono a poco contro quella forma di radiazioni,
originate non da una sorgente esterna, ma da un’alterazione del tessuto
dell’universo.
Radiazioni
e l’eccesso di energia psichica che affoga il mondo e si riflette a livello
somatico sui più sensibili.
Il
vento trascina con sé fiumi di fuoco.
Città travolte da cascate di cenere e
gas vapori roventi, masse piroclastiche che cancellano tutto quello che
incontrano.
Il
pianeta è perduto perché è il pianeta stesso a rivoltarsi contro coloro che
lo chiamano casa.
Si
prepara a percorrere una nuova rampa di scale.
Non
è neppure sicuro di salire anziché scendere.
*
* *
La
risposta all’attacco è stata rapida, per quanto dispersa e disorganizzata.
Ci
sono eserciti muniti di armi al plasma e sistemi robotizzati guidati da apparati
di navigazione laser. Armamenti sopravvissuti alla marea fotonica iniziale, che
ha messo in ginocchio le comunicazioni artificiali e il grosso delle difese.
Anche
se quei meccanismi sono schermati, non sono isolati. Non possono esserlo, per
essere attivi.
Sono
tutti dipendenti da impulsi elettromagnetici e tutto quello che è elettromagnetismo è la più pura
manifestazione di Luce esistente negli universi.
cambio
configurazione
Roxas
discende dai cieli. Dove posa piede, la
I
difensori del pianeta si trovano a contrastare
il nemico sbagliato con le armi più inappropriate possibili. Lo
combattono con un’espressione della sorgente stessa del suo potere.
Il
ragazzo salta di continente in continente con un pensiero, interrompe i flussi ondulatori che danno vita e sensi a quelle armi e i
pesanti automi cadono ciechi e sordi.
Restano
le forza umane, ma sono un ostacolo minore.
Sono
lenti, tutti loro. Lenti nel muoversi, nel vivere, nel pensare. E’ come se
fossero fermi.
Sono
fermi, per Roxas.
Anche senza il teletrasporto, si muove a una
velocità tale da renderlo, per quegli esseri, onnipresente.
Passa
fra le folle di nemici, li colpisce con tocchi così lievi che quasi li sfiora
soltanto.
La velocità trasforma il suo tocco in una forza devastante. Le ossa si
frantumano come cristalli colpiti da una pietra, i muscoli si riducono a masse
gelatinose, gli organi si disintegrano.
Alcuni
li afferra e li trascina con sé nella sua corsa. I loro corpi si vaporizzano
per il calore e l’attrito. Altri, travolti da quel calore, cadono senza neanche
essere toccati. Quello
che collide contro di lui si dissolve contro il guscio di Luce che lo avviluppa.
Non
ha neppure evocato i keyblade.
*
* *
Una
cosa gli blocca la strada. Una delle cose comparse dal nulla.
Nella
luce, non ne distingue bene i dettagli, ma quello che vede è anche troppo.
Ha
braccia spropositatamente lunghe e le usa come trampoli per
sostenere un corpo grottescamente gracile, da embrione malformato.
Vorrebbe
poter ridere per l’aspetto di quell’essere, come ha riso spesso per
l’aspetto dei viaggiatori. Fra sé, almeno, o con i suoi colleghi. Mai,
naturalmente, in faccia a loro.
Ma
non è possibile.
uccidi
E’
un’implorazione.
Deve
allontanarsi, scappare, mettere più spazio che può fra lui e quella cosa.
uccidiuccidi
E’
un ordine.
Piega
le dita come fossero artigli.
uccidiuccidiuccidi
E’
un imperativo.
E’
logico avere paura di esseri sconosciuti che emergono dal nulla per distruggere.
E’ logico anche odiarli.
Quando
se ne ha tempo. Quando se ne ha modo.
Non
è così logico provare verso di essi un odio e una rabbia capace di superare
ogni istinto di sopravvivenza.
Non
è logico sentire urlare quella voce nella propria testa – nel proprio
Cuore – e uccidiuccidiuccidi
Il
mostro dondola con un moto nauseante, bilanciandosi su quei suoi arti ridicoli.
E’
come vedere il disegno di un oggetto a quattro dimensioni. Solo una
rappresentazione che non può, neppure lontanamente, abbracciarne la
completezza.
E’
sicuro che ascolterà quell’ordine perentorio e si lancerà contro la cosa per
farla a pezzi e sarà lui a morire.
UCCIDIUCCIDIUCCIDI!
*
* *
Fiammelle
bluastre danzano sull’estremità di ogni oggetto appuntito, ma scompaiono
nella luce abbacinante, anche se qualcuno fosse tanto attento da accorgersi di
esse.
Larxene
guarda il cielo e le correnti convettive che percorrono i nembi come grovigli di
vene in un corpo, spinte dal vento, nutrite dal calore.
Così
è più semplice. Non obbligare le forze della natura, solo guidarle, solo
sostenerle. Correre con esse.
Lasciare
che seguano il loro corso, ognuna conseguenza delle altre, interdipendente da
esse.
Un
organismo unitario.
Il
gradiente elettrico fra terra e cielo cresce.
Le
onde di Luce interferiscono anche con lei, ma ora non ha bisogno di precisione.
E’
una tempesta elettrica, quella che si scatena, e colpisce a caso.
*
* *
Qualcuno
spara contro il mostro. E’ uno dei soldati corazzati, forse rimasto isolato
dal resto dei suoi compagni.
I
proiettili trapassano il bersaglio senza causare alcun effetto evidente, se non
che la creatura volge la sua attenzione all’aggressore e questo va bene, perché
la distoglie da lui.
L’essere
dondola sulle braccia a trampoli, sulle mani a forma di ventosa. Ma quelle mani
si espandono al suolo e scorrono in rivoli liquidi. Ricorda un’ameba che
allunga i suoi pseudopodi verso un protozoo. E il paragone non è così
azzardato. La massa della cosa defluisce lungo le braccia, nelle mani, negli
pseudopodi, si rimpicciolisce, diventa un gomitolo di filamenti sottilissimi.
Poi, quei filamenti si scagliano sul soldato, lo avvolgono e scompaiono,
assorbiti dalla corazza.
Quelle
armature sono schermate da scudi energetici, ma forse sono inattivi a causa
delle radiazioni o, forse, quell’entità non ha niente a che vedere con
l’energia. Forse quelli in cui si è trasformata sono solo fili materiali,
troppo sottili per essere fermati dalla corazza e troppo corporei perché siano
bloccati dai campi.
Il volto dell’uomo, la sola cosa visibile attraverso il visore trasparente, si
contorce. I filamenti lo stanno avvolgendo e penetrano la pelle come hanno
attraversato gli strati di ceramica e metallo.
Il
soldato esplode all’interno della sua armatura. La tuta loricata cade in una
pila di elementi che subito si ricopre dello stesso groviglio di fili bianchi
che tornano a riunirsi, mentre il mostro riemerge in un’inversione della scena
precedente.
Hō’ike
non resta ad aspettare che termini di liberarsi dalle spoglie della sua vittima.
corri
Verso
i corridoi interni, lontano da quella cosa, lontano dalle scale che portano ai
livelli inferiori.
Corre
fino a quando lo stomaco si trasforma in liquido.
Vomita
spasmodicamente. Bile, schiuma, sangue e frammenti membranosi che preferisce non
considerare, perché sembrano un po’ troppo pezzi di sé stesso.
Quando
i conati terminano, non riesce più neanche a reggersi in piedi e striscia in
una strada secondaria, quella più buia che riesce a trovare. Che non è buia,
ha solo un grado di luce abbacinante in meno.
Ci
sono dozzine di schermi. Addobbano strade, vetrine, pareti. E’ in uno dei
livelli commerciali della città, quell’ibrido fra un accampamento e un
mercato perenne. Una volta – qualche ora prima – gli schermi
trasmettevano immagini e musica per invogliare turisti e acquirenti.
Ora
sono spenti.
fermati
Rimane
immobile. Cerca di trattenere persino il respiro.
Come quando era bambino e, di notte, si tirava le coperte sulla testa per tenere lontani i mostri che, sicuramente, strisciavano nell’oscurità della sua camera da letto.
Un’infinità
di mostri tentacolati e zannuti.
Gli
scricchiolii e le vibrazioni che si sentivano erano la prova che quei
mostri si muovevano e lo cercavano, nella terra selvaggia in cui si trasformava
la sua stanza quando si spegnevano le luci e le voci del giorno.
Se
si fosse mosso, si sarebbero accorti di lui. Ma
la coperta era un fortino sicuro. Lì era invisibile, se restava fermo, se non
si scopriva la testa.
riposa
*
* *
Le
navi avanzano, sprezzanti nella forza del loro numero e della loro potenza.
Scavano ferite nella pelle dello spazio.
Xigbar/Luxord
pizzicano e torcono quella membrana elastica.
Sbocciano
miriadi di singolarità gravitazionali. Le navi si distorcono sotto
l’influenza delle forze di marea e si lacerano quietamente nel silenzio.
Altri
vascelli armati vogliono abbandonare il pianeta.
Basta
moltiplicare il tempo nell’equazione della loro accelerazione.
Le
navi non possono raggiungere la velocità che permetterebbe loro di allontanarsi
dall’attrazione gravitazionale del mondo o di entrare in orbita intorno a
esso, e ricadono sulla superficie.
*
* *
Non
ci sono più soldati, né fuggiaschi. Restano le ombre bianche, sparpagliate
dovunque. Adesso, però, non saltano, non strisciano, non si spostano. Sono
immobili, eccetto quell’ondeggiare ripugnante, e tutte hanno le teste deformi
girate verso stessa direzione, il centro di una delle strade, un’area
ristretta dove la luminosità è più intensa.
Hō’ike
si risolleva dall’angolo in cui si è nascosto. Non si azzarda ad
allontanarsi. Rimane solo a guardare
quegli esseri, inebetito e perversamente affascinato dal loro oscillare, dal
mutare del paesaggio nell’alternarsi troppo veloce di nubi di luce colorata,
fino a quando un
suono gracchiante spezza il silenzio.
Gli
schermi trasmettono linee di statica.
Non
dovrebbero. Non devono. Non ci sono più fonti di energia nella città, o
nel mondo intero.
C’è
qualcosa in mezzo al riverbero, proprio nel punto dove le creature sono rivolte.
Sono
prima solo linee sottili, interruzioni nere delle masse cromatiche di luce. Ma
quegli scarabocchi emergono man mano dall’oceano abbacinante, prendono corpo e
aspetto e si muovono per la strada della città morta.
Due
esseri umanoidi, coperti di nero, incappucciati di nero. La
severità degli abiti è contraddetta dai loro passi. Camminano come leoni in
una savana.
I
mostri riacquistano vita e li attorniano in una corte di incubi.
I
microfoni gracchiano impazziti.
Una
delle due figure è scomparsa.
Campanelli
d’allarme che non sapeva neppure di avere suonano all’impazzata ed è
travolto da una zaffata di un odore pungente che non ha nulla a che fare con
l’olfatto.
Odore
di paura e di quelle cose che, qualche volta, si vedono con la coda dell’occhio negli angoli in ombra e
sulle pareti e, quando si guarda attentamente, si
scopre che non c’è nulla.
Si
volta e l’essere è lì, a due passi da lui, accovacciato su un lampione alle
sue spalle.
Ha la testa scoperta, adesso, il cappuccio ricaduto sulla schiena. Hō’ike resta un po’ sorpreso nello scoprire che è un ragazzo giovanissimo, quasi un bambino. Biondo, delicato come una di quelle costose bambole di seta e porcellana importate dalla Terra dei Draghi, con occhi come gli occhi di una pantera rabbiosa.
Non
lo ha visto muoversi. Sa solo che l’istante prima era lontano, un’ombra fra
la luce, e ora è proprio di fronte a lui.
Il suo equilibrio è impossibile. Sull’estremità del lampione, il corpo
lievemente curvo in avanti, come se fosse pronto a saltargli addosso, la braccia
mollemente penzoloni fra le ginocchia piegate. Non esiste modo per cui non cada
e questa è la cosa più orribile di tutte. Dà la vera misura di quanto questo
ragazzo sia differente.
Non
un ragazzo. Sembra un ragazzo, ma è una somiglianza solo superficiale e neppure
tanto buona.
uccidiuccidiuccidi
Non
sbatte le palpebre. Ha lo sguardo fisso di un pesce.
Sorprendente quanto sia spaventosa la mancanza di un gesto tanto automatico da essere, in realtà, quasi inavvertibile.
Non è possibile scambiarlo, anche solo per errore, per un essere umano.
E’
come la cosa bianca.
uccidiuccidiuccidi
Hō’ike
allunga
cautamente propaggini di pensiero e quello che incontra è lo stesso vuoto
emotivo percepito appena prima dell’attacco al pianeta.
Si
ritrae subito.
Non
aveva capito, prima. Non ha avuto modo e tempo per capire. Ora capisce.
corri
Una
volta è sfuggito loro, ma Essi non hanno dimenticato e lo hanno inseguito. Sono
usciti dalle ombre e hanno strisciato lungo la strada che porta a lui.
Ci
hanno messo molto, a trovarlo. Tanti anni, ma non hanno mai perso la sua pista e,
alla fine, sono arrivati.
I mostri lo hanno raggiunto.
Corri!
Non è come lo aveva immaginato con la fantasia di un bambino. Non un orrore tentacolato e viscido e deforme e rivestito di tenebre. Ha un volto giovane e innocente e porta la Luce.
E’
molto più alieno della cosa bianca.
CORRI!
Retrocede.
I primi passi li fa lentamente, poi è una fuga precipitosa.
Il
ragazzo - cosaMOSTRO - resta immobile, in bilico sul lampione, lo sguardo fisso a dove lui si
è trovato fino a qualche istante prima, indifferente alle sue azioni.
CORRI!
Fino ad arrivare al pozzo centrale che attraversa tutta l’estensione della città, ed Esso gli è davanti, a sbarrargli la strada e, ancora, Hō’ike non ha visto come si è mosso.
L’essere ha la testa leggermente sollevata per osservarlo in faccia. E’ così piccolo che gli arriva a malapena al mento.
Sembra una cosa inanimata, un manichino in grado di prendere vita e capacità di movimento quando non lo si guarda.
Fra
le dissolvenze trasmesse dagli schermi, danzano immagini fantasma. Spettri e
sagome filiformi.
Il
gracidare dei microfoni ha assunto una componente di armoniche metalliche e
ripetute. Schemi complessi, ma non cacofonici.
E’
quasi musica.
Lo
credeva impossibile, ma la luminosità aumenta ancora.
Il
ragazzino, ora, è una sottile barriera fra questo mondo e una dimensione di
luce accecante.
E’
come guardare un oggetto di vetro traslucido davanti al sole.
Un velo rossastro gli offusca la vista. I suoni diventano rimbombanti e,
insieme, smorzati. La stessa sensazione di quando si è sott’acqua. Sente il battito del suo stesso
cuore e qualcosa gli bagna il collo.
Sangue.
Perde sangue dagli occhi e dalle orecchie.
Gli
schermi esplodono e riversano fumo e interiora di plastica. Esplodono finestre,
vetrine, lampade e ogni singolo oggetto di materia a matrice cristallina. Poi si
frantumano anche i frammenti, e i frammenti dei frammenti, in una catena di
scomposizione progressiva, fino a quando resta solo una patina di polvere
impalpabile e brillante che ricopre ogni cosa, lui compreso.
Ma quella
cenere di cristallo non si
deposita sul
ragazzo. Gli orbita intorno,
invece, e forma disegni, come limatura di ferro gettata su un campo magnetico.
Il
sole brillabrillabrillabrilla come non mai.
Strano
ritrovarsi a guardare il sole. Strano perché sono nelle viscere di una
scogliera con nessuna apertura verso l’esterno.
Strano
anche perché non ha più occhi per vedere.
L’universo
intero è Luce e nella Luce si scioglie.
*
* *
La
prima volta che ha assistito a un’alba dallo spazio, Braig aveva cinque anni.
Viaggiava con la sua famiglia, dal loro pianeta natale verso Radiant Garden.
La
nave si era fermata nelle vicinanze di uno dei tre giganti gassosi del sistema
solare, a una distanza sufficiente a permettere una visione completa del pianeta
con i suoi anelli di ghiaccio e detriti. Avevano spento l’illuminazione della
sala panoramica del vascello e sua madre lo aveva preso in braccio.
Lo
spazio era un buio disseminato di luci, interrotte solo dove la massa planetaria
eclissava le stelle. Poi era successo qualcosa. Gli anelli del grande pianeta si
erano accesi. Non tutti insieme, non come un flash. Invece, un’onda di luce si era
generate da un punto al di là della mole del mondo e li aveva percorsi,
spazzando via le ombre.
Infine,
la stella aveva oltrepassare l’orizzonte planetario.
Ricorda
tutto perfettamente. Con la trasformazione in nobody, molti dei suoi ricordi
sono scomparsi, ma non quello.
Da
quella volta, ha assistito allo spettacolo più e più volte. Questa è solo una
delle tante, eppure, nonostante ciò, la scena non ha mai perso nulla del suo
fascino. Ha solo aggiunto un grado di definizione maggiore, ora che lui non vede
più il cosmo e le stelle solo con gli occhi.
Gli
piace credere che quella prima aurora è stato il motivo per cui ha scelto poi
la sua professione. Se è così, è anche la causa prima del suo stato attuale.
“Capisco
perché ami tanto tutto questo, Xigbar.”
L’uomo
distoglie l’attenzione dall’aurora, ignorando le informi masse contratte alla
deriva che sono state navi, per rivolgerla al giovane avvolto in una postazione
in parte scranno, in parte bozzolo di tentacoli metallici, filamenti luminosi e
proiezioni olografiche.
Non
è tempo di godere della grazia dello spazio.
“Allora,
adesso mi dici che cazzo stai combinando?”
“Prego?”
La
voce di Zexion risuona blandamente divertita.
E’ intento a scollegarsi dall’apparato da dove ha
diretto e controllato il coro mentale e non è certo il momento adatto per
discuterci, mentre fa ritrarre le terminazioni biomeccaniche dai suoi arti.
Ma,
negli ultimi mesi, Zexion è sempre stato occupato con Oblio, con Roxas, con
tutto il suo lavoro, dichiarato o meno, e da molto tempo Xigbar non ha occasione
di trovarsi solo con lui.
Ora
non ha intenzione di mancare quest’opportunità. Se la trascura, è sicuro che
il telepate gli sfuggirà di nuovo. E si rifiuta di chiedergli un incontro, nemmeno dovesse supplicare un’udienza
con un re. Sarebbe solo dare a Zexion un vantaggio di cui non ha proprio
bisogno.
“La
favola che hai raccontato. Riuscire a fissare la nostra condizione. Niente più
paura di degenerare o di svanire nel nulla. Ti rendi conto di cosa hai
causato?”
“Ti
disturba la teoria in sé o il fatto che l’ho esposta a tutti? Avrei dovuti
riservarla a noi sei?”
“Sicuramente
avresti creato meno scompiglio.”
“Se
mi fossi limitato al nostro
circolo privato, cosa sarebbe successo? Quello che è successo quando ho cominciato a parlarvene
cinque mesi fa. Niente.”
“Così,
invece, hai ottenuto di far andare Xemnas fuori di testa.”
“Xemnas
deve imparare a rilassarsi o quelle sue emicranie non passeranno mai.”
“Non
scherzare. Non è il momento.”
“Sei
geloso del nostro territorio, Xigbar? Perché avrei dovuto tenere la cosa per
noi?”
Zexion
non sembra manifestare effetti collaterali negativi della spaventosa quantità
di energia che ha veicolato, plasmato e diretto.
Tutt’altro.
Appare…
Appagato.
Soddisfatto.
Felice?
Eppure,
questa volta, il suo ruolo avrebbe dovuto essere il più stremante.
Xigbar
sa di essere stato parte di un’unità, eppure non ne serba ricordo.
Tutti
loro non hanno fatto niente di diverso di quanto fanno di solito. Almeno, è
stato così nella propria realtà soggettiva.
Pedine
consapevoli di esserlo, ma senza coscienza di essere pedine.
Zexion
no.
Lui
si è dovuto assicurare di non stressare gli elementi del coro, non ridurre la
loro efficienza, non mettere a rischio la loro incolumità. Ha dovuto far sì
che non fossero distratti dalla battaglia, eliminare ogni elemento di
disturbo e qualsiasi moltiplicazione di percezioni.
Lui
ha dovuto preoccuparsi che nessuno finisse cortocircuitato dall’eccesso di
informazioni o dalla loro estraneità, e impedire che si perdessero gli uni
negli altri, incapaci di separarsi.
Lui
ha dovuto dipanare i fili della rete mentale, ricevere segnali provenienti da
sorgenti differenti e ritrasmetterli a tutti gli altri, selezionati, filtrati e
modificati affinché risultassero comprensibili.
Lui
ha dovuto coordinare i movimenti di ognuno, mantenere coscienza di tutti loro contemporaneamente e, intanto, restare consapevole
delle variazioni ambientali e delle risposte da dare.
Dovrebbe
essere, perlomeno, stanco. Ma, forse, dal suo punto di vista, è come se avesse
appena finito un pasto particolarmente nutriente.
No.
Non è proprio il momento adatto per affrontarlo.
Non
ricorda quando ha cominciato a pensare a Zexion come qualcosa di antagonista a
lui, qualcosa che deve essere studiato per accertarne punti deboli, ed è una
considerazione disturbante. Anche se non abbastanza da volerla negare. Non è
così imprudente.
Il giovane scollega l’ultimo terminale, si spolvera delicatamente il cappotto da polvere inesistente, accavalla le gambe e si appoggia allo schienale, in apparente contemplazione dello scenario. La plancia è un’isola galleggiante in uno spazio a mosaico. Sopra e intorno a loro, le pareti sono una cupola che proietta il pianeta e lo spazio circostante da diverse angolazioni, immagini sovrapposte a grafici e a un susseguirsi di dati.
“Tu non sai da che parte stare, vero, Xigbar?”
“Quindi è già tutto deciso. Ci sono parti tra cui scegliere.”
“Naturale che ci sono parti.”
“Allora spiegati. Quali sono queste parti? Sarò stupido io, ma non capisco perché dovrebbero esserci parti, fra noi.”
“I topi sono neofobi, sai?”
“Scusa?”
“Hanno paura delle novità e dei cambiamenti. Tutti i topi. E’ una loro caratteristica psicologica, costante in ogni topo, di qualsiasi specie, in qualsiasi universo.”
“Siamo finiti a parlare di topi, adesso?”
“Topi e neofobia. Sono argomenti importanti. La questione più importante degli universi. I Mondi ci sono rimasti invischiati nel modo peggiore. Se io avessi ragione, quale sarebbe la prima conseguenza?”
“La guerra finirebbe.”
Il telepate abbandona il seggio per dirigersi alla consolle di comando.
In uno dei triangoli sferici in cui è divisa la volta olografica, è tracciata la posizione di ogni singolo corpo nello spazio che li circonda. Molti di essi sono navi in fuga, una corsa precipitosa per raggiungere una finestra di salto dimensionale.
La gravità di qualsiasi massa si estende all’intero universo e oltre. E’ una forza capace di superare le dimensioni, proprio come il pensiero. Solo gli esseri viventi, solo alcuni esseri viventi, sono in grado di aprire e attraversare le porte fra i Mondi anche mentre sono prossimi a un campo gravitazionale intenso come quello sulla superficie di un pianeta. Ma le navi sono soltanto macchine, non possono fare quello che fanno loro. Per traslarsi, devono allontanarsi da ogni campo gravitazionale significativo. Devono immergersi nello spazio.
Zexion evidenzia il segnale di uno dei vascelli umani, uno di quelli in fuga dalla superficie, seguito e preceduto da due linee luminose e colorate. In blu la traiettoria della rotta percorsa fino a quel momento, in rosso quella estrapolata.
“La
guerra non finirebbe. Se avessi ragione, sarebbe solo la comprova che non
c’è modo di convivere in pace. Ma, almeno, finirebbe questa guerra e
la prossima avrebbe molto più senso.”
Una
seconda nave, una delle poche navi armate ancora sopravvissute della flotta
umana, vira languida.
Le
rette che tracciano il percorso dei due vascelli convergono e si intersecano a
una distanza di pochi secondi dal presente.
La
nave dei fuggiaschi non tenta neppure una manovra elusiva, né alcuna azione di
difesa.
“Stanno
scappando.” mormora placidamente Xigbar.
Non
ottiene risposta. Sullo schermo, i segnali consumano le linee rosse, colorandole
di azzurro, man mano che si avvicinano al punto di impatto.
Le
due navi si scontrano.
“Quanti
erano, Zexion?”
“Milleottocentotrentasei.”
“Milleottocentotrentasei
persone inermi.”
“Milleottocentotrentasei
nemici in meno.”
“Non
potevano farti nulla di male.”
“Ora
non potranno farmene mai più.”
“Tutta
gente morta senza utilità. Dove è il senso?”
“Dov’è
il senso nel permettere loro di vivere, senza utilità?” con un cenno della
testa, Zexion indica una delle sezioni della volta “Guarda il pianeta, Xigbar.
Cosa vedi?”
Sulla
superficie, si addensano formazioni cicloniche di nembi, tanto vaste da coprire
continenti interi. Il cuore dei cicloni risplende di fulmini bluastri.
L’intera
magnetosfera brilla di aloni colorati. Il mondo è velato da immani aurore
boreali.
In
quell’istante infinito regalato loro da Luxord in cui le schermature sono
state inattive, i terrificanti campi elettromagnetici rilasciati hanno distrutto
buona parte delle difese dipendenti, in qualche modo, dall’elettronica e
questo ha permesso di abbattere le altre difese.
Quando
è riemerso da quell’attimo, il mondo si è trovato pressoché inerme.
Luxord
ha proseguito con la sua opera, accelerando la velocità degli innumerevoli
fenomeni ambientali scatenati e dei loro effetti.
In
una manciata di ore, il pianeta ha subito una metamorfosi nelle sue condizioni
naturali.
“Un’altra
vittoria. Le mie congratulazioni.”
“Non
è una vittoria.”
“Volevamo
questo mondo e il mondo è nostro. Io la chiamo vittoria.”
“Facciamo
un attimo il punto della situazione, Xigbar. Combattiamo contro un nemico che ci
soverchia di numero in una scala tale che persino io fatico a considerarla. Ma
noi utilizziamo gli heartless, che sono forniti proprio dal nostro nemico,
quindi, fin quando avremmo avversari, avremmo forze disponibili e più gli
avversari sono numerosi, più lo sono le forze da mettere in campo contro di
loro, non importa quante ne distruggono. Anzi, la distruzione degli stessi
contingenti che usiamo è lo scopo che ci prefiggiamo. Abbiamo innescato un
sistema a nostro favore. Una situazione quasi ideale.”
“Ma?”
“Perderemo
comunque. In ogni caso.”
“Perché,
se abbiamo un sistema così efficace?”
“Secondo
Marluxia, perché non abbiamo intenzione di vincere. Lui si è espresso in modo
alquanto impreciso, ma il concetto è esatto, devo proprio dargliene credito. La
maggior parte di noi sbaglia a stimare l’andamento della guerra. Il nostro
sistema è basato sulla progressione
geometrica degli heartless e il decadimento esponenziale degli avversari verso
zero, con una costante di decrescita pari alla ragione di incremento degli
heartless. Questo è uno dei problemi. Conduce a una valutazione errata.
Ci fa credere di essere in guadagno, mentre in realtà, nel migliore dei casi,
qualsiasi nostro successo è solo apparente. Non possiamo ottenere nulla più di
un momentaneo pareggio. Se gli esseri umani perdessero decine di mondi per
abbattere uno solo di noi, ugualmente avrebbero conseguito una vittoria. Per
noi, ogni singolo caduto rappresenta una potenziale catastrofe. Non dovremmo
tenere il conto di quanto guadagniamo e neanche del rapporto fra guadagno e
perdita, ma solo di quanto perdiamo.”
“Come
hai appena detto anche tu, le nostre forze ci sono fornite dal nostro stesso
nemico. Quindi…”
“Non
sono le nostre forze. Le usiamo, ecco tutto.”
“Ovviamente,
ci sarebbero altri nobody.”
“Probabile.
E con ciò? Se non ricaviamo almeno un solo nobody superiore da ogni mondo,
possiamo, al massimo, essere in parità. Persino i nostri tentativi di generare
nobody artificialmente non sono stati risolutivi. Troppi pochi esemplari e mai
di rango superiore. E quale sarebbe il senso di avere nobody inferiori?
Incrementare di qualche unità quelle poche centinaia che nascono ogni anno? Non
farmi ridere. Ma, tanto, il fine di quel progetto non era aumentare il nostro
numero, perché, in ogni caso, cosa avremmo ottenuto? Solo individui in più da
riportare alla condizione precedente. Secondo l’attuale gestione, una
sconfitta. Che razza di soluzione è quella che non fa altro che sommarsi al
problema da risolvere? Il nostro scopo è far tornare umani i nobody. Cioè,
nuovi bersagli per gli heartless, di cui noi stessi incoraggiamo la
moltiplicazione. In pratica, cerchiamo di trasformarci in pecore per entrare in
un recinto che riempiamo di lupi. E tieni conto che sto considerando l’ipotesi
che noi si possa tornare umani. Cosa che, Marluxia e Roxas fanno notare, non è
da ritenersi per niente scontata. Vedi, il nostro tentativo potrebbe risolversi
o in un suicidio psichico generalizzato, oppure in un semplice fallimento. In
quel caso… ci troveremmo in un universo sempre più saturo di ombre. E quante
sarebbero le possibilità di sopravvivenza, allora? Il rapporto numerico fra noi
e gli heartless è persino inferiore a quello che c’è fra noi e gli umani,
perché dobbiamo mettere in conto anche quelli originati da forme di vita che
nel loro stato primitivo non ci sono nemiche, e gli heartless sono un pericolo
per noi più di quanto non lo siano gli esseri completi stessi, fosse solo che
possono darci la caccia nell’Oscurità. Potrebbero persino saltare fuori altri Xehanort, altri Sora. L’universo intero potrebbe essere invaso dalle ombre,
ogni essere completo preso da loro e avremmo solo scambiato un nemico con un
altro, anche più potente, agguerrito e implacabile. Combattiamo forse per fare
un favore agli heartless? Perché, in tutto questo, al momento sono gli unici a
guadagnarci. Abbiamo questo mondo. Ci servirà per raggiungere altri mondi. A
quale scopo? Ottenere qualcosa che, per quanto ne sappiamo, potrebbe
distruggerci? Questa non è una vittoria. Al massimo, posso definirla
un’esercitazione riuscita.”
“Mi
sembra di ascoltare Marluxia. Eppure non sembravi così d’accordo con lui. A
quel marmocchio non è sembrato vero di trovare uno di noi a condividere le sue
idee. Hai fatto in fretta a gelargli l’entusiasmo.”
“Io
vorrei davvero capire perché la gente, umani, nobody, a questo punto presumo
anche gli heartless, sia così categoricamente convinta che chi non è
d’accordo con una cosa, è necessariamente in disaccordo. No, non è vero. Non
mi oppongo a Marluxia. Tutt’altro. Mi oppongo alla sua fretta, mi oppongo alla
sua compiaciuta ignoranza, ma non alle sue idee. Mettiamolo subito in chiaro,
nel caso avessi lasciato qualche dubbio in proposito. Adesso dimmi una cosa,
Xigbar. Facciamo tutto questo perché vogliamo tornare umani?”
“L’ultima
volta che ho controllato, sì.”
“Lo
facciamo perché siamo troppo umani. Ancora troppo. Sappiamo benissimo, e
lo abbiamo sempre saputo, che così come siamo non ci è concesso vivere. Quello
che facciamo è cercare un rimedio. Il rimedio moderato, quello meno doloroso
per tutti, perché, nonostante tutto, non è mai stata nostra intenzione
combattere contro di loro, vero? Non è mai stata nostra intenzione far loro del
male. Certo non è mai stata nostra intenzione causare vittime. La chiamiamo guerra,
ma quanti pensano a quello che facciamo come a una vera guerra? Quanti di noi li
considerano realmente nostri nemici e non, piuttosto, strumenti, mezzi, modelli
da imitare? Vogliamo solo i Cuori, peccato che per avere quelli dobbiamo
uccidere tanta gente. Uno sgradevole effetto collaterale. Se potessimo trovare
un altro sistema… Gli esseri umani hanno una resistenza al cambiamento. La
nostra natura, invece, è adattarci. Ci siamo adattati a una condizione
considerata impossibile, esistiamo proprio perché siamo capaci di adattarci.
Questo vuol dire cambiare. Eppure, la nostra umanità vestigiale ci spinge a
evitare i cambiamenti. Combatte adattamenti che ci farebbero mutare ancora, fino
a un punto dove potremmo imboccare una strada nuova, imprevedibile. Ci siamo
adeguati al loro pensiero per poter continuare a esistere, senza essere cancellati né
doverli cancellare. Perché, se fossimo come loro, tutto questo non sarebbe
necessario. Chiamala coscienza, se vuoi. E’ solo una forma di attrito.
L’unica ragione valida per lasciarli temporaneamente in vita è perché,
alle attuali condizioni, il solo modo affinché nasca un nobody è da un essere
completo. Condizioni a cui dobbiamo porre rimedio.”
“Quindi,
la tua soluzione è proprio questa. Ero convinto che Xemnas esagerasse.”
Zexion
scuote la testa e selezione l’immagine sovrapposta alla traccia di un’altra
delle navi in fuga.
“Saremmo
al sicuro solo in un universo abitato esclusivamente da nobody, una volta
trovato modo di riprodurre la nostra specie.”
“Stiamo
parlando di genocidio.”
“Credevo
stessimo parlando di topi.”
“Stiamo
parlando di genocidio. Mi correggo. Di estinzione.”
Il
giovane sorride quasi con tenerezza.
Sorride
come potrebbe sorridere qualcuno che scopre qualcosa per la prima volta.
Potrebbe crederci persino lui, che lo conosce da quasi vent’anni, oppure solo
da dieci, se Zexion ha davvero ragione, ma sono sempre comunque tanti anni,
abbastanza da conoscerlo bene.
“Roxas
crede sia possibile la coesistenza con gli esseri completi.”
“Allora
ti consiglio di tenerlo lontano dagli altri Mondi.”
“Non è così sorprendente. Noi abbiamo solo comportamenti appresi. Se in modo diretto o dai ricordi ereditati dagli esseri umani, è ininfluente.
Ma Roxas, a cosa può fare riferimento? A questa vita e basta. Lui osserva e impara dall’osservazione. Vede i popoli
dei Mondi convivere, nonostante le loro diversità, compara le cose e si chiede
‘Perché non noi? Cosa ci differenzia?’. Un pensiero logico, una
conclusione logica e, naturalmente, del tutto infondata. Applica un principio
concettualmente errato. Se una cosa funziona cento volte, mille volte, un
milione di volte, non significa che funzionerà sempre. Noi siamo il milionesimo
e un caso che non funziona. Cerco di fargli cambiare idea, ma non riesco.
Continua a esserne convinto. Continua a osservare, a sperimentare, imparare
dall’osservazione e da quello che sperimenta. E, fin’ora, quello che ha
visto e sperimentato è che noi siamo gli aggressori. Tu sei della stessa idea?
Dimmi un po’, dieci anni fa, cosa è successo a te e a Xemnas quando avete
aperto gli occhi in questo meraviglioso mondo nuovo? Xigbar, finirà comunque in
un’estinzione. La sola incognita è l’estinzione di chi. Oppure sei disposto
a scommettere che ci verrà offerta la possibilità di arrenderci ed essere
recuperati al consesso umano?”
“Non
dire cazzate.”
“Allora
sei d’accordo che rappresentano una minaccia per la nostra esistenza. Allora sei
d’accordo nel considerarli nemici. Allora mi dici perché non dovrei
distruggerli?”
La
nave sullo schermo emette il gradiente energetico che segnala il prossimo salto
dimensionale.
!!!LUXORD!!!
La
chiamata di Zexion è un ruggito mentale assordante, tanto forte da avere quasi
una risonanza di eco.
Il
vascello di Luxord si fa avanti.
“Non ha la minima importanza quanti ne moriranno adesso, qui. Alla fine
moriranno tutti per mano nostra, oppure saremo noi a morire per mano loro. A
meno che non ci eliminiamo prima fra noi. Non c’è altra soluzione, perché il
primo che decidesse di farla finita sarebbe solo il primo a sparire. O,
perlomeno, è quello di cui siamo convinti. Loro di sicuro e anch’io, quindi non
ho intenzione di tentare un’altra strada, perché il rischio è troppo grande.
Ogni essere umano che abbattiamo oggi sarà un nemico in meno la prossima volta.
Magari proprio quello che potrebbe ucciderti, ci pensi?”
La
nave dei fuggiaschi smette di esistere. Nel suo passato, Luxord ha toccato i
parametri temporali nell’equazione di fuga. La nave smette di esistere
perché è sempre stata solo un relitto che fuma sulla superficie del
pianeta.
“Marluxia
è venuto a parlarmi. All’inizio non lo ascoltavo. Lui parlava e io pensavo a
ben altro. Come togliermelo dai piedi il prima possibile e fare in modo che non
tornasse più, ad esempio. Poi ho cominciato a fare caso a quello che stava
dicendo e un po’ mi veniva da ridere, ma, soprattutto, mi dava fastidio. Mi
irritava. Quel ragazzino pretendeva di dare lezioni a me. Pretendeva di
capirmi. Che ne sa lui di quello che abbiamo fatto, cosa abbiamo tentato, cosa
abbiamo dato, attraverso cosa siamo passati… Giusto, Xigbar? Ma, a un certo
punto, ho cominciato ad ascoltarlo. Ascoltarlo davvero. Inesperto, arrogante,
pieno di sé. Mi ha sorpreso. Tutti loro. Prima Luxord, poi Roxas, poi
Marluxia e Larxene. Persino Demyx, con la sua convinzione di valere quanto un
essere umano. Abbiamo cercato di convincerlo che ha torto, ma in torto siamo
noi. Ci pensi? Sono solo bambini e mi hanno sorpreso. E mi hanno fatto ricordare
una cosa. Mi piace vivere.”
“A
te è sempre piaciuto vivere.”
“Io
ho sempre voluto vivere. Tutti noi vogliamo vivere, con più forza di
chiunque, o non saremmo qui. Però mi sono accorto che non solo voglio. Mi
piace, ma per quale ragione dovrei volere fare del male a Xemnas?”
“Non
ne ho idea. Con te è impossibile sapere cosa vuoi e perché.”
“Che
ragione avrei?”
“Non
lo so.”
“La
ragione.”
“Non
lo so!”
“Non
c’è ragione, quindi, ora, ti dico come stanno le cose. A Roxas piace
studiare. Sarebbe felice di passare la vita sui libri e so a cosa potrebbe arrivare. E’ come eravamo noi, come tutti noi avremmo voluto i nostri figli. Eppure, io devo impedirgli di
avere quello che vuole, quello che anch’io vorrei avesse, e compiacermi invece
perché è stato capace di trasformare l’atmosfera di un pianeta in una palude
radioattiva. Io devo estirpargli dalla testa
ogni idea di avere un valore per chi è e non solo perché è un’arma di
distruzione tanto efficiente. Io devo mentirgli e dirgli che il suo gemello, che
non vale la metà di quanto vale lui, che sembra felicissimo di lasciare che
chiunque altro pensi al suo posto, ha diritto di vivere solo perché è umano.
Mi chiede del futuro. Il suo futuro, il nostro futuro. Secondo te, cosa devo
rispondere? Che non esiste futuro? Devo dirgli che probabilmente non sopravviverà
oltre qualche mese e, se anche dovesse riuscirci, dovrà combattere per ogni
secondo di vita, senza potere mai riposare un istante? Che lavorano tanto solo
per non giungere a nulla? Che tutta la loro fatica, tutta la loro sofferenza,
servono solo ad avvicinarli al momento in cui forse svaniranno? E che più si
danno da fare, più potrebbero affrettare quel momento? Quando mi chiede di
dirgli qualcosa che non sono favole, ipotesi o illazioni, silenzi o solo parole
senza senso, quando mi chiede di provare quello che dico, cosa devo
rispondergli? Che, in realtà, non so neppure di cosa sto parlando?”
Ora,
le navi dei fuggiaschi non trasmettono più alcun segnale di salto, né le
alterazioni energetiche che li precedono.
Luxord le
ha legate in una particella di tempo alterato che impedisce persino di tentare la
traslazione.
“Lo
faccio, Xigbar. Quando serve lo faccio, ma sei pazzo se pensi che ogni volta gli
taccio quelle risposte che mi sarebbe così facile dargli, non ricordo che noi
abbiamo dato vita, Cuore, mondo, perché qualcuno taceva. Sei pazzo se sei
convinto che, con universi interi da esplorare, vorrei passare la mia esistenza
a complottare e pianificare distruzioni. Sei pazzo se credi che vorrei fare del
male a Xemnas, a Xaldin, a te, a chiunque di voi. Se credi che non vorrei
vedervi ottenere niente di meno di quello che volete o che sperate. Ma sai bene
quanto me che quello che vorrei non ha posto in questa realtà. Allora è quello
che voglio a importare e quello che voglio è sopravvivere, voglio che noi
sopravviviamo. Voglio che la nostra specie continui a esistere, senza nascondersi
e senza paura, in un universo dove si possa viaggiare liberamente fra i
Mondi.”
Gli
occhi di Zexion hanno perso ogni traccia di colore e sembrano neri come il vuoto
fra le stelle. Uno spazio dove non si può navigare.
Sogna.
Uno di quei sogni che può fare anche mentre continua a parlare e camminare ed
è sveglio, e i sogni di Zexion diventano ombre e le ombre possono uccidere.
“Ti
lamenti che ho parlato a tutti, che non ho tenuto le mie idee solo per noi, ma
non siamo più noi. Ci piaccia o no, abbiamo dato vita a qualcosa e quel
qualcosa non possiamo buttarlo con l’acqua del bagno, adesso. Abbiamo dato
vita a qualcuno e quel qualcuno non possiamo ignorarlo quando chiede, né
possiamo pretendere che creda in noi quando diamo così poco in cambio.”
Un
vascello umano si disgrega. Un piccolo yacht dalla forma di una serie di scatole
accatastate.
Non
ci sono evidenza di un’azione fisica da parte di un’altra unità. Qualcosa
lo ha distrutto dall’interno. Il suo stesso equipaggio, Xigbar ne è sicuro.
“Xigbar…
lo abbiamo mai fatto, noi? Abbiamo chinato la testa, quando ci hanno chiesto
solo obbedienza senza ragione?”
“No…”
“No.
Allora non possiamo esigere da loro quello che saremmo i primi a rifiutarci. Ci
stanno sfuggendo di mano e ci divideremo. Tu lo sai, o non mi avresti fatto
quella domanda. Tacere sarebbe perpetuare un errore, anche se, a questo punto,
temo ci vorrà molto tempo e molto più di qualche parola per rimediare.”
Luxord
impedisce alle navi di effettuare i salti dimensionali e, se le navi non possono
saltare, sono imprigionate nello spazio ordinario. Alla mercé di Zexion.
Potrebbe
fare qualcosa, lui.
Prendere
Zexion e rifilargli un pugno. O sparargli e dargli qualcosa di più immediato
per cui preoccuparsi. E
prenotarsi il prossimo decennio soggettivo passato a fronteggiare chissà quali
bizzarri incubi.
Ma,
per interrompere quella catena di eventi, probabilmente basterebbe ordinare di
allontanarsi.
Potrebbe
farne tante, di cose.
Potrebbe
almeno tentare.
Manca
solo il motivo per agire.
Xigbar
si vanta di essere istintivo. Una di quelle affermazioni che mandano in bestia Vexen, che è tanto più divertente confermare proprio perché lo mandano in
bestia.
Perché
Xigbar non usa la parola istinto in senso discorsivo e i nobody non
hanno veri istinti. Hanno pulsioni, ma una pulsione non è un istinto. Hanno
schemi di memoria riflessiva, ma neppure gli schemi di memoria riflessiva sono
istinti.
In realtà, hanno sempre consapevolezza delle loro azioni. Persino quei gesti che alcuni di loro compiono quasi involontariamente, sono solo concessioni ad abitudini e affettazioni acquisite o conservate, e risiedono in uno strato superficiale della disattenzione. Basta volerlo e il controllo cosciente è subito ristabilito.
I
nobody non possiedono istinti. Fatto appurato e dimostrato.
Ma, per quanto
riguarda Xigbar,
ogni tanto il rigore scientifico può essere lasciato fuori dalla porta e loro
si sono sbagliati già troppe volte per escludere una qualche possibilità. E
lui è istintivo. Opera secondo schemi inalterabili di comportamento innato.
Ogni
volta che si trova di fronte a un evento sconosciuto e potenzialmente
pericoloso, si attiva un sistema di risposta automatica che non necessita di
nessun pensiero, nessuna valutazione cosciente e che, pure, gli suggerisce
sempre come comportarsi. Ha funzionato per quasi cinquant’anni. O solo per
dieci.
Questo
volta, il sistema non entra in funzione.
E’
come vedere qualcosa che è sempre stato davanti al suo naso, che non ha visto
sino a quando non gli è stato indicato e che, anche così, deve continuare a
fissare bene, o lo perderà di nuovo.
I
suoi schemi mentali falliscono perché è qualcosa
che produce troppi pochi stimoli per innescarli e, se gli schemi falliscono, è obbligato a pensare, a valutare, a scegliere. Ma,
per questo, dovrebbe capire Zexion e la cosa non è così scontata.
“Niente
si ottiene per niente. Ricordi, Xigbar?
Più grande il risultato, più alto il costo. Ricordi? Ebbene, più
alto il costo, più grande esigo sia il risultato. Non sacrificherò Roxas né nessuno di noi per qualcosa di meno che la sopravvivenza della nostra
specie. E tu ti preoccupi di poche migliaia di esseri umani?”
Xigbar
non fa nulla e Zexion continua la sua caccia, un vascello dopo l’altro.
Non
ha nessuna necessità di disporre i suoi pezzi su quella scacchiera visibile.
Non ha bisogno di selezionare i bersagli con i mezzi artificiali, non ha bisogno
di rivelare le sue prede in quella cupola dove lo spazio si riflette.
E’
solo una recita, quella, a beneficio del suo pubblico.
Zexion
è uno specchio. Rimanda l’immagine di quello che gli sta all’esterno, senza
modificare la sua sostanziale identità.
Quando
ci si trova davanti a lui, l’immagine riflessa è quella di sé stessi.
Un’immagine conosciuta. Un’immagine che ci si aspetta di vedere. Qualcosa
che si può anche credere di capire.
Eppure,
di tanto in tanto, Xigbar è quasi convinto di vedere il vero Zexion, nascosto
sotto lo strato di riflessi deformanti e inganni e ombre. Non perché lo
percepisce direttamente, ma per l’errore, anche se non lo riconosce come tale
e non può dire qual è l’errore.
Proprio
come in un labirinto di specchi potrebbe trovare la via d’uscita grazie alle
distorsioni. Angolazioni, oppure lievi incongruenze nella luce.
Ma,
nei riflessi, lui cerca ancora Ienzo.
“Vuoi
sapere quanto valgono per me, Xigbar? Se dovrò mettere sul piatto della bilancia la
vita di un solo nobody, qualsiasi nobody, fosse anche il più debole e inutile
dei crepuscolari, contro la vita di tutti gli esseri umani di tutti i Mondi, non
ci penserò un istante. Se solo potessi, li cancellerei ora, subito, da
ogni universo. Noi dobbiamo sopravvivere! Questa è l’unica cosa che conta
e il piano di Xemnas non ha sufficienti probabilità di riuscita.”
Probabilità,
dunque. E’ tutto qui.
Zexion
ha uno scopo e tutto diventa relativo a questo. A esso sacrificherà qualsiasi
cosa, compresa la sua stessa sicurezza, la sua stessa esistenza, l’esistenza
di chiunque.
Lo
ha fatto Ienzo, lo farà Zexion.
Se
non ha mentito, se lo scopo è davvero far sopravvivere loro, non loro come
individui, ma come specie, chiunque valuterà avere le maggiori probabilità di
portare avanti la loro stirpe, sarà il primo nei suoi pensieri.
Niente
è più importante di quel semplice calcolo probabilistico.
Una parte di lui lo capisce. Una parte consistente. Le necessità di un intero
popolo non possono essere sacrificate alle sofferenze di pochi.
I
segreti sono la cosa che li hanno condotti fin qui. Segreti da mantenere tali.
Segreti da volere svelare.
Tacere,
e decidere che niente deve essere taciuto. Mai.
ma
Questa
volta è necessario.
Lo
pensavano anche Ansem, anche il Re. Allora dov’è la differenza?
Senza differenza, tutto quello che hanno fatto diventa inutile.
Solo
per questa volta.
La
prima volta è un’eccezione. La seconda, è perché tanto c’è un
precedente. Poi c’è una terza volta, una quarta, fino a quando menzogne si
accumulano su segreti e diventa un universo di falsità.
ma
Forse,
a fargli credere che tutto ha un senso, sono le parole di Zexion. Perché può
anche voler credere di avere di fronte Ienzo, ma ricorda che Ienzo è morto e
c’è solo questa cosa strisciata fuori dalla sua morte, come fumo velenoso da
una reazione chimica, e Zexion è inganno mascherato in parole di seta che hanno
fatto cadere re e mondi e universi.
E
in realtà niente ha senso, perché, se si guarda da una prospettiva
sufficientemente lontana nel tempo, tutti, loro, gli abitanti dei Mondi, i Mondi
stessi, sono solo morti che non sanno ancora di esserlo e si ostinano a
rimandare il momento in cui non saranno più in grado di negarlo e, allora, se
si guarda da quella prospettiva sufficientemente lontana, ogni cosa ha la stessa
logica e ogni cosa ha la stessa importanza. Ogni scelta equivale.
ma
Manca
ancora una cosa.
Cuore. A completare Anima e Corpo.
La
frammentazione che ha fatto nascere i nobody sarà ricomposta. La Trinità
compiuta.
In
quale forma?
Una
forma nuova, imprevedibile. Inimmaginabile.
Può
valere la pena.
ma
“Ci
sono Xemnas e Xaldin, vero?” dice Zexion “Saresti il primo ad appoggiarmi, o appoggiare
Marluxia, altrimenti.”
Ci
sono loro e loro fanno parte dell’eventualità di scarto. I neofiti, alcuni
neofiti, sono una carta più sicura su cui giocare. In una valutazione a lungo
termine, è più probabile che sia uno di loro a sopravvivere. Se per
salvaguardarli dovrà dare in cambio la vita di uno qualsiasi degli altri,
Zexion lo farà.
E’
il sottinteso di quello che ha appena detto.
“Tu,
Marluxia e Xemnas volete tutti la stessa cosa. Immagino che anche quel ratto sia
pieno solo di buone intenzioni. Le buone intenzioni sono il vero problema.”
“Non
esistono buone intenzioni, Xigbar. Solo intenzioni. Quando serve,
cerchiamo di farle sembrare buone. E’ un modo per raggiungere il proprio
scopo. I nostri originali avevano buone intenzioni? Braig aveva buone
intenzioni?”
Xigbar
lo fissa a bocca aperta.
“Non
sminuire il valore di quello che hanno fatto con queste bambinate. Il Re può
ammantare i suoi discorsi di buone intenzioni ed essere creduto. Noi abbiamo
perso il mondo in cui potevamo credere alle buone intenzioni. Lo abbiamo
distrutto con le nostre mani. Vuoi sapere quali sono le parti? Eccole. Noi e
loro. E’ un gioco, Xigbar, il gioco del gatto e del topo. Ma i topi sono tanti,
potrebbero riuscire a mangiarsi il gatto. Loro lo hanno già capito.
Lo sanno e non hanno i nostri scrupoli. Hanno ragione. E Marluxia ha ragione e Xemnas ha ragione a credere che Marluxia lo distruggerà.”
“Quindi,
se tutti abbiamo ragione, alla fine chi ha torto?”
“Quello che ha sempre torto. Quello che perderà.”
Zexion
sogna sogni di distruzione e le navi muoiono.
Dovrebbe
essere incapace di fare una cosa simile. Dovrebbe essere stanco. A questo punto,
dovrebbe proprio esserlo. Più che stanco. Dovrebbe essere sfinito, drenato di
tutta l’energia a cui può attingere.
Ma
non è così e questo è impossibile, nelle condizioni ordinarie. Allora,
significa che le condizioni sono cambiate.
Lasciare
che Braig gli scivoli di dosso e liberi, finalmente, colui che matura sotto
quella pelle ingannevole che indossa da dieci anni. Farla finita con le
menzogne e le pretese.
“Io
non sto cercando di causare una frattura fra noi, Xigbar. Sto cercando di
impedirla. Sto cercando di salvare quelli che posso.”
“Il
che vuol dire sai già che non saremo tutti.”
“Tutti
è estremamente improbabile.”
“Immagino
non sia solo una tua opinione.”
“Non
è un’opinione.”
Xigbar
sferra una manata a una paratia.
“Tu
sei solo un fottuto casinista. Xaldin ha ragione.”
“Xaldin
mi considera responsabile persino del cattivo tempo. Anche tu?”
“Non
fare questi giochetti con me. I rimpianti, francamente, li lascio a Xemnas e i
rancori a Xaldin. Fa piazza pulita su tutti i pianeti che vuoi, me ne sbatto. Ma
attento a dove arrivi. Io non ho parte, non darmi motivo per sceglierne
una.”
“Xigbar…”
“Attento
a cosa fai, e a chi.”
Zexion
annuisce e un altro vascello umano si dissolve.
*
* *
Per
i due giovani, l’amalgama allucinogeno di flussi elettromagnetici impazziti
che racchiude il pianeta è un’architettura di cristallina coerenza. Le
dinamiche delle masse di luce non sono casuali né caotiche. I labirinti
accecanti tracciano sentieri di morbide sfumature dove muoversi con sicurezza,
più facili da seguire di qualsiasi strada artificiale.
Roxas raccoglie una cosa da terra.
Larxene lo avvicina, passando davanti alla massa di resti organici degradati dalla
furia radioattiva. Qualcosa che non più quasi forma, che si dissolve nella
luce.
Uno
dei tanti visti oggi, insieme ai corpi smembrati da lame laser, cotti da
scrosci di microonde, dilaniati a mani nude.
Questa
volta, la sola cosa che Roxas non ha fatto è stato evocare i keyblade. Le è
sembrato quasi volesse provare qualcosa a sé stesso.
Il ragazzino ha la testa china e fissa l’oggetto che stringe,
una tavola colorata, fluorescente sotto la radiazione. Larxene lo ha visto giocare con una cosa simile, nel loro mondo.
“Che hai?” gli chiede
“Quasi
tre mesi fa, Zexion mi ha portato qui.”
“Quindi?”
“Abbiamo
incontrato una donna. E’ stata lei a consegnarci i codici e i certificati per
entrare nel porto, lei ha dato alle nostre navi il passaggio libero,
lei ha interrotto la rete che cablava il sistema di comunicazioni planetario,
quello che è bastato a Luxord per darci il tempo che ci serviva.”
“Fammi capire. Zexion ti ha portato a un incontro con un suo agente?”
Roxas
annuisce, svogliato. Con un dito, fa girare una ruota della tavola. Provoca un
rumore strano, scrosciante.
“Lo
fa spesso?”
“Cosa?”
“Portarti
con lui quando lavora.”
L’adolescente
annuisce ancora e ancora muove le ruote e il suono è rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
“Spesso,
sì. Forse sempre. Questo non lo so.”
“Ti
porta con lui come guardia del corpo?”
Roxas la guarda in tralice, senza sollevare né
muovere la testa.
“Roxas,
in cosa consiste il lavoro di Zexion?”
Qualche
filamento luminoso si addensa intorno alla donna.
Stavolta,
ha osato troppo. Il ragazzo sta seguendo una sua linea di pensiero e non gli
piace che sia interrotta. Non gli piace essere messo in secondo piano.
Vuole
essere ascoltato, non ascoltare.
“Perché
ricordare quell’incontro ti dà fastidio?”
Roxas
si quieta, adesso che è di nuovo al centro dell’attenzione.
“Non
mi dà fastidio.”
“D’accordo.
Allora perché ci stai pensando?”
“Zexion
dice sempre che il potere deriva dalla conoscenza.”
“E’
una cosa che si dice in molti mondi. Ormai è un po’ scontata.”
Il
ragazzino si stringe nelle spalle.
“E’
vera lo stesso. La conoscenza è potere, ma quella donna lo aveva dimenticato.
Lei voleva diventare come noi, ma non aveva vera conoscenza di quello che
chiedeva. Zexion le ha detto che non avremmo distrutto il suo mondo.”
“Le
ha detto la verità. Non lo abbiamo fatto.”
“No, non lo abbiamo fatto. L’Oscurità sarebbe stata la cosa che, forse, le
avrebbe permesso di avverare il suo desiderio. Ma noi non abbiamo liberato le
ombre, proprio per non distruggere questo pianeta e, siccome non abbiamo liberato le
ombre, lei non ha avuto niente. Non sapeva che proprio il modo in cui chiedeva
di avere ciò che cercava, rendeva praticamente impossibile che ottenesse quello che voleva,
la cosa per cui ha venduto il suo mondo e la sua anima.”
rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
“Non
conta solo lo scopo, Larxene. Conta anche come ottenerlo. E’ importante
conoscere il mezzo, conoscerlo bene, conoscere cosa implica, perché proprio il
mezzo che si usa potrebbe racchiudere l’impossibilità a raggiungere il
risultato che si cerca.”
Questo
non è qualcosa che ha imparato da Zexion. Lui penserebbe una cosa simile, sì, ma, alla fine, a
importare sarebbe solo l’obiettivo.
“Io
non riesco a odiarli.” mormora Roxas.
“Perché
vorresti odiare?”
“Non
voglio essere diverso da voi.”
Larxene
sogghigna.
“Che
bambino dolce, sei.”
Roxas
aggrotta le sopraciglia in un nuovo, immediato, avvertimento.
“Scusami.
Non c’è ragione per prenderti in giro così.” si
affretta a dire la ragazza.
“Allora
non farlo. Credevo che, forse, li odiavo davvero, ma non ero capace di riconoscerlo. Ho
chiesto a Zexion di farmi vedere come vedono loro.”
RRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR
Le
ci vuole tutto il suo autocontrollo per non gli strappargli di mano quella cosa
e mettere fine al rumore.
Roxas
appare più disposto del solito a irritarsi e provocarlo non è una cosa saggia.
“Non
è cambiato nulla, Larxene. Ancora non capisco. Faccio cose non perché voglio farle,
ma solo perché non ho motivo per non farle. Anch’io combatto per volontà di un
altro.”
“Allora
non sei diverso da noi.” afferma Larxene e, con un cenno vago, abbraccia
idealmente la città e il cielo “Sei solo più efficiente.”
Il
ragazzo si chiude subito in sé stesso. Larxene può quasi vederlo innalzare una
barriera e ritirarsi all’interno.
Roxas
attacca solo se si sente minacciato, mai per primo. Anche se spesso è
difficile capire cosa considera una minaccia o in cosa si sente minacciato, il
suo è sempre uno schema di difesa.
Ma,
di tanto in tanto, forse perché crede che l’aggressione non serve o, forse, perché
dovrebbe arrivare a un livello di aggressione che non è disposto a raggiungere,
si rifugia dove non essere visto, non essere toccato, il più possibile isolato dalla
fonte di disturbo.
A volte, questo significa isolarsi in un
suo mondo personale.
Lei
ha detto qualcosa di sbagliato, o ha fatto qualcosa di sbagliato. Non lo sa.
Roxas non si è allontanato, ma è fuggito a nascondersi in un luogo così
lontano che è come se fosse in un altro universo.
Irritato.
Insoddisfatto.
Infelice?
Immagina
che chiunque altro negherebbe un termine simile riferito a uno qualsiasi di
loro.
Alcuni
riderebbero. Probabilmente non di fronte a lei, ma alle sue spalle lo farebbero.
Axel le riderebbe in faccia. O, più probabilmente, lo avrebbe fatto sino a poco
tempo prima. Ora non ne è più così certa.
Gli
scienziati la taccerebbero di antropomorfizzazione, anche se le piacerebbe
chiedere proprio a loro dove piazzano i confini di quel vocabolo in un universo
simile. E, magari, un giorno che avrà voglia di discutere, lo farà anche.
Dubita
comunque che Roxas si definirebbe infelice. Dubita che conosca il termine. Dubita
che qualcuno glielo abbia insegnato, in rispetto a quella ostinata ipocrisia o
masochistico autocompiacimento che vieta loro di dare nome a quello che si
rifiutano di riconoscere.
O,
se proprio vogliono definirsi in qualche modo, aggiungere sempre
quell’aggettivo. Falso.
Se
senti qualcosa, è falso. Se pensi qualcosa, è falso. Il loro mondo è falso,
la loro vita è falsa. Forse persino il loro riflesso in uno specchio è falso.
Falso
è un’ancora di salvezza. Quella che permette loro di non affondare nel
paradosso.
Non
dimenticare mai la parola magica. Pena l’ostracismo, pena il biasimo, pena il
silenzio e il silenzio può essere insopportabile quando non si ha che sé
stessi e gli uni con gli altri.
Infelice.
La
sola cosa falsa è la sua indifferenza.
E’
troppo piccolo, quell’universo in bottiglia dove lo hanno chiuso. Di giorno in
giorno, l’indecifrabile e invisibile frontiera aliena che segna i limiti della
pazienza di Roxas si stringe.
Larxene
si chiede cosa gliela farà superare. Cosa, in realtà, tiene ancora in
essere quella frontiera.
“Roxas.”
Il
ragazzino si mette a canticchiare a voce muta. Una melodia dalla costruzione
semplice e ripetitiva, come quella di una filastrocca infantile, che si perde
nel rumore provocato dalle ruote della tavola.
“La
nostra volontà ha piegato la morte.” insiste la giovane “Potrebbe bastare a realizzare quello che
crediamo. Forse ognuno di noi vive una realtà plasmata dalle proprie idee.
Forse Xemnas ha ragione, per quanto riguarda lui e tutti quelli che gli credono.
Forse si sono così immedesimati nelle loro certezze che sono davvero diventati
quello che sono convinti di essere. Ma la nostra volontà è altrettanto forte e
allora dovremmo decidere cosa vogliamo essere noi.”
Roxas
continua a ignorarla.
Lei
ha sbagliato e il ragazzo non intende renderle facile rimediare all’errore
fatto.
Potrebbe
solo fingere di non ascoltare, oppure potrebbe non avere lasciato aperto nemmeno
uno spiraglio e ogni tentativo di raggiungerlo essere solo una perdita di tempo.
Larxene
non
è neppure sicura del perché stia cercando di parlargli.
Perché
è convinta che darebbe fastidio ai fondatori, o perché si è davvero stancata
del silenzio.
La
cosa importante è che adesso le va di fare così.
“Qualsiasi
cosa dice Xemnas, tu ricorda una cosa. Loro sono i nostri Cuori, ma noi siamo le
loro anime.”
Roxas
rimette a terra lo skateboard, gli dà un leggera spinta con un piede e lo fa
correre verso il pozzo centrale della città. Il rumore delle ruote amplificato
dalla desolazione è quasi insopportabile, fino a quando la tavola non cade
nello strapiombo artificiale ed è silenzio.
* * * * * * * * * * * * *
Mi
scuso per il ritardo davvero imbarazzante. E’ stato un capitolo
difficile da scrivere. Spero di avere ottenuto un risultato accettabile.
C’è
una frase rubata a Star Trek. Scommetto che almeno una persona la riconosce
subito. Me l’ha suggerita lei con un suo commento ^__^
E’ che spesso e volentieri i nobody, per dimostrare la loro mancanza di emozioni, sono tratteggiati come sociopatici, istrionici o borderline. Peccato solo che coloro che soffrono di questi disturbi di personalità non sono affatto privi di emozioni. Proprio il contrario, semmai.
Esseri
carenti emozionalmente si comportano come Spock, non come il Joker.
Chris:
Ti piacciono docili, eh? Almeno a Xemnas dai un balcone e una luna e quello se
ne sta buono a rimuginare. Al massimo, fa qualche bislacco monologo. Non me lo
vedo con l’hobby dell’omicidio random. Però il lunatico blu piace
tantissimo anche a me ^__^
No, Roxas non ha ricordi a complicargli la vita. Ma, giusto per non essere da meno del resto della famiglia, riesce a complicarsela benissimo perché non li ha. Personalmente, sono dell’idea che i nobody siano cause perse. Se pure dovessero trovarsi per miracolo con un cuore, beati e felici in un mondo paradisiaco, tempo una settimana e troverebbero il modo di incasinarsi con qualcosa. E se non trovassero niente, il modo se lo inventerebbero. C’è da dire che Zexion non sa cosa capiterà a Roxas. Sa che va incontro a qualcosa di brutto e ha qualche probabilità di uscirne vivo, ma non conosce i particolari. Per fare un esempio, sa che strada ha preso, sa dove porta, ma non cosa vedrà mentre la percorre. Stessa cosa per Luxord. Entrambi calcolano probabilità, non vedono film. Se no, Zexion avrebbe aspettato Riku al varco mentre stava emergendo dall’Oscurità e gli avrebbe tagliato la gola. Non fa il mentore criptico perché fa tendenza ^__^
La
tua interpretazione del rapporto fra Roxas e Zexion è quella che volevo
suggerire, compreso una specie di… passaggio di testimone fra i due. C’è un
momento in cui bisogna proprio smetterla di accumulare nozioni passivamente e
decidere in proprio cosa fare, altrimenti si rimane dipendenti da coloro che
insegnano ^__^
Felice
che ti piacciano gli spaccati della vita di Ienzo. Lo adoro. Tutti i sei, in
realtà, ma Ienzo è stato il più iconoclasta e il più deciso di tutti. Anche
Xehanort, ma lui aveva dalla sua il passato tragico e la ricerca dei suoi
ricordi. Ienzo no. Ha fatto tutto per pura curiosità e se ne è sbattuto degli
ordini di Ansem e del sorcio. Che, per la cronaca, considero il primo colpevole
(Ansem è solo un cretino). E
c’è un particolare nella trama che mi sembra venga spesso sottovalutato, che invece considero fondamentale. Cioè che i vari mondi si sono trovati
collegati. I sei erano scienziati, di quelli disposti a dare la vita per le loro
ricerche. Non avrebbero mai accettato di tornare nella situazione precedente di
beato isolamento. Per nulla al mondo.
Rixika: Beh, non riesco a
considerare l’operazione Virtual Twilight Town nient’altro che una versione
particolarmente sofisticata di snuff film, una
tortura progettata con metodo scientifico, filmata e studiata, che termina con
la morte del protagonista/vittima, con DiZ e Riku che osservano e intervengono
per aggiustare la sceneggiatura in modo da rendere sempre più efficiente il
reiterato stupro mentale che stanno compiendo. Sono
strasicura che sia stato fatto più per il piacere di DiZ che per necessità.
DiZ tiene in stasi Sora per un anno. Poteva fare lo stesso a Roxas fino a quando
non lo avesse riunito a Sora. Ok, doveva spezzare la sua volontà, ma puzza
troppo di sadismo fine a sé stesso. Tra
l’altro, mi chiedo perché fare una cosa simile. Sora
vive benissimo senza Roxas. Un anno passato splendidamente lo dimostra. Roxas
non c’entra niente né con il suo coma, né con la sua memoria, e non serve
per ripristinargliela. Casomai qualcuno non lo avesse notato, DiZ e Naminé
risistemano la memoria di Sora prima di riunirlo a Roxas. Ufficialmente,
Roxas è usato come batteria per aumentare la forza di Sora e permettergli di
sconfiggere i 13. Ma questiono anche questo, in quanto Sora, senza Roxas,
sconfigge Larxene e Marluxia e fa il culo quadro a Xehanort. Direi che di
potenza ne ha più che a sufficienza.
Si
potrebbe obiettare che DiZ non ha bisogno di ragioni per eliminare un nemico.
Assolutamente d’accordo, se solo anche qui non cascasse l’asinello. A
quanto se ne sa, i 13 cominciano ad attaccare attivamente gli esseri completi
solo nella battaglia durante la quale muore Demyx. Prima di allora, si limitano
a… non fare niente. Certo, raccolgono i cuori gentilmente forniti
dall’attività di Sora, ma non spingono gli heartless contro nessuno. Semmai,
li si può accusare di non fare nulla per fermare le ombre, ma perché
dovrebbero proteggere gente che li vuole morti? Mai detto che sono santi. Il
rapimento di Roxas è antecedente a quell’evento, così come la simpatica
filosofia da soluzione finale di YenSid.
Quindi,
proclami a parte, perché eliminare Roxas? Mah, potrei dire che a DiZ andava di
passare un po’ di tempo torturando un nobody, anche se mi pare un’operazione
troppo complicata, per quello. Sarebbero bastati una sedia, un secchio e una
tenaglia. Certo è che, durante tutta l’operazione, DiZ gode come un riccio.
Riku…
ah, che problema che è quel bambino. Sì, a voler essere coerenti (e prudenti),
gli si doveva riservare lo stesso trattamento dei nobody. Anzi, personalmente considero
Riku molto più pericoloso, visto per ‘cosa’
agisce. Concordo. Avrebbero dovuto metterlo al muro.
Fortunatamente
per me, non è stato così, sennò mi sarebbe mancata buona parte della storia.
Spero che qualcuno si ricordi che uno dei protagonisti è il nostro cavaliere
delle tenebre. Non l’ho dimenticato. Gli ho solo dato una pausa di riflessione
per meditare sul passato ^__^
Lux: Piuttosto che redenzionizzare Zexion, lo strangolo con le mie mani! E’ un vero delitto snaturarlo. Vabbé, questo con tutti, ma lui in modo particolare. La bellezza di Zexion non è nel ciuffo blu o nel faccino da bambolotto, ma nella sua natura.
Giuro che vorrei gli avessero dato l’aspetto di uno scorfano e sai bene che dico sul serio. Almeno non finiva caricato di una pucciosità che, sarò cecata io, proprio non vedo.
Eh,
sì. Ora Roxas sa che significa vivere libero. Non che credo lo
schiavizzassero, ma che lo tenessero in una campana di vetro sì. Il prezioso e
unico custode dei nobody non è cosa da trascurare. Anche
perché, per tenergli nascosta l’esistenza di Sora, necessariamente dovevano
evitare che andasse troppo a curiosare in giro. Sora non è precisamente uno
sconosciuto, nei mondi, keyblade compreso, e ci vuole poco a prendere il nome,
rigirarselo un po’, aggiungere una X e ottenere il risultato. Magari sarebbe
stato meglio dare a Roxas un altro nome ^__^
Ma
c’è un’altra cosa che sa. Zexion non solo era umano, ma era un umano molto
particolare ;)
Giodan:
Esagerato ^O^
Guarda
che così mi monto sul serio la testa. Ma grazie ^__^
Max:
Caro Max, mi sento onorata del tuo apprezzamento. Davvero molto lusinghiero.
Lieta
di sapere che il buon vecchio Leibniz ha colpito. Ovviamente, vale anche al
contrario, ossia, cose fra cui puoi rilevare una e anche una sola differenza,
non sono la stessa cosa. Questo è importante. Fondamentale.
Qualcuno avrebbe dovuto ricordarsene. Ma la mia opinione degli abitanti del multiverso di KH non è particolarmente positiva. Sì, nell’insieme sono molto
evoluti, hanno astronavi, si spostano fra le dimensioni, hanno poteri
sensazionali, ma sono selvaggi superstiziosi e, peggio di ogni cosa, manicheisti
a oltranza.
E’
questa la cosa più triste di tutta la faccenda. I soli che avrebbero potuto
rimediare alla follia dicotomica che sembra infettare chiunque, sono
considerati da tutti indegni di esistere. Così ci cascano pure loro.
Credo
non sia un caso che il personaggio più complesso e costruito del gioco, cioè
Riku, alla fine si ritrovi nauseato da tutta la faccenda e decida di stare nel
mezzo.