Capitolo I: She’s a Rainbow
She
comes in color ev’rywhere
She combs her hair
She’s
like a rainbow
Controllò
per l’ennesima volta il Rolex che portava al polso, per essere
certo di non essere in ritardo. E, per
l’ennesima volta,
l’orologio lenì i suoi timori: no, era perfettamente in
orario. Erano appena suonate le sette del pomeriggio ed il suo
appuntamento era fissato per le sette e dieci… aveva dieci
minuti, dieci minuti per entrare negli uffici della casa
cinematografica, presentarsi alla reception, prendere l’ascensore
per il quarto piano –o era il quinto? Beh, ad ogni modo suo
padre aveva più volte detto che era l’ultimo piano
dell’edificio, quindi non rischiava di sbagliarsi- ed infine
attraversare tutto il corridoio sulla destra. A quel punto, si
sarebbe trovato davanti la sua meta: l’ufficio del signor
Charles Carson, uno dei produttori e degli imprenditori più
importanti dell’industria cinematografica e televisiva
britannica e mondiale.
Per un istante, Robert Crawley tremò
al pensiero di trovarsi di fronte al signor Carson.
Sciocchezze,
sbottò tra sé e sé il giovane uomo, spalancando
la portiera della BMW nera e uscendo dall’automobile; controllò
di aver preso tutto il necessario: portafoglio, cappotto e cartellina
trasparente. Soprattutto la cartellina trasparente, dato che
conteneva la ragione per cui si trovava lì: la
primissima bozza della sua primissima sceneggiatura,
scritta rigorosamente a mano in copia unica. Un metodo piuttosto
sciocco di scrivere, gli facevano notare praticamente tutti, in un
mondo in cui tablet, pc e smartphone davano la possibilità di
buttar giù le parole, modificarle, copiarle, salvarle in vari
file; ma a Robert, le parole piaceva sentirle fluire sulla carta, con
l’inchiostro, direttamente dalla sua mano. Era quello il suo
sogno: scrivere e vedere i suoi racconti trasposti come per magia su
uno schermo.
Richiuse la BMW e si avviò verso gli uffici
dei Carson Studios.
Il signor Carson era stato chiaro: poteva
concedergli un quarto d’ora del suo tempo –un po’
misero come tempo a disposizione, ma Robert non si era lamentato-,
poi sarebbe dovuto obbligatoriamente uscire per partecipare al red
carpet di qualche manifestazione cinematografica di lusso di cui il
giovane uomo non aveva mai assolutamente sentito parlare.
Era
molto emozionato, ma non riusciva ad esserlo… completamente. E
la ragione era una sola: sapeva benissimo che Carson non era
particolarmente interessato al suo copione… chissà
quanti ne visionava quotidianamente. No, la vera ragione per cui gli
aveva concesso un appuntamento era che il signor Carson e suo padre,
Patrick Crawley, erano amici di lunga data. Avevano frequentato
Cambridge insieme e quando Carson aveva deciso di lanciarsi nel campo
nella cinematografia, suo padre era stato lì ad aiutarlo:
aveva finanziato il progetto, aveva aiutato nella costruzione di
uffici e studios ed era entrato -a scopo di solo lucro, certamente
non per ambizione artistica- nella produzione di diversi film di
punta.
Robert uscì dal parcheggio e puntò verso la
porta scorrevole della sede dei Carson Studios, tamburellando
pensosamente le dita sulla cartellina.
Certo, suo padre non si era mai fatto troppi problemi ad investire i
propri soldi. Ad esempio, la maggior parte degli introiti della sua
famiglia arrivava da una catena di hotel di lusso che Patrick aveva
fondato trent’anni prima: d’altronde era un conte, il
lord di Downton Abbey, e il denaro non gli mancava. Sospirò:
un giorno il testimone sarebbe passato a lui, un giorno sarebbe stato
anche lui conte… avrebbe mollato anche lui ogni ambizione
artistica per darsi agli affari?
Oltrepassò la porta,
cercando di scacciare quel timore dalla testa.
Era ormai quasi
ora di chiudere i battenti, per cui la hall era pressoché
vuota, eccezion fatta per un paio di inservienti, alcuni membri della
sicurezza e la ragazza alla reception. Si recò proprio verso
quest’ultima per presentarsi.
“Buonasera, sono
Robert Crawley”, esordì, cercando di sorridere con
naturalezza, “Avevo un appuntamento con il signor Charles
Carson per le sette e dieci”. La segretaria lo squadrò
per un istante, annuendo distrattamente con il capo, e digitò
qualcosa sulla tastiera del suo computer. Quando confermò che
sì, era atteso al quinto piano, Robert fece un cenno di
ringraziamento e si diresse verso gli ascensori, fischiettando un
pezzo rock di cui non ricordava il nome.
Fu allora che, davanti
agli occhi, gli si parò uno spettacolo… inatteso:
l’ascensore era aperto e, al suo interno, c’era una
donna; una donna giovane, lo si poteva intuire dal modo in cui il
semplice abito lilla le fasciava il corpo longilineo. Era immobile,
con una cartelletta stretta quasi maniacalmente contro il petto, gli
occhi sbarrati ed un tremito incontrollabile che le scuoteva il
corpo. Sbuffò: ci mancava soltanto di fare ritardo perché
una ragazza si era barricata nell’ascensore.
Improvvisamente
nervoso, le si avvicinò a passo deciso. “Qual è
il problema?”, esclamò, cercando di nascondere la
propria irritazione, “Ehi, mi sente? Scusi? Qual è il
problema? Ho un appuntamento al quinto piano, io, e non ho tempo da
perdere”.
“Non ce la farò mai… lo so
che non ce la farò mai”, riuscì a mormorare la
ragazza, la voce ridotta ad un lieve tremore, interrotta in più
punti da un suono sordo e gutturale, come se stesse cercando
disperatamente di prendere aria senza però riuscirci.
“Beh,
potrebbe anche farcela”, ribatté lui con rabbioso
sarcasmo, alzando polemicamente le mani al cielo, “Ma se
continua ad agitarsi così non credo che sopravvivrà per
scoprirlo”. Voleva l’ascensore libero e lo voleva
adesso.
La giovane donna, però, non smise di tremare e,
anzi, si portò le mani al petto, come se non avesse aria nei
polmoni. Apriva la bocca, ma non ne usciva alcun suono.
D’improvviso,
una consapevolezza colpì Robert come una secchiata d’acqua
gelata: aveva già visto qualcuno in una situazione simile,
prima. Stessi identici sintomi. Stesso respiro affannoso. Stessa
incapacità di reazione. Stesso incontrollabile tremore. Stessa
arrendevole e terribile tristezza, per non dire addirittura
devastazione.
Sì,
era un attacco di panico, ne era abbastanza certo: anche sua sorella
Rosamund ne soffriva.
Sbiancò e lo stomaco gli si chiuse:
era semplicemente un grandissimo e perfetto cretino. Era forse così
che si trattavano gli altri? Soprattutto, era così che si
trattava una ragazza in difficoltà? Dove erano finite le sue
buone maniere, i suoi modi gentili di cui andava tanto fiero?
“Venga
con me”, le disse, afferrandole il braccio garbatamente. La
ragazza, però, non pareva essere capace di muoversi e rimase
coi piedi puntati all’interno dell’ascensore, le mani
sulle tempie, la bocca spalancata nell’ombra, in cerca di aria.
Robert non si dette per vinto. “Venga con me, le ho detto”,
ripeté, con fermezza, “So quello che faccio”.
La
guidò davanti ad un’ampia finestra che dava sul retro
dell’edificio, dove erano raggruppati vari capannoni, roulotte
e furgoncini… i veri e propri studios, dove venivano girati
tutti i film e le serie TV firmate Carson. Si sarebbe concesso di
osservare quel panorama con aria sognante, in un altro momento, ma
adesso non era certo il caso: spalancò il vetro della finestra
e l’aria fresca ed umida del tardo pomeriggio londinese entrò
nella corridoio, riempiendogli i polmoni. La ragazza ancora
boccheggiava, ma quando la lieve brezza le raggiunse i capelli,
scompigliandoli appena, sembrò quietarsi per qualche istante.
Erano bei capelli, notò Robert. Scuri, quasi corvini, e
sembravano incredibilmente soffici al tocco. Si vergognò
immediatamente per i propri pensieri.
“Su, su”, la
incoraggiò allora, massaggiandole la schiena, ed arrossì
al pensiero di star passando il palmo della mano sulla pelle di una
donna sconosciuta. Non era mai stato esattamente un casanova, né
un seduttore particolarmente capace, per cui gli sembrava di star
vivendo una situazione quantomeno utopica.
Nel frattempo,
qualcun altro aveva chiamato l’ascensore, le cui porte cromate
si erano chiuse con un lieve clangore e i cui ingranaggi avevano
incominciato a girare, facendolo schizzare verso l’alto, verso
quel quinto piano in cui Robert sarebbe dovuto già
essere.
Sotto il suo tocco, sentì la ragazza agitarsi.
“Le ho fatto perdere l’ascensore”, biascicò
incerta e riprese a tremare; la cartellina le cadde dalle mani. Per
qualche istante, Robert ebbe il timore che le sue premure non fossero
servite a niente. Dal canto suo, la ragazza scoppiò in un
pianto disperato. “Le ho fatto perdere l’ascensore”,
ripeté, come se gli avesse appena fatto un torto irreparabile.
La sconosciuta appoggiò la testa al suo petto, sussultando
forte. Quel contatto fisico lo lasciò abbastanza interdetto,
ma si riscosse subito.
“Non si preoccupi, lo richiamerò”,
cercò di tranquillizzarla lui, senza smettere di sfiorarle la
schiena, “Lei cerchi soltanto di calmarsi e respirare a fondo”.
Non credeva di essere particolarmente convincente, ma non sapeva che
altro fare.
Pian piano, i singhiozzi ed i singulti andarono
scemando, ed il respiro della sconosciuta si fece regolare contro il
tessuto della sua camicia, irrimediabilmente sgualcita e, sospettava,
probabilmente sporca di trucco. Ma Robert non aveva tempo per pensare
a certe stupide frivolezza, adesso: si sentiva in colpa e sapeva bene
che non era affatto degno di perdono per il modo in cui aveva
reagito. “Mi scusi per prima, mi…”, farfugliò,
gesticolando nervosamente. Era stato un idiota, un egoista ed un
insensibile, “Non mi importa niente dell’ascensore,
davvero, niente, io non… Non volevo essere così
scortese, normalmente io non… mi dispiace”.
La
sconosciuta non disse niente. Cosa avrebbe dovuto dire, d’altronde?
Che non importava? Che andava tutto bene? Col cavolo che andava tutto
bene, era stato un bruto.
“Non so cosa mi è preso,
non so come ho fatto ad arrabbiarmi solo perché era nel
panico. Non importa se ho perso l’ascensore, davvero, non
importa… Sono solo io che devo scusarmi, un gentiluomo
dovrebbe consolare una fanciulla in difficoltà, non
sbeffeggiarla”. Si rese conto solo dopo aver pronunciato quelle
frasi di quanto tremendamente pacchiane e auliche suonassero.
Gentiluomo? Fanciulla? Sbeffeggiare? Ma che razza di inglese stava
usando?
Allora, a contatto con il tessuto della camicia, sentì
le labbra della giovane curvarsi in un sorriso e, presto, ne
fuoriuscì una leggera, breve e quasi impercettibile
risata.
Solo allora, lei alzò la testa, e Robert si stupì
nel percepire un indefinito e curioso prurito all’altezza della
bocca dello stomaco. Era
bella.
Ma
non di una bellezza convenzionale, banale, non una di quelle bellezze
che vendevano preconfezionate nelle pubblicità di profumi o di
shampoo alle erbe: era bella in un modo tutto suo. Non riusciva a
capire bene di colore fossero i suoi occhi, che erano oscurati da una
coltre di lacrime, ma erano dolci, dolcissimi, sormontati da due
sottili sopracciglia scure ed una massa di capelli bruni, acconciati
sobriamente, ma con grande eleganza. Le sue labbra, poi, curve come
erano in un timido sorriso, acuivano il senso di colpa per come
l’aveva trattata inizialmente, perché non poteva pensare
di comportarsi male con qualcuno che aveva quel
sorriso.
“Grazie,
mi ha fatta ridere”, mormorò goffamente lei. Aveva una
voce profonda, notò, ed un accento… nuovo. Non
comune.
“Americana?”, domandò farfugliando
lui, e si maledisse subito per la domanda idiota. Chi era il
decerebrato che si metteva a chiedere l’etnia ad una persona
che aveva appena avuto un attacco di panico? Lei, però, rise
nuovamente. Un suono che gli scaldò il cuore.
“Sì…”,
ammise lei, stringendosi nelle spalle, “E poco pratica del
posto, come potrà immaginare… Avevo un appuntamento
alle sette, mi ero persa e sono andata nel panico, mi scuso per…
per la scenata”, concluse, in un soffio.
“Un
appuntamento?”, le domandò Robert.
“Un
provino, in realtà. Ho fatto su e giù per tutti i piani
del palazzo ma non riesco a capire dove si tengano le audizioni a cui
devo partecipare”.
Un provino? “Oh, ma allora è
al piano sbagliato, completamente”, le spiegò. Ricordava
dove si tenevano i provini, ne aveva visti alcuni quando da piccolo
suo padre lo portava ad esplorare gli studios, “Deve andare al
terzo”.
Lei annuì, imbarazzata. Doveva essere
davvero una donna timida. Robert si chinò a prenderle la
cartellina trasparente, che le era caduta a terra quando si era messa
a piangere, e quasi la confuse con la sua, contenente la sua preziosa
sceneggiatura; poi, entrambi senza dire una parola, si diressero
verso l’ascensore, e lo chiamarono. Fortunatamente era al
secondo piano, per cui arrivò in battibaleno ed i due vi
entrarono.
Il Rolex segnava le sette e sette. Robert si passò
una mano tra i ricci, che aveva con tanta pazienza districato e
riordinato prima di andare lì, e non poté fare a meno
di pensare al vestito buono –di Prada, un regalo di suo padre-
che aveva indossato per l’occasione e al discorso che si era
preparato per l’incontro… istintivamente, diede
un’occhiata ai pulsanti dell’ascensore… avrebbe
soltanto dovuto premere il tasto numero cinque…
Sono
affari suoi, non tuoi,
rifletté tra sé e sé, Non
è colpa tua se non conosce il luogo. Non ti riguarda se soffre
di attacchi di panico.
Era
vero, forse non gli riguardava, eppure non sarebbe mai riuscito a
ignorare la situazione. E non era solo il senso di colpa a parlare,
ma anche quella sorta di sentimento di lealtà e giustizia che
non lo abbandonava mai e che fungeva da perno di ogni azione che
compieva.
E forse, a dirla tutta, poteva aver giocato un ruolo
non indifferente anche il sorriso della ragazza, nella scelta che
stava per prendere. Un sorriso carino, tenero… Un sorriso
quasi di bambina.
Con un profondo respiro, premette il dito
contro il tasto luminoso che recitava “tre”. Le porte
dell’ascensore si chiusero lentamente e la struttura metallica
cominciò a salire pian piano.
Da quando l’aveva
vista in volto ed il suo stomaco aveva deciso in maniera non troppo
saggia di mettersi a ballare la samba, Robert stava sempre bene
attento a non incrociare lo sguardo della ragazza, eppure, in quel
momento riuscì a scorgere una nota di stupore formarsi sui
suoi lineamenti.
“La accompagno”, la informò
lui, prima che lei potesse porgli una qualsiasi domanda.
La nota
di stupore si trasformò in una vera e propria espressione
strabiliata e poco ci mancò che non spalancasse la bocca per
la sorpresa. Non fosse stato che, sotto sotto, era molto nervoso,
Robert avrebbe sorriso per quella reazione genuina, che mostrava più
gratitudine di qualsiasi parola. “Non deve farlo, se è
un problema”, mormorò allora lei.
Ovvio che era un
problema. D’altra parte, Robert stava cominciando a realizzare
qual era la semplice realtà dei fatti: stava perdendo
l’incontro per cui si era preparato per settimane e settimane…
e sperava che il signor Carson, in nome dei vecchi tempi passati al
college con suo padre, gli concedesse una seconda possibilità.
Odiava l’idea di ottenere un impiego grazie al cognome
prestigioso della sua famiglia, ma non vedeva altre opzioni.
Sì,
era un problema, ma c’era di più, dentro di lui –nel
suo stomaco che continuava a tormentarlo, nella sua testa piena di
pensieri e nelle sue tempie, che pulsavano forte. C’era una
consapevolezza, dentro di lui: non
avrebbe mai potuto lasciarla sola,
non dopo che l’aveva vista piangere, non dopo che l’aveva
percepita così fragile tra le sue braccia, non dopo che
l’aveva aiutata a rialzarsi, con un sorriso di ritrovata forza
sulle labbra. Si stupì ed imbarazzò dei propri
pensieri, che sembravano non appartenergli: sua madre diceva spesso
che era un ragazzo fin troppo sensibile, ma lui non ne era certo. Non
gli capitava mai di fare riflessioni di quel tipo.
“No,
rimango”, si limitò a risponderle, guardando dritto di
fronte a sé, sperando così di riuscire a nasconderle
tutto il tumulto di emozioni che aveva dentro.
“Ma aveva
detto di avere un appuntamento…”.
“Niente di
importante”, liquidò la discussione lui, “Preferisco
accompagnarla”. Prese lo smartphone dalla tasca della giacca e
aprì la schermata dei messaggi. Cliccò sul contatto del
signor Carson e prese a digitare:
Signor Carson, sono stato trattenuto e temo che non potrò venire al nostro incontro. Spero non sia troppo da chiedere, ma potremmo fissarne un altro? Sarebbe molto importante per me.
Sembrava
il messaggio di un disperato, pensò, aggrottando le
sopracciglia, ma, in fondo, un po’ disperato era…
dunque, perché mentire?
Non appena le porte
dell’ascensore si riaprirono con un cigolio, Robert si diresse
subito a destra, oltre un corridoio piuttosto angusto che ricordava
bene: quando era bambino e gli studios erano stati costruiti da poco,
suo padre era solito portarlo a gironzolare per quella parte dello
stabilimento.
“Perché è qui?”, le
chiese, per rompere il silenzio interrotto unicamente dai loro
passi.
“Sono un’aspirante attrice… ho un
provino per un ruolo nel prossimo film di Dickie Merton”.
“Ah,
Merton… punta in alto, dunque”, rispose ammiccando lui.
Richard “Dickie” Merton era uno dei registi più
importanti dell’ultimo trentennio britannico, ed aveva firmato
diverse pellicole brillanti di critica sociale. Insomma, avere la
possibilità di partecipare, o anche soltanto di provare a
partecipare ad un suo film, non era cosa da poco.
“E lei,
invece? Perché è qua?”, domandò poi la
ragazza.
Non rispose. Non amava troppo parlare delle proprie
aspirazioni, per cui finse di non aver udito e lasciò che il
quesito aleggiasse tra di loro, mentre allungava il passo verso la
meta. A fine corridoio girarono a sinistra, dove finalmente scorsero
una porta con un cartello che recitava “Audizioni”. Ce
l’avevano fatta.
Si avvicinarono e notarono una donna,
un’assistente alta e dall’aria severa che teneva tra le
mani un bloc-notes, probabilmente con all’interno tutti i nomi
delle attrice che avevano tentato il provino. Robert decise di farsi
da parte e lasciare che fosse la sua nuova conoscente a
parlare.
“Scusi”, mormorò lei, rivolgendo
alla serissima signora un timido sorriso, “Sono qui per le
audizioni. Mi chiamo Cora…”. Prima che potesse
concludere, la donna la interruppe con un gesto sgarbato. Robert, dal
canto suo, l’ascoltò in silenzio e subito, non appena
lei pronunciò sommessamente il suo nome, la sua testa cominciò
a ripeterlo freneticamente, come per non dimenticarlo, come per
imprimerlo con chiarezza nella sua memoria: Cora,
Cora, Cora…
Un nome breve, dolce alla pronuncia, che si allungava al di fuori
delle labbra per poi far spalancare la bocca, quasi in un
sorriso.
“Credo tu sappia di essere in ritardo. E poi, c’è
una ragazza prima di te”, borbottò contrariata
l’assistente, controllando con aria nervosa il suo orologio da
polso; un gesto che non passò inosservato agli occhi di
Robert: chiaramente, la donna non vedeva l’ora di tornarsene a
casa. “Sinceramente, non so se il signor Merton avrà
tempo di vedere anche il tuo…”.
“Lo troverà”,
esclamò improvvisamente Robert, quasi stupito dalla propria
intraprendenza. Era suo padre quello che faceva sfuriate in pubblico…
lui aveva sempre preferito starsene in silenzio. “Lo studio
chiude alle otto e non sono neppure le sette e un quarto. Non vedo
perché alla signorina dovrebbe essere negata la sua
possibilità di ottenere la parte”.
L’assistente
rimase senza parole per un istante, poi corrugò la fronte,
piuttosto contrariata. Robert si contenne dall’impulso di
deglutire nervosamente. “E lei sarebbe...?”, domandò
la signora con freddezza, stringendo il blocco appunti contro il
tessuto blue navy del tailleur.
Il
figlio di lord Patrick Crawley, l’uomo che per primo ha
permesso la costruzione di questo posto. Lo
pensò, ma non disse niente. Non amava essere giudicato in base
al suo titolo… e, per qualche ragione, non voleva che Cora
scoprisse chi
era.
“Soltanto
qualcuno che crede che un lieve ritardo non sia una buona motivazione
per negare a una giovane volenterosa la propria chance”,
bofonchiò, stringendosi nelle spalle. Nel frattempo, la
ragazza americana se ne era stata zitta al suo fianco, guardandosi la
punta delle ballerine bianche. Che l’avesse messa a disagio
insistendo così tanto perché fosse ammessa al
provino?
“E va bene, si accomodi ed attenda il suo turno”,
si arrese la signora, scuotendo il capo.
Robert si concesse un
sorriso vittorioso, ma immediatamente si rabbuiò nel notare
che Cora stava tremando appena. Tensione? Molto probabilmente sì.
Sentì lo stomaco chiuderglisi al pensiero di vederla stare
male di nuovo. Controllò ancora l’orologio da polso:
erano le sette e venti. Tra cinque minuti, il signor Carson sarebbe
uscito… e poi, ormai, aveva mandato il messaggio. Con un
sussulto, ricordò di controllare il cellulare, che teneva
perennemente in silenzioso –forse volontariamente, perché
parlare attraverso quegli aggeggi invece che vis
a vis
lo metteva sempre molto a disagio. Sbloccò lo schermo,
sperando di trovarvi la notifica di un messaggio… invece, non
apparve niente, se non il logo blu di Facebook che lampeggiava, per
mostrargli che John lo aveva taggato nei commenti di una qualche
foto. Ricacciò il telefono in tasca, sospirando: il signor
Carson non aveva risposto. Non era un segno di buon auspicio.
Era
preoccupato, ma a preoccuparlo ancora di più era il tremore
che scuoteva quasi impercettibilmente il corpo longilineo di Cora.
Deglutì: non poteva lasciarla da sola in quelle condizioni.
Non adesso che il suo appuntamento era saltato. Non adesso che…
che… il suo stomaco rispose ai suoi pensieri con l’ennesima
sensazione di leggero prurito.
“La aiuterebbe se rimanessi
con lei?”, le domandò impacciato, ma con quanta più
decisione possibile, “Non vorrei… non voglio che si
agiti di nuovo”.
Cora parve stranita. “Non deve
sentirsi in obbligo…”, esordì, ma lui la
interruppe.
“Finirei per preoccuparmi, altrimenti”,
ammise, giocherellando con l’angolo spiegazzato della sua
cartellina trasparente, “La prego, mi dica soltanto se
l’aiuterebbe ad essere più calma”.
Lei
arrossì fino alla punta delle orecchie. “Mi aiuterebbe
moltissimo”.
“Bene, allora è deciso”,
commentò lui, con quello che, probabilmente, doveva apparire
come un sorriso piuttosto buffo, perché raccolse una dolce
risatina di Cora.
Si sedettero uno di fianco all’altro
nelle piccole sedie di plastica blu che stavano a lato del corridoio,
poggiando le loro cartelline su un tavolino di finto legno. Robert la
guardò, cercando di capire, dal linguaggio del corpo della
ragazza, se davvero la sua presenza la stesse aiutando. Il modo in
cui accavallò dolcemente le gambe e posò le mani sulle
ginocchia con estrema naturalezza lo riempirono di un caldo e
avvolgente senso di pace e di soddisfazione, un senso a cui non seppe
dare razionale spiegazione.
“Può darmi del tu”,
mormorò allora Cora, “D’altra parte, dovremmo
essere più o meno coetanei”.
In realtà, lei
doveva essere leggermente più giovane di lui, considerò
Robert. Aveva un certo occhio, per questo genere di cose.
“Tesa?”,
le domandò poi.
Lei annuì con il capo moro, ed i
suoi boccoli si mossero delicatamente a tempo con la testa.
“Abbastanza, sarebbe il mio primo ruolo. Ho passato tutta la
vita preparandomi a questo momento. O meglio… è mia
madre che ha passato gli ultimi ventitré anni della sua vita a
prepararmi per questo momento”.
Il volto di Robert si fece
interrogativo ed allora lei continuò a spiegargli: “Mia
madre, da ragazza, voleva diventare attrice, è sempre stato il
suo più grande sogno. Il destino, però, non le è
stato affatto favorevole: era una ragazzina dell’Ohio, senza
soldi né possibilità di viaggiare per fare provini e
simili… ben presto, dopo una brevissima “carriera”
in un teatrino di Cincinnati, ha dovuto abbandonare le sue
aspirazioni e si è messa a lavorare come cameriera. È
allora che ha conosciuto mio padre”. Fece una breve pausa per
riprendere fiato e Robert non poté fare a meno di notare il
dolce colorito roseo che le era comparso sulle guance nel parlare
della sua famiglia. “Si sono sposati e, ben presto, l’impresa
edile fondata da mio padre ha preso il volo. Infatti, siamo piuttosto
facoltosi, per non dire ricchi… ma a mia madre non bastava, le
mancava il suo sogno. E quindi ha deciso di farne anche il mio: da
quando ho memoria, ho frequentato le più prestigiose scuole di
recitazione e ho dovuto rinunciare ad ogni altri ambizione per
perseguire lo scopo di diventare un’attrice professionista…
con tutta la tensione che ciò comporta. Ho deciso di iniziare
la carriera in Gran Bretagna e non negli Stati Uniti proprio perché
volevo sfuggire un po’ dalle grinfie di mia madre”. Si
fermò, scuotendo appena il capo. “Scusa, non voglio
disturbarti con i miei problemi”, mormorò sommessamente,
“Né voglio che tu pensi che recitare non mi piace. Mi
piace molto… Soltanto, non credo che sia la mia vocazione. Ma
non ho mai avuto il coraggio di dirlo a mia madre e la sua costante
pressione non aiuta affatto a lenire lo stress”.
Un dubbio
improvviso lo travolse. “È a causa di questa situazione
che soffri di attacchi di panico?”, chiese, esterrefatto.
Cora
scrollò le spalle. “Beh, non posso saperlo con certezza,
ma… è probabile”.
Improvvisamente, si sentì
protettivo nei confronti di quella ragazza che a malapena conosceva.
Aggrottò le sopracciglia, scuro in volto, e lei parve
immediatamente accorgersi del suo cambiamento d’umore. Sembrava
accorgersi di tutto, in realtà.
“Ho detto qualcosa
di sbagliato?”, domandò in un soffio.
Robert si
riscosse… non voleva farla preoccupare. “Sì…
cioè, no”, farfugliò, storcendo le labbra in una
smorfia, “Soltanto… so come ci si sente ad essere sempre
giudicati e controllati dai propri genitori. Definirla un’esperienza
snervante non rende affatto l’idea”.
Stavolta fu il
turno di Cora di aggrottare le sopracciglia, anche se Robert dubitava
che anche lei si sentisse protettiva nei suoi confronti. “Anche
tu non hai una relazione idilliaca con i tuoi?”.
“Diciamo
che ho deciso di non continuare con lo storico mestiere di famiglia”,
sentenziò. Per
il momento,
avrebbe dovuto aggiungere, perché, in realtà, nessuno
poteva scegliere di essere conte o viceversa. Lui era l’erede
e, in quanto tale, prima o poi sarebbe stato anche un lord…
già adesso i dipendenti di suo padre nella catena di hotel lo
chiamavano “milord”, ma a lui andava più che bene
essere semplicemente “Robert Crawley”, allo stato
attuale.
“E cosa vorresti fare, invece?”, gli
domandò allora lei, e per quanto si sarebbe dovuto aspettare
un quesito del genere, che era la perfetta continuazione del punto
della conversazione a cui erano arrivati, Robert si scoprì
genuinamente stupito di quell’interesse. Forse perché
nessuno glielo chiedeva mai, forse perché tutti davano sempre
per scontato che sarebbe stato un possessore di hotel ed un conte e
niente di più.
“Mi piacerebbe lavorare come
sceneggiatore o regista”, mormorò, guardandola dritto
negli occhi: erano blu, adesso ne era certo. Come diamine aveva fatto
a non esserne sicuro fino a quel momento? Ad ogni modo, non era tanto
il colore ad attrarre la sua attenzione, quanto la loro…
espressione. C’era una sorta di luce, una specie di dolcezza,
qualcosa di… maledizione, era un aspirante sceneggiatore ma
non riusciva a trovare un termine per descrivere quegli occhi.
Osservò coscienziosamente la cartellina trasparente che
conteneva le sue parole, quelle parole che significavano così
tanto per lui; aveva deciso, quella sera, appena tornato nel suo
appartamento, avrebbe cercato la parola giusta, anzi, no, perfetta,
per descrivere quegli occhi. Ne andava della sua credibilità
di “scrittore”.
“A dirla tutta, vorrei
diventare sceneggiatore e
regista”.
Tacque, stupito di averle rivelato il suo sogno nel cassetto con
tanta leggerezza: certo, se era nei prestigiosi Carson Studios, era
chiaro che non era proprio intenzionato a fare lo spazzino o
l’avvocato, eppure era sempre piuttosto scettico dinnanzi
all’opzione di aprirsi agli altri, soprattutto quando si
trattava, appunto, di sogni nel cassetto. Forse perché i suoi
genitori avevano sempre accolto i suoi desideri con prediche,
grugniti e, di tanto in tanto, minacce di diseredazione. La solita
routine, insomma.
“Un artista completo, praticamente”,
commentò Cora con un ampio sorriso, lisciando distrattamente
una piega del semplice vestito lilla.
Robert si limitò
ad accennare una risata, scuotendo il capo riccio. “Direi che
la parola artista,
per il momento, è decisamente fuori dalla mia portata”.
Le
sue labbra si dischiusero in un altro dolce sorriso. “Non sono
d’accordo”, ribatté pacatamente, “Il fatto
che non sia affermato non significa che tu non sia già un
artista”.
Arrossì al velato complimento,
probabilmente perché non ne riceveva spesso… anche
perché non faceva leggere i suoi lavori a nessuno. “Grazie”,
mormorò, giocherellando con il bordo dello smartphone, “Ma
non puoi saperlo”. Forse prima si era sbagliato, pensò,
perché adesso non gli sembrava affatto una ragazza timida.
Anzi, c’era una certa serena tenacia nelle sue parole, non
tanto come se volesse imporre la sua opinione, ma come se sapesse
che, con la gentilezza, si può convincere chiunque a cambiare
idea… persino un inglese testardo come lui. Non in quel
frangente, però: lui non era un artista e, probabilmente, mai
lo sarebbe stato.
“Film preferito?”, domandò
d’improvviso lei, arcuando entrambe le sopracciglia con aria di
sfida.
Robert quasi scoppiò a ridere. “Mi stai
mettendo alla prova?”, le chiese, ricambiando lo sguardo
ironico della ragazza.
Cora si strinse nelle spalle. “Forse”,
si limitò a controbattere, “Allora, qual è?”.
Divertito
dalla situazione, fu il turno di Robert di fare il vago.
“Indovina”.
La giovane donna roteò gli occhi
ironicamente e incrociò le braccia. “Indovinare? Ma ci
sono milioni e milioni di film al mondo! Come faccio a
indovinare?”.
“Potresti partire escludendo Sharknado
o qualsiasi B-movie del genere”, propose lui.
“Non
so neppure cosa sia, questo Sharknado”.
“Beh,
è un film che parla di un uragano formato da… ehm, non
importa. Tu prova ad indovinare, dai”, la spronò ancora,
curioso di vedere cosa si sarebbe inventata. Non riusciva a capire
bene la ragione di tanta curiosità, in realtà, eppure
non riusciva a trattenersi dall’essere eccitato come un bambino
davanti ai pacchi regalo sotto l’albero di Natale.
La
ragazza portò l’indice alle labbra, pensierosa. “Allora…
allora…”, mormorò, “Sicuramente non sei il
tipo da blockbuster alla Michael Bay, per intenderci. Non ti ci vedo
che piangi per l’uscita dell’ultimo capitolo della saga
di Transformers”.
“Nemmeno
io mi ci vedo molto”, sogghignò lui.
“Bene, e
questa categoria è esclusa…”, continuò
Cora, lanciandogli uno sguardo riflessivo, come se osservandolo
potesse magicamente capire quale tra le tante pellicole rilasciate
nella storia del cinema aveva segnato indelebilmente la sua vita.
Robert si sentiva a disagio sotto osservazione come era e prese a
fissare le proprie unghie, come se il modo in cui le aveva tagliate
quella mattina fosse particolarmente interessante.
“Secondo
me… secondo me…”, ripeté, come se
d’improvviso avesse avuto un’illuminazione, “Beh,
sei un ragazzo sensibile e giusto, con una vena ironica e
malinconica… Secondo me… Sei un po’ il tipo da
grandi film drammatici, pieni di pathos e tragedie. Una cosa alla
Lupo
Solitario di
Sean Penn, per capirci”.
Robert decise che era arrivato il
momento di abbandonare l’attenta contemplazione delle sue
unghie e, non appena udì il titolo che aveva nominato la
ragazza, rimase stupito: non ci era andata affatto lontana. Si passò
una mano sulla nuca, domandandosi imbarazzato se avesse sparato a
caso, se fosse incredibilmente intuitiva o se, forse, aveva
semplicemente scritto Sean
Penn a
caratteri cubitali sulla fronte. “Non Lupo
Solitario,
ma Into
the Wild”,
ammise dunque, sorridendole timidamente, “Ma avevi praticamente
azzeccato”.
“Perché proprio Into
the Wild?”,
domandò.
“Mi piace… beh, molto banalmente,
mi piace il messaggio e come si evolve man mano che il film va
avanti. Dal farti desiderare una libertà assoluta e senza
limiti, arriva a farti capire che…”, si fermò,
dubbioso. Non voleva spiattellarle il messaggio finale del suo film
preferito con assoluta nonchalance. “Lo hai visto, vero?”.
Lei
rise. Era bello vederla ridere, in contrasto con lo stato in cui
l’aveva trovata poco prima. “Sì che l’ho
visto, non ti preoccupare”, rispose.
“Beh, arriva a
farti capire che, senza qualcuno di caro accanto, niente ha senso.
Neppure la libertà… soprattutto la libertà”,
concluse, scrollando le spalle, “Un po’ patetico da parte
mia, immagino”.
“Niente affatto…”,
esclamò pensosa Cora, “Adesso è il tuo
turno”.
“Come prego?”, domandò Robert,
piuttosto confuso. Non era affatto certo di capire a cosa stesse
facendo riferimento.
“Il mio film preferito”, spiegò
lei, “Indovinalo”.
“Oh”, esclamò
Robert, ridendo, “Ma io non sono intuitivo come te, non ho
chance”. Quasi si era dimenticato dell’appuntamento,
quasi si era scordato di aver perso un’opportunità
importante; sicuramente non rimpiangeva di aver compiuto una buona
azione… sicuramente non rimpiangeva di aver fatto la
conoscenza della dolce espressione negli occhi di Cora. Quella sorta
di solletico alla bocca dello stomaco tornò a tormentarlo
dolcemente.
“Ti do un indizio”, lo aiutò lei,
“Il mio regista preferito è un italiano”.
Fece
un fischio di approvazione, ma prima che potesse azzardare una
qualsiasi risposta –era più una persona da Federico
Fellini o da Vittorio De Sica?-, la porta di fianco si spalancò,
rivelando il volto di un giovane, forse l’aiuto regista, che si
rivolse all’assistente. “Abbiamo finito?”, domandò,
con l’aria di volersene soltanto tornare a casa.
“Ce
n’è un’altra, in realtà”, mormorò
l’assistente, indicando svogliatamente Cora.
L’aiuto
regista fece un vago gesto con le mani, si chiuse nelle spalle e,
senza troppo entusiasmo, si riferì a Cora: “Allora
seguimi, vediamo di fare in fretta”.
Robert si alzò,
aiutò Cora a fare altrettanto e si occupò gentilmente
di prendere le due cartelline trasparenti dal tavolino, porgendole la
sua. Era il momento di salutarsi, lo sapeva bene… e la cosa lo
rendeva piuttosto malinconico.
“Buona fortuna”,
mormorò allora, sorridendole incoraggiante.
“Grazie,
ma credo che dovrò puntare su qualcosa di più che la
fortuna. Magari sul talento, sempre che ne abbia…”,
biascicò lei fuori dalle sue labbra rosee.
“Beh, a
me piacerebbe molto averti come protagonista di un mio film”,
bofonchiò Robert, senza neppure rendersi conto di quel che
stava dicendo. Ma che gli era preso? Arrossì, affossò
le testa nelle spalle e fece per abbassare lo sguardo, ma si fermò
immediatamente: notò infatti che anche le orecchie della
ragazza si erano rapidamente dipinte di una tenue sfumatura color
porpora. Allora non era l’unico imbarazzato, pensò,
concedendosi un fuggevole sorriso: la cosa lo sollevava e, al tempo
stesso, lo stuzzicava. Non sapeva bene perché, ma si sentiva
tacitamente soddisfatto.
“Grazie per essere stato con me”,
mormorò lei, scostandosi i capelli scuri di lato, e cercò
il suo sguardo, “Non è… non è da tutti.
Anche perché devo esserti sembrata ridicola con tutto quel
panico e quel pianto. E poi hai perso il tuo appuntamento”.
“Non
era importante, te l’ho già detto”, ripeté
lui, chiudendosi nelle spalle, ma lei doveva aver intuito che stava
mentendo, perché gli rivolse uno sguardo al contempo grato e
dispiaciuto, “E poi dubito che potresti mai apparire ridicola,
ai miei occhi”, soggiunse.
“Ti devo un favore”.
“Non
dirlo neppure per scherzo. È stato un piacere” borbottò,
guardando ad intervalli regolari la punta delle sue Tod’s nere
e le iridi azzurre di Cora. Non che avesse dubbi su quale delle due
visioni fosse la più bella. “Soprattutto, è stato
un piacere conoscerti”.
Lei arrossì e gli strinse
appena la mano, con gratitudine. Poi si girò, prese un
profondo respiro e scomparve con l’aiuto regista dietro la
porta nera. Robert sospirò… per qualche istante,
accarezzò l’idea di stare lì ad aspettarla, per
sentire come era andata, ma poi ci ripensò: nemmeno si
conoscevano davvero, in fondo, non voleva certo sembrarle pedante…
anche se nella sua mente continuavano a rimbombare quelle due
singole, semplici sillabe: Co-ra, Co-ra,
Co-ra…
Con
un sospiro, tornò indietro verso l’ascensore e lo
chiamò. Ne approfittò per dare un’occhiata allo
smartphone e si stupì quando vide sullo sfondo il simbolo di
un nuovo messaggio; con il cuore in gola, lo aprì. Era del
signor Carson.
Va bene, figliolo. Ma posso vederti soltanto tra due settimane, mercoledì 16 settembre. Avrò circa un quarto d’ora libero dalle 17 alle 17:15. Non amo molto i contrattempi, ma so che sei un po’ come tuo padre, tu, e dei Crawley ci si può fidare. A presto.
L’ascensore
arrivò e Robert vi entrò, premendo il tasto “T”:
piano terra.
Era abbastanza chiaro come a Carson della sua
sceneggiatura non fregasse assolutamente niente. Lo faceva come
favore, come favore per suo padre. Niente di più.
Ripensò
alle parole di Cora, a come aveva creduto in lui. Forse era stata la
prima che, pur non conoscendolo, aveva creduto in lui. Mentre usciva
dall’edificio e la brezza umidiccia del vento gli scompigliava
i capelli, si ritrovò a pensare che, tutto sommato era stato
fortunato.
Aveva perso un’occasione, sì, ma il
signor Carson gliene aveva concessa un’altra. E, soprattutto,
aveva avuto un’occasione ben più grande: quella di fare
la conoscenza del sorriso di Cora.
Cullandosi in quel pensiero,
afferrò le chiavi dalla tasca e si avviò verso l’auto.
Non sapeva ancora che il fato stava per dare alla sua vita una piega
del tutto differente.