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Autore: Solitaire    14/06/2009    6 recensioni
nemmeno noi siamo solo logica e calcolo, per il semplice fatto che si arriva a un punto dove non c’è alcuna logica né alcun calcolo e la differenza è fatta solo dalla nostra volontà
Genere: Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Riku, Roxas, Zexyon
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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XIII

 

XIII

 

 

La richiesta di accesso al porto e al pianeta sottostante è solo una delle tante giunte alla capitaneria orbitale.

Il controllore inserisce la comunicazione nei programmi di volo odierni. I codici trasmessi sono corretti. Ora di arrivo, luogo di provenienza e durata prevista della sosta.

Legge, distratto e annoiato, il giornale di bordo della nave mercantile.

Bastano le prime pagine.

Non si aspetta nulla di diverso. Non è mai nulla di diverso.

Trasmette l’autorizzazione all’ingresso. I fari che indicano la rotta da seguire per imboccare l’orbita planetaria illuminano la via siderale.

 

bocchediporto aperte

 

La nave d’argento e vetro bianco latte supera le boe di segnalazione. E’ un insieme cristallino di ombre e riflessi, e nastri e onde di deboli luci iridescenti si susseguono nelle profondità traslucide della sua superficie. E’ più simile a una creatura marina che a un mezzo di trasporto.

Del via vai fra gli universi, la sola cosa che cambia è l’architettura delle navi.

 

 

* * *

 

 

I due bambini si rincorrono nella sala da almeno mezz’ora, senza interrompersi un istante, lanciando risate e grida acutissime, urtando e infastidendo un gran numero di presenti. Ne ricavano sguardi più o meno indulgenti, più o meno irritati.

I genitori non accennano a intervenire.

 

urlo, corsa, urlo, corsa, avanti indietro avanti indietro avanti indietro

 

Hō’ike I Maka si sfrega le tempie per focalizzarsi sui suoni musicali e i pensieri della creatura marina immersa nel canale di fronte a lui, piuttosto che sul frastuono, fisico e mentale, che lo circonda.

Preferirebbe di gran lunga lavorare nell’isolamento del suo ufficio, ma è il cliente ad avere voce in capitolo e questa cliente vuole l’atmosfera chiassosa della sala. Ondate di soddisfazione e appagamento sono un continuo ronzio melodico che ne marca i pensieri consci.

Non ha idea del perché desideri rumore e folla. Le ragioni delle sue preferenze giacciono in abissi troppo profondi del suo inconscio perché possa percepirle. In ogni caso, non è detto che sarebbe in grado di capire un sistema di valutazione alieno. Sapere non significa necessariamente comprendere.

Forse per lei è solo curiosità. Qualcosa che sperimenta così raramente, nel suo regno acquatico, da diventare un piacere da assaporare, come un cibo esotico.

 

La creatura alza la mano palmata per indicare una delle pause che deve compiere a intervalli regolari per non disidratare l’epidermide e le branchie delicate.

Si immerge con il movimento liquido di un delfino. Nella manovra espone il dorso, dove la forma umanoide si fonde in quella di pesce.

Hō’ike cerca di rilassarsi.

 

Dalle vetrate convesse, si gode un perfetto panorama del tramonto su un oceano color rame. Ma pesanti nubi violacee dagli orli abbacinanti si ammassano all’orizzonte e schermano il Sole, lasciando filtrare solo alcuni raggi rossastri.

La luce è gialla e brillante, priva di sfumature. Le cose illuminate oppure buie, senza toni intermedi, ma le zone oscure si espandono in fretta, le ombre discendono le scogliere, le trasformano in masse nere disseminate di luci artificiali.

A questa latitudine, la notte cala quasi all’improvviso.

 

I due bambini strillano e ridono e schivano a malapena un gruppo di leonesse coricate di fronte a una delle grandi finestre, intente a conversare e leccarsi reciprocamente.

Uno dei felini scopre le zanne all’indirizzo dei disturbatori e sbatte nervosamente la coda. Il flusso di collera e voracità è un lampo accecante, subito represso quando una delle sue compagne la colpisce gentilmente sul muso.

La leonessa si rovescia sulla schiena e torna alle chiacchiere con le amiche.

I bambini continuano a correre. 

 

Lasciarli liberi così…

Un atteggiamento insensato, da parte dei genitori.

Insensato e molto imprudente.

 

avanti indietro avanti indietro avanti indietro avanti indietro

 

Non c’è neppure la speranza che la confusione si plachi con l’avanzare della sera.

Nella città porto non c’è differenza fra giorno e notte. L’attività non si interrompe mai, le navi giungono e partono in qualsiasi momento, la folla è un flusso sempre uguale, nella sua infinita differenza.

A scandire le ore ci sono solo i programmi di viaggio e per chi proviene da un altro universo non ha senso riferirsi al tempo locale di un pianeta.

 

La sirena riemerge e smuove delicatamente l’acqua con la coda verde e viscida, richiamando la sua attenzione.

 

 

* * *

 

 

Abbraccia le loro menti e ognuna di quelle menti comprende anche quelle dei propri famigli.

Le contiene tutte nella morsa del suo pensiero, collegate in modo da farle agire come la mente di un unico organismo.

Li tiene come terrebbe delle farfalle fra le mani, senza stringere troppo per non schiacciarle, senza allentare troppo la stretta per non farle fuggire.

Fuggiranno ugualmente. Non può trattenerli, non può legarli, non può unirli. A meno di distruggerli.

Può solo, per un po’, far credere loro di essere una sola cosa.

 

E’ una fune di fili avvolti su fili. Un insieme più forte della somma delle parti.

due in uno

E’ un coro. Voci diverse, ognuna si aggiunge e porta il suo contributo alla sinfonia, a comporre un suono impossibile per una sola voce.

tre in uno

E’ una sinergia.

molti in uno

 

I loro sensi diventano suoi.

Diventa loro, diventa tutti.

 

La rete mentale si allarga nello spazio e sul pianeta.

 

 

* * *

 

 

Le leonesse smettono di conversare per osservare qualcosa al di là delle vetrate ricurve. Anche i due bambini si fermano e richiamano i genitori perché vengano ad ammirare con loro quel fenomeno.

 

Dove non è coperto di nubi, pennellate e veli ondeggianti di luce verdastra danzano nel cielo notturno.

 

 

* * *

 

 

Il tempo è stato rappresentato come un fiume, come una corrente, come un’onda. E’ stato figurato come una ruota, una serie di eventi ciclici e ripetuti, oppure come una continuità lineare e misurabile di circostanze, messe in fila come perle di una collana. E’ stato immaginato come un albero, con un tronco da cui diparte un numero infinito di rami.

Innumerevoli razze e culture hanno dato la loro interpretazione del tempo.

Luxord non immagina il tempo e non usa né parole né concetti per descriverlo. Sa com’è.

Una cosa, però, può dirla.

Il tempo è plastilina. Può essere modellato.

 

 

* * *

 

 

Per un istante, il flusso empatico in cui è immerso si è interrotto.

Non solo il continuo e soddisfatto ronfare mentale della sirena. Tutto. Quello della persona di fronte a lui, su cui è concentrato, quello di fondo delle entità presenti nel porto, persino il substrato emotivo più o meno forte, più o meno mutevole, più o meno comprensibile, ma sempre presente, del pianeta, formato dalla somma di tutte le creature viventi su e intorno a esso.

 

Impossibile.

 

Eppure, l’interruzione c’è stata. E’ stato come l’effetto risultante dell’emissione di due armoniche di uguale frequenza in antifase. I suoni si sono annullati.

Il lavoro di traduttore al porto dimensionale non consente errori e non percepire le giuste sensazioni è la prima fonte di errori, quando si ha a che fare con alieni. Deve capire cosa ha causato quella sospensione di segnale.

Hō’ike si scollega dal pensiero della cliente per effettuare una ricognizione dello spazio mentale.

Tanto, la creatura non se ne accorgerà.

 

Si porta istintivamente una mano alla fronte, accecato.

 

Non un errore. E’ stata un’interferenza.

Nel mondo mentale si è generata una singolarità, un punto infinitesimo. E’ la sorgente dell’armonica negativa che ha cancellato le frequenze empatiche e provocato il vuoto nello spettro emotivo planetario.

La singolarità esplode.

Un lampo. Non di luce. Di buio.

 

Impossibile.

 

L’onda di disturbo si spiega e si espande in progressione esponenziale.

 

 

¿cosa?

 

 

Lo hanno avvertito tutti coloro capaci di addentrarsi nel mondo mentale. L’etere si riempie di confusione, curiosità, stupore.

 

 

¿cosacosacosacosacosacosacosa?

 

 

Diventa cosciente che alcuni dei presenti nel porto si stanno meravigliando per un’aurora boreale. Registra l’evento e lo accantona.

 

Il fronte d’onda della singolarità lo investe insieme al suo mondo e cancella le domande.

La dimensione mentale si ottenebra, inghiottita da un velo d’ombra.

Poi, il tempo si interrompe.

 

 

* * *

 

 

La rete che cabla le comunicazioni planetarie subisce un arresto. In casi simili, i sistemi suppletivi si riattivano con un ritardo dell’ordine dei picosecondi.

Questa volta non si riattivano più.

E’ un’interruzione nella continuità temporale. Istanti o anni, è ininfluente. Luxord dilata quell’atomo di tempo per dare alla sua gente tutto il tempo che occorre.

E c’è lo spazio e anche lo spazio può essere plasmato, ripiegato, compattato.

 

Al limite superiore dell’atmosfera, la nave rilascia uno sciame di piccoli moduli, come uova di un corallo nella corrente.

 

Due figure ammantate di nero, avvolte in gusci di fulmini e correnti di plasma incandescente, si materializzano nella ionosfera, l’una agli antipodi dell’altra, alle estremità opposte di una perpendicolare all’asse che unisce i poli magnetici del pianeta.

Nubi di elettroni ad alta energia e di fotoni frangono l’uno con l’altro. Ultrafili di Luce si spiegano in strutture a ragnatela espanse in ogni dimensione locale di quell’universo.

 

Uno sciame di vascelli di cristallo bianco emerge dal Mondo in Mezzo.

I satelliti globulari si insediano nelle orbite stabilite e iniziano a trasmettere rilevamenti alle navi.

 

Nello spazio contratto, nel tempo dilatato, gli eventi diventano simultanei. L’attacco è contemporaneo su tutto il pianeta.

 

 

* * *

 

 

L’atmosfera del pianeta si è trasformata in un maelström di luci accecanti in migliaia di colori, una tavolozza rimescolata da un moto incessante e frenetico.

La luminosità non proviene da nessuna fonte. E’ l’aria che genera luce. E’ diventata, essa stessa, luce. Le ombre sono completamente obliterate.

 

Nella luce, compaiono strane forme. Sagome pallide dalle proporzioni così improbabili da farle sembrare disegni surreali. Zampe raptatorie di mantide, lame invece di arti, teste senza lineamenti. E movimento.

Un movimento continuo, erratico, apparentemente casuale. Sembrano non esistere neppure sempre in questo mondo. Slittano dentro e fuori dalla dimensione e non è possibile prevedere dove appariranno l’istante seguente.

Nonostante la sua familiarità con creature di ogni genere, non riesce a definirle altro che cose. Spettri. Incubi.

 

corri

 

Hō’ike non ha mai creduto di poter avere paura della luce.

 

 

* * *

 

 

Vento.

Un sibilo. Un fischio. Un urlo.

Alza la sabbia, i sassi. Solleva l’acqua, la spezza, la riduce in gocce. Trasforma le gocce in aghi, la sabbia in chiodi.

Ogni ago e ogni chiodo porta via un frammento di pelle, carne e ossa.

Coloro che ne sono toccati si sgretolano e si sciolgono e adesso il vento porta via anche aghi di sangue e lascia dietro corpi scarnificati.

Al centro dell’uragano, una figura nera e sei vortici. Soffiano come nidi di serpenti e ruggiscono come draghi.

I vortici si allargano, coprono terre e mari. Trascinano con sé correnti di aria incandescente, cenere e rocce vaporizzate, roventi flussi piroclastici.

Il respiro del pianeta diventa fame.

 

 

* * *

 

 

corri

 

Una moltitudine di creature di forme, masse, dimensioni diverse, si riversa in una fuga spontanea e incontrollata nelle strade della città scavata nella montagna, a quel punto trasformata in una trappola.

I fuggiaschi incespicano e si intralciano a vicenda e sbattono contro gli ostacoli sul loro cammino. La luce li rende ciechi quanto l’oscurità.

Esseri biancastri li fiancheggiano. Si lanciano fra loro, li falciano con arti simili a rasoi.

Un gruppo di soldati coperti da pesanti corazze schermate combatte contro quelle figure bianche. Alcuni cercano di indirizzare i civili e coprire loro la fuga.

 

Hō’ike fa di tutto per restare in mezzo alla folla. Fra tanti, le probabilità che attacchino proprio lui diminuiscono.

Si ritrova sbatacchiato tra corpi multiformi, trascinato dalla massa stessa. Ha intravisto la Direttrice Hane’elekia. Per un po’ hanno corso insieme, ma, in qualche momento durante la fuga, sono stati separati e, in un istante, lei è sparita.

 

L’attacco è stato talmente rapido che può essere definito istantaneo. Non c’è stata transizione. Non è che non riesce a ricordarla. Non c’è stata.

L’istante prima tutto appariva normale. L’attimo dopo il pianeta era in fiamme.

Solo quel lampo telepatico che ha oscurato il mondo mentale, ma nel mondo mentale il tempo è differente. Al di fuori, non è stato avvertito nulla.

Come se il tempo avesse effettuato un salto tra una condizione precedente e una successiva, dimenticando tutto quello che ci sta in mezzo.

 

L’aurora boreale. C’è stata l’aurora.

 

Gli brucia la pelle, come se fosse scaldata dall’interno, e ha un po’ di nausea.

 

Uno dei profughi, una creatura simile a un’aragosta dalle dimensioni di un cavallo, usa le chele taglienti, i palpi buccali e la corazza chiodata per passare attraverso coloro che si frappongono fra lei e la via di fuga. Gli esseri più fragili e lenti sono schiacciati contro i pavimenti e le pareti.

Un soldato apre il fuoco e la creatura si consuma in una fiammata azzurra.

Lampi di energia mentale si confondono nella luminosità diffusa, ma sono deboli. Si disperdono nell’interferenza che ottunde l’etere. Si è in gran parte dissipata, ma non consente una focalizzazione fine.

Guerrieri dotati di facoltà metapsichiche impegnano i loro avversari con attacchi telecinetici e pirocinetici. Almeno quelli funzionano. Possono essere scagliati senza la sottigliezza necessaria alla fragilità della comunicazione telepatica.

Un’intera parete si scioglie, scorre e si risolidifica intorno agli esseri bianchi in una massa di plastica cristallizzata. Le creature ci passano attraverso.

Prima di essere del tutto completato, il processo di solidificazione si inverte e resta solo una pozza di plastica liquida.

 

Un bambino, uno di quelli che giocavano nella sala del porto, si scaglia contro una delle ombre bianche. C’è una fontana di sangue e il bambino è solo carne e fluidi organici che filtrano nel pavimento.

 

corri

 

 

* * *

 

 

Il mare si solleva. Le onde si rompono in schiuma. Si formano creste, prima solo dove frangono sugli scogli e sui bacini di ancoraggio, poi anche sulla distesa sabbiosa della spiaggia.

L’ultima onda non defluisce del tutto. Il riflusso rallenta e si interrompe, l’acqua si solleva, assume una forma, umana e grondante.

Mormora fra sé, una specie di mugolio musicale.

C’è un suono di risucchio e il mare si ritira in sé stesso. Si scopre tutta la spiaggia, il bagnasciuga e bassi fondali, e le acque continuano la loro fuga.

L’oceano sembra scomparire.

I pesci, sorpresi dalla secca improvvisa, sussultano in agonia.

All’orizzonte, cresce una muraglia d’acqua.

 

 

* * *

 

 

Alla fine, Hō’ike ha abbandonato le moltitudini in fuga. Ora, la sicurezza del restare in mezzo a una massa è inferiore al pericolo che essa stessa rappresenta.

I fuggiaschi non sopravvivranno in nessun caso. Se non saranno distrutti dai nemici, finiranno per farsi a pezzi da soli. Oppure saranno sterminati dai soldati.

Non può certo biasimare questi ultimi per avere aperto il fuoco sulla folla.

Alcune di quelle creature sono dotate di un armamentario naturale letale, che usano istintivamente nel momento in cui si trovano in pericolo. Contro gente con cui, fino a pochi minuti prima, hanno conversato. Ma, adesso, non pensano più. Sono solo paura cieca e tutto quello che si para davanti al loro cammino è un nemico da spazzare via, compresi coloro che cercano di difenderli.

Fanno quasi più vittime degli stessi attaccanti.

Meglio tentare le vie secondarie che precipitarsi lungo le grandi arterie principali e finire schiacciati o dilaniati.

Nel mare di luce allucinata ha seguito tentoni le pareti, sino a quando non ha raggiunto la prima rampa di scale e ha cominciato a scenderla, tenendosi aggrappato al corrimano.

 

Come si è salvato sino a quel momento, non ne ha idea.

Forse grazie all’abitudine a controllare i propri pensieri, a tenerli ben distinti da quelli di coloro che incontra. A non essere travolto da emozioni estranee. A non essere travolto da emozioni di nessun genere, perché quando si ha a che fare con alieni, le emozioni possono rappresentare una rovina.

Di quello può essere orgoglioso. Non avere perso il controllo, non essersi lasciato andare al panico, non arrendersi alla follia che ha seguito l’arrivo delle cose bianche.

Non avere fatto come quelli che si sono lanciati contro di esse, urlando rabbia e uccidiuccidiuccidiuccidi e, urlando, sono morti.

Sono stati tanti. Più di quanti avrebbe mai creduto possibile. Non solo coloro appartenenti a specie naturalmente aggressive. Anche quelli che avrebbero dovuto solo tremare, di fronte a esseri simili.

 

Potrebbe persino essere sopravvissuto grazie alla stessa nova mentale che ha offuscato le sue capacità telepatiche.

E’ stato come muoversi in una nebbia fitta e, forse, non è riuscito a percepire quello che hanno provato quelle persone.

Almeno, non ha dovuto ascoltare le grida di morte di tutte quelle creature intrappolate, ma, adesso, la nebbia psichica si è dissolta qual tanto che basta perché, anche se la comunicazione è ancora impossibile, la visione casuale e caotica non sia altrettanto repressa.

Gli arrivano immagini.

Sono solo pensieri vaganti, scene fissate negli occhi di testimoni quasi certamente già morti, trasmesse nell’etere come testamento.

 

Il pianeta è perduto. Su questo non ha dubbi.

Non arriveranno aiuti. L’immediatezza dell’attacco, la nova mentale e il crollo dei sistemi hanno impedito l’invio di messaggeri negli altri Mondi e qualsiasi comunicazione nei pianeti abitati di questo stesso universo, così come hanno inibito ogni forma di difesa coordinata, ammesso che sia mai stata possibile, o ce ne sia mai stato il tempo.

Hanno accecato il mondo. Lo hanno reso sordo.

Coloro che usano il pianeta come svincolo per navigare fra le dimensioni si accorgeranno presto dell’accaduto, ma non abbastanza presto. Chi si trova qui, è solo.

Possono scappare dove vogliono. Quelle cose appaiono dovunque. Non ci sono aree da difendere, né luoghi dove nascondersi.

 

Diluvi di fulmini, mirati come se fossero guidati da una volontà senziente, si abbattono sugli approdi.

 

Vagamente, capisce la tecnica dei loro aggressori. Il terrore è solo una delle armi che usano. Un’arma efficace, che alimenta sé stessa.

Non hanno intenzione di catturare un mondo popolato. Vogliono la sua posizione ed è un’operazione di pulizia, quella che effettuano. Il che significa che non c’è possibilità di arrendersi o trattare.

Il solo modo per salvarsi è lasciare il pianeta e per il solo modo per lasciare il pianeta è salire su una delle navi in decollo. Ma i moli sono al livello del mare e, per arrivare a quel livello, deve scendere la città piano per piano. A piedi, perché ogni sistema elettromagnetico è saltato, compresi gli ascensori.

In queste condizioni, credere di percorrere chilometri di scale e corridoi è irreale. Comunque, le navi non possono effettuare il salto dalla superficie e non sa quante, di quelle in grado di partire, siano ancora ormeggiate.

Tanto, non ci pensa.

Raggiungere una nave è un traguardo nebuloso posto in un futuro improbabile, anche questo non lo trattiene dal provarci.

A non fare nulla, si pietrificherebbe nella paura. Invece, così, riesce persino a ragionare con lucidità.

Basta solo limitarsi alle azioni concrete.

Scendere una rampa di scale. Arrivare a un livello. Cercare ed evitare presenze nemiche, o anche amiche, perché in questo momento c’è poca differenza fra le due cose.

Sopravvivere ogni secondo successivo al presente.

 

Il mare si solleva in successioni impossibili di onde anomale.

 

Il dorso delle mani è diventato nero a causa di emorragie sottocutanee e di bizzarre ustioni. In alcuni punti, l’epidermide comincia a staccarsi in sfoglie accartocciate.  

Radiazioni.

La luce significa solo quello. Le pareti rocciose che proteggono questa città scavata nella montagna servono a poco contro quella forma di radiazioni, originate non da una sorgente esterna, ma da un’alterazione del tessuto dell’universo.

Radiazioni e l’eccesso di energia psichica che affoga il mondo e si riflette a livello somatico sui più sensibili.

 

Il vento trascina con sé fiumi di fuoco.

Città travolte da cascate di cenere e gas vapori roventi, masse piroclastiche che cancellano tutto quello che incontrano.

 

Il pianeta è perduto perché è il pianeta stesso a rivoltarsi contro coloro che lo chiamano casa.

 

Si prepara a percorrere una nuova rampa di scale.

Non è neppure sicuro di salire anziché scendere.

 

 

* * *

 

 

La risposta all’attacco è stata rapida, per quanto dispersa e disorganizzata.

Ci sono eserciti muniti di armi al plasma e sistemi robotizzati guidati da apparati di navigazione laser. Armamenti sopravvissuti alla marea fotonica iniziale, che ha messo in ginocchio le comunicazioni artificiali e il grosso delle difese.

Anche se quei meccanismi sono schermati, non sono isolati. Non possono esserlo, per essere attivi.

Sono tutti dipendenti da impulsi elettromagnetici e tutto quello che è elettromagnetismo è la più pura manifestazione di Luce esistente negli universi.

 

cambio configurazione

 

Roxas discende dai cieli. Dove posa piede, la terra si vetrifica.

 

I difensori del pianeta si trovano a contrastare il nemico sbagliato con le armi più inappropriate possibili. Lo combattono con un’espressione della sorgente stessa del suo potere.

Il ragazzo salta di continente in continente con un pensiero, interrompe i flussi ondulatori che danno vita e sensi a quelle armi e i pesanti automi cadono ciechi e sordi.

Restano le forza umane, ma sono un ostacolo minore.

Sono lenti, tutti loro. Lenti nel muoversi, nel vivere, nel pensare. E’ come se fossero fermi.

Sono fermi, per Roxas.

Anche senza il teletrasporto, si muove a una velocità tale da renderlo, per quegli esseri, onnipresente. Lo percepiscono solo come una scia indistinta di luce. Molti non lo percepiscono proprio.

Passa fra le folle di nemici, li colpisce con tocchi così lievi che quasi li sfiora soltanto. La velocità trasforma il suo tocco in una forza devastante. Le ossa si frantumano come cristalli colpiti da una pietra, i muscoli si riducono a masse gelatinose, gli organi si disintegrano.

Alcuni li afferra e li trascina con sé nella sua corsa. I loro corpi si vaporizzano per il calore e l’attrito. Altri, travolti da quel calore, cadono senza neanche essere toccati. Quello che collide contro di lui si dissolve contro il guscio di Luce che lo avviluppa.

Non ha neppure evocato i keyblade.

 

 

* * *

 

 

Una cosa gli blocca la strada. Una delle cose comparse dal nulla.

Nella luce, non ne distingue bene i dettagli, ma quello che vede è anche troppo.

Ha braccia spropositatamente lunghe e le usa come trampoli per sostenere un corpo grottescamente gracile, da embrione malformato.

Vorrebbe poter ridere per l’aspetto di quell’essere, come ha riso spesso per l’aspetto dei viaggiatori. Fra sé, almeno, o con i suoi colleghi. Mai, naturalmente, in faccia a loro.

Ma non è possibile.

 

uccidi

 

E’ un’implorazione.

 

Deve allontanarsi, scappare, mettere più spazio che può fra lui e quella cosa.

 

uccidiuccidi

 

E’ un ordine.

 

Piega le dita come fossero artigli.

 

uccidiuccidiuccidi

 

E’ un imperativo.

 

E’ logico avere paura di esseri sconosciuti che emergono dal nulla per distruggere. E’ logico anche odiarli.

Quando se ne ha tempo. Quando se ne ha modo.

Non è così logico provare verso di essi un odio e una rabbia capace di superare ogni istinto di sopravvivenza.

Non è logico sentire urlare quella voce nella propria testa – nel proprio Cuore – e uccidiuccidiuccidi

 

Il mostro dondola con un moto nauseante, bilanciandosi su quei suoi arti ridicoli.

E’ come vedere il disegno di un oggetto a quattro dimensioni. Solo una rappresentazione che non può, neppure lontanamente, abbracciarne la completezza.

 

E’ sicuro che ascolterà quell’ordine perentorio e si lancerà contro la cosa per farla a pezzi e sarà lui a morire.

 

UCCIDIUCCIDIUCCIDI!

 

 

* * *

 

 

Fiammelle bluastre danzano sull’estremità di ogni oggetto appuntito, ma scompaiono nella luce abbacinante, anche se qualcuno fosse tanto attento da accorgersi di esse.

 

Larxene guarda il cielo e le correnti convettive che percorrono i nembi come grovigli di vene in un corpo, spinte dal vento, nutrite dal calore.

Così è più semplice. Non obbligare le forze della natura, solo guidarle, solo sostenerle. Correre con esse.

Lasciare che seguano il loro corso, ognuna conseguenza delle altre, interdipendente da esse.

Un organismo unitario.

 

Il gradiente elettrico fra terra e cielo cresce.

 

Le onde di Luce interferiscono anche con lei, ma ora non ha bisogno di precisione.

E’ una tempesta elettrica, quella che si scatena, e colpisce a caso.

 

 

* * *

 

 

Qualcuno spara contro il mostro. E’ uno dei soldati corazzati, forse rimasto isolato dal resto dei suoi compagni.

I proiettili trapassano il bersaglio senza causare alcun effetto evidente, se non che la creatura volge la sua attenzione all’aggressore e questo va bene, perché la distoglie da lui.

L’essere dondola sulle braccia a trampoli, sulle mani a forma di ventosa. Ma quelle mani si espandono al suolo e scorrono in rivoli liquidi. Ricorda un’ameba che allunga i suoi pseudopodi verso un protozoo. E il paragone non è così azzardato. La massa della cosa defluisce lungo le braccia, nelle mani, negli pseudopodi, si rimpicciolisce, diventa un gomitolo di filamenti sottilissimi. Poi, quei filamenti si scagliano sul soldato, lo avvolgono e scompaiono, assorbiti dalla corazza.

Quelle armature sono schermate da scudi energetici, ma forse sono inattivi a causa delle radiazioni o, forse, quell’entità non ha niente a che vedere con l’energia. Forse quelli in cui si è trasformata sono solo fili materiali, troppo sottili per essere fermati dalla corazza e troppo corporei perché siano bloccati dai campi.

Il volto dell’uomo, la sola cosa visibile attraverso il visore trasparente, si contorce. I filamenti lo stanno avvolgendo e penetrano la pelle come hanno attraversato gli strati di ceramica e metallo.

Il soldato esplode all’interno della sua armatura. La tuta loricata cade in una pila di elementi che subito si ricopre dello stesso groviglio di fili bianchi che tornano a riunirsi, mentre il mostro riemerge in un’inversione della scena precedente.

 

Hō’ike non resta ad aspettare che termini di liberarsi dalle spoglie della sua vittima.

 

corri

 

Verso i corridoi interni, lontano da quella cosa, lontano dalle scale che portano ai livelli inferiori.

Corre fino a quando lo stomaco si trasforma in liquido.

Vomita spasmodicamente. Bile, schiuma, sangue e frammenti membranosi che preferisce non considerare, perché sembrano un po’ troppo pezzi di sé stesso.

Quando i conati terminano, non riesce più neanche a reggersi in piedi e striscia in una strada secondaria, quella più buia che riesce a trovare. Che non è buia, ha solo un grado di luce abbacinante in meno.

Ci sono dozzine di schermi. Addobbano strade, vetrine, pareti. E’ in uno dei livelli commerciali della città, quell’ibrido fra un accampamento e un mercato perenne. Una volta – qualche ora prima – gli schermi trasmettevano immagini e musica per invogliare turisti e acquirenti.

Ora sono spenti.

 

fermati

 

Rimane immobile. Cerca di trattenere persino il respiro.

Come quando era bambino e, di notte, si tirava le coperte sulla testa per tenere lontani i mostri che, sicuramente, strisciavano nell’oscurità della sua camera da letto.

Un’infinità di mostri tentacolati e zannuti.

Gli scricchiolii e le vibrazioni che si sentivano erano la prova che quei mostri si muovevano e lo cercavano, nella terra selvaggia in cui si trasformava la sua stanza quando si spegnevano le luci e le voci del giorno.

Se si fosse mosso, si sarebbero accorti di lui. Ma la coperta era un fortino sicuro. Lì era invisibile, se restava fermo, se non si scopriva la testa.

 

riposa

 

 

* * *

 

 

Le navi avanzano, sprezzanti nella forza del loro numero e della loro potenza. Scavano ferite nella pelle dello spazio.

Xigbar/Luxord pizzicano e torcono quella membrana elastica.

Sbocciano miriadi di singolarità gravitazionali. Le navi si distorcono sotto l’influenza delle forze di marea e si lacerano quietamente nel silenzio.

 

Altri vascelli armati vogliono abbandonare il pianeta.

Basta moltiplicare il tempo nell’equazione della loro accelerazione.

Le navi non possono raggiungere la velocità che permetterebbe loro di allontanarsi dall’attrazione gravitazionale del mondo o di entrare in orbita intorno a esso, e ricadono sulla superficie.

 

 

* * *

 

 

Non ci sono più soldati, né fuggiaschi. Restano le ombre bianche, sparpagliate dovunque. Adesso, però, non saltano, non strisciano, non si spostano. Sono immobili, eccetto quell’ondeggiare ripugnante, e tutte hanno le teste deformi girate verso stessa direzione, il centro di una delle strade, un’area ristretta dove la luminosità è più intensa.

Hō’ike si risolleva dall’angolo in cui si è nascosto. Non si azzarda ad allontanarsi. Rimane solo a guardare quegli esseri, inebetito e perversamente affascinato dal loro oscillare, dal mutare del paesaggio nell’alternarsi troppo veloce di nubi di luce colorata, fino a quando un suono gracchiante spezza il silenzio.

Gli schermi trasmettono linee di statica.

Non dovrebbero. Non devono. Non ci sono più fonti di energia nella città, o nel mondo intero.

 

C’è qualcosa in mezzo al riverbero, proprio nel punto dove le creature sono rivolte.

Sono prima solo linee sottili, interruzioni nere delle masse cromatiche di luce. Ma quegli scarabocchi emergono man mano dall’oceano abbacinante, prendono corpo e aspetto e si muovono per la strada della città morta.

Due esseri umanoidi, coperti di nero, incappucciati di nero. La severità degli abiti è contraddetta dai loro passi. Camminano come leoni in una savana.

I mostri riacquistano vita e li attorniano in una corte di incubi.

 

I microfoni gracchiano impazziti.

 

Una delle due figure è scomparsa.

Campanelli d’allarme che non sapeva neppure di avere suonano all’impazzata ed è travolto da una zaffata di un odore pungente che non ha nulla a che fare con l’olfatto.

Odore di paura e di quelle cose che, qualche volta, si vedono con la coda dell’occhio negli angoli in ombra e sulle pareti e, quando si guarda attentamente, si scopre che non c’è nulla.

Si volta e l’essere è lì, a due passi da lui, accovacciato su un lampione alle sue spalle.

Ha la testa scoperta, adesso, il cappuccio ricaduto sulla schiena. Hō’ike resta un po’ sorpreso nello scoprire che è un ragazzo giovanissimo, quasi un bambino. Biondo, delicato come una di quelle costose bambole di seta e porcellana importate dalla Terra dei Draghi, con occhi come gli occhi di una pantera rabbiosa.

 

Non lo ha visto muoversi. Sa solo che l’istante prima era lontano, un’ombra fra la luce, e ora è proprio di fronte a lui.

Il suo equilibrio è impossibile. Sull’estremità del lampione, il corpo lievemente curvo in avanti, come se fosse pronto a saltargli addosso, la braccia mollemente penzoloni fra le ginocchia piegate. Non esiste modo per cui non cada e questa è la cosa più orribile di tutte. Dà la vera misura di quanto questo ragazzo sia differente.

Non un ragazzo. Sembra un ragazzo, ma è una somiglianza solo superficiale e neppure tanto buona.

 

uccidiuccidiuccidi

 

Non sbatte le palpebre. Ha lo sguardo fisso di un pesce.

Sorprendente quanto sia spaventosa la mancanza di un gesto tanto automatico da essere, in realtà, quasi inavvertibile.

Non è possibile scambiarlo, anche solo per errore, per un essere umano.

E’ come la cosa bianca.

 

uccidiuccidiuccidi

 

Hō’ike allunga cautamente propaggini di pensiero e quello che incontra è lo stesso vuoto emotivo percepito appena prima dell’attacco al pianeta.

Si ritrae subito.

Non aveva capito, prima. Non ha avuto modo e tempo per capire. Ora capisce.

 

corri

 

Una volta è sfuggito loro, ma Essi non hanno dimenticato e lo hanno inseguito. Sono usciti dalle ombre e hanno strisciato lungo la strada che porta a lui.

Ci hanno messo molto, a trovarlo. Tanti anni, ma non hanno mai perso la sua pista e, alla fine, sono arrivati.

I mostri lo hanno raggiunto.

 

Corri!

 

Non è come lo aveva immaginato con la fantasia di un bambino. Non un orrore tentacolato e viscido e deforme e rivestito di tenebre. Ha un volto giovane e innocente e porta la Luce.

E’ molto più alieno della cosa bianca.

 

CORRI!

 

Retrocede. I primi passi li fa lentamente, poi è una fuga precipitosa.

Il ragazzo - cosaMOSTRO - resta immobile, in bilico sul lampione, lo sguardo fisso a dove lui si è trovato fino a qualche istante prima, indifferente alle sue azioni.

 

CORRI!

 

Fino ad arrivare al pozzo centrale che attraversa tutta l’estensione della città, ed Esso gli è davanti, a sbarrargli la strada e, ancora, Hō’ike non ha visto come si è mosso.

L’essere ha la testa leggermente sollevata per osservarlo in faccia. E’ così piccolo che gli arriva a malapena al mento.

Sembra una cosa inanimata, un manichino in grado di prendere vita e capacità di movimento quando non lo si guarda.

 

Fra le dissolvenze trasmesse dagli schermi, danzano immagini fantasma. Spettri e sagome filiformi.

Il gracidare dei microfoni ha assunto una componente di armoniche metalliche e ripetute. Schemi complessi, ma non cacofonici.

E’ quasi musica.

 

Lo credeva impossibile, ma la luminosità aumenta ancora.

Il ragazzino, ora, è una sottile barriera fra questo mondo e una dimensione di luce accecante.

E’ come guardare un oggetto di vetro traslucido davanti al sole.

 

Un velo rossastro gli offusca la vista. I suoni diventano rimbombanti e, insieme, smorzati. La stessa sensazione di quando si è sott’acqua. Sente il battito del suo stesso cuore e qualcosa gli bagna il collo.

Sangue. Perde sangue dagli occhi e dalle orecchie.

 

Gli schermi esplodono e riversano fumo e interiora di plastica. Esplodono finestre, vetrine, lampade e ogni singolo oggetto di materia a matrice cristallina. Poi si frantumano anche i frammenti, e i frammenti dei frammenti, in una catena di scomposizione progressiva, fino a quando resta solo una patina di polvere impalpabile e brillante che ricopre ogni cosa, lui compreso.

Ma quella cenere di cristallo non si deposita sul ragazzo. Gli orbita intorno, invece, e forma disegni, come limatura di ferro gettata su un campo magnetico.

 

Il sole brillabrillabrillabrilla come non mai.

Strano ritrovarsi a guardare il sole. Strano perché sono nelle viscere di una scogliera con nessuna apertura verso l’esterno.

Strano anche perché non ha più occhi per vedere.

 

L’universo intero è Luce e nella Luce si scioglie.

 

 

* * *

 

 

La prima volta che ha assistito a un’alba dallo spazio, Braig aveva cinque anni. Viaggiava con la sua famiglia, dal loro pianeta natale verso Radiant Garden.

La nave si era fermata nelle vicinanze di uno dei tre giganti gassosi del sistema solare, a una distanza sufficiente a permettere una visione completa del pianeta con i suoi anelli di ghiaccio e detriti. Avevano spento l’illuminazione della sala panoramica del vascello e sua madre lo aveva preso in braccio.

Lo spazio era un buio disseminato di luci, interrotte solo dove la massa planetaria eclissava le stelle. Poi era successo qualcosa. Gli anelli del grande pianeta si erano accesi. Non tutti insieme, non come un flash. Invece, un’onda di luce si era generate da un punto al di là della mole del mondo e li aveva percorsi, spazzando via le ombre.

Infine, la stella aveva oltrepassare l’orizzonte planetario.

Ricorda tutto perfettamente. Con la trasformazione in nobody, molti dei suoi ricordi sono scomparsi, ma non quello.

Da quella volta, ha assistito allo spettacolo più e più volte. Questa è solo una delle tante, eppure, nonostante ciò, la scena non ha mai perso nulla del suo fascino. Ha solo aggiunto un grado di definizione maggiore, ora che lui non vede più il cosmo e le stelle solo con gli occhi.

Gli piace credere che quella prima aurora è stato il motivo per cui ha scelto poi la sua professione. Se è così, è anche la causa prima del suo stato attuale.

 

“Capisco perché ami tanto tutto questo, Xigbar.”

 

L’uomo distoglie l’attenzione dall’aurora, ignorando le informi masse contratte alla deriva che sono state navi, per rivolgerla al giovane avvolto in una postazione in parte scranno, in parte bozzolo di tentacoli metallici, filamenti luminosi e proiezioni olografiche.

Non è tempo di godere della grazia dello spazio.

 

“Allora, adesso mi dici che cazzo stai combinando?”

“Prego?”

 

La voce di Zexion risuona blandamente divertita.

E’ intento a scollegarsi dall’apparato da dove ha diretto e controllato il coro mentale e non è certo il momento adatto per discuterci, mentre fa ritrarre le terminazioni biomeccaniche dai suoi arti.

Ma, negli ultimi mesi, Zexion è sempre stato occupato con Oblio, con Roxas, con tutto il suo lavoro, dichiarato o meno, e da molto tempo Xigbar non ha occasione di trovarsi solo con lui.

Ora non ha intenzione di mancare quest’opportunità. Se la trascura, è sicuro che il telepate gli sfuggirà di nuovo. E si rifiuta di chiedergli un incontro, nemmeno dovesse supplicare un’udienza con un re. Sarebbe solo dare a Zexion un vantaggio di cui non ha proprio bisogno.

 

“La favola che hai raccontato. Riuscire a fissare la nostra condizione. Niente più paura di degenerare o di svanire nel nulla. Ti rendi conto di cosa hai causato?”

“Ti disturba la teoria in sé o il fatto che l’ho esposta a tutti? Avrei dovuti riservarla a noi sei?”

“Sicuramente avresti creato meno scompiglio.”

“Se mi fossi limitato al nostro circolo privato, cosa sarebbe successo? Quello che è successo quando ho cominciato a parlarvene cinque mesi fa. Niente.”

“Così, invece, hai ottenuto di far andare Xemnas fuori di testa.”

“Xemnas deve imparare a rilassarsi o quelle sue emicranie non passeranno mai.”

“Non scherzare. Non è il momento.”

“Sei geloso del nostro territorio, Xigbar? Perché avrei dovuto tenere la cosa per noi?”

 

Zexion non sembra manifestare effetti collaterali negativi della spaventosa quantità di energia che ha veicolato, plasmato e diretto.

Tutt’altro.

Appare…

 

Appagato.

Soddisfatto.

 

Felice?

 

Eppure, questa volta, il suo ruolo avrebbe dovuto essere il più stremante.

Xigbar sa di essere stato parte di un’unità, eppure non ne serba ricordo. Nessuna sensazione di sdoppiamento, nessuna percezione estranea, nessuna alterazione fisica o psichica. Sapeva cosa fare, in risposta a ordini telepatici – tranne quella nuova, facile sensazione di onnipotenza, quando non sei più stato qui-e-ora, ma ovunque-e-sempre, non limitato a piccoli, puerili trucchi - che, per quanto lo riguarda, avrebbero potuto benissimo essere sue decisioni individuali.

Tutti loro non hanno fatto niente di diverso di quanto fanno di solito. Almeno, è stato così nella propria realtà soggettiva.

Pedine consapevoli di esserlo, ma senza coscienza di essere pedine.

Zexion no.

Lui si è dovuto assicurare di non stressare gli elementi del coro, non ridurre la loro efficienza, non mettere a rischio la loro incolumità. Ha dovuto far sì che non fossero distratti dalla battaglia, eliminare ogni elemento di disturbo e qualsiasi moltiplicazione di percezioni.

Lui ha dovuto preoccuparsi che nessuno finisse cortocircuitato dall’eccesso di informazioni o dalla loro estraneità, e impedire che si perdessero gli uni negli altri, incapaci di separarsi.

Lui ha dovuto dipanare i fili della rete mentale, ricevere segnali provenienti da sorgenti differenti e ritrasmetterli a tutti gli altri, selezionati, filtrati e modificati affinché risultassero comprensibili.

Lui ha dovuto coordinare i movimenti di ognuno, mantenere coscienza di tutti loro contemporaneamente e, intanto, restare consapevole delle variazioni ambientali e delle risposte da dare.

Dovrebbe essere, perlomeno, stanco. Ma, forse, dal suo punto di vista, è come se avesse appena finito un pasto particolarmente nutriente.

No. Non è proprio il momento adatto per affrontarlo.

 

Non ricorda quando ha cominciato a pensare a Zexion come qualcosa di antagonista a lui, qualcosa che deve essere studiato per accertarne punti deboli, ed è una considerazione disturbante. Anche se non abbastanza da volerla negare. Non è così imprudente.

 

Il giovane scollega l’ultimo terminale, si spolvera delicatamente il cappotto da polvere inesistente, accavalla le gambe e si appoggia allo schienale, in apparente contemplazione dello scenario. La plancia è un’isola galleggiante in uno spazio a mosaico. Sopra e intorno a loro, le pareti sono una cupola che proietta il pianeta e lo spazio circostante da diverse angolazioni, immagini sovrapposte a grafici e a un susseguirsi di dati.

 

“Tu non sai da che parte stare, vero, Xigbar?”

“Quindi è già tutto deciso. Ci sono parti tra cui scegliere.”

“Naturale che ci sono parti.”

“Allora spiegati. Quali sono queste parti? Sarò stupido io, ma non capisco perché dovrebbero esserci parti, fra noi.”

“I topi sono neofobi, sai?”

“Scusa?”

“Hanno paura delle novità e dei cambiamenti. Tutti i topi. E’ una loro caratteristica psicologica, costante in ogni topo, di qualsiasi specie, in qualsiasi universo.”

“Siamo finiti a parlare di topi, adesso?”

“Topi e neofobia. Sono argomenti importanti. La questione più importante degli universi. I Mondi ci sono rimasti invischiati nel modo peggiore. Se io avessi ragione, quale sarebbe la prima conseguenza?”

“La guerra finirebbe.”

 

Il telepate abbandona il seggio per dirigersi alla consolle di comando.

In uno dei triangoli sferici in cui è divisa la volta olografica, è tracciata la posizione di ogni singolo corpo nello spazio che li circonda. Molti di essi sono navi in fuga, una corsa precipitosa per raggiungere una finestra di salto dimensionale.

La gravità di qualsiasi massa si estende all’intero universo e oltre. E’ una forza capace di superare le dimensioni, proprio come il pensiero. Solo gli esseri viventi, solo alcuni esseri viventi, sono in grado di aprire e attraversare le porte fra i Mondi anche mentre sono prossimi a un campo gravitazionale intenso come quello sulla superficie di un pianeta. Ma le navi sono soltanto macchine, non possono fare quello che fanno loro. Per traslarsi, devono allontanarsi da ogni campo gravitazionale significativo. Devono immergersi nello spazio.

 

Zexion evidenzia il segnale di uno dei vascelli umani, uno di quelli in fuga dalla superficie, seguito e preceduto da due linee luminose e colorate. In blu la traiettoria della rotta percorsa fino a quel momento, in rosso quella estrapolata.

 

“La guerra non finirebbe. Se avessi ragione, sarebbe solo la comprova che non c’è modo di convivere in pace. Ma, almeno, finirebbe questa guerra e la prossima avrebbe molto più senso.”

 

Una seconda nave, una delle poche navi armate ancora sopravvissute della flotta umana, vira languida.

Le rette che tracciano il percorso dei due vascelli convergono e si intersecano a una distanza di pochi secondi dal presente.

La nave dei fuggiaschi non tenta neppure una manovra elusiva, né alcuna azione di difesa.

 

“Stanno scappando.” mormora placidamente Xigbar.

 

Non ottiene risposta. Sullo schermo, i segnali consumano le linee rosse, colorandole di azzurro, man mano che si avvicinano al punto di impatto.

Le due navi si scontrano.

 

“Quanti erano, Zexion?”

“Milleottocentotrentasei.”

“Milleottocentotrentasei persone inermi.”

“Milleottocentotrentasei nemici in meno.”

“Non potevano farti nulla di male.”

“Ora non potranno farmene mai più.”

“Tutta gente morta senza utilità. Dove è il senso?”

“Dov’è il senso nel permettere loro di vivere, senza utilità?” con un cenno della testa, Zexion indica una delle sezioni della volta “Guarda il pianeta, Xigbar. Cosa vedi?”

 

Sulla superficie, si addensano formazioni cicloniche di nembi, tanto vaste da coprire continenti interi. Il cuore dei cicloni risplende di fulmini bluastri.

L’intera magnetosfera brilla di aloni colorati. Il mondo è velato da immani aurore boreali.

In quell’istante infinito regalato loro da Luxord in cui le schermature sono state inattive, i terrificanti campi elettromagnetici rilasciati hanno distrutto buona parte delle difese dipendenti, in qualche modo, dall’elettronica e questo ha permesso di abbattere le altre difese.

Quando è riemerso da quell’attimo, il mondo si è trovato pressoché inerme.

Luxord ha proseguito con la sua opera, accelerando la velocità degli innumerevoli fenomeni ambientali scatenati e dei loro effetti.

In una manciata di ore, il pianeta ha subito una metamorfosi nelle sue condizioni naturali.

 

“Un’altra vittoria. Le mie congratulazioni.”

“Non è una vittoria.”

“Volevamo questo mondo e il mondo è nostro. Io la chiamo vittoria.”

“Facciamo un attimo il punto della situazione, Xigbar. Combattiamo contro un nemico che ci soverchia di numero in una scala tale che persino io fatico a considerarla. Ma noi utilizziamo gli heartless, che sono forniti proprio dal nostro nemico, quindi, fin quando avremmo avversari, avremmo forze disponibili e più gli avversari sono numerosi, più lo sono le forze da mettere in campo contro di loro, non importa quante ne distruggono. Anzi, la distruzione degli stessi contingenti che usiamo è lo scopo che ci prefiggiamo. Abbiamo innescato un sistema a nostro favore. Una situazione quasi ideale.”

“Ma?”

“Perderemo comunque. In ogni caso.”

“Perché, se abbiamo un sistema così efficace?”

“Secondo Marluxia, perché non abbiamo intenzione di vincere. Lui si è espresso in modo alquanto impreciso, ma il concetto è esatto, devo proprio dargliene credito. La maggior parte di noi sbaglia a stimare l’andamento della guerra. Il nostro sistema è basato sulla progressione geometrica degli heartless e il decadimento esponenziale degli avversari verso zero, con una costante di decrescita pari alla ragione di incremento degli heartless. Questo è uno dei problemi. Conduce a una valutazione errata. Ci fa credere di essere in guadagno, mentre in realtà, nel migliore dei casi, qualsiasi nostro successo è solo apparente. Non possiamo ottenere nulla più di un momentaneo pareggio. Se gli esseri umani perdessero decine di mondi per abbattere uno solo di noi, ugualmente avrebbero conseguito una vittoria. Per noi, ogni singolo caduto rappresenta una potenziale catastrofe. Non dovremmo tenere il conto di quanto guadagniamo e neanche del rapporto fra guadagno e perdita, ma solo di quanto perdiamo.”

“Come hai appena detto anche tu, le nostre forze ci sono fornite dal nostro stesso nemico. Quindi…”

“Non sono le nostre forze. Le usiamo, ecco tutto.”

“Ovviamente, ci sarebbero altri nobody.”

“Probabile. E con ciò? Se non ricaviamo almeno un solo nobody superiore da ogni mondo, possiamo, al massimo, essere in parità. Persino i nostri tentativi di generare nobody artificialmente non sono stati risolutivi. Troppi pochi esemplari e mai di rango superiore. E quale sarebbe il senso di avere nobody inferiori? Incrementare di qualche unità quelle poche centinaia che nascono ogni anno? Non farmi ridere. Ma, tanto, il fine di quel progetto non era aumentare il nostro numero, perché, in ogni caso, cosa avremmo ottenuto? Solo individui in più da riportare alla condizione precedente. Secondo l’attuale gestione, una sconfitta. Che razza di soluzione è quella che non fa altro che sommarsi al problema da risolvere? Il nostro scopo è far tornare umani i nobody. Cioè, nuovi bersagli per gli heartless, di cui noi stessi incoraggiamo la moltiplicazione. In pratica, cerchiamo di trasformarci in pecore per entrare in un recinto che riempiamo di lupi. E tieni conto che sto considerando l’ipotesi che noi si possa tornare umani. Cosa che, Marluxia e Roxas fanno notare, non è da ritenersi per niente scontata. Vedi, il nostro tentativo potrebbe risolversi o in un suicidio psichico generalizzato, oppure in un semplice fallimento. In quel caso… ci troveremmo in un universo sempre più saturo di ombre. E quante sarebbero le possibilità di sopravvivenza, allora? Il rapporto numerico fra noi e gli heartless è persino inferiore a quello che c’è fra noi e gli umani, perché dobbiamo mettere in conto anche quelli originati da forme di vita che nel loro stato primitivo non ci sono nemiche, e gli heartless sono un pericolo per noi più di quanto non lo siano gli esseri completi stessi, fosse solo che possono darci la caccia nell’Oscurità. Potrebbero persino saltare fuori altri Xehanort, altri Sora. L’universo intero potrebbe essere invaso dalle ombre, ogni essere completo preso da loro e avremmo solo scambiato un nemico con un altro, anche più potente, agguerrito e implacabile. Combattiamo forse per fare un favore agli heartless? Perché, in tutto questo, al momento sono gli unici a guadagnarci. Abbiamo questo mondo. Ci servirà per raggiungere altri mondi. A quale scopo? Ottenere qualcosa che, per quanto ne sappiamo, potrebbe distruggerci? Questa non è una vittoria. Al massimo, posso definirla un’esercitazione riuscita.”

“Mi sembra di ascoltare Marluxia. Eppure non sembravi così d’accordo con lui. A quel marmocchio non è sembrato vero di trovare uno di noi a condividere le sue idee. Hai fatto in fretta a gelargli l’entusiasmo.”

“Io vorrei davvero capire perché la gente, umani, nobody, a questo punto presumo anche gli heartless, sia così categoricamente convinta che chi non è d’accordo con una cosa, è necessariamente in disaccordo. No, non è vero. Non mi oppongo a Marluxia. Tutt’altro. Mi oppongo alla sua fretta, mi oppongo alla sua compiaciuta ignoranza, ma non alle sue idee. Mettiamolo subito in chiaro, nel caso avessi lasciato qualche dubbio in proposito. Adesso dimmi una cosa, Xigbar. Facciamo tutto questo perché vogliamo tornare umani?”

“L’ultima volta che ho controllato, sì.”

“Lo facciamo perché siamo troppo umani. Ancora troppo. Sappiamo benissimo, e lo abbiamo sempre saputo, che così come siamo non ci è concesso vivere. Quello che facciamo è cercare un rimedio. Il rimedio moderato, quello meno doloroso per tutti, perché, nonostante tutto, non è mai stata nostra intenzione combattere contro di loro, vero? Non è mai stata nostra intenzione far loro del male. Certo non è mai stata nostra intenzione causare vittime. La chiamiamo guerra, ma quanti pensano a quello che facciamo come a una vera guerra? Quanti di noi li considerano realmente nostri nemici e non, piuttosto, strumenti, mezzi, modelli da imitare? Vogliamo solo i Cuori, peccato che per avere quelli dobbiamo uccidere tanta gente. Uno sgradevole effetto collaterale. Se potessimo trovare un altro sistema… Gli esseri umani hanno una resistenza al cambiamento. La nostra natura, invece, è adattarci. Ci siamo adattati a una condizione considerata impossibile, esistiamo proprio perché siamo capaci di adattarci. Questo vuol dire cambiare. Eppure, la nostra umanità vestigiale ci spinge a evitare i cambiamenti. Combatte adattamenti che ci farebbero mutare ancora, fino a un punto dove potremmo imboccare una strada nuova, imprevedibile. Ci siamo adeguati al loro pensiero per poter continuare a esistere, senza essere cancellati né doverli cancellare. Perché, se fossimo come loro, tutto questo non sarebbe necessario. Chiamala coscienza, se vuoi. E’ solo una forma di attrito. L’unica ragione valida per lasciarli temporaneamente in vita è perché, alle attuali condizioni, il solo modo affinché nasca un nobody è da un essere completo. Condizioni a cui dobbiamo porre rimedio.”

“Quindi, la tua soluzione è proprio questa. Ero convinto che Xemnas esagerasse.”

 

Zexion scuote la testa e selezione l’immagine sovrapposta alla traccia di un’altra delle navi in fuga.

 

“Saremmo al sicuro solo in un universo abitato esclusivamente da nobody, una volta trovato modo di riprodurre la nostra specie.”

“Stiamo parlando di genocidio.”

“Credevo stessimo parlando di topi.”

“Stiamo parlando di genocidio. Mi correggo. Di estinzione.”

 

Il giovane sorride quasi con tenerezza.

Sorride come potrebbe sorridere qualcuno che scopre qualcosa per la prima volta. Potrebbe crederci persino lui, che lo conosce da quasi vent’anni, oppure solo da dieci, se Zexion ha davvero ragione, ma sono sempre comunque tanti anni, abbastanza da conoscerlo bene.

 

“Roxas crede sia possibile la coesistenza con gli esseri completi.”

“Allora ti consiglio di tenerlo lontano dagli altri Mondi.”

“Non è così sorprendente. Noi abbiamo solo comportamenti appresi. Se in modo diretto o dai ricordi ereditati dagli esseri umani, è ininfluente. Ma Roxas, a cosa può fare riferimento? A questa vita e basta. Lui osserva e impara dall’osservazione. Vede i popoli dei Mondi convivere, nonostante le loro diversità, compara le cose e si chiede ‘Perché non noi? Cosa ci differenzia?’. Un pensiero logico, una conclusione logica e, naturalmente, del tutto infondata. Applica un principio concettualmente errato. Se una cosa funziona cento volte, mille volte, un milione di volte, non significa che funzionerà sempre. Noi siamo il milionesimo e un caso che non funziona. Cerco di fargli cambiare idea, ma non riesco. Continua a esserne convinto. Continua a osservare, a sperimentare, imparare dall’osservazione e da quello che sperimenta. E, fin’ora, quello che ha visto e sperimentato è che noi siamo gli aggressori. Tu sei della stessa idea? Dimmi un po’, dieci anni fa, cosa è successo a te e a Xemnas quando avete aperto gli occhi in questo meraviglioso mondo nuovo? Xigbar, finirà comunque in un’estinzione. La sola incognita è l’estinzione di chi. Oppure sei disposto a scommettere che ci verrà offerta la possibilità di arrenderci ed essere recuperati al consesso umano?”

“Non dire cazzate.”

“Allora sei d’accordo che rappresentano una minaccia per la nostra esistenza. Allora sei d’accordo nel considerarli nemici. Allora mi dici perché non dovrei distruggerli?”

 

La nave sullo schermo emette il gradiente energetico che segnala il prossimo salto dimensionale.

 

 

!!!LUXORD!!!

 

 

La chiamata di Zexion è un ruggito mentale assordante, tanto forte da avere quasi una risonanza di eco.

Il vascello di Luxord si fa avanti.

 

“Non ha la minima importanza quanti ne moriranno adesso, qui. Alla fine moriranno tutti per mano nostra, oppure saremo noi a morire per mano loro. A meno che non ci eliminiamo prima fra noi. Non c’è altra soluzione, perché il primo che decidesse di farla finita sarebbe solo il primo a sparire. O, perlomeno, è quello di cui siamo convinti. Loro di sicuro e anch’io, quindi non ho intenzione di tentare un’altra strada, perché il rischio è troppo grande. Ogni essere umano che abbattiamo oggi sarà un nemico in meno la prossima volta. Magari proprio quello che potrebbe ucciderti, ci pensi?”

 

La nave dei fuggiaschi smette di esistere. Nel suo passato, Luxord ha toccato i parametri temporali nell’equazione di fuga. La nave smette di esistere perché è sempre stata solo un relitto che fuma sulla superficie del pianeta.

 

“Marluxia è venuto a parlarmi. All’inizio non lo ascoltavo. Lui parlava e io pensavo a ben altro. Come togliermelo dai piedi il prima possibile e fare in modo che non tornasse più, ad esempio. Poi ho cominciato a fare caso a quello che stava dicendo e un po’ mi veniva da ridere, ma, soprattutto, mi dava fastidio. Mi irritava. Quel ragazzino pretendeva di dare lezioni a me. Pretendeva di capirmi. Che ne sa lui di quello che abbiamo fatto, cosa abbiamo tentato, cosa abbiamo dato, attraverso cosa siamo passati… Giusto, Xigbar? Ma, a un certo punto, ho cominciato ad ascoltarlo. Ascoltarlo davvero. Inesperto, arrogante, pieno di sé. Mi ha sorpreso. Tutti loro. Prima Luxord, poi Roxas, poi Marluxia e Larxene. Persino Demyx, con la sua convinzione di valere quanto un essere umano. Abbiamo cercato di convincerlo che ha torto, ma in torto siamo noi. Ci pensi? Sono solo bambini e mi hanno sorpreso. E mi hanno fatto ricordare una cosa. Mi piace vivere.”

“A te è sempre piaciuto vivere.”

“Io ho sempre voluto vivere. Tutti noi vogliamo vivere, con più forza di chiunque, o non saremmo qui. Però mi sono accorto che non solo voglio. Mi piace, ma per quale ragione dovrei volere fare del male a Xemnas?”

“Non ne ho idea. Con te è impossibile sapere cosa vuoi e perché.”

“Che ragione avrei?”

“Non lo so.”

“La ragione.”

“Non lo so!”

“Non c’è ragione, quindi, ora, ti dico come stanno le cose. A Roxas piace studiare. Sarebbe felice di passare la vita sui libri e so a cosa potrebbe arrivare. E’ come eravamo noi, come tutti noi avremmo voluto i nostri figli. Eppure, io devo impedirgli di avere quello che vuole, quello che anch’io vorrei avesse, e compiacermi invece perché è stato capace di trasformare l’atmosfera di un pianeta in una palude radioattiva. Io devo estirpargli dalla testa ogni idea di avere un valore per chi è e non solo perché è un’arma di distruzione tanto efficiente. Io devo mentirgli e dirgli che il suo gemello, che non vale la metà di quanto vale lui, che sembra felicissimo di lasciare che chiunque altro pensi al suo posto, ha diritto di vivere solo perché è umano. Mi chiede del futuro. Il suo futuro, il nostro futuro. Secondo te, cosa devo rispondere? Che non esiste futuro? Devo dirgli che probabilmente non sopravviverà oltre qualche mese e, se anche dovesse riuscirci, dovrà combattere per ogni secondo di vita, senza potere mai riposare un istante? Che lavorano tanto solo per non giungere a nulla? Che tutta la loro fatica, tutta la loro sofferenza, servono solo ad avvicinarli al momento in cui forse svaniranno? E che più si danno da fare, più potrebbero affrettare quel momento? Quando mi chiede di dirgli qualcosa che non sono favole, ipotesi o illazioni, silenzi o solo parole senza senso, quando mi chiede di provare quello che dico, cosa devo rispondergli? Che, in realtà, non so neppure di cosa sto parlando?”

 

Ora, le navi dei fuggiaschi non trasmettono più alcun segnale di salto, né le alterazioni energetiche che li precedono.

Luxord le ha legate in una particella di tempo alterato che impedisce persino di tentare la traslazione.

 

“Lo faccio, Xigbar. Quando serve lo faccio, ma sei pazzo se pensi che ogni volta gli taccio quelle risposte che mi sarebbe così facile dargli, non ricordo che noi abbiamo dato vita, Cuore, mondo, perché qualcuno taceva. Sei pazzo se sei convinto che, con universi interi da esplorare, vorrei passare la mia esistenza a complottare e pianificare distruzioni. Sei pazzo se credi che vorrei fare del male a Xemnas, a Xaldin, a te, a chiunque di voi. Se credi che non vorrei vedervi ottenere niente di meno di quello che volete o che sperate. Ma sai bene quanto me che quello che vorrei non ha posto in questa realtà. Allora è quello che voglio a importare e quello che voglio è sopravvivere, voglio che noi sopravviviamo. Voglio che la nostra specie continui a esistere, senza nascondersi e senza paura, in un universo dove si possa viaggiare liberamente fra i Mondi.”

 

Gli occhi di Zexion hanno perso ogni traccia di colore e sembrano neri come il vuoto fra le stelle. Uno spazio dove non si può navigare.

Sogna. Uno di quei sogni che può fare anche mentre continua a parlare e camminare ed è sveglio, e i sogni di Zexion diventano ombre e le ombre possono uccidere.

 

“Ti lamenti che ho parlato a tutti, che non ho tenuto le mie idee solo per noi, ma non siamo più noi. Ci piaccia o no, abbiamo dato vita a qualcosa e quel qualcosa non possiamo buttarlo con l’acqua del bagno, adesso. Abbiamo dato vita a qualcuno e quel qualcuno non possiamo ignorarlo quando chiede, né possiamo pretendere che creda in noi quando diamo così poco in cambio.”

 

Un vascello umano si disgrega. Un piccolo yacht dalla forma di una serie di scatole accatastate.

Non ci sono evidenza di un’azione fisica da parte di un’altra unità. Qualcosa lo ha distrutto dall’interno. Il suo stesso equipaggio, Xigbar ne è sicuro.

 

“Xigbar… lo abbiamo mai fatto, noi? Abbiamo chinato la testa, quando ci hanno chiesto solo obbedienza senza ragione?”

“No…”

“No. Allora non possiamo esigere da loro quello che saremmo i primi a rifiutarci. Ci stanno sfuggendo di mano e ci divideremo. Tu lo sai, o non mi avresti fatto quella domanda. Tacere sarebbe perpetuare un errore, anche se, a questo punto, temo ci vorrà molto tempo e molto più di qualche parola per rimediare.”

 

Luxord impedisce alle navi di effettuare i salti dimensionali e, se le navi non possono saltare, sono imprigionate nello spazio ordinario. Alla mercé di Zexion.

 

Potrebbe fare qualcosa, lui.

Prendere Zexion e rifilargli un pugno. O sparargli e dargli qualcosa di più immediato per cui preoccuparsi. E prenotarsi il prossimo decennio soggettivo passato a fronteggiare chissà quali bizzarri incubi.

Ma, per interrompere quella catena di eventi, probabilmente basterebbe ordinare di allontanarsi.

Potrebbe farne tante, di cose.

Potrebbe almeno tentare.

Manca solo il motivo per agire.

 

Xigbar si vanta di essere istintivo. Una di quelle affermazioni che mandano in bestia Vexen, che è tanto più divertente confermare proprio perché lo mandano in bestia.

Perché Xigbar non usa la parola istinto in senso discorsivo e i nobody non hanno veri istinti. Hanno pulsioni, ma una pulsione non è un istinto. Hanno schemi di memoria riflessiva, ma neppure gli schemi di memoria riflessiva sono istinti.

In realtà, hanno sempre consapevolezza delle loro azioni. Persino quei gesti che alcuni di loro compiono quasi involontariamente, sono solo concessioni ad abitudini e affettazioni acquisite o conservate, e risiedono in uno strato superficiale della disattenzione. Basta volerlo e il controllo cosciente è subito ristabilito.

I nobody non possiedono istinti. Fatto appurato e dimostrato.

Ma, per quanto riguarda Xigbar, ogni tanto il rigore scientifico può essere lasciato fuori dalla porta e loro si sono sbagliati già troppe volte per escludere una qualche possibilità. E lui è istintivo. Opera secondo schemi inalterabili di comportamento innato.

Ogni volta che si trova di fronte a un evento sconosciuto e potenzialmente pericoloso, si attiva un sistema di risposta automatica che non necessita di nessun pensiero, nessuna valutazione cosciente e che, pure, gli suggerisce sempre come comportarsi. Ha funzionato per quasi cinquant’anni. O solo per dieci.

Questo volta, il sistema non entra in funzione.

E’ come vedere qualcosa che è sempre stato davanti al suo naso, che non ha visto sino a quando non gli è stato indicato e che, anche così, deve continuare a fissare bene, o lo perderà di nuovo.

I suoi schemi mentali falliscono perché è qualcosa che produce troppi pochi stimoli per innescarli e, se gli schemi falliscono, è obbligato a pensare, a valutare, a scegliere. Ma, per questo, dovrebbe capire Zexion e la cosa non è così scontata.

 

“Niente si ottiene per niente. Ricordi, Xigbar? Più grande il risultato, più alto il costo. Ricordi? Ebbene, più alto il costo, più grande esigo sia il risultato. Non sacrificherò Roxas né nessuno di noi per qualcosa di meno che la sopravvivenza della nostra specie. E tu ti preoccupi di poche migliaia di esseri umani?”

 

Xigbar non fa nulla e Zexion continua la sua caccia, un vascello dopo l’altro.

Non ha nessuna necessità di disporre i suoi pezzi su quella scacchiera visibile. Non ha bisogno di selezionare i bersagli con i mezzi artificiali, non ha bisogno di rivelare le sue prede in quella cupola dove lo spazio si riflette.

E’ solo una recita, quella, a beneficio del suo pubblico.

 

Zexion è uno specchio. Rimanda l’immagine di quello che gli sta all’esterno, senza modificare la sua sostanziale identità.

Quando ci si trova davanti a lui, l’immagine riflessa è quella di sé stessi. Un’immagine conosciuta. Un’immagine che ci si aspetta di vedere. Qualcosa che si può anche credere di capire.

Eppure, di tanto in tanto, Xigbar è quasi convinto di vedere il vero Zexion, nascosto sotto lo strato di riflessi deformanti e inganni e ombre. Non perché lo percepisce direttamente, ma per l’errore, anche se non lo riconosce come tale e non può dire qual è l’errore.

Proprio come in un labirinto di specchi potrebbe trovare la via d’uscita grazie alle distorsioni. Angolazioni, oppure lievi incongruenze nella luce.

Ma, nei riflessi, lui cerca ancora Ienzo.

 

“Vuoi sapere quanto valgono per me, Xigbar? Se dovrò mettere sul piatto della bilancia la vita di un solo nobody, qualsiasi nobody, fosse anche il più debole e inutile dei crepuscolari, contro la vita di tutti gli esseri umani di tutti i Mondi, non ci penserò un istante. Se solo potessi, li cancellerei ora, subito, da ogni universo. Noi dobbiamo sopravvivere! Questa è l’unica cosa che conta e il piano di Xemnas non ha sufficienti probabilità di riuscita.”

 

Probabilità, dunque. E’ tutto qui.

Zexion ha uno scopo e tutto diventa relativo a questo. A esso sacrificherà qualsiasi cosa, compresa la sua stessa sicurezza, la sua stessa esistenza, l’esistenza di chiunque.

Lo ha fatto Ienzo, lo farà Zexion.

Se non ha mentito, se lo scopo è davvero far sopravvivere loro, non loro come individui, ma come specie, chiunque valuterà avere le maggiori probabilità di portare avanti la loro stirpe, sarà il primo nei suoi pensieri.

Niente è più importante di quel semplice calcolo probabilistico.

Una parte di lui lo capisce. Una parte consistente. Le necessità di un intero popolo non possono essere sacrificate alle sofferenze di pochi.

 

I segreti sono la cosa che li hanno condotti fin qui. Segreti da mantenere tali. Segreti da volere svelare.

Tacere, e decidere che niente deve essere taciuto. Mai.

 

ma

 

Questa volta è necessario.

Lo pensavano anche Ansem, anche il Re. Allora dov’è la differenza? Senza differenza, tutto quello che hanno fatto diventa inutile.

Solo per questa volta.

La prima volta è un’eccezione. La seconda, è perché tanto c’è un precedente. Poi c’è una terza volta, una quarta, fino a quando menzogne si accumulano su segreti e diventa un universo di falsità.

 

ma

 

Forse, a fargli credere che tutto ha un senso, sono le parole di Zexion. Perché può anche voler credere di avere di fronte Ienzo, ma ricorda che Ienzo è morto e c’è solo questa cosa strisciata fuori dalla sua morte, come fumo velenoso da una reazione chimica, e Zexion è inganno mascherato in parole di seta che hanno fatto cadere re e mondi e universi.

E in realtà niente ha senso, perché, se si guarda da una prospettiva sufficientemente lontana nel tempo, tutti, loro, gli abitanti dei Mondi, i Mondi stessi, sono solo morti che non sanno ancora di esserlo e si ostinano a rimandare il momento in cui non saranno più in grado di negarlo e, allora, se si guarda da quella prospettiva sufficientemente lontana, ogni cosa ha la stessa logica e ogni cosa ha la stessa importanza. Ogni scelta equivale.

 

ma

 

Manca ancora una cosa.

Cuore. A completare Anima e Corpo.

La frammentazione che ha fatto nascere i nobody sarà ricomposta. La Trinità compiuta.

In quale forma?

Una forma nuova, imprevedibile. Inimmaginabile.

 

Può valere la pena.

 

ma

 

“Ci sono Xemnas e Xaldin, vero?” dice Zexion “Saresti il primo ad appoggiarmi, o appoggiare Marluxia, altrimenti.”

 

Ci sono loro e loro fanno parte dell’eventualità di scarto. I neofiti, alcuni neofiti, sono una carta più sicura su cui giocare. In una valutazione a lungo termine, è più probabile che sia uno di loro a sopravvivere. Se per salvaguardarli dovrà dare in cambio la vita di uno qualsiasi degli altri, Zexion lo farà.

E’ il sottinteso di quello che ha appena detto.

 

“Tu, Marluxia e Xemnas volete tutti la stessa cosa. Immagino che anche quel ratto sia pieno solo di buone intenzioni. Le buone intenzioni sono il vero problema.”

“Non esistono buone intenzioni, Xigbar. Solo intenzioni. Quando serve, cerchiamo di farle sembrare buone. E’ un modo per raggiungere il proprio scopo. I nostri originali avevano buone intenzioni? Braig aveva buone intenzioni?”

Xigbar lo fissa a bocca aperta.

“Non sminuire il valore di quello che hanno fatto con queste bambinate. Il Re può ammantare i suoi discorsi di buone intenzioni ed essere creduto. Noi abbiamo perso il mondo in cui potevamo credere alle buone intenzioni. Lo abbiamo distrutto con le nostre mani. Vuoi sapere quali sono le parti? Eccole. Noi e loro. E’ un gioco, Xigbar, il gioco del gatto e del topo. Ma i topi sono tanti, potrebbero riuscire a mangiarsi il gatto. Loro lo hanno già capito. Lo sanno e non hanno i nostri scrupoli. Hanno ragione. E Marluxia ha ragione e Xemnas ha ragione a credere che Marluxia lo distruggerà.”

“Quindi, se tutti abbiamo ragione, alla fine chi ha torto?”

“Quello che ha sempre torto. Quello che perderà.”

 

Zexion sogna sogni di distruzione e le navi muoiono.

Dovrebbe essere incapace di fare una cosa simile. Dovrebbe essere stanco. A questo punto, dovrebbe proprio esserlo. Più che stanco. Dovrebbe essere sfinito, drenato di tutta l’energia a cui può attingere.

Ma non è così e questo è impossibile, nelle condizioni ordinarie. Allora, significa che le condizioni sono cambiate.

 

Lasciare che Braig gli scivoli di dosso e liberi, finalmente, colui che matura sotto quella pelle ingannevole che indossa da dieci anni. Farla finita con le menzogne e le pretese.

 

“Io non sto cercando di causare una frattura fra noi, Xigbar. Sto cercando di impedirla. Sto cercando di salvare quelli che posso.”

“Il che vuol dire sai già che non saremo tutti.”

Tutti è estremamente improbabile.”

“Immagino non sia solo una tua opinione.”

“Non è un’opinione.”

 

Xigbar sferra una manata a una paratia.

 

“Tu sei solo un fottuto casinista. Xaldin ha ragione.”

“Xaldin mi considera responsabile persino del cattivo tempo. Anche tu?”

“Non fare questi giochetti con me. I rimpianti, francamente, li lascio a Xemnas e i rancori a Xaldin. Fa piazza pulita su tutti i pianeti che vuoi, me ne sbatto. Ma attento a dove arrivi. Io non ho parte, non darmi motivo per sceglierne una.”

“Xigbar…”

“Attento a cosa fai, e a chi.”

 

Zexion annuisce e un altro vascello umano si dissolve.

 

 

* * *

 

 

Per i due giovani, l’amalgama allucinogeno di flussi elettromagnetici impazziti che racchiude il pianeta è un’architettura di cristallina coerenza. Le dinamiche delle masse di luce non sono casuali né caotiche. I labirinti accecanti tracciano sentieri di morbide sfumature dove muoversi con sicurezza, più facili da seguire di qualsiasi strada artificiale.

 

Roxas raccoglie una cosa da terra.

Larxene lo avvicina, passando davanti alla massa di resti organici degradati dalla furia radioattiva. Qualcosa che non più quasi forma, che si dissolve nella luce.

Uno dei tanti visti oggi, insieme ai corpi smembrati da lame laser, cotti da scrosci di microonde, dilaniati a mani nude.

Questa volta, la sola cosa che Roxas non ha fatto è stato evocare i keyblade. Le è sembrato quasi volesse provare qualcosa a sé stesso.

 

Il ragazzino ha la testa china e fissa l’oggetto che stringe, una tavola colorata, fluorescente sotto la radiazione. Larxene lo ha visto giocare con una cosa simile, nel loro mondo.

 

“Che hai?” gli chiede

“Quasi tre mesi fa, Zexion mi ha portato qui.”

“Quindi?”

“Abbiamo incontrato una donna. E’ stata lei a consegnarci i codici e i certificati per entrare nel porto, lei ha dato alle nostre navi il passaggio libero, lei ha interrotto la rete che cablava il sistema di comunicazioni planetario, quello che è bastato a Luxord per darci il tempo che ci serviva.”

“Fammi capire. Zexion ti ha portato a un incontro con un suo agente?”

 

Roxas annuisce, svogliato. Con un dito, fa girare una ruota della tavola. Provoca un rumore strano, scrosciante.

 

“Lo fa spesso?”

“Cosa?”

“Portarti con lui quando lavora.”

 

L’adolescente annuisce ancora e ancora muove le ruote e il suono è rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr

 

“Spesso, sì. Forse sempre. Questo non lo so.”

“Ti porta con lui come guardia del corpo?”

 

Roxas la guarda in tralice, senza sollevare né muovere la testa.

 

“Roxas, in cosa consiste il lavoro di Zexion?”

 

Qualche filamento luminoso si addensa intorno alla donna.

Stavolta, ha osato troppo. Il ragazzo sta seguendo una sua linea di pensiero e non gli piace che sia interrotta. Non gli piace essere messo in secondo piano.

Vuole essere ascoltato, non ascoltare.

 

“Perché ricordare quell’incontro ti dà fastidio?”

 

Roxas si quieta, adesso che è di nuovo al centro dell’attenzione.

 

“Non mi dà fastidio.”

“D’accordo. Allora perché ci stai pensando?”

“Zexion dice sempre che il potere deriva dalla conoscenza.”

“E’ una cosa che si dice in molti mondi. Ormai è un po’ scontata.”

Il ragazzino si stringe nelle spalle.

“E’ vera lo stesso. La conoscenza è potere, ma quella donna lo aveva dimenticato. Lei voleva diventare come noi, ma non aveva vera conoscenza di quello che chiedeva. Zexion le ha detto che non avremmo distrutto il suo mondo.”

“Le ha detto la verità. Non lo abbiamo fatto.”

“No, non lo abbiamo fatto. L’Oscurità sarebbe stata la cosa che, forse, le avrebbe permesso di avverare il suo desiderio. Ma noi non abbiamo liberato le ombre, proprio per non distruggere questo pianeta e, siccome non abbiamo liberato le ombre, lei non ha avuto niente. Non sapeva che proprio il modo in cui chiedeva di avere ciò che cercava, rendeva praticamente impossibile che ottenesse quello che voleva, la cosa per cui ha venduto il suo mondo e la sua anima.”

 

rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr

 

“Non conta solo lo scopo, Larxene. Conta anche come ottenerlo. E’ importante conoscere il mezzo, conoscerlo bene, conoscere cosa implica, perché proprio il mezzo che si usa potrebbe racchiudere l’impossibilità a raggiungere il risultato che si cerca.”

 

Questo non è qualcosa che ha imparato da Zexion. Lui penserebbe una cosa simile, sì, ma, alla fine, a importare sarebbe solo l’obiettivo.

 

“Io non riesco a odiarli.” mormora Roxas.

“Perché vorresti odiare?”

“Non voglio essere diverso da voi.”

Larxene sogghigna.

“Che bambino dolce, sei.”

 

Roxas aggrotta le sopraciglia in un nuovo, immediato, avvertimento.

 

“Scusami. Non c’è ragione per prenderti in giro così.” si affretta a dire la ragazza.

“Allora non farlo. Credevo che, forse, li odiavo davvero, ma non ero capace di riconoscerlo. Ho chiesto a Zexion di farmi vedere come vedono loro.”

 

RRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

 

Le ci vuole tutto il suo autocontrollo per non gli strappargli di mano quella cosa e mettere fine al rumore.

Roxas appare più disposto del solito a irritarsi e provocarlo non è una cosa saggia.

 

“Non è cambiato nulla, Larxene. Ancora non capisco. Faccio cose non perché voglio farle, ma solo perché non ho motivo per non farle. Anch’io combatto per volontà di un altro.”

“Allora non sei diverso da noi.” afferma Larxene e, con un cenno vago, abbraccia idealmente la città e il cielo “Sei solo più efficiente.”

 

Il ragazzo si chiude subito in sé stesso. Larxene può quasi vederlo innalzare una barriera e ritirarsi all’interno.

Roxas attacca solo se si sente minacciato, mai per primo. Anche se spesso è difficile capire cosa considera una minaccia o in cosa si sente minacciato, il suo è sempre uno schema di difesa.

Ma, di tanto in tanto, forse perché crede che l’aggressione non serve o, forse, perché dovrebbe arrivare a un livello di aggressione che non è disposto a raggiungere, si rifugia dove non essere visto, non essere toccato, il più possibile isolato dalla fonte di disturbo.

A volte, questo significa isolarsi in un suo mondo personale.

Lei ha detto qualcosa di sbagliato, o ha fatto qualcosa di sbagliato. Non lo sa. Roxas non si è allontanato, ma è fuggito a nascondersi in un luogo così lontano che è come se fosse in un altro universo.

 

Irritato.

Insoddisfatto.

 

Infelice?

 

Immagina che chiunque altro negherebbe un termine simile riferito a uno qualsiasi di loro.

Alcuni riderebbero. Probabilmente non di fronte a lei, ma alle sue spalle lo farebbero. Axel le riderebbe in faccia. O, più probabilmente, lo avrebbe fatto sino a poco tempo prima. Ora non ne è più così certa.

Gli scienziati la taccerebbero di antropomorfizzazione, anche se le piacerebbe chiedere proprio a loro dove piazzano i confini di quel vocabolo in un universo simile. E, magari, un giorno che avrà voglia di discutere, lo farà anche.

Dubita comunque che Roxas si definirebbe infelice. Dubita che conosca il termine. Dubita che qualcuno glielo abbia insegnato, in rispetto a quella ostinata ipocrisia o masochistico autocompiacimento che vieta loro di dare nome a quello che si rifiutano di riconoscere.

O, se proprio vogliono definirsi in qualche modo, aggiungere sempre quell’aggettivo. Falso.

Se senti qualcosa, è falso. Se pensi qualcosa, è falso. Il loro mondo è falso, la loro vita è falsa. Forse persino il loro riflesso in uno specchio è falso.

Falso è un’ancora di salvezza. Quella che permette loro di non affondare nel paradosso.

Non dimenticare mai la parola magica. Pena l’ostracismo, pena il biasimo, pena il silenzio e il silenzio può essere insopportabile quando non si ha che sé stessi e gli uni con gli altri.

 

Infelice.

 

La sola cosa falsa è la sua indifferenza.

E’ troppo piccolo, quell’universo in bottiglia dove lo hanno chiuso. Di giorno in giorno, l’indecifrabile e invisibile frontiera aliena che segna i limiti della pazienza di Roxas si stringe.

Larxene si chiede cosa gliela farà superare. Cosa, in realtà, tiene ancora in essere quella frontiera.

 

“Roxas.”

 

Il ragazzino si mette a canticchiare a voce muta. Una melodia dalla costruzione semplice e ripetitiva, come quella di una filastrocca infantile, che si perde nel rumore provocato dalle ruote della tavola.

 

“La nostra volontà ha piegato la morte.” insiste la giovane “Potrebbe bastare a realizzare quello che crediamo. Forse ognuno di noi vive una realtà plasmata dalle proprie idee. Forse Xemnas ha ragione, per quanto riguarda lui e tutti quelli che gli credono. Forse si sono così immedesimati nelle loro certezze che sono davvero diventati quello che sono convinti di essere. Ma la nostra volontà è altrettanto forte e allora dovremmo decidere cosa vogliamo essere noi.”

 

Roxas continua a ignorarla.

Lei ha sbagliato e il ragazzo non intende renderle facile rimediare all’errore fatto.

Potrebbe solo fingere di non ascoltare, oppure potrebbe non avere lasciato aperto nemmeno uno spiraglio e ogni tentativo di raggiungerlo essere solo una perdita di tempo.

Larxene non è neppure sicura del perché stia cercando di parlargli.

Perché è convinta che darebbe fastidio ai fondatori, o perché si è davvero stancata del silenzio.

La cosa importante è che adesso le va di fare così.

 

“Qualsiasi cosa dice Xemnas, tu ricorda una cosa. Loro sono i nostri Cuori, ma noi siamo le loro anime.”

 

Roxas rimette a terra lo skateboard, gli dà un leggera spinta con un piede e lo fa correre verso il pozzo centrale della città. Il rumore delle ruote amplificato dalla desolazione è quasi insopportabile, fino a quando la tavola non cade nello strapiombo artificiale ed è silenzio.

 

 

 

 

* * * * * * * * * * * * *

 

 

 

Mi scuso per il ritardo davvero imbarazzante. E’ stato un capitolo difficile da scrivere. Spero di avere ottenuto un risultato accettabile.

 

C’è una frase rubata a Star Trek. Scommetto che almeno una persona la riconosce subito. Me l’ha suggerita lei con un suo commento ^__^

E’ che spesso e volentieri i nobody, per dimostrare la loro mancanza di emozioni, sono tratteggiati come sociopatici, istrionici o borderline. Peccato solo che coloro che soffrono di questi disturbi di personalità non sono affatto privi di emozioni. Proprio il contrario, semmai.

Esseri carenti emozionalmente si comportano come Spock, non come il Joker.

 

Chris: Ti piacciono docili, eh? Almeno a Xemnas dai un balcone e una luna e quello se ne sta buono a rimuginare. Al massimo, fa qualche bislacco monologo. Non me lo vedo con l’hobby dell’omicidio random. Però il lunatico blu piace tantissimo anche a me ^__^

 

No, Roxas non ha ricordi a complicargli la vita. Ma, giusto per non essere da meno del resto della famiglia, riesce a complicarsela benissimo perché non li ha. Personalmente, sono dell’idea che i nobody siano cause perse. Se pure dovessero trovarsi per miracolo con un cuore, beati e felici in un mondo paradisiaco, tempo una settimana e troverebbero il modo di incasinarsi con qualcosa. E se non trovassero niente, il modo se lo inventerebbero. C’è da dire che Zexion non sa cosa capiterà a Roxas. Sa che va incontro a qualcosa di brutto e ha qualche probabilità di uscirne vivo, ma non conosce i particolari. Per fare un esempio, sa che strada ha preso, sa dove porta, ma non cosa vedrà mentre la percorre. Stessa cosa per Luxord. Entrambi calcolano probabilità, non vedono film. Se no, Zexion avrebbe aspettato Riku al varco mentre stava emergendo dall’Oscurità e gli avrebbe tagliato la gola. Non fa il mentore criptico perché fa tendenza ^__^

 

La tua interpretazione del rapporto fra Roxas e Zexion è quella che volevo suggerire, compreso una specie di… passaggio di testimone fra i due. C’è un momento in cui bisogna proprio smetterla di accumulare nozioni passivamente e decidere in proprio cosa fare, altrimenti si rimane dipendenti da coloro che insegnano ^__^

 

Felice che ti piacciano gli spaccati della vita di Ienzo. Lo adoro. Tutti i sei, in realtà, ma Ienzo è stato il più iconoclasta e il più deciso di tutti. Anche Xehanort, ma lui aveva dalla sua il passato tragico e la ricerca dei suoi ricordi. Ienzo no. Ha fatto tutto per pura curiosità e se ne è sbattuto degli ordini di Ansem e del sorcio. Che, per la cronaca, considero il primo colpevole (Ansem è solo un cretino). E c’è un particolare nella trama che mi sembra venga spesso sottovalutato, che invece considero fondamentale. Cioè che i vari mondi si sono trovati collegati. I sei erano scienziati, di quelli disposti a dare la vita per le loro ricerche. Non avrebbero mai accettato di tornare nella situazione precedente di beato isolamento. Per nulla al mondo.

 

Rixika: Beh, non riesco a considerare l’operazione Virtual Twilight Town nient’altro che una versione particolarmente sofisticata di snuff film, una tortura progettata con metodo scientifico, filmata e studiata, che termina con la morte del protagonista/vittima, con DiZ e Riku che osservano e intervengono per aggiustare la sceneggiatura in modo da rendere sempre più efficiente il reiterato stupro mentale che stanno compiendo. Sono strasicura che sia stato fatto più per il piacere di DiZ che per necessità. DiZ tiene in stasi Sora per un anno. Poteva fare lo stesso a Roxas fino a quando non lo avesse riunito a Sora. Ok, doveva spezzare la sua volontà, ma puzza troppo di sadismo fine a sé stesso. Tra l’altro, mi chiedo perché fare una cosa simile. Sora vive benissimo senza Roxas. Un anno passato splendidamente lo dimostra. Roxas non c’entra niente né con il suo coma, né con la sua memoria, e non serve per ripristinargliela. Casomai qualcuno non lo avesse notato, DiZ e Naminé risistemano la memoria di Sora prima di riunirlo a Roxas. Ufficialmente, Roxas è usato come batteria per aumentare la forza di Sora e permettergli di sconfiggere i 13. Ma questiono anche questo, in quanto Sora, senza Roxas, sconfigge Larxene e Marluxia e fa il culo quadro a Xehanort. Direi che di potenza ne ha più che a sufficienza.

Si potrebbe obiettare che DiZ non ha bisogno di ragioni per eliminare un nemico. Assolutamente d’accordo, se solo anche qui non cascasse l’asinello. A quanto se ne sa, i 13 cominciano ad attaccare attivamente gli esseri completi solo nella battaglia durante la quale muore Demyx. Prima di allora, si limitano a… non fare niente. Certo, raccolgono i cuori gentilmente forniti dall’attività di Sora, ma non spingono gli heartless contro nessuno. Semmai, li si può accusare di non fare nulla per fermare le ombre, ma perché dovrebbero proteggere gente che li vuole morti? Mai detto che sono santi. Il rapimento di Roxas è antecedente a quell’evento, così come la simpatica filosofia da soluzione finale di YenSid.

Quindi, proclami a parte, perché eliminare Roxas? Mah, potrei dire che a DiZ andava di passare un po’ di tempo torturando un nobody, anche se mi pare un’operazione troppo complicata, per quello. Sarebbero bastati una sedia, un secchio e una tenaglia. Certo è che, durante tutta l’operazione, DiZ gode come un riccio.

 

Riku… ah, che problema che è quel bambino. Sì, a voler essere coerenti (e prudenti), gli si doveva riservare lo stesso trattamento dei nobody. Anzi, personalmente considero Riku molto più pericoloso, visto per ‘cosa’ agisce. Concordo. Avrebbero dovuto metterlo al muro.

Fortunatamente per me, non è stato così, sennò mi sarebbe mancata buona parte della storia. Spero che qualcuno si ricordi che uno dei protagonisti è il nostro cavaliere delle tenebre. Non l’ho dimenticato. Gli ho solo dato una pausa di riflessione per meditare sul passato ^__^

 

Lux: Piuttosto che redenzionizzare Zexion, lo strangolo con le mie mani! E’ un vero delitto snaturarlo. Vabbé, questo con tutti, ma lui in modo particolare. La bellezza di Zexion non è nel ciuffo blu o nel faccino da bambolotto, ma nella sua natura.

Giuro che vorrei gli avessero dato l’aspetto di uno scorfano e sai bene che dico sul serio. Almeno non finiva caricato di una pucciosità che, sarò cecata io, proprio non vedo.

Eh, sì. Ora Roxas sa che significa vivere libero. Non che credo lo schiavizzassero, ma che lo tenessero in una campana di vetro sì. Il prezioso e unico custode dei nobody non è cosa da trascurare. Anche perché, per tenergli nascosta l’esistenza di Sora, necessariamente dovevano evitare che andasse troppo a curiosare in giro. Sora non è precisamente uno sconosciuto, nei mondi, keyblade compreso, e ci vuole poco a prendere il nome, rigirarselo un po’, aggiungere una X e ottenere il risultato. Magari sarebbe stato meglio dare a Roxas un altro nome ^__^

Ma c’è un’altra cosa che sa. Zexion non solo era umano, ma era un umano molto particolare ;)

 

Giodan: Esagerato ^O^

Guarda che così mi monto sul serio la testa. Ma grazie ^__^

 

Max: Caro Max, mi sento onorata del tuo apprezzamento. Davvero molto lusinghiero. 

Lieta di sapere che il buon vecchio Leibniz ha colpito. Ovviamente, vale anche al contrario, ossia, cose fra cui puoi rilevare una e anche una sola differenza, non sono la stessa cosa. Questo è importante. Fondamentale. Qualcuno avrebbe dovuto ricordarsene. Ma la mia opinione degli abitanti del multiverso di KH non è particolarmente positiva. Sì, nell’insieme sono molto evoluti, hanno astronavi, si spostano fra le dimensioni, hanno poteri sensazionali, ma sono selvaggi superstiziosi e, peggio di ogni cosa, manicheisti a oltranza.

E’ questa la cosa più triste di tutta la faccenda. I soli che avrebbero potuto rimediare alla follia dicotomica che sembra infettare chiunque, sono considerati da tutti indegni di esistere. Così ci cascano pure loro.

Credo non sia un caso che il personaggio più complesso e costruito del gioco, cioè Riku, alla fine si ritrovi nauseato da tutta la faccenda e decida di stare nel mezzo.

 

 

  
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