Yorkshire, anno 1602
Avevo
quasi due anni quando tutto ebbe inizio. I miei genitori non sapevano che cosa
fare. Erano preoccupati per me, cercando di trovare una soluzione al “male” che
mi aveva colpito. Ogni medico della regione fu chiamato al castello per cercare
di trovare una cura, ma nessuno riuscì a fare qualcosa. A tutti i medici fu
proibito di parlare di ciò che avevano visto, nessuno doveva sapere ciò che era
successo. Mia madre piangeva in continuazione, i capelli scombinati,
sussurrando perché proprio a suo figlio fosse capitata una disgrazia del
genere. Mio padre, dal canto suo, non sapeva che cosa dire. Io ero il suo erede
maschio, ero io che dovevo ereditare tutto quanto, ma come potevo con un simile
problema?
Tutti
in quel castello mi rivolgevano occhiate strane, come se da un momento
all’altro dovessi diventare pazzo, urlare a squarciagola e sbavare come un cane
rabbioso. Io non capivo, ero troppo piccolo per poterlo fare. L’unica cosa che
riuscivo a capire era il mio disagio, la sensazione di essere diverso da tutti
gli altri, come se io fossi stato quello sbagliato. L’unica persona che mi
trattava in maniera umana era mia sorella Luna, l’unica alla quale non
importava niente di tutta la situazione che si era creata. Io non capivo perché
ne stessero facendo una simile tragedia. Ai miei occhi di bambino tutto
appariva normale, come se tutto fosse al suo posto, come se fosse nell’ordine
naturale delle cose. Mi fu proibito vedere altri bambini, e l’unica persona con
la quale potessi giocare fu la mia gemella Luna. Piano piano cominciai a
chiudermi in me stesso. Non mi sentivo accettato per quello che ero veramente.
“A
me piaci così come sei, sei speciale. Perché ti chiamano mostro?”
Quelle
furono le parole più consolanti che ricevetti da mia sorella e che non mi
fecero diventare pazzo col passare del tempo. Lei mi riteneva normale, come lei
e come tutte le altre persone che abitavano sulla faccia della terra. L’ultimo
medico che mi visitò disse ai miei genitori che non c’era nessuna speranza che
io potessi guarire. Un giorno mio padre venne nella mia stanza e si sedette sul
mio letto. Io leggevo un libro di favole, o per meglio dire, guardavo le
illustrazioni di quel bellissimo libro. L’ultima volta che avevo avuto un
dialogo con lui, era stato prima che venissero tutti quei medici a farmi
visita. Mi sentivo a disagio in sua presenza. Prima che succedesse tutto questo,
lo avevo amato veramente tanto, stravedevo per lui, ma tutto era cambiato da
quel giorno, come se qualcosa si fosse incrinato e infine rotto. Mi sentivo
ferito, tradito da lui.
“Forse
è meglio che io ti spieghi che cosa sta succedendo. Forse non sarai abbastanza
grande da capire, ma fidati che lo faccio per il tuo bene, figlio mio.”
E
io ascoltavo in silenzio le sue parole, cercando finalmente di capire i
comportamenti delle persone che mi stavano vicino. Mi avvicinai cautamente a
lui, ma lui, come se non si fosse accorto di me, continuò a parlare.
“Purtroppo
i medici hanno riscontrato in te una grave malformazione all’occhio destro.
Tutte quelle persone che sono venute al castello a visitarti hanno cercato di
guarirti, ma senza successo. L’unica cosa che possiamo fare è bendarti l’occhio
malato, in modo tale che nessuno noti questa cosa.”
Cosa
c’era che non andava ai miei occhi? Io ci vedevo, non capivo dove stesse il
problema, ma se mio padre lo faceva per il mio bene, allora dovevo sottostare
al suo volere. Feci un cenno d’assenso col capo, non riuscivo a spiegare a
parole ciò che mi passava per la testa, non riuscivo a trovare le parole per
poterlo esprimere. Ero troppo piccolo perché ci riuscissi. Mio padre mi prese
per mano e mi condusse in una stanza, dove vi era l’ultimo medico che mi aveva
visitato. Cosa volevano farmi? Quando fui abbastanza vicino a lui vidi sul
tavolo delle bende. Mi fecero sedere sulla sedia e guardai prima mio padre e
poi il medico.
“Andrà
tutto bene, non ti faremo del male.”
Quelle
bende furono appoggiate al mio occhio, coprendolo. Istintivamente portai la
mano sulla benda, ma subito la ritrassi. Uno strano senso di angoscia si era
impossessato di me. La cosa che più mi frustrava era il fatto che non riuscissi
a capire il motivo di tutta quella situazione.
“Quando
sarà più grande, gli farete crescere i capelli, in modo tale che gli possano
coprire l’occhio. Levategli le bende la sera, quando è solo nelle sue stanze. A
tutti dirò che sono riuscito a guarirlo.”
Da
cosa mi dovevano guarire? Che malattia avevo? Le mie mani si andarono a posare
sulla fronte, come quando faceva la mia balia per vedere se avessi la febbre o
meno. I miei occhi si inumidirono e cercai di asciugare quelle lacrime di
frustrazione con la mano.
“Non
piangere figlio mio, quando sarai più grande ti spiegherò ogni cosa. Ti chiedo
solo di rispettare tutti gli ordini che t’imporrò. Starai meglio, vedrai.”
E
io gli credetti, in fondo non avevo altre alternative. Il medico andò via di
casa, dicendo a tutti che ero guarito, che era riuscito a liberarmi dal “male”.
Tutti si congratularono con lui, i domestici cominciarono a vedermi di buon
occhio. Mio padre sorrideva compiaciuto che tutti credessero a questa bugia.
Questo doveva rimanere un segreto fra i quattro componenti della mia famiglia e
il dottore. Nessuno doveva sapere come stavano realmente le cose.
Il
tempo passava e tutti dimenticarono ciò che mi era successo. Tutti
consideravano normale il fatto che portassi un ciuffo di capelli davanti agli
occhi, come a coprire una cicatrice di guerra, non sapendo che io ci vedevo
benissimo da tutti e due gli occhi e che non avevo niente che non andasse. Quando
ebbi cinque anni, i miei genitori ci diedero la notizia che la mamma aspettava
un bambino. George nacque qualche mese più tardi, dopo che io e Luna compimmo
sei anni. Era un bel bambino, ma io vedevo dallo sguardo di mio padre tutta
l’ansia e tutta l’agitazione che poteva provare. Aveva paura che avesse il mio
stesso identico problema, un problema che nessuno mi spiegò mai. Non chiesi più
niente ai miei genitori, non avevo nemmeno il tempo di vederli, dato che stavo
quasi sempre con il mio precettore. Era una persona amabile, che mi spiegava le
varie nozioni con somma pazienza. Lui diceva sempre che io ero il suo allievo prediletto,
un bambino dall’acume fuori dal normale, capace di comprendere anche le nozioni
più difficili, e tutto questo prima che io compissi i sette anni. Mio padre era
fiero di me, e lo dimostrava con lo sguardo. Agli occhi della gente ero
diventato un bambino normale.
Tutti
in quel castello cominciarono ad amarmi, tutti dicevano che ero un bambino dai
modi garbati e gentili, un bambino intelligente e buono. Ero io quello stesso
identico bambino che chiamavano “mostro”. Luna era sempre al mio fianco e noi
condividevamo un segreto troppo grande. Varie volte mi chiese di mostrarle i
miei occhi, e io glieli mostravo quando sapevo che in quella stanza non c’era
nessuno a parte noi. Rimaneva sempre affascinata.
“Perché
non chiediamo a papà che cosa hai di preciso? Sono così belli.”
Io
ogni volta negavo con un cenno del capo. Mio padre aveva detto che mi avrebbe
spiegato tutto quando sarei stato abbastanza grande da poter capire. Ero
grande, ma non lo ero per lui. Ai suoi occhi ero un bambino di quasi sette
anni. Quando avevo sette anni mia madre diede alla luce un altro figlio, David.
La mamma ogni volta scuoteva il capo, dispiaciuta che tutti e quattro i suoi
figli avessero ereditato i capelli biondi del padre e non quelli neri della
madre. Da lei avevamo ereditato unicamente gli occhi blu. Gli anni trascorsero
velocemente, fino a quando non compii dodici anni. Luna quel giorno venne nella
mia stanza e chiuse la porta a chiave, guardandomi con uno strano scintillio
negli occhi.
“Ho
capito perché ti chiamavano mostro.”
Balzai
a sedere quando disse quelle parole e mi avvicinai a lei, prendendole dalle
mani il libro che teneva. Era un bel libro, dalla rilegatura in oro. Luna lo
riprese in mano e lo sfogliò, fin quando non trovò la pagina che cercava. Lessi
velocemente, tanto che dovetti rileggere una seconda volta per poter comprendere
appieno quelle parole stampate su quel foglio di carta. Tutto mi fu chiaro, ma
per me era una cosa alquanto insensata. Non riuscivo davvero a capirne il
senso, così andai da mio padre e da mia madre insieme a Luna. George e David
erano con la balia nell’altra stanza. L’unico in famiglia ad avere questo
problema ero io. Mio padre prima guardò il libro, e poi guardò me e mia
sorella. Eravamo due gocce d’acqua, lo stesso colore dei capelli, di quel
biondo grano, e lo stesso colore degli occhi, o quasi.
“È
assurdo! Non potete considerarmi un mostro solo per questa cosa! Non è mia la
colpa!”
Ero
arrabbiato col mondo intero. Mi avevano attribuito una colpa che non avevo,
come se io avessi voluto tutto questo.
“Nella
società di oggi coloro che hanno questa malformazione vengono considerati dei
mostri. Se te lo avessi spiegato quando eri più piccolo non avresti capito.”
Per
lui non avrei mai capito, era questa la verità. Cercai di trattenere le lacrime
e guardai male mio padre, scostandomi il ciuffo di capelli davanti l’occhio
destro.
“Sono
un mostro per te?”
La
mia voce era stranamente calma, glaciale, tagliente. Lui mi guardò per un
attimo, per poi dirigere il suo sguardo alla finestra dove stava tramontando il
sole.
“No.
Se lo fossi stato ti avrei ripudiato anni fa. La questione si chiude qui. Solo
io, tua madre, tua sorella e quel medico sappiamo la verità. Nemmeno i tuoi
fratelli lo sanno, quindi evita di fare scenate o dei gesti avventati.”
Due
lacrime scesero dal mio volto. Quelle sarebbero state le ultime lacrime che
avrei versato. Col tempo compresi perché mio padre avesse preso una decisione
di tale importanza, ma lo capii molti anni dopo. Il tempo passava e io divenni
un signorotto rinomato e apprezzato. Quel ciuffo davanti agli occhi mi donava,
a parer del gentil sesso, un’aria misteriosa, cosa che piaceva particolarmente.
Feci in modo che la cosa ricadesse tutta a mio vantaggio.
All’età
di sedici anni mi innamorai della ragazza più bella che ebbi mai visto in tutta
la mia vita. Successe una sera d’estate. Passeggiavo per le strade della città
con altri ragazzi, tutti figli di baroni, duchi e lord, tutti figli di amici di
mio padre. In città si sarebbe celebrata una festa, e noi eravamo lì a divertirci,
in fondo non c’era niente di male. La festa iniziò poche ore dopo. La gente
ballava, cantava, mangiava ed era intrattenuta da artisti di strada. Noi
eravamo seduti ad un tavolo con qualche alcolico davanti a noi. Ridevamo
guardandoci in giro, cercando qualche ragazza, quando ad un certo punto la vidi
davanti a me. Non avevo mai visto una ragazza più bella. Aveva i capelli neri
come l’ebano, la pelle candida come la neve che cade giù dal cielo, le labbra
rosse come le fragole. La cosa che mi colpì in assoluto furono i suoi occhi, di
un grigio intenso. Non riuscivo a staccare lo sguardo da lei, ero come
ipnotizzato. Quando sorrise, non potei fare a meno di arrossire. Non avevo mai
visto un sorriso più bello. I miei amici se ne accorsero e cominciarono a ridere.
“È
la figlia del duca. È la cugina di William, venuta appositamente dalla
Francia.”
“William!
Non mi avevi mai detto che avevi una cugina tanto bella. Dovrei ripudiarti per
questa mancanza.”
Non
riuscivo a capacitarmi di come William avesse una cugina di tale bellezza.
Perché me lo aveva nascosto?
“È
la promessa sposa di un signorotto del Galles. È venuta qua in vacanza, nulla
di più. Ti prego di non corteggiarla.”
“Di
chi è promessa sposa?”
Il
mio cuore palpitava. Chi aveva osato tanto da chiedere la sua mano?
“Il
figlio di Sir Giles, Arthur.”
Non
potevo credere alle mie orecchie. Lei sarebbe stata la promessa sposa del mio
acerrimo nemico? Cercai di assimilare la notizia e di stare calmo. Arthur non
poteva battermi, non aveva di certo la mia bellezza e il mio acume. Inoltre la
sua famiglia era meno potente della mia, tutti fattori che andavano nettamente
a mio vantaggio. Bastava solamente che io la corteggiassi e far fallire il
matrimonio per averla tutta per me. Ero così assorto dai miei pensieri che non
mi accorsi in un primo momento che proprio quella fanciulla, con altre ragazze,
si era avvicinata a noi e salutò suo cugino. I nostri occhi si incrociarono per
un momento, il mio corpo fu percorso da brividi. Mi sarei perso dentro quegli
occhi. Erano così limpidi, così pieni di vita e ti rivelavano, come un libro
aperto, i suoi sentimenti. Mi alzai e le presi una mano, baciandogliela. Vidi
le sue gote assumere una graziosa tonalità rosea e le sorrisi.
“Aster,
lei è mia cugina Virginia.”
“È
un vero piacere conoscerla, mio signore.”
La
sua voce era melodiosa, così armoniosa che avrebbe fatto impallidire anche la
musica più celestiale. Era questo quello che la gente chiamava infatuazione?
Era una sensazione così piacevole! Mi scaldava il petto, mi sentivo stranamente
felice quando Virginia mi rivolgeva uno sguardo o qualche parola. Mi era
bastato un solo sguardo per esserne completamente infatuato. Si muoveva in
maniera leggiadra. Tutte le ragazze, messe a confronto, perdevano di valore, di
importanza. Nessuna aveva il suo portamento, le sue maniere, le sue gote
rosate. Mi aveva stregato e poteva fare di me ciò che voleva.
I
giorni si susseguirono diventando settimane e infine mesi. La partenza di
Virginia era sempre rimandata per motivi a me sconosciuti. Ogni giorno ero a
casa di William, dove alloggiava Virginia. Stetti più tempo possibile con lei,
passeggiando in riva al lago o sul cavallo. Imparai a conoscerla, scoprendo che
era una ragazza semplicissima, obbligata a sposare un uomo che conosceva a
stento. E io non potevo farmi avanti. Avrei scatenato una vera e propria guerra
se lo avessi fatto. E se fossimo diventati amanti? La mia mente era così piena
di questi pensieri, di tutte queste congetture che formulava, per cercare di
trovare una soluzione, qualcosa che mi facesse stare accanto a lei, che nemmeno
mi accorsi che mi stava guardando inclinando leggermente la testa.
“Qualcosa
non va, mio signore?”
“Per
favore! Quante volte devo dirti di chiamarmi per nome?”
“Avete
ragione, ma sono sempre stata abituata a dare del Lei e non del tu, come Lei mi
sta chiedendo di fare.”
Ormai
eravamo arrivati vicini alla riva del lago. I cavalli avevano immerso i loro
zoccoli in quella spuma. Erano settimane che avevo voglia di rivelare i miei
sentimenti a Virginia ma le parole di William ogni volta mi bloccavano.
“È
un vero peccato non averti conosciuto prima, Virginia.”
Le
parole erano uscite dalla mia bocca di getto ma non me ne ero reso conto se non
in un secondo momento. Mi voltai verso di lei. Un leggero venticello accarezzava
le nostre guance arrossate dal caldo e dall’imbarazzo. Portai il mio ed il suo
cavallo lontano dall’acqua e poi scesi, facendo scendere a mia volta Virginia.
Era così morbida e candida la sua mano. Incrociai il suo sguardo e respirai a
fondo. Non sapevo se stavo facendo la cosa giusta, ma se non le avessi detto
del mio amore per lei, avrei avuto il rimpianto per tutta la vita.
“Virginia,
per favore ascoltami.”
Come
dovevo continuare? Che cosa avrebbe detto?
“Io
ti amo. Ti ho amata dal primo momento che ti ho vista quel dì di festa. Tuo
cugino mi ha espressamente vietato di corteggiarti, ma è stato più forte di me.
Non riesco a starti lontano e il solo pensiero che sarai la sposa di un altro,
mi spezza il cuore.”
Non
riuscivo a spiegarle appieno ciò che provavo per lei, nessuna parola che mi
veniva in mente poteva anche solo avvicinarsi a quello strano sentimento che
mai prima di allora avevo provato. Le presi le mani e le intrecciai con le mie.
“Lo
sa che devo sposare un altro uomo. Non posso tirarmi indietro.”
Le
sue parole erano tante pugnalate al mio petto. Doveva esserci una soluzione,
doveva.
“Lo
sfiderò a duello per avere la tua mano. Solo così potremo stare assieme. Devo
saperlo Virginia. Tu mi ami?”
Il
cuore cominciò a battere velocemente. Attendevo ansiosamente una sua risposta.
Tutto perdeva d’importanza quando stavo con lei. Esisteva solo lei e la
risposta che mi avrebbe distrutto o fatto vivere. Il vento cessò di soffiare e
le mie speranze, a poco a poco, cominciarono a svanire.
“Finché
sarò promessa a un altro uomo, non potrò amarvi.”
Quelle
parole ravvivarono in me la speranza. Se non mi avesse amato, se ne sarebbe
andata non appena le ebbi dichiarato il mio amore per lei. L’abbracciai
d’impulso, respirando il suo odore. Non so per quanto tempo rimanemmo
abbracciati ma, quando l’accompagnai a casa era già buio. Il giorno dopo dissi
a mio padre di voler sfidare a duello Arthur. Lui mi guardò severamente, gli
occhi stretti a fessura, come quando facevo qualcosa di sbagliato.
“Non
è abbastanza ricca per noi quella ragazza. Inoltre non sa del tuo segreto.”
“Lo
sfiderò a duello qualunque cosa voi diciate, padre. Amo Virginia e ho
intenzione di sposarla, con la vostra benedizione o senza.”
Uscii
dalla stanza e mi diressi a casa di William, dove vidi una carrozza diversa da
tutte le altre. Salii i gradini ed entrai dentro il maniero, dove vidi Arthur
con suo padre. Parlava sommessamente col padre di Virginia e con suo zio.
Quando si accorsero della mia presenza, interruppero la conversazione e mi
guardarono. Che cosa aveva lui più di me?
“Signori.
Mi dispiace interrompere la vostra conversazione, ma ho urgente bisogno di parlare
con il padre di Virginia.”
“Mi
dispiace ma stiamo per partire.”
“Io,
Aster Blacksword, sfido a duello Arthur Giles per la mano di Virginia Florant.”
Buttai
un guanto ai piedi di Arthur in segno di sfida. Non riuscivo nemmeno io a
capacitarmi del mio gesto. La mia parte razionale diceva che ero stato troppo
avventato, ma quella istintiva mi incitava a proseguire e a battermi per
conquistare la donna che amavo. Arthur prese il guanto e mi guardò con uno
strano scintillio negli occhi.
“Accetto.
È la resa dei conti.”
Un
mormorio si diffuse in tutto il castello e in breve tutti seppero della mia
sfida. Prima che il duello iniziasse, vidi Virginia venire verso di me e
condurmi dentro una stanza, chiudendola. Le presi le mani e le portai alla mia
bocca, baciandole, come se quel gesto mi potesse dare la forza di andare
avanti.
“Non
morire.”
“Non
lo farò, non adesso che sto per averti. Ma prima voglio che tu sappia una cosa
che non ho mai detto a nessuno. Solo la mia famiglia sa di questa cosa e voglio
renderti partecipe.”
Mi
scostai il ciuffo di capelli davanti l’occhio destro e lei poté vedere con
chiarezza i miei occhi di diverso colore. Era questo il segreto che avevo
custodito tanto gelosamente per tutta la mia vita. Era per questo motivo che le
persone mi davano del mostro. Tutte le persone che avevano gli occhi di due
colori diversi venivano visti come dei demoni, come se fossero stati marchiati
dal Diavolo in persona. Io non avevo colpa in tutto questo, non avevo deciso io
il colore dei miei occhi. L’occhio che nascondevo tanto gelosamente era di
colore verde chiarissimo, in netto contrasto con il mio occhio blu scuro.
Quegli occhi per i quali le persone mi chiamavano mostro e mia sorella mi
reputava speciale.
Vidi
nei suoi occhi la sorpresa per ciò che stava vedendo, ma subito dopo vidi la
paura. Le sue mani cominciarono a tremare e cercare di divincolarsi dalle mie.
Non poteva finire tutto in questo modo. La sua bocca si apriva e si chiudeva,
cercando di dirmi qualcosa che mai mi disse. Non uscivano parole dalla sua
bocca, ma solo piccoli rantoli seguiti subito dopo dai singhiozzi.
“Non
reputarmi un mostro, sono solo un uomo innamorato che ha trovato il coraggio di
non nascondersi dalla donna amata. Ti amo Virginia, sarei disposto a fare
qualsiasi cosa per te.”
Il
ciuffo di capelli ricadde di nuovo davanti l’occhio. Un rumore ci fece voltare
entrambi e lei si allontanò da me. La porta si aprì ed entrò William.
“È
il momento.”
Guardai
per un breve momento Virginia e poi seguii William. Sentivo un peso sul cuore.
Avevo sperato con tutto me stesso che lei non avesse quella reazione. Ai suoi
occhi, adesso, avevo l’aspetto di un mostro? Cercai di regolarizzare il mio
respiro e uscii fuori dal maniero, dirigendomi verso il cortile dove mi
aspettavano mio padre, che era stato avvertito, e tutti gli altri signori.
Quando
fui di fronte ad Arthur, ci diedero le spade e ci mettemmo in posizione. La mia
mente era altrove, a Virginia e ai mille atroci dubbi che affollavano la mia
testa. E se mi avesse rifiutato? Non dovevo pensarci, dovevo concentrarmi sul
duello e vincere per me, per lei, per un futuro assieme.
Il
mio corpo si mosse come se avesse avuto vita propria, cercando di parare e di
affondare per colpirlo, per poter vincere. Non ero abbastanza concentrato,
tanto che cominciai a perdere terreno. Nella mia mente vidi con chiarezza tutti
i momenti più importanti della mia vita, fino a giungere al ricordo del volto
di Virginia. Era come se il mio corpo avesse avuto la forza necessaria per
riprendersi. Lo stavo facendo per Virginia, mi stavo battendo per lei e per il
suo amore. Riuscii a disarmare Arthur, puntandogli la spada sul cuore. Avevo
vinto il duello. Virginia sarebbe stata mia. Mi voltai per cercarla con lo
sguardo, ma non la vidi, sentii solo un urlo indistinto provenire dal maniero.
Corremmo verso le urla, e il mio cuore si fermò per qualche secondo. Virginia
era stesa per terra, in una pozza di sangue. La mia mente registrò un secondo
dopo le immagini che stavo vedendo, ma poi mi mossi verso di lei. Le serve
piangevano spaventate e, a chi chiedeva che cosa fosse successo, rispondevano
fra i singhiozzi che avevano visto la signorina buttarsi dal tetto del maniero.
Lei
si era suicidata, si era tolta la vita. Perché? La mia mente urlava il suo nome,
ma io ero incapace di parlare in quel momento. Cercarono di fare qualcosa per
lei, ma era troppo tardi. Lei mi lasciò senza una spiegazione, nemmeno un pezzo
di carta nella quale spiegava le ragioni di quel suo folle gesto. Con lei era
morto il mio cuore e tutti i buoni sentimenti che potevo provare. Prima di
tornare a casa, sentii qualche serva parlare sommessamente della morte di
Virginia. Mi avvicinai senza che loro se ne accorgessero.
“Parlava
di un mostro. Che si riferisse al figlio di Sir Giles? Dicevano che abusasse
dell’alcool.”
“Chi
può mai dirlo a chi si riferiva quella ragazza. Che riposi in pace.”
Me
ne andai dal maniero, salutando tutti, ma prima che potessi fare un altro
passo, venni bloccato da mio padre, che mi prese per un polso, strattonandomi
verso di lui.
“Ti
rendi conto di quello che hai appena fatto? Parlavano di un mostro! Le hai
rivelato la verità, Aster?”
“Sì.”
Una
semplice sillaba che conteneva tutto il mio dolore e il mio disprezzo.
“Per
colpa tua quella ragazza si è tolta la vita. Sei un mostro, un assassino.”
Per
anni avevo sentito quella parola, per anni ero stato considerato tale e per
cosa, poi?
Mi
ritrovai a ridere di fronte a mio padre, una risata folle, priva di qualsiasi
cosa.
“Forse
non lo sai, ma gli assassini non sono mostri, sono uomini. E questa è la cosa
più spaventosa per loro.”
Era
come se in quel momento non provassi più niente. Nessun dolore, nessun
sentimento. Solo il vuoto più totale. Si era suicidata per colpa mia. Ero io il
mostro che aveva menzionato, avevo assunto quelle sembianze non appena le
mostrai il mio segreto. La rabbia cominciò a pervadere il mio corpo.
“Adesso
voglio chiederti una cosa. Chi è il vero mostro? Chi è brutto dentro o chi è
brutto esteriormente?”
Mio
padre non mi rispose, e io lo lasciai lì, solo con le sue domande, andando
dall’unica persona che mi aveva sempre accettato, mia sorella.
Reputavo
Virginia diversa, le avevo donato il mio cuore incondizionatamente, e lei lo
aveva gettato per paura di tutte quelle congetture. Non avrei più amato
nessuna. Nessuna era degna del mio amore e della mia attenzione. Quel giorno
cambiai, tutto cambiò ai miei occhi. Se prima vedevo uno sprazzo di luce,
adesso le tenebre mi avrebbero avvolto completamente.