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Autore: Kat Logan    03/08/2017    4 recensioni
Esiste realmente la quiete dopo la tempesta?
C'è chi cerca di costruirsi un nuovo futuro sulle macerie del passato e chi invece dal passato ne rimane ossessionato divenendo preda dei propri demoni.
[Terzo capitolo di Stockholm Syndrome e Kissing The Dragon].
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Rei/Rea, Un po' tutti | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo Yakuza'
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Si voltò a guardare giusto in tempo per vedere la pioggia che cominciava a cadere
come se il temporale si fosse finalmente deciso a piangere di vergogna per quello che aveva fatto loro.

James Dashner

 


«Dunque è per questo che volevi dirglielo adesso. E a me quando pensavi di parlarne?!» tuonò Haruka con in volto i segni della rabbia.
Non appena Ami aveva vuotato il sacco per aiutare la sorella col padre, Haruka, senza troppi complimenti  aveva letteralmente trascinato Michiru nel giardinetto sul quale dava la saletta nella quale Akira li aveva sistemati.
Il blu delle sue iridi era mutato improvvisamente. Non era più lo sguardo che cullava Michiru ogni volta che incontrava la sua figura, bensì era un mare in tempesta pronta ad inghiottirla.
«Dovevo prima affrontare mio padre» fu tutto quello che riuscì a dire in sua difesa.
«Certo» asserì asciutta Haruka. «Era una cosa di così poco peso che era giusto mettere in secondo piano per te».
Michiru s’irrigidì. Serrò le unghie smaltate in due pugni che le cadevano lungo i fianchi. Le sue labbra si tirarono e tenne testa allo sguardo di Haruka che la guardava in cagnesco.
Cos’altro poteva dire a sua discolpa? Nulla. Perché Haruka aveva pienamente ragione su tutto. Michiru non avrebbe dovuto temporeggiare e tenere segreto il voler diventare madre. Ad Haruka poteva dire tutto esattamente come aveva sempre fatto.
Solo lo sbuffo pesante della bionda e la sua mano alla fronte pronta a molestare la zazzera color grano la riportarono alla realtà, ma ancora una volta non proferì parola poiché fu l’altra a parlare nuovamente.
«Dio. Tu hai già deciso, vero?» la sua non era una domanda ma una constatazione di cui ebbe conferma nel momento in cui sua moglie abbassò il capo.
 Michiru si rese conto di non voler rinunciare alla piccola Hotaru. Perché per quanto folle e fuori dall’ordinario lei si sentiva legata indissolubilmente a quella bambina.
«Ruka, io…».
«Sì appunto. TU. Tu e ancora tu, Michiru. Si tratta sempre di te» sbottò senza riuscire più a starsene ferma sul posto.
Haruka si sentiva tradita.
Se Ami non avesse rivelato tutto forse sarebbe stata l’ultima della lista a saperlo. Come aveva potuto farle una cosa del genere?
«È così sbagliato volere costruire qualcosa con te?!» adesso era Michiru ad avere alzato i toni.
Haruka scosse il capo incredula.
La delusione venne soffocata dall’ondata di rabbia che avrebbe domato di lì ogni suo gesto o parola.
Vedeva rosso come un toro e non avrebbe ascoltato ragione alcuna.
«La cosa sbagliata è che non ti sia passato mai per un secondo nella testa il fatto di chiedermi se io fossi pronta per una cosa del genere».
«Ah perché tu hai sempre chiesto per ogni cosa vero?».
La bionda si accigliò.
«Cosa mi staresti rinfacciando?» il suo sguardo si assottigliò.
«Lascia perdere».
«No. Adesso me lo dici».
«HARUKA» Michiru la guardò in cagnesco. «Mollami subito il braccio» sibilò.
 
Haruka non si era nemmeno resa conto della presa ferrea sul polso dell’altra.
Le sue dita abbandonarono la pelle lattea di Michiru.
Nella sua testa ronzavano tutte le cose che avrebbe potuto sputargli addosso ma stava tenendo strette fra i denti.
Le stava rinfacciando di aver dovuto lasciare il suo lavoro ad Osaka o c’era dell’altro?
Dall’esterno il locale parve essere immerso nel silenzio.
Haruka ebbe la sensazione che tutti, a parte loro due, fossero immersi in una bolla di spensieratezza.
Minako portò una mano sul polso di Akira pronto col carrello dei dolci.
«Penso non lo prenderanno il dessert, tesoro».
Il ragazzo la guardò con aria stralunata.
«Ma ho fatto persino la creme brulèe!» esclamò per poi imbronciarsi.
La fidanzata non seppe se prenderlo a schiaffi o dargli una carezza consolatoria. Lo lasciò crogiolarsi nella sua disperazione culinaria mentre Yoshio con Ami a braccetto si avviarono alla cassa per pagare il conto.
 
 
***
 
 
Gli ultimi clienti avevano lasciato il loro tavolo e Minako chiuse la porta del locale abbassandone le luci.
Erano le due di notte passate e lei si occupò di ordinare le ultime cose per poi andarsi a coricare al piano di sopra dove con Akira aveva preso il suo primo vero appartamento.
Akira, intanto, sedeva con Haruka ad uno dei tavolini presente in veranda sottoponendole i dolci avanzati dalla serata.
«Quindi…è finita?» domandò incerto spingendole davanti un piattino con una fetta di torta alle fragole e panna.
Un po’ di dolcezza avrebbe certamente aiutato ad affrontare le pene d’amore.
Haruka la infilzò la fettina come si trattasse del suo nemico giurato e ignorando la smorfia di dissenso dell’amico se ne portò alla bocca un pezzetto.
«Ha detto che se volevo potevo tornarmene all’appartamento. Tanto lei poteva stare da suo padre» bofonchiò a bocca piena.
Akira alzò un sopracciglio.
«Ma…?».
«Le ho detto poteva tornarsene lei in quella stupida casa che io un posto dove andare lo avevo».
«Ah si?».
«Si, certo».
Haruka lo guardò come se la cosa fosse ovvia.
«Rimango qui con te. Cioè, voi» lo ragguagliò per poi prendere una cucchiaiata generosa di budino.
«Stai scherzando, vero?».
La bionda rimase con mezzo cucchiaio a penzoloni dalla bocca.
«Non siamo più amici?».
«Ma certo che lo siamo».
«E allora quale sarebbe il problema?»
«Che Minako è impazzita».
«È una donna» fece spallucce Haruka come se lei non appartenesse al genere femminile e potesse dispensare pregiudizi con leggerezza.
Akira la guardò come si fa con uno ricoverato in una casa d’igiene mentale.
«Ha un app che squilla…» spiegò «e quando lo fa non ci sono scuse. Bisogna che ci spogliamo in fretta e furia perché quella è l’ora giusta per fare un bambino».
Haruka storse la bocca mollando il cucchiaino sulla tovaglia. Improvvisamente non sentiva più il bisogno di ingozzarsi.
«Ma non è che il mio…».
«Wooh, Akira ti prego no. Le magiche avventure del tuo coso non sono pronta a saperle. Davvero ti voglio bene, ma santo cielo sto sudando al solo pensiero che tu possa descrivermi altro».
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. A volte dimenticava che anche Haruka poteva avere una decenza, o meglio, l’aveva solo quando faceva comodo a lei.
«Troverò un posto» gli posò una mano sulla spalla come se comprendesse il suo disagio.
«A comando non è bello».
«No, non lo è. Per niente» le diede corda lui.
«Sei mio amico lo stesso».
«Lo so».
«Anche se, bello, mi stai mollando proprio in mezzo alla strada».
Akira la guardò torvo.
«Che c’è? Ti perdono…sto dicendo» recuperò in fretta la bionda.
«Allora?».
«Allora che?» domandò Haruka incrociando le braccia al petto.
«Stai bene?» chiese lui sinceramente preoccupato.
«Sì» mentì lei a sé stessa. «Non ho nessuna intenzione di stare dietro a un poppante».
Il moro rimase in silenzio ad ascoltare l’amica. Haruka era dovuta crescere da sola in una situazione violenta e degradante, probabilmente non era strano il fatto che fosse restia a mettere su famiglia nonostante amasse profondamente Michiru.
«E poi avrebbe dovuto dirmelo».
«Già» lui le diede il suo supporto.
Michiru era una brava ragazza ma lui non avrebbe mai e poi mai lasciato il fianco di Haruka per nulla al mondo. Era un giuramento suggellato con i loro mignoli da quando erano bambini. Avrebbero affrontato ogni cosa superandola se fossero rimasti assieme per sempre.
«Invece no. Me lo ha nascosto e chissà per quanto ancora lo avrebbe fatto» la voce di Haruka s’incrinò leggermente.
 
Akira poté percepire i suoi denti battere gli uni contro gli altri per non piangere. Lei non si sarebbe mai permessa di versare lacrime per una donna.
«Quindi? Torta, creme brulèe o budino ai litchi?».
Haruka lo guardò di sbieco per poi sorridere.
«Budino».
«E budino sia».
 
 
***
 

Haruka e il suo maledetto orgoglio l’avevano tenuta sveglia tutta la notte, così Michiru si era rigirata sino all’alba in un letto che senza l’altra pareva essere troppo grande.
Per qualche minuto aveva dubitato di essere quella dalla parte del torto, ma poi l’idea si era dissolta nel nulla arrivando alla conclusione che non esisteva un vero e proprio colpevole; solo un desiderio che evidentemente Haruka non condivideva con lei.
Rimase a fissare il soffitto per qualche minuto prima di decidere come riempire la propria giornata. La scuola di musica era ancora chiusa a causa dell’incendio e lei con le lezioni private aveva tutta la mattinata libera.
«Oddio Michiru…quanto sei stupida» disse tra sé e sé, portandosi le mani sugli occhi come a coprirsi per la vergogna.
Forse si era comportata male. Forse avrebbe dovuto trovare il coraggio di parlare prima con lei e questo lo stava riconoscendo anche se a fatica.
«Avrebbe potuto perdonarmi però» sibilò ancora una volta mugugnando appena e scalciando il lenzuolo.
Respirò a fondo decisa a non cedere alle lacrime, eppure, in ogni istante sentiva la mancanza della bionda al suo fianco.
 
 
*** 
 
 
«Dunque, vuole parlarmi di come si sente agente Hinō?».
Rei stava affrontando l’ennesima seduta con la terapeuta che l’era stata assegnata. Odiava farsi analizzare di mattina presto e in generale era una di quelle persone che non si alzava certo col sorriso. Tutt’altro. Se qualcuno non si muniva di caffè nero bollente alla mano, allora era meglio starle alla larga.
«Annoiata» sputò fuori dai denti cercando di soffocare un ringhio d’insofferenza.
«Può essere più precisa?» la donna dal tono pacata pareva essere quella che rigira il coltello nella ferita.
Rei batté il piede destro per due volte. Tentò di fermare la gamba portando la medesima mano al ginocchio ma dopo qualche secondo fu tutto inutile.
«Come vuole che si senta qualcuno rinchiuso qui dentro?».
L’altra annotò qualcosa su un taccuino.
Rei scommise che la donna l’avesse additata su carta come un soggetto con difficoltà a gestire la rabbia o una calunniata simile.
«Agente…» fece una pausa «vorrei si sforzasse un po’ di più. Che guardasse al quadro generale. Non credo lei senta solo noia in questo momento».
«In effetti sono anche infastidita».
«Bene. Che altro?».
«Lo sono perché non amo parlare al mattino appena sveglia».
«Cosa le piace fare in questo momento della giornata?».
«Bere il mio caffè».
«Al bar?».
«Come può essere utile tutto questo?!» sbottò Rei smettendo di battere il piede e scalciando l’aria.
La donna rimase in silenzio ma la invitò a rispondere con lo sguardo.
«Non al bar» Rei distolse lo sguardo da quello dell’altra. «Mi piaceva berlo in casa. Sentirne il profumo venire dalla cucina mentre me ne stavo ancora qualche minuto sotto alle coperte…».
«Ne parla come qualcosa di cui sente una profonda malinconia».
«Lo faceva lei. Era Setsuna a preparare il caffè e a farmi uscire dal letto».
Sospirò. Un sospiro tanto profondo da avvertirlo dalla base del ventre sino ad arrivarle alle narici.
«Andavamo a correre al parco dopo. Prima di andare al lavoro. Lo facevamo sempre».
L’indice batté sul ginocchio e il braccialetto identificativo dell’ospedale scivolò un po’ di più sul suo polso snello.
«Così va meglio» sostenne la terapeuta.
«Così come? Con la malinconia?».
La donna scosse il capo in segno di diniego.
«Così. Con un’emozione vera».
 
 
***
 
 
Nonostante fosse l’ora di lavoro – l’unica in cui i prigionieri potevano scambiare parola assieme a quella ricreativa – non erano molte le conversazioni che allietavano la stanza. Probabilmente ognuno dei detenuti aveva perso la voglia di chiaccherare poiché non c’era molto da dire sulle proprie giornate.
Una guardia sorvegliava la porta e un’altra compilava una serie di scartoffie da dentro il proprio cabinotto.
Nel carcere di Chiba nell’ora di lavoro si producevano scarpe, ma nessuno di quei modelli soddisfava le aspettative di Eudial.
La giovane, con la scusa di fornirsi di un altro dei cataloghi di calzature si avvicinò a Petirol intenta ad incollare alcuni strass su un cinturino in cuoio grigio.
«Andata bene la gita?».
Petirol sembrò divertita, ma in fin dei conti aveva sempre quel risolino pronto sulla bocca.
«Mi sono saltate addosso. Meglio di così!».
Eudial non amava scherzare. Le piacevano i fatti e soprattutto voleva assicurarsi avvenissero nella maniera in cui lei desiderava.
Non ci aveva messo molto a far fuori suo marito per poi appropriarsi di un intero clan, per tanto ci avrebbe impiegato ancora meno a sbarazzarsi di chi risultava inutile alla sua causa.
«Petirol…» sussurrò Eudial prendendole il mento con due dita. «Mio piccolo pettirosso…» sbuffò a pochi centimetri dal suo viso e lasciò correre più distanza solo quando la guardia alla porta emise un gorgoglio in segno di divieto per il troppo contatto fisico.
«Ricordi qual è il mio desiderio?».
Petirol annuì quasi intimidita.
«Avere in pugno Tokyo oltre ad Osaka. Espandere il tuo potere» recitò quasi a memoria.
«Esatto. Perciò i clan rivali devono sparire, no?».
«Ma…».
«Sì loro sono usciti dal clan vero e proprio ma sanno essere un problema» la interruppe Eudial con voce grave.
«Ti sembra il posto adatto a me?».
«No».
«No, cosa?».
«No mia regina. Signora. No, Eudial».
La giovane si beò perché la voce dell’altra era impregnata di timore reverenziale. Persino in quel maledetto posto sapeva incutere timore e Eudial viveva di quella sensazione.
«Se non li avete sistemati uno per uno. Allora dovremo fare un’altra gita fuori di qui. Non trovi?».
Petirol deglutì annuendo.
«E tu sei brava ad andare fuori di testa» gongolò.
Eudial, era una vedova nera intenta sempre a tessere nuove tele dove intrappolare gli inutili insetti che la infastidivano.
 
***
 
 
«Allora com’è andata la serata?» Sadao lo domandò con tono ingenuo mentre lo sguardo scuro ricadeva indignato sui propri calzetti spaiati.
Sua madre non si era ancora premurata di portargliene un paio decente e lui era rimasto con quei due pezzi di stoffa di colori differenti a coprirgli i piedi.
Niente male per far colpo su una ragazza pensò tra sé e sé ormai arresosi all’idea di apparire un pagliaccio agli occhi di Ami.
«Non certo uno dei miei migliori successi» rispose Ami sospirando per poi avvolgerli al braccio destro la fascia e provargli la pressione.
«È andata seriamente così male?».
«Ero ubriaca».
Sadao rise senza riuscirsi a trattenersi nonostante fosse meravigliato ancor più che divertito. Non riusciva davvero a immaginarsela ubriaca.
«È così divertente?» domandò Ami arricciando le labbra.
«Oh scu-scusa. Io non volevo of-fenderti, solo che, beh, sì. Insomma…».
«Lascia stare!».
«No è che…io od-».
«Sadao, shht!».
Lui si zittì immediatamente.
«Devo sentirti il battito» chiarificò lei, infilando lo stetoscopio freddo sul petto del giovane.
Sadao rabbrividì e quasi trattenne il respiro.
«Va veloce» valutò lei guardandolo negli occhi.
Ma lui non rispose. Conscio che il suo cuore stava facendo le capriole perché lei lo stava toccando.
«Respira» sorrise lei, annotandosi i suoi parametri.
«È che…è freddo quello» mentì lui.
«Si, forse un pochino» annuì rigirandosi lo strumento fra le mani per poi sistemarselo in tasca.
«Starai attento?».
«Mh?».
«Non farai troppi sforzi fuori di qui, vero? Niente risse o cose del genere. Niente cose che facciano saltare nuovamente i punti…».
In risposta lui aggrottò solo la fronte.
«Penso potrai uscire domani. Ormai va tutto bene» chiarificò Ami. «Non c’è motivo di trattenerti ancora qui, pare tutto sotto controllo. Solo devi prestare attenzione».
«Oh…beh, okay».
«Non sembri entusiasta di tornare a casa».
«Mi sono abituato a star qui, più o meno».
«Rei starà bene» lo rassicurò la ragazza. «Vedrai che tra poco anche lei potrà andarsene. Basta solo si rechi qui per le sue sedute, ma la parola finale non l’avrò certo io!».
Sadao le sorrise in risposta. Tornare alla propria routine voleva dire vedere meno Ami, ma se solo avesse avuto più coraggio avrebbe potuto invitarla fuori.
La paura di un rifiuto, sempre dietro l’angolo però, gli faceva tirare continuamente il freno a mano.
«Adesso vado!» annunciò lei. «Finisco il giro e poi accompagnerò da Chiba mia sorella».
«Non sta bene?» domandò lui preoccupato.
«No. Vuole solo disperatamente diventare madre!».
«È una bella cosa!».
«Già. E io diventerei zia! Ma…» Ami parve incupirsi appena. «Credo di aver rovinato una famiglia».
«A causa dell’ubriacatura?».
«Non è stata proprio colpa mia».
«A causa della tua ubriacatura indotta da terzi?».
«Sadao…».
«Credo che nemmeno da ubriaca riusciresti a rovinare qualcosa. Tranquilla!».
Ad Ami piaceva il modo che aveva lui di rincuorarla e a Sadao piaceva guardarla quando lei inclinava la testa e stirava le labbra in un sorriso sollevato.
«Qu-quando uscirò di qui…»Sadao prese il coraggio a due mani. «Potremmo uscire a bere qualcosa».
«Agente ma che dice!» Ami si finse sconvolta. «Vuole forse mettermi alla prova per poi togliermi la patente o cose del genere?».
«NO! Solo…».
Vorrei vedere quanto sei carina col naso rosso e conoscerci meglio. Poi vorrei andare al cinema e farti scegliere il film, comprarti i popcorn e stringerti la mano nella sala buia. Poi portarti in sala giochi e vincere un orso gigante da farti portare a casa e…
«Okay» Ami interruppe quel flusso di pensieri in piena.
«Accetterò volentieri l’invito».
 
 
***
 

Minako la intercettò nel corridoio prima ancora che lo facesse la sorella.
La lunga chioma bionda svolazzò da una parte all’altra prima di placarsi solo quando le fu a meno di un metrò e si arrestò.
«Ciao Michiru».
«Ciao Mina».
L’espressione di Michiru parve sempre la solita, cordiale e gentile. Il suo abbigliamento sempre curato non pareva aver subito cambiamenti.
Era sempre lei.
«Tutto a posto?» chiese un po’ restia la biondina per paura di toccare un tasto dolente.
Non le piaceva schierarsi ma in questo caso si sentiva più affine a lei che ad Haruka che in ogni caso poteva contare sul supporto del suo ragazzo.
Michiru annuì con un cenno del capo. Sistemò qualche ciuffetto ribelle e poi prese un respiro profondo.
«Haruka è rimasta da voi questa notte?» chiese mordendosi il labbro inferiore.
«Non si è mossa di lì. Per un momento ho creduto di dover dormire in tre nello stesso letto, ma poi Akira l’ha sistemata nel divanetto in sala».
Michiru sorrise appena. Immaginando tutte le lamentele che la compagna doveva aver sollevato al mattino per la scomodità di dormire sul divano.
«Grazie. Anche se io posso andare da mio padre e lei potrebbe…».
«Dovreste fare pace e stare tutte e due nella vostra casa» la interruppe Minako facendo spallucce.
«È un osso duro, ma prima o poi tornerà ad essere un agnellino. È una testona Michiru e ci vorrà forse del tempo però…non lasciarla perdere».
 
L’avvicinarsi dei passi di Mamoru mise fine alla conversazione ma Michiru le diete una muta risposta con un cenno del capo.
«Ci vediamo di nuovo» le disse con un inchino del capo il moro per poi aprire la porta davanti la quale stavano sostando.
«Ami mi ha detto sarebbe venuta».
Michiru sorrise di rimando e si accomodò nella stanzetta, mentre Minako tornò ai suoi doveri.
«Allora…» Mamoru sfogliò un paio di cartelle e prese a giocherellare con la penna sempre appesa al taschino del proprio camice.
«Vorresti diventare mamma, vero?». Aveva assunto un tono informale, ma a Michiru non dispiacque. La faceva sentire più a suo agio, come se potesse confidarsi con un amico e non qualcuno che l’avrebbe potuta giudicare.
«Crede che…ci sia qualche possibilità?».
Mamoru la tranquillizzò con un sorriso.
«Non sono io a giudicare chi è idoneo o meno. Ma posso dire che ha salvato la vita di quella bambina. L’ha protetta. E sono tutte cose degne di una madre. Quindi, per quanto la mia opinione non valga nulla, credo non ci sia persona più adatta di lei».
Il cuore le si scaldò. Se la giornata era partita col vuoto dell’assenza di Haruka nel petto, ora Hotaru era l’unica medicina che avrebbe potuto colmarlo.
«Ci sono un po’ di moduli» le spiegò il dottor Chiba, passandole la penna nera.
«Si prenda tutto il tempo necessario e li compili da cima a fondo. Non salti nulla. Dopo di che ci penserò io a mettere una buona parola e passarli ai piani superiori!».
Michiru annuì, rinvigorita dal coraggio che solo una madre può tirare fuori. La tempesta della sera prima era offuscata dalla dedizione che avrebbe messo in quella nuova impresa.
Ce l’avrebbe fatta. In un modo o nell’altro avrebbe completato la sua vita.


 

Note dell'autrice:
Perdonatemi. Questo capitolo è veramente insipido. Non succede praticamente nulla a fatti compiuti anche se in realtà è un enorme cambiamento per molti dei personaggi di questa storia.
Per farmi perdonare ho già cominciato a scrivere il prossimo sperando che abbia un pò più di sostanza.
   
 
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