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Autore: _Lady di inchiostro_    27/07/2017    5 recensioni
C’è chi dice che la nostra strada è già stata decisa, che è il destino che stabilisce quali difficoltà dobbiamo incontrare durante il cammino, o chi ci accompagnerà durante il percorso.
C’è chi dice che la nostra strada, invece, ce la costruiamo da soli, che siamo noi a decidere chi incontrare, siamo noi padroni delle nostre azioni.
Iwaizumi Hajime aveva sempre creduto nella seconda opzione. Finché non ha incontrato Oikawa Tooru. E allora si chiese se il destino non volesse farli incontrare per davvero, in qualsiasi modo possibile.
***
[Future Fic and What if?] [Tanto angst e cose belle ♥]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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VIII


~
 



[5 gennaio 2017]





Come aveva detto l’ultima volta che si erano incontrati, Iwaizumi l’aveva chiamato per telefono.
Oikawa aveva sentito il cuore rimbombargli dentro le orecchie quando aveva preso il telefono tra le mani, distrattamente. Gli occhi erano completamente sgranati, puntanti sul nome “Iwa-chan” scritto sullo schermo, mentre l’aggeggio vibrava ininterrottamente. Aveva cominciato a ragionare su un milione di cose: sul fatto che non aveva zuccherato il caffè quella mattina, che forse avrebbe dovuto cambiare il nome del ragazzo sulla sua rubrica, che magari non avrebbe dovuto rispondere; l’unica cosa su cui Oikawa non aveva ragionato, però, era che Hajime l’aveva effettivamente contattato.
Non si era preso gioco di lui. Aveva dato la sua parola, e l’aveva mantenuta.
Alla fine, dopo aver mandato giù in gola fiotti di saliva, aveva deciso di rispondere. Aveva cercato di parlare col suo solito tono gioviale, anche se la sua voce non aveva nulla di allegro. L’altro aveva risposto esattamente allo stesso identico modo, come se avesse fatto la telefonata ma non si fosse preparato un discorso prima.
Si erano scambiati una decina di parole, chiedendo all’altro come avessero passato l’anno nuovo, ed entrambi avevano risposto che non avevano fatto nulla di che.
In realtà, Oikawa aveva festeggiato l’ultimo dell’anno andando per locali con Bokuto, Kuroo,  Hanamaki e Matsukawa; era felice che i suoi due compagni di liceo fossero venuti a trovarlo, preferendo passare il Capodanno a compatirlo, piuttosto che passarlo con le loro famiglie. Credeva che sarebbe tornato a casa ubriaco marcio, ma non fu così, nessuno si ubriacò fino a quel punto, e forse l’esperienza dell’altra volta aveva messo un po’ in allarme Bokuto e Kuroo.
Insomma, anche se avesse voluto inveire contro Hajime, era quasi certo che non l’avrebbe fatto mai, neanche da ubriaco.
Non quando gli compariva davanti l’immagine di lui che faceva il solletico a quella bambina. Non quando, per una strana ragione, vedeva quella stessa bambina sull’altalena che canticchiava.
Il giornalista gli aveva chiesto se fosse ancora disposto ad andare al cinema con lui, e il setter sentì il cuore schizzargli direttamente in gola, ostruendogli le vie respiratorie. Due parti del suo essere stavano combattendo tra di loro, e Oikawa non sapeva se seguire quella che gli diceva di accettare l’invito, o seguire la parte più razionale, quella che gli diceva di rifiutare e provare a dimenticarlo.
A salvarlo, si fa per dire, fu una vocetta fanciullesca che provenne dall’altro lato del telefono.
«Chi è, papà? È il tizio dell’altra volta?»
«Non adesso, Akane…»
«È la persona con cui esci sempre? La voglio conoscere!»

Il castano era rimasto un attimo interdetto mentre ascoltava quella discussione tra padre e figlia, non capendo per quale ragione la figlia di Iwa-chan volesse conoscerlo. In effetti, gli era sembrato che quella bambina lo stesse fissando con curiosità, quella mattina al parco, ma era preso da tutt’altro per badare a lei.
Non seppe per quale ragione, forse le emozioni avevano vinto sulle ragioni, forse si era lasciato impietosire da quella vocetta che continuava a pregare il padre, o forse era solo un autentico masochista. Sì, forse l’ultima opzione era decisamente la più plausibile. Perché altrimenti non avrebbe detto ad Iwa-chan che desiderava vederlo ancora, pur sapendo che non c’era alcuna speranza. Perché altrimenti non avrebbe risposto a quella telefonata. Perché altrimenti non avrebbe proposto di vedersi per una semplice cena, invitando anche Akane.
Sospirò, una nuvoletta bianca che si alzò verso l’alto, mentre lui indugiava davanti alla porta. Il giornalista, in un secondo momento, gli aveva mandato un messaggio, dicendogli che avrebbero cenato a casa sua, scrivendo poi l’indirizzo.
Oikawa era arrivato da una decina di minuti, aveva fissato il messaggio per essere sicuro di non essersi sbagliato, e poi era rimasto lì, le mani infilate nelle tasche del cappotto e la faccia mezza nascosta dalla sciarpa. Aveva ripensato alla discussione che avevano avuto per telefono, a quello che si erano detti quella mattina al parco…
«Non ti pentire di quello che hai fatto. Mai.»
Oikawa non ebbe tempo di chiedergli spiegazioni per quella frase, e onestamente non era sicuro di volerle. Con Iwa-chan funzionava così, era come se stessero giocando al tiro alla fune, e ogni volta lui si ritrovava senza più una corda da tirare, le mani che bruciavano. Quando pareva che il giornalista facesse un passo avanti verso di lui, poi ne faceva altri cinque indietro.
Era stanco. Era stanco di fare delle supposizioni, era stanco di sperare.
Le cose stavano così, doveva solo accettarlo. Forse, se l’avesse fatto sul serio, magari avrebbe potuto cominciare a vedere il rapporto con Iwa-chan in maniera diversa, come una bella e semplice amicizia.
Prese un bel respiro, suonando poi al campanello e aspettando un paio di minuti davanti allo zerbino. Ad aprirgli fu Hajime.
«Ciao» disse, atono, senza guardalo negli occhi.
Lui rispose quasi in un sussurro, prima che un’altra voce lo sovrastasse. «Tu sei l’amico del mio papà?»
Oikawa abbassò lo sguardo, sentendo la carne raggelare di colpo non appena incontrò due occhi smeraldini come quelli di Iwa-chan che lo fissavano, entusiasti. Non si era sbagliato, quella bambina era veramente la fotocopia del giovane: stesso colore della pelle, degli occhi, dei capelli; forse, solo caratterialmente era ben diversa dal padre, ma nessuno avrebbe mai potuto dire che quella bambina non fosse sua figlia.
«Piacere! Mi chiamo Akane!» disse, tendendogli la manina, e il castano sentì uno fastidioso prurito dietro la nuca, come se le sue braccia si rifiutassero di muoversi e la sua bocca di pronunciare alcun suono.
Hajime teneva una mano posata sulla sua spalla, mentre l’altra era ancora appoggiata alla maniglia della porta. Anche lui non sapeva che cosa dire. Il cinema gli era sembrata un’ottima idea, non dovevano per forza parlarsi durante la visione del film, e poi sapeva che Oikawa sarebbe stato troppo occupato a fissare i dettagli per pensare a lui. Ma in questo caso, dovevano comunicare tra loro, stare seduti a tavola e fare un minimo di conversazione. Era come se non si fossero mai incontrati al parco e si stessero rivedendo ora dopo parecchio tempo. Come se quella discussione non ci fosse mai stata e non avessero deciso assieme di continuare a vedersi nonostante tutto.
Iwaizumi stava per dire alla figlia, scherzosamente – giusto per smorzare la tensione – che di solito non ci si presenta così bruscamente alla gente, ma Oikawa lo precedette, ricambiando subito la piccola stretta di mano.
«Oikawa Tooru, molto piacere!» esclamò, e il giornalista riconobbe subito quel sorriso che aveva dipinto sul volto: era lo stesso che utilizzava per le telecamere, forzato e a tratti fasullo. La cosa gli diede molto fastidio.
Akane, comunque, non sembrò farci caso – e come poteva, per lei i sorrisi erano tutti uguali ed erano sempre belli –, ricambiando a sua volta.
«Prego, accomodati» gli disse poi il giornalista, lasciandogli spazio per passare.
Oikawa non si aspettava chissà quale tipo di appartamento, in fondo Iwa-chan viveva pur sempre in un comunissimo condominio, eppure doveva ammettere che quella abitazione non era affatto male. Era piccola, non appena era entrato aveva subito trovato una cucina con una piccola penisola sulla destra e un tavolo sulla sinistra; poi c’era il divano, più avanti, con tanto di televisione già accesa, e alla fine della stanza c’era un piccolo corridoio.
Si tolse il cappotto e la sciarpa, riponendo tutto nell’appendiabiti là vicino. Per quanto fosse l’appartamento di un padre single, era tutto abbastanza curato.
«Ti va bene il ramen?» Il castano sobbalzò nel sentire la voce di Hajime direttamente rivolta a lui. Aveva il busto girato verso la sua direzione, e lo stava fissando, lo sguardo tagliente come la lama di un coltello, mentre si trovava davanti ai fornelli.
Oikawa annuì.
«L’uovo lo vuoi sbattuto?»
«Va benissimo in qualsiasi modo… grazie.»





Non ci volle molto prima che si mettessero a tavola.
Oikawa aveva osservato tutta la scena senza scollare gli occhi di dosso da Akane, che si muoveva avanti e indietro mentre sistemava il tavolo. Avrebbe voluto dare una mano, ma la bambina stessa gli aveva intimato di stare fermo, raccontando poi come la sua mamma si arrabbiasse ogni volta che un ospite cercasse di fare qualcosa per aiutare.
Il castano sentì le corde vocali che quasi si stringevano, come se fossero state legate con un nastro, lo stesso che portava la bambina tra i capelli, e poté giurare di aver visto le spalle di Hajime sussultare leggermente. La madre di Akane era stata la fidanzata di Iwa-chan per tanto tempo; ed era anche stata sua moglie.
«Ho vissuto più con mia moglie che con te!»
Non sarebbe mai stato come la madre di Akane. Da come ne parlava la bambina, sembrava una donna molto dolce e paziente, una di quelle madri che sa sempre come risolvere anche le situazioni peggiori.
Si chiese, data la reazione di Hajime, se lui in realtà non fosse ancora innamorato di lei…
«Oikawa-san, papà ti ha detto cosa abbiamo fatto l’ultimo dell’anno?»
Il ragazzo parve riscuotersi dai suoi pensieri, rendendosi conto che sia il padre sia la figlia lo stavano fissando, mentre le bacchette continuavano a rigirare la brodaglia oramai fredda.
Sbatté gli occhietti, posando poi il mento sul palmo della mano e cercando di farsi vedere interessato all’argomento. Da quando si erano messi a tavola, l’unica ad aver parlato era stata proprio Akane. Lui e Iwa-chan non si erano scambiati neanche una parola.
«No, il tuo papà non mi ha detto nulla!» disse, anche se le parole avevano un sapore amaro sulla punta della lingua. «E tu puoi chiamarmi Tooru, tranquilla!»
La bambina spostò lo sguardo sul padre, come a chiedere se potesse veramente farlo, e non appena capì che lui non aveva nulla da obiettare, continuò:  «Siamo andati al tempio, e papà mi ha aiutato a mettermi il kimono!»
«Sul serio?» disse. «Non ti facevo così bravo, Iwa-chan!»
Fu in quel momento che si rese conto di essersi effettivamente rivolto a lui, chiamandolo come faceva sempre, usando il suo solito tono di voce. E soprattutto, gli aveva parlato direttamente, come se tra loro due non ci fossero anni luce di distanza che li separavano. Erano lì, seduti a un tavolo, ed erano l’uno di fianco all’altro. Niente di diverso da quella volta che erano andati a pranzare assieme. Solo che, quella volta, non si conoscevano ancora.
Il ragazzo alzò le spalle, tenendo sempre lo sguardo sulla scodella di ramen. «Non ho fatto tutto da solo, è venuta anche mia zia a darci una mano.»
«Sì, ma la zia mi ha solo sistemato i capelli! Il kimono me l’hai messo tu!» si affrettò ad aggiungere la bambina, balzando poi in piedi sulla sedia.
«Beh sì…» si limitò a dire, per poi squadrare la figlia dall’alto in basso. «Akane, siediti.»
La bambina obbedì senza fare storie, per poi rivolgersi ancora una volta verso Oikawa. «Ho anche espresso un desiderio!»
La guardò, sorpreso, come se cercasse con tutto se stesso di essere cortese con quella bambina che gli stava parlando come se fosse un loro amico di famiglia e lo conoscesse da una vita. Come se l’avesse vista crescere, e Oikawa si ritrovò a pensare come sarebbe stata la sua vita se Iwa-chan fosse rimasto a Miyagi e loro fossero diventati amici prima. Forse, tutto questo non sarebbe successo. O forse, avevano solo tardato l’inevitabile.
Questo, però, Oikawa non poteva saperlo. Solo il destino ne era a conoscenza.
«Davvero?»
Akane annuì vigorosamente. «Ho chiesto questo – e giunse le mani e stinse gli occhi come a simulare quello che aveva fatto al tempio – “per favore, quando sarò grande voglio giocare a pallavolo e fare anche la violinista!”»
Quello che Hajime stava per mettere in bocca rimase sospeso in aria, mentre lui spostava lo sguardo sulla figlia, segno che lui non era a conoscenza di quello che la bambina avesse espresso al tempio. Oikawa, invece, aveva sbattuto ancora una volta le palpebre, sorpreso.
Ripensò alla scena che aveva visto quella mattina al parco, la bambina avvolta in quel cappottino, mentre tentava di palleggiare usando una piccola palla e Iwa-chan le diceva come doveva posizionare le mani.
«Ti piace giocare a pallavolo…?» chiese, quasi con la paura di rompere un equilibrio che, per quanto precario fosse, si era venuto a creare in quelle poche ore.
Iwaizumi saettò lo sguardo verso di lui, la bocca ancora semi aperta, immobile.
«Sì, mi piace un sacco! Papà, prima, ci giocava più spesso, lo sai?»
Oikawa guardò di sottecchi il ragazzo, che aveva ricominciato a mangiare, tenendo lo sguardo fisso sulla sua pietanza. Il gelo di quelle giornate di gennaio pareva che fosse entrato improvvisamente dentro quella stanza.
«Sì, lo so…» disse, l’immagine di loro due che giocavano a pallavolo che gli comparve davanti, e Tooru cercò di ricordare con tutto se stesso le sfumature degli occhi di Hajime, rendendosi conto che la sua mente le stava piano piano cancellando dai suoi ricordi. Aveva bisogno di rivederle ancora una volta. Aveva bisogno che quegli occhi lo guardassero. «E ti ha detto che anche io so giocare?»
La bambina, che aveva messo un paio di spaghetti di miso in bocca, li risucchiò con voracità , producendo un rumore un po’ fastidioso. Iwaizumi, per la prima volta da quando il setter era entrato in casa, lo stava guardando nella sua interezza, gli occhi appena spalancati.
«No, non me l’ha detto!» disse poi Akane, passandosi la lingua sulle labbra.
«Gioco nella Nazionale, sono l’alzatore titolare» rispose, prendendo un boccone dal suo piatto.
Ci fu un attimo di silenzio, e adesso il gelo era misteriosamente scomparso. Oikawa sentì una sensazione calda all’altezza del petto, diversa da quella che di solito provava quando stava con Iwa-chan. Era fastidiosa, la sentiva scorrere dentro le vene, eppure gli aveva dato un senso di pace che non sentiva da tempo.
La bambina si mise nuovamente in piedi sulla sedia, sbattendo entrambe le manine sul tavolo e lasciando entrambi gli adulti stupiti. Poi, si rivolse al padre.
«Allora è lui la persona famosa che hai intervistato?» disse, quasi offesa. «Perché non me l’hai detto, papi?»
«Non te l’ho detto…?» Hajime finse di cadere dalle nuvole.
La bambina gonfiò le guance, rimettendosi seduta. «Smettila di prendermi in giro…» bofonchiò.
E poi successe qualcosa che Oikawa non avrebbe mai immaginato, mentre osservava la scena come se fosse stato catapultato improvvisamente in un contesto di cui non faceva parte – e, in un certo senso, era così.
Hajime rise. Non troppo forte, ma a un livello abbastanza alto da riempire completamente sia la stanza sia i timpani del giovane setter. La sensazione di calore si fece sempre più persistente, e adesso sentiva il petto che bruciava come un tizzone ardente, mentre andava su e giù ogni volta che immetteva l’ossigeno dentro i polmoni. Era diversa dalla risata che aveva sentito quella sera al parco, tutto per Tooru aveva un aspetto diverso in quel momento. Come se fosse rimasto davanti a un dipinto per troppo tempo senza osservare con attenzione cosa ci fosse ritratto, i vari particolari, il significato nascosto sotto quella tela.
Era come se Hajime fosse un’altra persona quando stava con sua figlia, e Oikawa sentì il bisogno quasi fisiologico di avere quella persona nella sua vita; di avere Hajime e basta, con tutte le sue sfaccettature, perché a lui piaceva così. Perché lui voleva che fosse così, non doveva cambiare per forza.
Oikawa era arrivato a un punto di non ritorno. E se ne rese tristemente conto mentre ascoltava quella risata come se fosse la più bella melodia composta sulla faccia della Terra. Abbassò la testa, cercando di nascondere il suo crescente imbarazzo, mentre l’altro continuava a ridere.
«Perché stai ridendo, smettila!» continuò la bambina, ridendo anche lei. «Lo sai che hai la risata contagiosa!»
In realtà, non sapeva neanche lui perché stesse ridendo. Era come se l’espressione di Akane avesse finalmente smorzato quella tensione opprimente. «Scusami… Ma non capisco perché ne stai facendo una tragedia!»
«Perché non vorrei che smettessi di raccontarmi le cose…»
Eccolo. Il morbido sorriso che si era dipinto quella mattina al parco sul volto di Hajime: lo stava facendo anche adesso, e Oikawa si rese conto che gli veniva quasi naturale sorridere in quel modo. Era pur sempre di sua figlia che si stava parlando, era normale che si comportasse così, soprattutto visto quello che era successo tra lui e sua moglie.
Il giornalista si sporse un poco, in modo da poter posare la mano a palmo aperto sulla testolina della bambina, in un gesto affettuoso e che era solito fare solo con lei. «Tranquilla, lo sai che sei la mia consulente numero uno» le disse. «La prossima volta farò più attenzione, okay?»
La bambina annuì, un ciuffo di capelli che le ballonzolava davanti agli occhi. Tornarono entrambi sul proprio piatto, e fu in quel momento che Hajime spostò lo sguardo sul ragazzo che gli stava accanto, seduto a capo tavola. Teneva gli occhi bassi, ma non li aveva scostati nemmeno un attimo da quella scena. Si guardarono per un tempo che parve un’infinità, attuando il loro solito gioco di sguardi, e il primo a perdere questa volta fu proprio Hajime.
Si aspettava di trovare negli occhi di Tooru un velo di tristezza, di malinconia, di rabbia. Ma no, in quegli occhi vide solo il desiderio del giovane ragazzo di essere parte integrante di quella scena.






Oikawa si era offerto di aiutare Iwaizumi a lavare i piatti, ma quest’ultimo gli aveva detto di non preoccuparsi e di pensare invece a stare comodo; ovviamente, non lo aveva guardato in viso nemmeno una volta mentre parlava.
Il castano decise di rinunciarci, gironzolando per la stanza senza nulla da fare, mentre Akane era concentrata a guardare un anime che trasmettevano in televisione.
La casa di Hajime era diversa dalla sua: non troppo spoglia, ma neanche così ricca di dettagli, giusto quell’essenziale che serviva a guarnire l’ambiente. Come immaginava, c’erano più cornici con fotografie che soprammobili a riempire i vari spazi. Alcune rappresentavano paesaggi di ogni tipo, solitamente di Tokyo, e Oikawa si ritrovò a riscoprire certi scenari che aveva sotto gli occhi ogni giorno, dai cartelli pubblicitari, al mercato, alla torre. Altre fotografie – come immaginava del resto – erano tutte di sua figlia. Non c’erano troppe, ma abbastanza da poter ammirare la crescita di quella bambina nei suoi quattro anni di vita. Osservò ogni foto con attenzione, come se stesse cercando di imprimere nella mente, con forza, i vari dettagli sul viso di quella bambina, e scorgeva sempre una particolarità che era anche di Hajime, come quando corrucciava la fronte, o come quando sollevava l’angolo della bocca per sorridere. E questi particolari li notò ancora di più quando si ritrovò davanti a una cornice a quattro foto, tutte ritraenti una piccola Akane di soli due anni, tranne una: in questa c’era anche Hajime, e la bambina, forse seduta sulle sue ginocchia, gli aveva messo una mano sopra il naso. Sorridevano entrambi.
Oikawa ingoiò un grumo di saliva amaro. Si chiese perché stesse facendo tutto questo, che cosa ne avrebbe ricavato in futuro. Eppure, la risposta era così ovvia: nulla, non ne avrebbe ricavato nulla. Aveva sentito quello che gli aveva detto Iwa-chan, non avrebbe mai rinunciato a sua figlia per lui, per quella che considerava come una bella amicizia. C’era sempre qualcosa che non tornava, però, a cominciare dalla frase che aveva detto l’altro giorno, e il setter credeva di stare per impazzire.
Sentiva le mani bruciare per via della fune.
Sentiva il polso stringere, e non sapeva neanche lui perché. E il destino, intanto, lo sbeffeggiava.
«Ti piace?»
A riscuoterlo dai suoi pensieri fu la vocetta di Akane alle sue spalle, e per poco Oikawa non fece un balzo sul posto. Si girò, come se fosse stato sorpreso a rubare, rivolgendo poi un sorriso tirato alla bambina, annuendo; quest’ultima sorrise, la cannuccia tra i denti, mentre stava bevendo un succo all’arancia rossa.
«Ho poche foto col mio papà, però per me sono le più belle!» disse. «Non lo dire alla mia mamma, okay?»
Il castano spalancò appena gli occhi. Avrebbe voluto risponderle che non c’era alcuna possibilità che lui incontrasse la sua mamma, e di certo non se ne sarebbe ricordato, ma decise di limitarsi ad annuire. La bambina sorrise ancora, dandogli poi le spalle e tornando a posizionarsi davanti al tavolino basso. Solo allora Oikawa si accorse che sulla superfice erano sparse diverse carte, tutte provenienti dal mazzo delle hanafuda.  Che cosa ci faceva una bambina di appena quattro anni con delle carte del genere?
Akane, probabilmente sentendosi osservata, alzò lo sguardo verso di lui, e notando che la stava guardando con un’espressione di puro sconcerto, si mise a ridere, trattenendosi con una mano davanti al viso.
Oikawa alzò un sopracciglio. «Ti stai prendendo gioco di me, per caso?» disse, rendendosi conto di aver usato un tono di voce scherzoso, non di rimprovero.
No… Non poteva affezionarsi anche a lei…
«Sei buffo!» gli rispose. «Hai una faccia strana!»
Adesso, entrambe le sopracciglia erano sollevate. «Cosa avrebbe la mia faccia che non va? Guarda che sono pagato anche per questa, sai?»
«Non lo so, è che fai un sacco di espressioni strane!» rispose, alzando le spalle, una spallina della salopette che scivolò via.
Incrociò le braccia. «Le mie espressioni sono normalissime» disse, facendo l’offeso, anche se in realtà non gli riusciva per niente. «Ero solo sorpreso di vederti usare le hanafuda.»
La bambina sbatté le palpebre, spostando lo sguardo nello stesso punto in cui era puntato quello dell’altro. «Ti riferisci a queste?» domandò, e senza aspettare una risposta, aggiunse: «Mi servivano solo per l’anime che stavo guardando. Prende il nome da queste carte, anche se il mazzo che usano le protagoniste è diverso!»
Doveva essere uno di quei anime fatto apposta per le bambine, dove le protagoniste erano delle supereroine, e ogni volta avevano un potere o una qualche abilità che le contraddistingueva da tutte le altre protagoniste. In questo caso, c’erano le carte.
Il castano si avvicinò, mettendosi poi vicino ad Akane, seduto sui talloni. Ora che la guardava meglio, aveva dei tratti più fini rispetto a quelli di Hajime, ma si trattava pur sempre di una bambina.
«Ho chiesto alla mia mamma se posso usare questo» continuò. «Anche se le mie amiche si arrabbiano con me quando giochiamo assieme!»
«Mi spieghi come funziona?»
La sua lingua si era mossa senza che fosse attaccata al cervello. Era come se qualcun altro lo stesse controllando, come se fosse un burattino nelle mani di un burattinaio. In un’altra occasione, non avrebbe fatto quella domanda, in un’altra occasione non avrebbe scherzato con lei. In un’altra occasione, Tooru non sarebbe stato lì.
Il viso di Akane parve rischiararsi. «Ecco, ci sono dodici eroine, e ogni eroina ha il proprio seme. Ogni seme ha un’abilità diversa.»
Probabilmente avrebbe continuato a parlare, raccontandogli la trama e tutti i vari intrecci tra le ragazze e, probabilmente, i loro rispettivi fidanzati, ma la interruppe quasi subito, una parte del suo cervello che continuava a mandargli segnali d’allarme: adesso era rinchiusa, però, relegata in un angolo, e poteva soltanto urlare e insultare la stupidità e la noncuranza del giovane. «Anche questo mazzo ha dodici semi, qual è il problema?»
«È che io sono l’unica che non ha il mazzo buono… quello della serie…»
Assottigliò lo sguardo. «Se ci tenevi, perché non l’hai chiesto per Natale?»
«Perché per Natale ho chiesto il violino, anche se la mamma mi ha detto che me lo farà usare quando sarò un po’ più grande… E poi ho chiesto questo.» Indicò il nastro che le legava i capelli, e solo allora Tooru si accorse che aveva lo stesso colore di un pallone della Mikasa, giallo e blu. Gli fece uno strano effetto vedere quei colori su quei capelli scuri. «Ne ho un altro rosso, bianco e verde. Li ho visti in un negozio, e mi hanno subito ricordato i colori dei palloni che si usano per giocare a pallavolo.»
Oikawa, senza rendersene conto, si era ritrovato a sorridere.
Stava succedendo, alla fine, sebbene quella bambina non avesse fatto nulla di che. Si stava affezionando. Era come se, parlando con lei, avesse improvvisamente dimenticato la distanza che separava lui e Iwa-chan, come se le sue domande contorte sul perché si stessero vedendo fossero sparite. Akane era diventato il loro punto di incontro, la luce del faro che segnava il cammino.
Il sorriso di quella bambina, la sua dolcezza, il suo rivolgersi in maniera sempre pacata e naturale avevano finito per catturarlo come una mosca col miele. Ma, del resto, era figlia di suo padre: Iwa-chan l’aveva catturato fin da subito, e per un attimo il suo cuore fece una capriola nel ricordare le sfumature degli occhi del ragazzo. Erano state quelle ad attirarlo e farlo smettere di piangere, tanti anni fa.
Erano state quelle ad attirarlo quella mattina al bar.
Era state quelle a farlo innamorare di lui.
E Oikawa si rese conto che anche Akane aveva le stesse sfumature, ma brillavano di una luce diversa.
«Beh, potevi sempre chiederle, non penso che Iwa-chan te le avrebbe mai negate.» Sentiva sempre la lingua pizzicare ogni volta che chiamava quel ragazzo con il solito appellativo. Come se non avesse più il diritto di chiamarlo in quel modo.
Il faccino di Akane si rabbuiò di colpo, e il ragazzo spalcò appena gli occhi, chiedendosi che cosa avesse mai detto di male.
«Papà… Me le avrebbe comprate, ma adesso ce ne sono poche in giro.» Rimase un attimo in silenzio. «Quando sono uscite lui doveva dare dei soldi alla mamma. Una volta, Katsu-san mi ha spiegato che servono per me… Papà spende un sacco di soldi per me…»
Se c’era una cosa che aveva capito di quella bambina era che fosse fin troppo intelligente per la sua età. Non aveva idea di chi fosse il tizio che aveva nominato, ma probabilmente doveva avere captato qualcosa di una conversazione avvenuta tra lui e la sua mamma, mentre parlavano dell’argomento, chiedendo poi di cosa si trattasse. Quello a cui si riferiva Akane erano gli alimenti che di solito, uno dei due genitori paga all’altro per il mantenimento dei figli.
Girò la testa con violenza, e si ritrovò ad osservare le spalle larghe di Hajime, curvo sul lavello, la fronte che sfiorava la credenza decisamente troppo bassa. Scorse il suo profilo, serio, sovrappensiero, mentre lavava gli ultimi piatti rimasti.
Akane non aveva chiesto niente al padre perché sapeva quanto già facesse per lei, anche se non poteva averlo sempre presente a casa.
Oikawa era quasi tentato di volerle chiedere in che tipo di rapporti fossero rimasti lui e la sua mamma, se davvero fossero in buoni rapporti, se litigavano, se lui sembrava essere ancora innamorato di lei… ma si fermò, prima di commettere una qualche sciocchezza, e la sua razionalità lo ringraziò da lontano, ancora confinata in quell’angolo e imprigionata da delle catene spesse.
Di certo, era sicuro che Hajime amasse sua figlia più di ogni altra cosa e che per lei sarebbe stato disposto a far tutto. L’aveva detto, quella sera, e adesso Oikawa si sentiva un completo idiota per non averlo capito prima.
«Sei fortunata ad avere un papà come Iwa-chan…» mormorò tra sé e sé, lasciandosi sfuggire un sorriso, lo sguardo ancora rivolto verso la figura del giovane.
«Oh, lo so, il mio papà è imbattibile!» disse, prendendo poi un paio di carte tra le mani. «Tooru-san, sai giocare a qualche gioco usando queste carte?»
Il ragazzo, ancora concentrato a fissare Hajime, quasi come se fosse ipnotizzato, voltò la testa lentamente, vedendo che la bambina gli stava offendo le carte, piazzandogliele praticamente a due centimetri dalla faccia. Esistevano diversi giochi che si potevano fare con le hanafuda, tuttavia…
«Non sono molto bravo a giocare a carte» ammise, ricordando come Makki lo battesse sempre, quando capitava che riuscissero a giocare durante la pausa pranzo. «Mi spiace.»
La bambina sporse il labbro inferiore, intristita, anche se successivamente cercò di non darlo a vedere. «Pazienza…»
Oikawa la squadrò mentre cercava di riordinare come meglio poteva le carte, per poi rimetterle dentro lo scatolo. Era ovvio che ci fosse rimasta male, forse si aspettava che fosse lui a proporle qualcosa da fare.
In un attimo, il viso del giovane setter si incupì, e adesso la sua parte razionale non solo era incatenata, ma stava per essere sommersa da qualcosa di caldo e di assolutamente nuovo per lui. Era la stessa sensazione che provava quando stava con Hajime, un calore che proveniva dal petto e che quasi gli bruciava la pelle. Aveva la stessa identica intensità, solo che adesso gli prudevano le mani, come quando si allenava a fare più alzate di seguito. Dovette chiuderle a pugno, i polpastrelli che pulsavano, prima di aprire bocca. Sapeva benissimo cosa significasse quella sensazione: che era spacciato.
«Però un mio amico italiano mi ha insegnato a fare una cosa…»
La bambina lo guardò, gli occhi che sbattevano frenetici, non sapendo che cosa aspettarsi. Oikawa sorrise, prendendo due carte tra le mani e liberando un piccolo spazio sul tavolino; le mise in piedi sulla superfice, facendole combaciare, sperando che non cadessero due secondi dopo.
Per una persona qualsiasi, quelle due carte non avrebbero avuto nulla di speciale, ma per una bambina di quattro anni quello che stava vedendo era il frutto di una qualche magia. Come lo fu per Oikawa la prima volta, solo che lui era molto più grande di Akane, e si era ritrovato a giocare con i ragazzi della Nazionale italiana senza un motivo, tenendo in mano un mazzo di carte che non conosceva. Non ricordava come ci fosse finito assieme a quei ragazzi, probabilmente perché Bokuto li conosceva, sapeva solo che uno di loro – brillo, come lo erano un po’ tutti – aveva preso quello stesso mazzo di carte e si era messo a fare quello che lui chiamava “castello”.
«Wow, che forza!» disse, avvicinando il volto verso le carte, trattenendo il respiro per paura di farle cadere.
«Posso provare a fare un castello, se vuoi!» disse, facendole poi l’occhiolino.
La bambina lo guardò con gli occhi colmi di meraviglia, e Oikawa non ebbe bisogno di sapere qual era la risposta.





Si era reso conto di averci messo il doppio del tempo per lavare i piatti, di solito era molto più veloce. La sua mente, però, era affollata da pensieri, da immagini, e gli veniva difficile concentrarsi, anche per una cosa così facile come quella.
Ancora non capiva che cosa diavolo gli fosse passato per la testa quando aveva deciso di invitare Tooru a uscire di nuovo, quando l’aveva richiamato. Eppure lo sapeva, lo sapeva che sarebbe stato un bene per entrambi se si fossero separati, se fossero tornati alle loro rispettive vite, se si fossero dimenticati l’uno dell’altro.
Ma no, lui si era lasciato vincere da quell’espressione addolorata, da quei sentimenti che gli avevano scombussolato lo stomaco dopo aver scoperto la notizia della sua separazione, e adesso Tooru era lì.
Lì, con sua figlia, e lui non sapeva come comportarsi in merito.
Per un attimo, voleva con tutto se stesso che lui la odiasse, così avrebbe trovato un motivo per odiarlo a sua volta. Oikawa Tooru, però, era un uomo pieno di sorprese, e quando aveva visto quegli occhi che quasi lo imploravano, che quasi urlavano di voler essere parte integrante di quel qualcosa, di quell’atmosfera di complicità tra padre e figlia, il cuore del giornalista era quasi schizzato fuori dal petto.
Non considerava il rapporto che aveva con Akane come qualcosa di esclusivo, altrimenti lei non avrebbe vissuto ventiquattrore al giorno con sua madre, in una città totalmente diversa. Tuttavia, capitava che gli desse fastidio che la gente si intromettesse in quei momenti che erano solo per loro due.
Oikawa, però, non gli aveva dato questa impressione. Lui sapeva adattarsi a tutto, persino alle situazioni che volgevano a suo sfavore, e in quella casa era come un gladiatore dentro un’arena piena zeppa di leoni, con le spalle al muro. Eppure, per quanto Hajime avesse visto le linee che segnavano il suo viso, appena sotto gli zigomi, lui era riuscito tranquillamente a parlare con Akane, la persona che doveva essere in verità l’oggetto del suo odio.
Ma non lo era. Ed era questo il problema.
Oikawa stava entrando completamente nella sua vita, senza dargli la possibilità di respirare, e Hajime si sentiva annegare. C’era qualcosa, però, che gli diceva che quel ragazzo era il pezzo mancante del puzzle, quello che si incastrava perfettamente con un Akane sorridente.
Scosse la testa, riponendo poi l’ultimo piatto asciutto nella credenza, buttando fuori l’aria che gli pareva di aver trattenuto fino ad allora.
«Papà, guarda! Guarda che figo!» Il genitore si voltò, sorpreso di sentire la voce della figlia così allegra, rimanendo poi di sale.
Sopra il tavolino basso c’era quella che doveva essere una costruzione fatta con delle carte, una base di sei a reggere tutte le altre. Strabuzzò gli occhi, incredulo, le pupille che si spostarono verso il fautore di tale creazione.
Oikawa sorrideva, un sorriso un po’ impacciato e che non gli aveva mai visto fare, tenendo tra le dita altre due carte. Akane, intanto, era di fianco a lui, e fremeva sul posto, euforica.
«Non sembra un castello?» chiese, e Hajime rispose dopo un po’, annuendo, mentre cercava di metabolizzare la cosa.
Il sorriso sul volto del setter si allargò, ma non disse niente, posizionando poi le ultime due carte rimaste sopra le altre; ma proprio quando sembrava che stessero per reggersi in piedi, il castello di carte crollò sotto il suo stesso peso, e le altre due carte rimasero sospese a mezz’aria, ancora tra le mani di Tooru.
Per un po’ regnò il silenzio, fino a quando Akane non si mise a ridere a crepapelle, tenendosi lo stomaco con entrambe le braccia. Anche il giornalista si ritrovò a sorridere dinanzi a quella scena che aveva del comico.
«Continui a prenderti gioco di me, uh?» disse il castano, rivolgendosi alla bambina, alcune lacrime di gioia che le solcavano il viso. «Voglio proprio vedere se riuscirai a fare meglio del sottoscritto!»
«Oh, sì, voglio provare!» esclamò l’altra, prendendo le carte dalle mani del ragazzo, quest’ultimo che intanto incrociava le braccia, come a sottolineare il suo totale disinteresse nell’aiutarla.
Alla fine, però, vedendo il modo in cui si concentrava per tentare di mettere le carte dritte, quasi come se potesse invocare un qualche potere telecinetico, si posizionò dietro di lei, non prima di aver sbuffato e alzato gli occhi al cielo col suo solito fare teatrale.
«Guarda Akane, così…» e nel dirlo, le prese le manine tra le sue e l’aiutò a far congiungere le carte.
Ecco, quello fu il momento in cui successe qualcosa che Hajime non si seppe spiegare. Era come se il puzzle fosse finalmente completo, ma per lui, per la sua mente, c’era qualcosa che non andava. Era come se stesse fissando un’illusione ottica nel tentativo disperato di cercare un’immagine giusta, un’immagine che fosse vera, ma non c’era. Si trovava ad essere dimezzato, combattuto tra due realtà del suo stesso essere, perché se la mente gli intimava di ignorare tutto, il cuore…
Beh, non lo sapeva ascoltare, perciò non sapeva che cosa gli stesse dicendo veramente. Lo sentiva solo martellare contro lo sterno, contro l’intera cassa toracica, e se fosse stato da solo gli avrebbe urlato contro di smetterla. L’aria non era più pesante come prima, anzi, era una ventata fresca per Hajime, come il venticello che soffia sulle montagne.
Stava ancora fissando Oikawa, gli occhi completamente aperti, senza riuscire a sentire quello che stesse dicendo a sua figlia, sorridendo; poi, quest’ultimo alzò lo sguardo su di lui, e per la prima volta da quando era iniziata la serata il giornalista non lo evitò. Abbozzò un sorriso, uno di quelli veri e che Hajime credeva fossero riservati solo a lui – e invece si sbagliava, perché quello era il vero Tooru, quello che stava giocando con sua figlia.
Oikawa era felice. Era felice nonostante fosse a casa della persona che l’aveva fatto soffrire, che era stata la causa della sua insofferenza.
Adesso, il cuore del giornalista, smise di battere e per un attimo pensò che stesse per morire. Non stava per avere un infarto, però, era un altro il motivo per cui si sentiva così, e l’idea gli passò davanti nella mente come se fosse uno striscione colorato.
No, non poteva essere. Tooru non poteva avere ragione, si era sbagliato, lui aveva delle priorità…
Lui non poteva essersi…
Scostò lo sguardo, avvertendo l’espressione ferita del giovane che lo guardava da lontano, cancellando immediatamente quell’idea dalla mente e tornado a sistemare la cucina.






«Allora – cominciò, non appena fu oltre l’uscio – grazie dell’invito a cena.»
«Prego, figurati…»
Continuarono a non guardarsi negli occhi, preferivano concentrarsi su altro, su quello che stava sullo sfondo dietro all’altro, la mente che vagava. Avrebbero dovuto dire qualcosa, entrambi ne erano consapevoli, ma le loro labbra erano cucite con ago e filo, nessuno fiatava. Era molto probabile che, dopo quella cena di cortesia, non si sarebbero più rivisti, e quella consapevolezza investì Tooru come un treno in corsa.
Iwa-chan aveva organizzato quell’incontro solo perché lo voleva lui, solo perché non voleva farlo stare male ulteriormente; per questo gli aveva chiesto cosa volesse realmente lui, perché altrimenti il problema non sarebbe sussistito e loro non si sarebbero mai più rivisti.
E invece erano lì, uno di fronte all’altro, una linea a separarli. Lo stesso confine che aveva disegnato il destino tra di loro, come una bimba dispettosa che gioca con i gessetti bianchi.
Dopo che aveva attenuto ciò che voleva, Oikawa non era più tanto sicuro che avrebbe rivisto Iwaizumi: non così, non con lui che evitava il suo sguardo. L’idea di uscire da solo, con lui che lo ignorava, lo faceva sentire come se mille coltelli gli stessero trafiggendo la schiena.
Faceva male.
Il polso faceva ancora male, e il filo rosso stringeva, mentre la bimba dispettosa rideva.
Fu un’altra bimba, però, a destare entrambi gli adulti, comparendo di fianco a Iwaizumi. «Tooru-san, dopodomani vieni a salutarmi in aeroporto?»
Il giornalista per poco non cadde all’indietro dopo questa affermazione. Sapeva che sua figlia si affezionava facilmente alle persone, ma non era mai arrivata a fare una richiesta simile. Saettò lo sguardo da Oikawa – che stava cercando di trovare una risposta adeguata – a sua figlia, in leggera agitazione.
«Akane, Oikawa non può venire… Avrà sicuramente gli allenamenti, e…»
«A che ora parti?»
Adesso, i suoi occhi erano per davvero puntati su quelli color cioccolato di Oikawa, la solita luce che li rivestiva come una patina che luccicava. Era sincero, non aveva posto la domanda tanto per farla contenta, voleva seriamente sapere quando partiva.
Le iridi del giovane ebbero un guizzo, e per un attimo si fissarono come solo loro sapevano fare.
Oikawa era felice di poter rivedere, finalmente, le sfumature degli occhi di Iwa-chan, e quest’ultimo ancora non riusciva a spiegarsi il grappo che gli ostruiva le vie respiratorie.
Se solo entrambi avessero saputo che i loro cuori rumoreggiavano allo stesso modo…
«Alle nove!» rispose.
Il castano rifletté un attimo, cercando di ricordare che cosa avesse in programma per quella mattina. «Ho un’intervista per quell’orario.» Akane abbassò immediatamente la testa, ma la rialzò subito dopo non appena sentì la successiva frase del setter. «Però posso farla spostare. Non credo si faranno problemi, farebbero questo e altro per me, figurarsi!»
Oikawa parlò col suo solito tono lezioso, ma sorrise subito non appena vide il volto di Akane farsi colmo di speranza; e il suo sorriso era sincero.
«Me lo prometti?» e sollevò il mignolo nella sua direzione.
Dapprima, rimase un poco spiazzato da quel gesto, poi però abbassò anch’egli il mignolino, stringendolo a quello della bambina, che fece un sorriso a trentadue denti.
E tutto, avvenne sotto lo sguardo vigile e basito di Iwaizumi, e adesso aveva capito che cosa dovesse aver provato il ragazzo nel sentirsi come l’ultima ruota del carro, messo da parte. Era come se si fosse innestato un legame tra quei due, come se fossero bastati un mazzo di carte e un paio di ore per fare di loro dei grandi amici.
I bambini, si sa, sono soliti dimenticarsi di alcune persone che hanno conosciuto nella loro vita, magari qualcuno viene ricacciato fuori dalla loro memoria, ma solo perché queste persone avevano fatto qualcosa di speciale per loro.
Come Oikawa aveva fatto qualcosa di speciale per Akane, anche se ancora non sapeva che cosa.
Il fatto che quella bambina gli avesse fatto una richiesta del genere, denotava che lei ci tenesse veramente a farselo amico. Gli piaceva, e Iwaizumi si ritrovò ancora una volta a non sapere che cosa fare in merito, se esserne felice o meno.
Perché avrebbe dovuto esserne felice, poi?
«Vedi di mantenerla…» mormorò a denti stretti, anche se in realtà avrebbe voluto tenersi tutto dentro.
Tuttavia, sapeva quanto ci rimanesse male Akane ogni volta che qualcuno cui teneva non manteneva una promessa.
Il ragazzo sbatté le palpebre, e di nuovo lo guardò negli occhi, di nuovo osservò quelle sfumature. «Certo» rispose, con un filo di voce.
Stettero in silenzio per un po’, poi il setter prese un bel respiro, e annunciò: «Grazie ancora di tutto. Buonanotte!»
Sollevò la mano, ricambiando il saluto di Akane, che gli aveva dato la buonanotte con un certo entusiasmo, poi aveva infilato entrambe le mani in tasca. E mentre percorreva il corridoio, Oikawa non poteva sapere che Iwaizumi lo stava fissando da dietro, fino a quando non lo vide scomparire sulla rampa di scale.






Oikawa aveva sempre pensato di avere un rapporto un po’ contrastante con i bambini, quasi come se l’idea di averli attorno lo infastidisse. L’unica eccezione era sempre stata Takeru, suo nipote, ma forse perché l’aveva visto crescere, l’aveva tenuto in braccio quando era ancora un bambino e l’altro era solo un frugoletto avvolto in un lenzuolino bianco. Per il resto, non aveva mai avuto l’occasione di stare in compagnia di un bambino che non fosse suo nipote, e l’idea gli faceva venire il ribrezzo: i bambini erano petulanti, piagnucolavano e si lamentavano per qualsiasi cosa. Un po’ come lui, del resto, per quanto fosse un alzatore di fama mondiale, Oikawa non era mai cresciuto veramente.
Si tamburellò il mento con il suo smartphone, il parcheggio attorno a lui completamente deserto. Era uscito da casa di Iwaizumi da almeno cinque minuti, ed era rimasto seduto in macchina, completamente sovrappensiero, un piccolo sorriso che faceva capolino sulle sue labbra.
Era seriamente spacciato.
Lo sapeva, l’aveva capito non appena aveva provato quella sensazione di calore che, in seguito, si era irradiata in tutto il corpo. Era la stessa medesima sensazione che provava ogni volta che ripensava a quello che avevano passato assieme lui e Iwa-chan. Era la stessa che aveva sentito non appena aveva capito di essere innamorato di Iwa-chan. Il sentimento che provava per quel giovane era forte, fortissimo, non si trattava di una semplice infatuazione.
Perché, se fosse stato così, Oikawa non sarebbe stato disposto a fare un passo indietro, lasciandogli tutto lo spazio che gli serviva per pensare alla sua vita, a sua figlia.
Oikawa, lo ammetteva, a volte si era comportato come un egoista, scavalcando gli altri per privilegiare se stesso. Ma non in questo caso. Non quando gli pizzicavano gli occhi al solo pensiero di quel visino che gli sorrideva.
Con Akane, non era stato diffidente, gli veniva quasi naturale parlarle, come se avesse bisogno di una complice che lo facesse stare bene in quel momento, con cui potesse seriamente sorridere.
Lasciò il cellulare, mettendo poi in moto la macchina, le mani sul volante; si fermò di nuovo, colto da un singhiozzo, posando poi la fronte contro il volante, prendendo profonde boccate d’aria. Le lacrime gli offuscavano la vista.
Adesso capiva che cosa volesse dire Hajime quella sera. C’erano delle priorità nella sua vita, e lui non era tra queste.
Eppure, ora che aveva conosciuto Akane, non se la sentiva di puntagli il dito contro.
Hajime aveva scelto sua figlia. E forse, era la scelta migliore per tutti.





 
~
 


 
[7 gennaio 2017]






L’aeroporto era gremito di persone, e Hajime era quasi certo che sarebbe stato così, del resto erano in molti a tornare a casa dopo le ferie. La fila di persone che aspettavano di fare il controllo bagagli occupava per metà la zona di attesa, alcune persone che invece chiacchieravano e bevevano il caffè al bar là vicino.
Era una fortuna che Akane non dovesse fare tutta quella fila, in fondo doveva essere pur sempre un hostess ad accompagnarla, per cui era normale che passasse per la zona a loro riservata per i vari controlli.
Guardò l’orologio, sbuffando. Se l’atmosfera degli arrivi lo faceva sentire quasi leggero, quella delle partenze era come una camera delle torture per lui. Si era mosso tra quella gente quasi come se fosse un automa, sforzandosi di sorridere alla figlia che gli teneva la mano, ma il nodo alla gola si era già formato.
Stava per lasciarla, di nuovo. Per l’ennesima volta.
Le lancette segnarono le otto e un quarto, Akane aveva già imbarcato la valigia, doveva solo aspettare di passare gli ultimi controlli e che il gate si aprisse; il problema era che il tempo stava per stringere, e l’hostess che doveva accompagnare la bambina li aveva già avvertiti diverse volte.
Eppure era inutile, Akane non si voleva proprio smuovere da lì. In un’altra occasione, ad Iwaizumi avrebbe anche fatto piacere, se non fosse che sua figlia stava aspettando una certa persona…
«Akane…» disse, affranto, distrutto alla sola idea di quello che stava per dire. «È tardi, devi andare.»
«Altri cinque minuti, papà!» rispose la bambina, mettendosi in punta di piedi e cercando di scorgere un volto familiare tra quelle migliaia di persone che camminavano nella sua direzione.
«Akane…» riprese Hajime. «Non verrà…»
«Ma me l’aveva promesso!»  Si girò verso di lui, gli occhi verdi che erano diventate due pozze d’acqua.
Strinse le mani a pugno, le unghia che si conficcavano nella carne. L’idea di lasciare sua figlia in quelle condizioni gli faceva male, e probabilmente se si fosse ritrovato davanti Oikawa in quel momento l’avrebbe pestato a sangue. Tuttavia, non era il momento di lasciarsi sopraffare dalla rabbia, fece solo quello che gli venne più spontaneo: le accarezzò la testolina, dolcemente, mentre lei l’abbassava e tirava su col naso.
«Forse non è riuscito a spostare l’intervista… Sono sicuro che anche lui ci è rimasto male…» Sperava veramente che fosse così, perché non poteva esserci altra spiegazione possibile, gliel’aveva persino detto. E poteva sempre fare una telefonata, comunque…
Proprio quando si erano entrambi rassegnati all’idea che l’alzatore non sarebbe venuto, una voce li richiamò da lontano: «Iwa-chan! Akane!»
La bambina voltò subito la testa, Hajime invece alzò lo sguardo, sorpreso di trovarsi la figura di Tooru che correva verso di loro, la felpa sbottonata che ballonzolava di qua e di là. Si fermò a pochi passi da loro, riprendendo un po’ di fiato, mentre Akane gli sorrideva, le lacrime di prima completamente sparite.
«Sei venuto!» esclamò.
«Scusate il ritardo» disse l’altro, parlando più con Iwaizumi – che lo guardava tra il serio e il sorpreso – che con la diretta interessata. «Mi sono fermato in un posto e ho perso tempo» si giustificò.
Non diede ulteriori spiegazioni, semplicemente si limitò ad abbassarsi all’altezza di Akane, seduto sui talloni proprio come l’altra sera, mentre padre e figlia lo fissavano perplessi. Smaniò un po’ con la tasca della felpa, tirando poi fuori un pacchetto regalo, con tanto di fiocco rosso e carta rosa.
Lo porse ad Akane. «Buon Natale… in ritardo!» disse, aprendo un po’ di più il suo sorriso.
Alzò il capo verso Iwaizumi, e per un attimo i loro occhi si incontrarono. Non trovò segno di alcun rimprovero in quello sguardo, solo tanta meraviglia, tante domande che si affollavano nella testa del giornalista, e il cui oggetto era sempre e solo Oikawa. Non riusciva davvero a capire perché avesse fatto una cosa simile, sua figlia gli era piaciuta sino a questo punto?
Il castano abbassò lo sguardo, leggermente imbarazzato, le sfumature di quegli occhi che quasi gli bloccavano il respiro al solo vederle, tornando su Akane; stava ancora rigirando il pacchetto tra le mani, indecisa e un po’ titubante. Alla fine, cominciò a scartarlo, e appena il primo pezzo della carta rosa fu tra le sue mani, la bambina cacciò un urlo fortissimo. Quasi tutta la gente si voltò verso di lei, Iwaizumi fece un passo indietro e Oikawa fece una smorfia, chiudendo gli occhi e storcendo il naso, ma senza smettere di sorridere. Gli fischiavano le orecchie, e anche se non si aspettava un urlo del genere, era contento che il regalo avesse sortito quell’effetto.
«Tooru-san, dove le hai trovate?»
Ora che l’intera carta era stata tolta,  Hajime poté vedere che il regalo non era altro che un mazzo di carte; anzi, non un mazzo di carte qualsiasi, ma quello tratto dall’anime che Akane adorava tanto. Sapeva che quasi tutte le sue amiche l’avevano, ma lei stessa aveva detto che non gli importava granché. Era sempre più confuso. Perché sua figlia avrebbe dovuto dirgli quella bugia?
«Ma è l’edizione nuova, quelle con due carte in più!» esclamò ancora la bambina, tenendo un tono di voce abbastanza alto, aprendo immediatamente il mazzo e individuando subito le carte in questione. «Tooru-san, sei un mito!»
«Beh, modestamente...» disse, gongolando. «Allora va bene?»
Akane annuì vigorosamente. «Grazie grazie grazie! Come posso ricambiare?»
Oikawa sbatté le palpebre. Non si era preparato a una cosa del genere, aveva girato mezza città e speso una fortuna per quel mazzo nuovo di zecca e in edizione limitata senza sapere neanche lui per quale motivo. Non pensava di certo che la bambina volesse fargli un regalo a sua volta, credeva che se ne sarebbe andata via tutta contenta, vantandosi poi con le sue amichette. 
Mise le mani in avanti. «Tu non mi devi niente, è stato un regalo che ho voluto farti io!»
«Ma tu l’hai comprato solo perché ti ho detto io che lo volevo!»
Ecco. Akane, senza volerlo, aveva appena rivelato la realtà dei fatti, ma Iwaizumi fece finta di niente. Era ancora troppo scioccato per dire o fare alcunché, e poi voleva vedere dove andava a parare quella discussione.
Ancora una volta, era stato messo sullo sfondo, come una controparte nella scena tra i due attori principali, e non gli dispiaceva. Era sempre stato abituato alla gente che lo ignorava, e per quanto lui dicesse che non gli importava granché, all’età di sette anni era difficile non essere tristi quando non si hanno degli amici attorno solo perché si viene considerati come persone strane.
Col tempo, Hajime si era fatto le ossa e oramai ci era abituato, ma in una situazione del genere, dove sua figlia stava parlando con quello che per lei era un mezzo sconosciuto, non ci si era mai ritrovato. Non se la sentiva di rompere quel momento con un suo intervento. Era come se temesse di smontare quel puzzle che piano piano si era formato.
Solo allora si accorse di sua figlia che si toglieva lo zainetto rosa dalle spalle e lo posava per terra, aprendolo e infilando quasi tutta la faccia dentro, alla ricerca di qualcosa. Sia lui che Oikawa la fissarono, inclinando entrambi la testa. Era come se avesse avuto un lampo di genio e avesse trovato l’oggetto giusto da poter regalare a Oikawa.
«Trovato!» disse poi, emergendo dallo zaino e tenendo nella mano destra, stretto a pugno, il nastro giallo e blu che portava l’altra sera. Si girò e lo porse al setter. «Per te!»
Gli occhi color cioccolato del ragazzo saettarono dal nastro, al volto della bambina, a Iwa-chan. Probabilmente Akane non l’aveva fatto con l’intenzione di ferire i sentimenti del padre, ma aveva appena offerto un regalo che le era stato fatto per Natale a lui, che per la sua famiglia non era nessuno. Era come se stesse dicendo che il regalo non le era piaciuto.
«Akane, non posso accettare. È un regalo che i tuoi genitori ti hanno fatto per Natale, e…» si affrettò a dire, ma la bambina lo interruppe poco dopo.
«È un prestito!»
Oikawa sbatté le palpebre. «Un prestito…?»
La bambina annuì. «Quando verrò di nuovo qua a Tokyo me lo ridarai, ma per adesso voglio che lo tenga tu. Te l’ho detto che porta fortuna?»
Cercò di assimilare tutto quello che la bambina gli stesse dicendo, e lo stesso valeva per Iwaizumi che si trovava alle sue spalle. Nemmeno lui sapeva che per lei quel nastro in particolare fosse un portafortuna.
«L’ho trovato per caso, nessuno usa questi colori per dei nastri» spiegò. «Quindi è stata una fortuna trovarlo, no? Per cui mi sono detta che ogni volta che l’avrei messo mi sarebbero successe solo cose belle. Ed è vero, perché ho incontrato te l’altra sera, Tooru-san!»
Le pupille del castano si dilatarono, assieme a quelle del giornalista.
Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere, ed era vero che si trattava di una bambina, ma Akane non era una bambina qualsiasi. Akane era la figlia di Iwa-chan, Akane era il motivo per cui Oikawa era disposto a fare un passo indietro.
«Mi piaci un sacco, Tooru-san, sei simpatico!» disse, sorridendo, la testa leggermente piegata di lato.
Le labbra del ragazzo tremarono appena, il calore di prima che si era fatto più intenso, come se due fiamme bruciassero dentro di lui: una era alimentata da quello che provava per Iwa-chan… e l’altra era alimentata dall’affetto che provava per Akane.
Quella bambina aveva accesso un nuovo moto di speranza in lui, perché se lei gli stava dicendo questo, allora voleva dire che non c’erano problemi di sorta, che tutto era nato dagli sciocchi complessi di Hajime.
Alzò lo sguardo, cercando qualcosa in quelle dannate sfumature, senza trovarvi nulla di nuovo. Era come se per lui conversazioni del genere fossero all’ordine del giorno, come se fosse abituato a sentire certe cose uscire dalla bocca di sua figlia, quando per il setter valevano più di mille lingotti d’oro.
Deglutì, fissando adesso le sfumature degli occhi di Akane, e lesse solo della bontà pura in quello sguardo, dell’affetto che sentiva ricambiato, ed era così che avrebbe voluto che Iwa-chan lo guardasse. Come faceva prima, con quel suo sguardo vivo, non spento come lo era adesso.
Sorrise, prendendo poi il nastro tra le dita e attorcigliandolo attorno al polso sinistro.
«Va bene se lo porto così?» chiese, e la bambina semplicemente gli rispose gettandogli le braccia al collo.
In un primo momento, i suoi muscoli si fecero tesi, sentendo un corpo estraneo addosso, poi si rilassarono, ma Oikawa non fu comunque capace di ricambiare l’abbraccio. Era una cosa nuova per lui, e quella fiamma era come se fosse esplosa proprio dentro il suo cuore, facendolo pompare a una velocità disumana. Si sentiva succube di un vortice di emozioni che la sua mente, con disperazione, cercava di decifrare, cercava di darne un senso, nonostante tutto ciò non fosse mai stato registrato sotto alcun nome.
Credeva di stare sognando quando sentì un sussurro provenire dal suo orecchio sinistro. «Stai un po’ col mio papà, magari porti fortuna anche a lui e ritorna ad essere felice!»
Oikawa guardò Iwaizumi, le labbra che tremavano, gli angoli degli occhi che stavano incominciando a inumidirsi, e fu allora che lo vide: un guizzo, un flash, qualcosa che non riuscì a cogliere con precisione, ma che risaltò gli occhi dell’altro, rendendoli di un verde brillante. Aveva la sua stessa medesima espressione, era come guardarsi allo specchio, ed era chiaro che anche per lui era una cosa totalmente inaspettata. Forse, era la prima volta che Akane si comportava così con qualcuno, per quanto in quella bambina non esistesse alcun segno di diffidenza nei confronti del prossimo.
Quando si staccò, non sembrò dispiaciuta da quell’abbraccio non ricambiato, anzi, continuò a sorridergli, e Oikawa si sentiva un completo imbecille, perché non riusciva a fare niente se non guardala con un’espressione imbambolata stampata sulla faccia.
A fare tornare tutti quanti nel mondo reale fu un hostess dai capelli biondi, attaccati in una coda di cavallo, che li avvertì dell’orario e delle ultime procedure che dovevano essere ancora svolte. Iwaizumi annuì distrattamente, come se la sua mente in realtà fosse rimasta concentrata sulla scena di poco prima.
Si mise anche lui sui talloni, e adesso aveva sia Oikawa che la figlia di fronte, quest’ultima che si avvicinò a lui, in modo che potesse sistemarle la giacchetta e le facesse le ultime raccomandazioni. Akane annuì, le piccole treccine che aveva ai lati del viso che penzolavano sulle sue spalle.
Parlò non appena il padre ebbe finito con la solita tiritera. «Papà, tu lo sai che ti voglio bene, vero?»
Il giovane rimase un attimo spiazzato. Era abituato alle manifestazioni d’affetto improvvise di sua figlia, ma ogni volta era come la prima per lui.
«Certo che lo so» disse. «Perché me lo stai chiedendo, scusa?»
Akane alzò le spalle, imbronciando appena le labbra. «Non vorrei che ti fossi dispiaciuto perché ho abbracciato Tooru-san e non te…»
Non lo disse tanto forte. Ma nemmeno troppo piano, e Oikawa riuscì a sentirla benissimo, il senso di colpa che cominciò a montargli dentro come un cavallo da corsa impazzito. In effetti, quel momento doveva essere solo tra loro due, poiché non sapevano quando si sarebbero rivisti, quando avrebbero avuto del tempo da poter passare assieme, non era detto che per le prossime feste sarebbero stati assieme. Lui non c’entrava, lui era di troppo. Lui si era inserito in un contesto che non gli apparteneva, lui aveva privato Iwa-chan del tempo che doveva passare con sua figlia.
Il giornalista gli lanciò una veloce occhiata, serissimo, e Oikawa ebbe un singulto, simile a un singhiozzo; poi, si rivolse alla figlia. «Vieni qui…»
Allargò le braccia e la bambina si lasciò accogliere in un morbido abbraccio che sapeva d’affetto e della speranza di potersi rivedere ancora. Hajime strinse forte la presa, convinto di non doverla lasciare sul serio, respirando per un attimo il suo profumo, per poi stamparle un bacio sulla guancia e sulla tempia.
«Chiamami appena sei con la mamma, okay?» le disse, la voce appena incrinata.
La bambina annuì, stringendo la presa e aggrappandosi alle spalle del papà. «Ci vediamo stasera?»
«Ci vediamo stasera…»
Oikawa era rimasto lì, immobile, un piccolo sorriso sulle labbra, ancora combattuto tra i sensi di colpa e la tenerezza che quei due mostravano stando solo così, vicini l’uno all’altro. La versione paterna di Iwa-chan era un qualcosa che Oikawa avrebbe voluto scoprire giorno per giorno, fino a coglierne la reale essenza. Per adesso, aveva compreso il motivo per cui fosse una persona totalmente diversa con sua figlia: era la dolcezza di Akane che, volente o nolente, lo faceva comportare così.
Si alzò in piedi nello stesso momento in cui lo fece Iwaizumi, dopo che aveva affidato la bambina alla hostess. Entrambi la osservarono da dietro un vetro, mentre aspettavano che il piccolo zainetto e altri oggetti venissero accuratamente revisionati, e ogni tanto Akane salutava in direzione del padre, che ricambiava sempre, sollevando appena la mano. Lo fece anche quando superò i controlli, agitando le braccia come una forsennata; solo quando si rese conto che stava salutando anche lui, Oikawa alzò timidamente la mano, in un piccolo gesto che stava a indicare che l’aveva vista e che stava ricambiando.
Akane sorrise, poi l’hostess la prese per mano ed entrambe sparirono dietro a un muro.
«I tuoi papà?» La bambina era stata distratta dalle insegne dei vari negozi, e si accorse che la donna si era rivolta a lei solo successivamente. Non era una ragazza giapponese, forse era un’americana che momentaneamente era stata trasferita dalla sua compagnia, ma questo Akane non poteva saperlo. Aveva solo compreso che quella ragazza aveva un accento un po’ particolare e che veniva da un altro paese.
Scosse la testa. «Solo uno di loro lo è, l’altro è un amico.»
«Peccato» disse la donna, sorridendo, il rossetto viola chiaro che rendeva le sua labbra ancora più grandi. «Sembravano una coppia visti da lontano…»
Akane aggrottò le sopracciglia, le insegne che adesso non le interessavano poi così tanto. Forse, nel posto da cui proveniva quella signora veniva vista come una cosa normale, ma per la bambina non lo era. Non che le dispiacesse, in ogni caso, Tooru-san era una brava persona e si vedeva che voleva bene al suo papà.
Solo… si potevano avere due papà?






Oikawa fissò la gente che si muoveva avanti e indietro oltre la vetrata con fare annoiato. Iwa-chan voleva aspettare di vedere decollare l’areo prima di andarsene, per avere l’effettiva certezza che Akane stesse partendo per davvero.
Forse faceva più male, ma era anche l’unico modo che aveva per autoconvincersi della cosa.
Il setter non sapeva perché l’avesse seguito, né perché l’altro non l’avesse mandato gentilmente a quel paese con i suoi solito modi rudi, e durante il tragitto fino alla vetrata che dava propria sulla pista da cui sarebbe decollato l’aereo non avevano spiccato parola.
Spostò lo sguardo sul giovane che gli stava accanto, come aveva fatto già più volte in quel lasso di tempo. Si chiese quanto tempo ci avrebbe messo prima che quella messinscena indetta per Akane avrebbe avuto fine, e Iwa-chan tornasse ad essere… uno sconosciuto. Un tizio che passava per strada. Un nome salvato sulla rubrica, o scritto sull’articolo di un giornale. Si chiese quanto tempo ci avrebbe messo prima che lo posasse come se fosse un pezzo d’antiquariato. Doveva essere onesto con se stesso, l’altra sera era andato tutto bene solo perché c’era Akane, altrimenti la serata sarebbe stata un disastro.
Eppure, Oikawa non voleva demordere: non così, non quando Akane gli aveva detto quelle cose, non quando sentiva che da parte di Iwa-chan non c’era poi tutta questa voglia di liberarsi di lui. Era vero, aveva avuto un momento di debolezza, aveva pensato di scegliere la strada che avrebbe fatto meno male, quella che non era piena di rovi; ma poi si disse che lui, proprio Oikawa Tooru, era un tipo che non demordeva mai. Buttava sangue e fatica sugli allenamenti, perché doveva migliorare la sua forma fisica, perché era ancora troppo debole.
Oikawa Tooru, se voleva qualcosa, faceva di tutto per prendersela.
C’era ancora una possibilità, una carta vincente da giocare; la partita non era ancora finita, non aveva ancora perso, doveva ancora iniziare il secondo set.
«Non dovevi accettarlo per forza…» A riscuoterlo dai suoi pensieri fu la voce calda di Hajime, che lo fece sobbalzare sul posto, mentre i suoi occhi si spostavano dal suo viso al nastro che portava al polso.
Impulsivamente, il setter lo strinse con l’altra mano, abbassando lo sguardo. «Ce l’hai con me perché tua figlia mi ha dato un tuo regalo di Natale…?»
L’altro alzò le spalle. «Conosco Akane meglio delle mie tasche, e so per certo che non l’ha fatto con cattiveria, le sue intenzioni erano sincere. E poi, se lei intende un prestito, allora vuol dire che si tratta veramente di una cosa temporanea.» S’interruppe, continuando a fissare il polso del giocatore. «Solo… ci rimarrebbe male se scoprisse che non lo porti…»
«E perché non dovrei?» chiese, quasi offeso.
Il giornalista alzò ancora una volta le spalle, mordicchiandosi l’interno della guancia. Rimasero per un attimo in silenzio, poi fu di nuovo Hajime a parlare, questa volta spostando lo sguardo altrove. «Non eri neanche tenuto a farle un regalo…»
Tooru continuò a fissare il nastro, le dita dell’altra mano che scivolarono delicatamente sul tessuto setoso, e si ritrovò stranamente a sorridere, pur sapendo che tra lui e Iwa-chan c’era una tensione altissima in quel momento, come due calamite che si respingevano. Di questo, se ne accorse anche l’altro, che si ritrovò a corrucciare la fronte.
«Sai, Iwa-chan – cominciò –, ora ho capito perché hai scelto lei. Akane è…» Provò a cercare un termine adatto, stringendo le mani a pugno davanti a sé. «… Travolgente. Sì, è come un’onda che ti travolge e ti trascina via, non so se mi spiego…» Torturò un ciuffo di capelli un po’ troppo lungo prima di ricominciare a parlare, ridacchiando per il nervosismo. «O forse sono solo uno sciocco, ma… Non credo che esistano altre bambine come tua figlia, e non lo dico solo perché sei tu. Io… Nessuno mi aveva mai fatto stare così bene.»
Fu in quel momento che i timpani di Hajime smisero di funzionare. Era come se fosse diventato improvvisamente sordo e non riuscisse più a sentire, ed era una fortuna che Oikawa avesse smesso di parlare, continuando a guardare insistentemente quel nastro giallo e blu.
Sentì come una presa lungo la gola, come se qualcuno lo stesse strozzando e lo stesse privando del respiro. Era in preda ai brividi di freddo, eppure sentiva le gocce di sudore che piano piano scendevano lungo la linea della spina dorsale.
«Iwa-chan, tutto bene…?»
Sentì la voce di Oikawa che lo richiamava poco dopo, e solo allora si rese conto che aveva smesso completamente di respirare. Si lasciò andare a un lungo sospiro, la bocca semi spalancata, gli occhi lucidi senza alcuna ragione apparente. Il castano lo stava fissando, preoccupato, e i suoi occhi erano solo per lui.
Quegli occhi erano sempre stati per lui. In un attimo, come una vecchia pellicola, si vide scorrere davanti le immagini di Oikawa da quando l’aveva conosciuto, rendendosi conto che quegli occhi avevano sempre la stessa sfumatura: al bar, alla mostra, le volte che erano stati al parco, dopo la festa di Kuroo…
Oikawa l’aveva sempre guardato così. Forse neanche lui stesso se n’era mai reso conto, ma era così, era stato attratto da lui fin da subito, fin da quando erano bambini.
«Ci vediamo domani, Iwa-chan!»
Era come se la sua mente si trovasse in due posti totalmente diversi, il presente e il passato: una parte era immersa nei ricordi, e un’altra registrava quello che gli succedeva attorno. Come l’immagine di Oikawa che faceva un paio di passi verso di lui, titubante, e Hajime non riusciva minimamente ad agire, i muscoli intorpiditi. Quei ricordi erano come un bagno caldo, rilassante, che sciacquava via la tensione, le insicurezze, la paura.
«Non hai mai avuto la sensazione che qualcosa mancasse nella tua vita?»
Si rese conto che il volto di Oikawa stava sporgendo pericolosamente verso il suo, come se cercasse un ennesimo contatto con le sue labbra. In quel momento, però, Hajime stava registrando le sfumature degli occhi semichiusi del setter, rendendosi conto che forse, quella volta al parco, si erano intensificate, gli occhi di Tooru brillavano con più prepotenza. E adesso, era esattamente la stessa cosa…
«Iwa-chan, credo di essermi innamorato di te.»
Mancava davvero poco prima che qualcosa di cui, molto probabilmente, se ne sarebbe pentito successivamente avvenisse, ma Hajime non riusciva a trovare le forze per scostarsi. E forse non ne aveva voglia.
Fu il rumore di una suoneria a fermare il giovane setter.
Quando il cervello del giornalista poté riprendere aria, quando quel bagno inebriante tra i ricordi ebbe fine, si rese conto che il viso di Oikawa era praticamente a tre centimetri dal suo. Entrambi si fissarono negli occhi, quella musichetta fastidiosa che continuava a risuonare nelle loro orecchie, e Iwaizumi la prese come un campanello d’allarme. Stava per commettere un errore madornale.
Si girò, lentamente, tornando con lo sguardo fuori, all’aereo su cui sua figlia era salita e che si apprestava a partire. «Non rispondi…?» chiese, freddo, ingoiando grumi amari di saliva.
Oikawa rimase per un attimo fermo, serrando poi le labbra e cacciando fuori il suo telefono dalla tasca dei pantaloni. Rispose senza nemmeno guardare chi fosse.
«Pronto...?» disse, tossicchiando prima di parlare. I suoi occhi si spalancarono un po’ nel realizzare chi fosse. «Mamma…?»
Il giornalista lo osservò con la coda dell’occhio, mentre l’altro teneva la testa bassa. «No, non mi stavi affatto disturbando, come mai mi stai chiamando…?»
Alzò un attimo lo sguardo, alla ricerca degli occhi di Iwa-chan, in modo da poter ricevere il consenso per potersi allontanare, ma dato che quello non lo stava neanche guardando, fece da sé, strascicando un po’ i piedi.
Solo quando si ritrovò completamente solo, Iwaizumi poté cacciare fuori dai polmoni tutta l’aria in eccesso che aveva accumulato, appoggiando la fronte contro il vetro.
Le sue mani tremavano, l’ultimo rimasuglio del turbinio di emozioni che aveva provato in quel momento.
Lui si era seriamente…
Ma quando? Come? Perché?

Osservò l’areo che, a poco a poco, percorreva la pista, fino ad aumentare la velocità e sollevarsi in aria. Il suo pensiero volò immediatamente ad Akane, alle sue manine che – chissà – stavano stringendo i braccioli dei sedili per la paura. E lui non era accanto a lei per confortarla.
Mentre fissava l’aereo che diventava un puntino nel cielo celeste, Hajime si disse che qualsiasi cosa provasse per Oikawa doveva cercare di reprimerla per sempre, in tutti i modi possibili.





I due malcapitati sembravano avessero trovato un punto di incontro, una linea che li separava ma che poteva essere comunque superata.
Intanto, il destino dispettoso li osservava, vedendo come Oikawa mettesse la punta dei piedi sulla linea, il polso adesso stretto non solo dal filo rosso, ma anche da qualcos’altro…
Iwaizumi, invece, per quanto avesse fatto di tutto per riavvicinarsi al giovane, adesso si riguardava indietro, rivalutando i suoi passi. Eppure, per quanto stesse tentando, la sua ultima occhiata era sempre per Tooru.



 
[Feeling like my heart's mistaken, oh 
So if I'm losing a piece of me 
Maybe I don't want heaven?]



 
 
Delucidazioni:
VI GIURO CHE HO LACRIMATO SCRIVENDO QUESTO CAPITOLO, AKANE IS SO PURE, PROTEGGIAMOLA TUTTI!
Okay, sì, ci tenevo particolarmente a scrivere questo capitolo: non lo so perché, ma l’idea di Oikawa che gioca con quella bambina mi mette una tenerezza immensa *w*
E lei che l’abbraccia, OMG, passatemi dei fazzoletti perché piango per le stesse cose che scrivo io *scoppia in lacrime*
L’anime che guarda Akane è una cosa di mia invenzione, ma le hanafuda esistono veramente (qui per ulteriori informazioni); il ramen può essere fatto con l’uovo sbattuto o sodo, e i giapponesi hanno l’abitudine di indossare il kimono tradizionale per Capodanno; i nastri, ancora, sono una cosa di mia invenzione, ma penso che tutti quanti conoscano i colori dei palloni di pallavolo lol. La canzone usata in questo capitolo è Heaven di Troye Sivan, IL CANTANTE IWAOI PER ECCELLENZA! 
Altro da dire?
Ah sì, la scena finale non doveva esserci, è stata una cosa che ho inserito all’ultimo minuto… *la picchiano forte*
Come avrete capito, nel prossimo capitolo avrete MORE ANGST, che bello, e un personaggio avrà una certa rilevanza… *fischietta e se ne va*
Oh, e appuntatevi la chiamata della madre di Tooru: ci servirà per una cosa che accadrà tra un paio di capitoli.
Che dire, se avete altro da chiedere, fate pure! ♥
_Lady di inchiostro_

l'uccellino cinguetta
 
  
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