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Autore: calock_morgenloki    05/08/2017    12 recensioni
Pur di conseguire il suo obbiettivo di diventare consulente investigativo, Sherlock Holmes, studente al terzo anno della facoltà di chimica, si ritrova a fare il lavoro più ingrato e imbarazzante sulla faccia della Terra, per di più in un posto che praticamente incarna l'Inferno: il barista da Starbucks.
Sherlock odia tutto di quel posto- chiunque abbia coniato il termine "Frappuccino" applicandolo ad una sottospecie di disgustoso frullato merita la galera a vita, a sua detta- e soprattutto detesta i clienti che lo obbligano a preparare quegli intrugli.
Anche se... Okay, diciamolo pure: per John Watson, quinto anno a medicina, si sente quasi in grado di fare un'eccezione.
{Johnlock; Uni!lock AU}
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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5.
 

Sherlock non era mai stato un tipo dalla lacrima facile, nemmeno da bambino. Non perché non sentisse dolore o provasse tristezza come gli altri, semplicemente non gli veniva naturale. Aveva sempre reputato il pianto una manifestazione di debolezza e l'opinione generale dei suoi fratelli riguardo i sentimenti non aveva fatto altro che accrescere quella sua riluttanza nel mostrare le proprie emozioni. Non riusciva quindi a spiegarsi come mai quella volta fosse andata diversamente: era adulto, dannazione, aveva odiato il pianto sin dall'infanzia, quindi perché iniziare a bagnare il cuscino di lacrime proprio ora? Per John, ecco perché.

Non era tornato subito in camera, dopo aver visto John insieme a quella ragazza: il pensiero di affrontare Victor, raccontargli tutto quello che era successo e quindi rivivere quello che aveva visto era stato semplicemente insopportabile in quel momento. L'unica cosa che in quel momento aveva desiderato era stare da solo, scappare da tutto e da tutti e andarsene lontano, dimenticare tutto almeno per un po'. E lo voleva ancora, a ben guardare.

Aveva passato diverse ore a girare per il campus, finendo per andare a sedersi sotto gli spalti del campo da rugby, l'unico punto non ancora invaso dalla neve: era rimasto lì per un tempo che gli era parso infinito, inviando a John un singolo "Scusa, John, stasera non ce la faccio: sarà per la prossima volta" e ignorando ogni singola chiamata e messaggio che seguì da quel momento. Il freddo pungente lo aveva aiutato a pensare, ma non a sedare quel dolore sordo che gli premeva sul petto: John non lo riteneva abbastanza, ecco perché lo aveva fatto. Si era reso conto che Sherlock non valeva niente, che non avrebbe mai potuto dargli nient'altro e cosa si faceva con qualcosa che si era scoperto fosse inutile? Lo si eliminava dalla propria vita, lo si sostituiva con qualcosa- in questo caso qualcuno- di più valido e soddisfacente. John aveva fatto semplicemente questo, niente di più, era tutto così logico... Ma allora perché faceva così male? Sherlock se l'era chiesto davvero quella notte, al campo da rugby. Non era riuscito a darsi una risposta.

Era tornato in camera diverse ore dopo il tramonto, coperto di neve e con il gelo fin nelle ossa, ma non sarebbe potuto importargliene meno. Sorprendentemente - ma a ben pensarci nemmeno così tanto-, Victor era rimasto sveglio ad aspettarlo: quando l'aveva visto entrare in camera, completamente fradicio e con gli occhi ancora gonfi e arrossati dalle lacrime, Sherlock non aveva avuto bisogno di dire neanche una parola, era già tutto scritto sul suo volto.

E Victor aveva sospirato, serrando la mascella: i due amici si erano guardati in silenzio per qualche istante, statici in quegli attimi di quiete irreale; poi Sherlock era crollato di nuovo, abbassando il capo e stringendosi più forte nel Belstaff mentre le lacrime tornavano a scorrergli sulle guance, fuori controllo. Victor allora aveva abbandonato il suo libro sul letto, si era alzato e gli era andato incontro, abbracciandolo forte e lasciando che Sherlock si sfogasse, affondando il viso nella sua maglietta senza smettere di singhiozzare.

"Andrà tutto bene, Sherlock, andrà tutto bene..." gli aveva detto, "Ci sono io con te, adesso. Andrà bene, vedrai."

Quando si era calmato, Victor l'aveva fatto sedere sul letto e con il piccolo bollitore elettrico che avevano in camera aveva preparato due tazze di tè- Sherlock non si era nemmeno premurato di informarsi sulla sua provenienza, era troppo stravolto in quel momento. Con la bevanda calda tra le mani e l'orologio della loro stanza che segnava le undici meno un quarto, Sherlock gli aveva raccontato tutto, da quando era arrivato al dormitorio di John da solo, dopo averlo congedato, alle ore passate sotto gli spalti, intirizzito dal gelo ma troppo sconvolto per realizzarlo. Victor si era arrabbiato, glielo aveva letto in faccia: probabilmente però il suo stato era talmente pietoso da convincerlo a restare con lui e abbandonare ogni proposito bellicoso contro John, colui che aveva causato tanta sofferenza.

"Io lo sapevo, Cristo santo, lo sapevo che non dovevo lasciarti andare da solo..." aveva ringhiato a racconto finito e Sherlock gli aveva rivolto uno sguardo stanco.

"Avrebbe fatto qualche differenza?"

"Sì: avrei subito spaccato il naso a quel coglione di Watson, invece di starmene qui a guardarti soffrire come un cane."

"Sarebbe stato peggio." aveva mormorato Sherlock e Victor aveva scosso la testa e distolto lo sguardo, senza però aggiungere altro. Dopo un po' Victor era stato vinto dal sonno e si era addormentato come un bambino, mezzo sdraiato a testa in giù; Sherlock invece era rimasto sveglio tutta la notte, senza chiudere occhio: aveva visto l'alba, i primi albori del giorno farsi largo nella coltre di nubi cariche di neve che ricoprivano il cielo inglese. Da quel momento in poi, anche i giorni seguenti, non chiuse più occhio, né uscì dalla stanza: non avrebbe ripreso a lavorare prima del sette gennaio e ormai non aveva altri motivi per uscire, quindi perché prendersi il disturbo? Questa era la scusa propinata a Victor, scusa alla quale, sebbene non avesse fiatato, probabilmente non aveva creduto nemmeno per un secondo: era evidente che aveva paura di incontrare John, ma dirlo sarebbe stato ancora peggio di pensarlo e basta, quindi Sherlock aveva cercato di auto convincersi che in realtà non fosse affatto così. Anche dopo alcuni giorni, non c'era ancora riuscito del tutto.

Victor gli era rimasto accanto tutto il tempo, spronandolo a uscire insieme per fare questo o quello e finendo sempre per restare con lui in camera pur di non lasciarlo da solo: Sherlock l'aveva pregato di andarsene, di lasciarlo in pace, ma in fondo era grato al suo migliore amico per quello che stava facendo; con quel suo inutile chiacchiericcio, a volte Vic riusciva quasi a distrarlo da tutti quei pensieri scomodi che gli si affollavano davanti agli occhi e che sembravano non volerlo mai abbandonare. E anche quando non ci riusciva, gli era comunque utile: aveva voglia di piangere ancora, a volte, ma l'idea di farlo di nuovo davanti a lui lo inorridiva, quindi era un buon motivo per trattenersi e sedare le sue emozioni impazzite; aveva già pianto davanti a Victor e ancora non riusciva a perdonarsi quel momento di ridicola e deplorevole debolezza, non avrebbe mai e poi mai replicato l'esperienza. Non avrebbe mai voluto farsi vedere da lui in quello stato, eppure era successo: non sarebbe capitato ancora.

I giorni e le ore passavano lenti, come se stesse monitorando lo scorrere del tempo con un orologio rotto o dalla batteria scarica: era la sera del cinque gennaio e nonostante fossero passati solo quattro giorni da quella serata orrenda, a Sherlock sembrava trascorsa una vita intera. Non aveva toccato cibo in quei giorni, solo una tazza di tè ogni tanto e, se proprio Victor si intestardiva, un biscotto, ma niente di più; passava le notti a fissare il soffitto o a guardare fuori dalla finestra, seduto sul suo letto o sul davanzale; non usciva, non faceva niente, al massimo leggeva qualcosa, ma le parole non gli restavano in mente, era come fissare il vuoto. Se prima stentava a riconoscersi, in quei quattro giorni si era trasformato in uno spettro di ciò che era stato: avrebbe tanto voluto scomparire, senza mai farsi più vedere.

Il dolore sordo e lancinante del primo momento si era trasformato in un perpetuo stato di malinconica tristezza: continuava a ripensare a John e a quel che era successo, a come fino a poco tempo prima gli sembrasse di toccare il cielo con un dito e ora di sprofondare nell'oblio, in un baratro cupo e senza uscita. Avevano ragione, Eurus e Mycroft: i sentimenti facevano schifo, le emozioni facevano schifo... L'amore faceva schifo. Era tutta una grande bugia, niente di reale, solo un'effimera illusione: John l'aveva ingannato, masticato a dovere e poi sputato via una volta stufo. Sherlock non si era mai sentito così tradito, usato e deluso in tutta la sua vita.

Era arrabbiato, dannazione, era furibondo. Ma non lo era con John, in fondo: lo era con se stesso, perché andiamo, aveva davvero creduto che stavolta sarebbe stato diverso? Come aveva potuto pensare che fidarsi fosse un'opzione considerabile, come aveva fatto a lasciarsi abbindolare così, come uno stupido? Sapeva come ragionavano le persone, sapeva cosa aspettarsi, eppure aveva commesso un errore imperdonabile: si era fidato, si era lasciato andare e si era fatto rubare il cuore, solo per poi vederlo gettato via e frantumato da uno stivale femminile immerso nella neve.

Era un inganno da manuale, qualcosa che si leggeva tutti i giorni in un romanzo rosa o si vedeva al cinema in un film strappalacrime: era il classico esempio del "sedotto e abbandonato", del bel ragazzo che si prendeva una sbandata per un soggetto atipico e che avrebbe fatto di tutto per averlo, lasciandolo perdere come se niente fosse successo una volta raggiunto il suo obbiettivo. In pratica non era niente di nuovo ma era francamente scontato, tutto già visto e sentito. Eppure Sherlock c'era cascato lo stesso e Dio, si sentiva uno stupido per questo. E il fatto che avesse pensato per tutto il tempo che John non l'avrebbe mai tradito, che nonostante lui fosse quello strano e odiato da praticamente tutti non gli avrebbe mai fatto qualcosa del genere... Beh, era soltanto un altro punto a suo sfavore: un errore di valutazione così clamoroso non poteva che essere opera di un perfetto idiota.

"Caring is Not an advantage, Sherlock" gli aveva detto tempo prima Mycroft ed era vero, Sherlock lo capiva soltanto ora. Forse, per la prima volta in vita sua, avrebbe fatto bene a dar retta a suo fratello.

Era la sera del cinque gennaio: erano passati quattro giorni da quando Sherlock aveva visto John e Jane- non aveva idea di chi fosse e una parte di lui non voleva nemmeno saperlo, quindi aveva optato per riferirsi a lei con il canonico Jane Doe, in prefetto abbinamento con il nome del suo nuovo ragazzo- abbracciati e stretti l'uno all'altra davanti al dormitorio di lui, mancavano circa quaranta minuti a mezzanotte e quindi ai ventun anni di Sherlock, ma il diretto interessato non avrebbe potuto curarsene di meno.

Pigiama e vestaglia addosso, stava leggendo per la quattrocentesima volta l'Amleto, cercando di concentrarsi sulle battute del Principe di Danimarca invece che sui suoi pensieri impazziti, che in un modo o nell'altro finivano sempre per tornare a John. Era confuso, ferito, triste e arrabbiato, ma l'unica emozione che finiva per esternare e rendere visibile al mondo esterno era l'indifferenza più totale, fredda e distaccata.

Aveva preso una decisione, Sherlock: da quel momento in avanti, avrebbe chiuso con i sentimenti, avrebbe tenuto fuori dalla sua vita tutta quella robaccia per il resto della sua esistenza. Le emozioni lo rendevano debole, vulnerabile e Sherlock non voleva più sentirsi così, mai più. Era troppo da sopportare, sapendo come avrebbe reagito ad una nuova delusione. No, ne avrebbe fatto a meno, ormai aveva deciso.

Non potendo dare un taglio netto per separarsi del tutto da una parte di sé, Sherlock aveva deciso che avrebbe iniziato dalle piccole cose: meno sorrisi, più sarcasmo cinico e umorismo pungente, avrebbe cercato di curarsi il meno possibile delle possibili reazioni altrui, escludendo del tutto dalle sue azioni la già di per sé ristretta quantità di empatia in suo possesso. Sarebbe passato per uno psicopatico, un bastardo senza cuore, una macchina? Sì, era probabile. Ma piuttosto che farsi nuovamente spezzare il cuore dal mondo, lo avrebbe chiuso fuori.

Il cellulare prese a vibrare contro la sua coscia e Sherlock lo recuperò distrattamente, volgendo lo sguardo al display solo quando fu ad un palmo dal suo naso. Quando lesse il nome di chi lo stava chiamando, il suo viso si contrasse involontariamente in una smorfia, per poi distogliere subito dopo lo sguardo mentre rifiutava la chiamata e lasciava cadere nuovamente il telefono sul materasso. John non aveva smesso di chiamarlo neanche per un giorno: a volte gli scriveva anche, ma Sherlock non aveva mai risposto a nessun tipo di contatto. Rifiutava le telefonate e lasciava i messaggi senza risposta, non li leggeva nemmeno. Sapeva che, se avesse letto le parole di John o sentito di nuovo la sua voce, sarebbe capitolato, letteralmente caduto ai suoi piedi e non poteva permetterselo. Aveva già sofferto abbastanza, non ci teneva a fare un secondo round.

Victor tornò in camera in quel momento, buttando sul suo letto il cesto con i vestiti appena ritirati dalla lavanderia.

"Ho chiesto anche i tuoi, ma mi ero scordato che tu ritiri sempre tutto prima delle vacanze e visto che in questi giorni hai fatto il barbone giustamente non avevano nemmeno un tuo calzino." commentò, mettendosi a riporre praticamente a caso i vestiti nell'armadio. Sherlock rispose con un grugnito, chiudendo definitivamente il libro e iniziando a mordicchiarsi l'unghia del pollice. Victor gli rivolse uno sguardo con la coda dell'occhio, giusto per assicurarsi che Sherlock l'avesse sentito. Quando lo vide in trance, a fissare il vuoto, sospirò.

"Dovresti uscire a prendere una boccata d'aria. Dico sul serio."

"Sto bene."

"No che non stai bene, dannazione!" sbottò Victor, lasciando cadere a terra il cesto con i vestiti e posizionandosi davanti all'amico, per poi indicarlo con un gesto stizzito ed esclamare:

"Guarda come ti sei ridotto, sembri un drogato! Sono quattro giorni che non esci, non mangi, non dormi, non fai una sega se non piangerti addosso! Non ti sei neanche rasato."

"Adesso non farne una questione di stato."

"Sherlock, hai la barba, cazzo, tu non hai mai la barba! Appena vedi un minimo di ricrescita sei sempre lì con il rasoio in mano, Cristo santissimo, tra qualche giorno invece potrai farti le trecce!"

"Oddio, non ho toccato il rasoio per qualche giorno e allora? Qual'è il problema?"

"Mettiamola così: adesso sei ruvido dentro e fuori, il problema è che normalmente l'essere ruvido dentro ti lascerebbe indifferente, ma l'esserlo fuori ti irriterebbe a morte, perché tu detesti la barba!"

"Non la detesto." mormorò Sherlock, fissando il vuoto. Victor fece una smorfia.

"L'anno scorso mi hai perseguitato per settimane perché volevo farmela crescere, me ne hai dette di tutti i colori, dagli insulti alle malattie che avrei potuto contrarre."

"È perché con il tuo viso avrebbe fatto l'effetto di una barba posticcia addosso ad un bambino, Vic."

"Perché invece a te sta d'incanto, vero?!"

"Sinceramente? Non mi interessa."

"È proprio questo il problema: prima te ne sarebbe importato eccome e invece adesso non te ne frega assolutamente niente, Sherlock. Gesù, non... Non sei più tu, non riesco più a riconoscerti." disse Victor e quando Sherlock spostò lo sguardo su di lui, lo vide sinceramente preoccupato. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono e finì per richiuderla senza emettere una sillaba. Forse perché in realtà non aveva molto da dire: Victor ci aveva visto giusto, come sempre. E lui non aveva argomenti per ribattere, perché quella era la pura e semplice verità.

Victor intuì i suoi pensieri e scosse la testa, sedendosi sul letto accanto a lui. Restò in silenzio per qualche istante, poi, tornando a fissare lo sguardo nelle iridi cristalline di Sherlock, disse:

"So che quella di John è stata una bella batosta per te: le prime delusioni amorose sono sempre le peggiori. Non che andando avanti diventino indolori, ma... Beh, le prime sono diverse. E tu tenevi davvero tanto a quel cretino, quindi la situazione non poteva certo migliorare. Però devi risollevarti, Sherlock: non puoi passare il resto della tua vita a piangerti addosso, a commiserarti per quello che è successo e quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, la vita va avanti. Tu devi andare avanti. Fossilizzarsi su qualcosa che non puoi cambiare non ha alcun senso."

"Non mi sto fossilizzando."

Victor piegò le labbra in un ghigno di scherno, che però risultò più simile ad una smorfia.

"Certo, come no. Stai ancora pensando a lui, guarda che l'ho capito, ti conosco. E proprio perché ti conosco ti dico che sarebbe meglio mettere una pietra sopra a questa faccenda una volta per tutte: continuare in questo modo ti farà solo stare male, Sherlock, ti farà solo soffrire. Non è andata bene e abbiamo scoperto che in realtà John Watson è uno stronzo, d'accordo: so che fa male e che stai da cani, ma passerà. Un giorno smetterai di pensare a lui e probabilmente tra una decina d'anni nemmeno ti ricorderai che faccia avesse. Tra venti forse nemmeno ti ricorderai il suo nome o cosa ci trovassi di tanto speciale in lui. Con il tempo tutto questo diventerà solo un ricordo sbiadito, Sherlock. L'importante adesso è non lasciare che sbiadisca te."

Sherlock non rispose, si limitò a guardare il suo amico in silenzio. Aveva ragione Victor, lo sapeva: prima o poi probabilmente avrebbe dimenticato tutto, prima o poi tutto quello che stava passando non avrebbe contato più nulla ai suoi occhi. Il problema era che in quel momento contava tantissimo e dannazione, gli faceva ancora così tanto male da non poter respirare. E John... Beh. Dubitava davvero che sarebbe riuscito a dimenticarlo. Forse avrebbe dimenticato il dolore, i piccoli dettagli e le sensazioni, ma il ricordo di lui sarebbe rimasto intatto. Uno come John Watson non si dimenticava facilmente.

"E cosa suggerisci di fare in proposito?" mormorò, abbassando lo sguardo sul suo libro e sfiorando la copertina con la punta delle dita. Victor si strinse nelle spalle e rispose:

"Beh, magari potresti iniziare col darti una sistemata. Farti la barba e tutto il resto, sai... E poi potresti uscire."

"Per andare dove?"

"Fuori."

"E a fare cosa?"

"Beh, non lo so... Le solite cose. Potremmo andare a bere una cosa insieme: insomma, tra poco sarà il tuo compleanno e tutti i pub sono ancora aperti, voglio offrirti la tua prima birra acquistata legalmente. Dobbiamo festeggiare, no?"

Sherlock accennò un sorriso davanti all'espressione speranzosa di Victor.

"Magari un'altra volta, Vic." mormorò e Victor sospirò. Il suo cellulare iniziò a squillare in quel momento e Sherlock lo vide lanciare uno sguardo di sottecchi al display, prima di contrarre le labbra in una linea dura e rifiutare la chiamata. Sherlock inclinò un poco la testa, rivolgendogli uno sguardo incuriosito.

"Era Carly?" chiese. Victor annuì.

"Era Carly, sì."

"Mmh. Da quanto vi frequentate?"

"Saranno... Boh, tre o quattro mesi."

"E ti ronza ancora attorno, accidenti."

"Sorprendentemente sì."

"E l'altra?"

Victor aggrottò la fronte.

"L'altra chi?"

"Quando io e John siamo venuti qui, il giorno prima che partissi per le vacanze, hai parlato di un rimorchio e di una biondina del terzo anno. Non che sia un grande esperto, ma le ragazze tendono a prenderla male quando scoprono di condividere lo stesso uomo." commentò Sherlock e Victor sbatté un paio di volte le palpebre, incredulo.

"Mi stai prendendo in giro, per caso?"

"Perché?"

"Perché non puoi davvero essere così ritardato." mormorò Victor e davanti allo sguardo confuso di Sherlock emise un gemito esasperato.

"Sei davvero un idiota."

"Perché adesso te la prendi con me, sei tu il bigamo!"

"Me la prendo con te perché Carly è la biondina del terzo anno!" esclamò Victor e Sherlock gli rivolse uno sguardo vacuo.

"Oh. Ma allora perché-"

"Perché se ti parlo di lei chiamandola per nome non capisci nemmeno a chi mi stia riferendo, allora mi sono rassegnato e ho iniziato a chiamarla 'la biondina del terzo anno'. Scusa, ma se sei così scandalizzato, chi credevi che fosse Carly?"

"La tizia con l'acconciatura afro."

Victor roteò gli occhi con un sospiro, per poi rispondere:

"Quella era Carol. Ci uscivo l'anno scorso."

"Ci ero andato vicino. È una cosa seria, comunque. Tra te e Carly."

"Diciamo di sì."

"Victor Trevor messo al guinzaglio... Accidenti, è stata brava." commentò Sherlock, divertito e Victor sorrise, alzando gli occhi al cielo.

"Molto divertente, Sherlock, davvero."

"Perché non hai risposto quando ti ha chiamato?"

"Perché mi avrebbe chiesto per l'ennesima la stessa cosa e non mi andava di dirle ancora di no."

"Cosa ti avrebbe chiesto?"

Victor distolse lo sguardo e non rispose. Sherlock assottigliò le palpebre, osservando più attentamente il suo amico. Quando finalmente riuscì a dedurre almeno in parte di cosa si trattasse, fece una smorfia.

"Avresti dovuto dirle di sì." mormorò e Victor alzò di nuovo lo sguardo su di lui.

"No, invece."

"Vic, è la tua vita: solo perché tra me e John non... Solo perché io sono così non significa che tu debba rinunciare a tutto solo per cameratismo, okay?"

"Non rinuncio a tutto, solo-"

"Carly ti ha chiesto qualcosa di importante, qualcosa a cui lei tiene molto, vista la sua determinazione e la sua volontà a non vedersi rifiutata; non hai risposto al telefono perché eri qui con me e hai detto che avresti dovuto dirle di no, quindi c'entra almeno parzialmente con me e visti i recenti avvenimenti, direi che la richiesta di Carly avrebbe supposto il raggiungerla e lasciarmi qui da solo, cosa che ti sei sempre opposto di fare negli ultimi quattro giorni. Quando ti ho chiesto cosa volesse, tu hai abbassato lo sguardo e non hai risposto, questo perché avrebbe significato ammettere che hai rinunciato a qualcosa di importante per la vostra storia per paura che mettesse me a disagio. Quindi è vero, non è tutto, ma è comunque importante per voi e tu stai buttando via tutto per delle paranoie inutili. Allora, cosa ti ha chiesto?"

Victor restò in silenzio qualche istante, poi mormorò:

"Mi ha chiesto di passare la notte con lei. E per passare la notte intendo... Sai, tutto il pacchetto. Anche la parte del dormire e svegliarsi insieme e fare colazione e così via... Su quella non sono molto ferrato, di solito me ne vado prima."

"Mmh. E tu le hai detto di no."

"Questa era l'ultima sera disponibile: domani tornerà la sua coinquilina e dubito che vorrà fare una cosa a tre... Però ho rifiutato lo stesso, sì."

"Perché l'hai fatto? Hai paura di cosa comporterebbe?"

"No, no, nient'affatto. Le ho detto di no perché tu... Sai, saresti rimasto qui da solo, tra qualche ora sarà anche il tuo compleanno. Non mi andava di andarmene a spassarmela mentre tu restavi qui a deprimerti." ammise Victor, grattandosi la nuca con aria imbarazzata. Sherlock roteò gli occhi, la bocca piegata in una smorfia. Quando tornò a guardare l'amico, disse:

"Victor, vai. Muoviti, forse sei ancora in tempo."

"No, Sherlock, ormai le ho detto di no. E poi tu-"

"Io niente, Vic, non sarei comunque dell'umore per festeggiare: non lo ero prima, figurati se lo sono adesso. E poi davvero, liberarmi della tua logorroica e asfissiante compagnia per un po' non mi dispiacerebbe affatto, sai? Sono quattro giorni che non mi dai tregua, stai diventando insopportabile."

"Ma senti chi parla, tu sei depresso ventiquattr'ore su ventiquattro!"

"Appunto, non sono certo di grande compagnia." Sherlock sospirò e la sua espressione arcigna si sciolse in un lieve sorriso, "Va' da lei, Vic: sii felice almeno tu, visto che ne hai l'occasione, e non buttare tutto all'aria solo perché a me non è andata bene e ti dispiace lasciarmi solo. Non ne varrebbe la pena."

Victor si inumidì le labbra, pensieroso. Quando tornò a guardarlo, Sherlock distinse una luce diversa nel suo sguardo, esitante.

"Ne sei sicuro? Davvero, Sherlock, posso rimanere con te, per me non è un-"

"Per me lo è. Adesso vattene, muoviti, altrimenti giuro che ti caccio fuori di qui a calci."

"Non ce la faresti."

"Non sottovalutarmi, Trevor." mormorò Sherlock e, dopo aver riso con Victor, osservò l'amico prepararsi in fretta e furia, per poi bloccarsi una volta raggiunta la soglia. Victor tornò a guardarlo e fece per dire qualcosa, bloccandosi subito dopo. Sembrava incerto, insicuro.

"Sherlock, io-"

"Vai. Io starò bene, tranquillo."

"Okay. Solo... Promettimi che non farai nulla di stupido mentre non ci sono, d'accordo?" mormorò Victor, allacciandosi la sciarpa attorno al collo. Sherlock aggrottò la fronte e chiese:

"Qualcosa di stupido in che senso?"

"Non lo so. In tutti i sensi, diciamo, così per lo meno sono certo di coprire ogni area a rischio. Promettimelo."

"Victor, dai..."

"No, promettimelo, Sherlock, altrimenti non me ne vado."

Davanti all'espressione cocciuta dell'amico, Sherlock sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Però poi disse:

"D'accordo, d'accordo... Te lo prometto. Contento?"

"Molto. Okay, allora io vado... Augurami buona fortuna."

"Buona fortuna per cosa? Temi che Carly ti lasci a bocca asciutta? Fossi in lei farei bene, non sprecherei quest'occasione." commentò Sherlock con un ghigno. Victor fece una smorfia e sibilò, puntandogli l'indice contro:

"Sei un bastardo, Holmes, sappilo!"

"Te ne sei accorto solo ora? Sorprendente!" mormorò Sherlock, riprendendo in mano il suo libro e iniziando di nuovo a leggere. Victor restò fermo qualche istante, poi scosse la testa e uscì, richiudendosi la porta alle spalle. Sherlock a quel punto rialzò lo sguardo dal libro, fissandolo sulla porta chiusa. Sospirò, stringendosi le ginocchia al petto e appoggiando la guancia alle articolazioni magre e appuntite.

Era invidioso, non poteva negarlo: vedere Victor felice, innamorato e soprattutto ricambiato... Gli dava un senso di nausea e per tutto il tempo, nonostante tutto, Sherlock non aveva fatto altro che chiedersi "Perché lui sì e io no? Cosa c'è di sbagliato in me?". Non era Victor in sé a renderlo geloso, era il legame che aveva con Carly, la fortuna di avere qualcuno accanto. Per l'amor del cielo, era felicissimo per loro, non conosceva Carly ma conosceva Victor e Sherlock pensava davvero che nessuno più di lui meritasse di essere felice. Ciò però non toglieva che, dopo quello che era successo con John, gli bruciasse parecchio.

Il cellulare iniziò a vibrare di nuovo e Sherlock voltò il capo con un sospiro verso il dispositivo, guardando direttamente il nome del chiamante sul display. Quando lesse "PRIVATE NUMBER", arricciò il naso alzando gli occhi al cielo. Mycroft e la sua maledetta ossessione per il potere, ma cosa gli costava contattarlo normalmente, una volta tanto? Si lasciò cadere all'indietro, testa sul cuscino, poi accettò la chiamata e si portò il telefono all'orecchio per rispondere.

"Mycroft, ho il tuo numero, Cristo santo, la vuoi smettere di chiamarmi con un numero anonimo?" mugugnò, passandosi una mano sul viso. Il suo interlocutore emise una risatina nervosa e Sherlock iniziò ad allarmarsi: Mycroft non ridacchiava e anche in caso l'avesse fatto, non sarebbe stato in quel modo.

"Tu non sei Mycroft." mormorò. L'altro rise ancora.

"No, direi di no..." rispose e Sherlock sbarrò gli occhi, irrigidendosi d'un colpo. John. Stava per avere un infarto, non riusciva più a muovere un singolo muscolo e... Oh Dio, la sua voce. Quanto gli era mancata. Ricomponiti, Sherlock, datti un contengo!, urlò una vocina nel suo cervello e Sherlock si diede da fare per ascoltarla.

"John, qual buon vento... Che cosa vuoi?" chiese dopo essersi schiarito la voce, gelido. John sospirò.

"Beh, vederci per parlare non mi dispiacerebbe. Sai, fare due chiacchiere, io e te." rispose e Sherlock schioccò la lingua. Col cavolo, John, torna da Barbie.

"Mi dispiace deluderti, ma temo non sia possibile."

"Ah no? E come mai?"

"Non sono in università." azzardò Sherlock, buttando fuori la prima cosa che gli passò per la testa. Non una scusa brillante, doveva ammetterlo, ma per il momento era sempre meglio che niente. John però rise di nuovo, anche se stavolta la sua sembrava una risata vuota, quasi di scherno.

"Davvero?" chiese, come se non ci credesse. Sherlock, a dir poco indispettito, rispose:

"Davvero."

"Mmh. E allora, scusa se insisto, ma dato che Victor è appena uscito dal dormitorio- dormitorio in cui tecnicamente dovrebbe avere una stanza tutta per sé, a quanto dici-sapresti dirmi perché in camera vostra le luci sono ancora accese?"

Sherlock restò in silenzio qualche istante.

"Beh, le avrà dimenticate accese lui, che ne so io?" mormorò dopo un po'. La risposta di John non tardò ad arrivare.

"Non credo proprio, sai? Mentre se ne andava si è voltato indietro e ha lanciato un'occhiata alla vostra finestra, quindi dubito sia stata una svista."

"E tu come sai che si è girato e le luci sono accese e così via?"

"Guarda fuori."

Sherlock si alzò lentamente dal letto e, con il telefono ancora premuto contro l'orecchio, si avvicinò alla finestra, guardando giù in giardino. John, fermo accanto ad uno dei grossi cespugli dirimpetto all'entrata dell'edificio, alzò una mano in segno di saluto e Sherlock fece una smorfia. Non riusciva a vedere la sua espressione, era troppo lontano, però... Dio, John era lì. Già, ma che ci faceva John proprio lì?

"Senti, dobbiamo parlare." disse John con un sospiro, interrompendo il filo dei pensieri di Sherlock. Questi si accigliò e chiese di rimando:

"Parlare di cosa?"

"Lo sai di cosa. Puoi scendere?"

Sherlock restò fermo per qualche istante, completamente immobile e in silenzio; poi sospirò e annuì.

"D'accordo. Dammi qualche minuto."

"Ti aspetto qui."

Sherlock chiuse la comunicazione e restò qualche istante ancora davanti alla finestra: John, dal basso, aveva riposto in tasca il suo telefono e ora, le braccia conserte sul petto, lo stava guardando, cercando probabilmente di decifrare qualcosa dalla sua postura e comportamento. Sherlock scosse il capo, distogliendo all'istante lo sguardo. Probabilmente avrebbe dovuto scusarsi con Victor, perché quella che stava per fare era davvero una cazzata bella e buona: ma cosa gli era saltato in mente? E tutti i suoi buoni propositi di non parlare più a John, di non vederlo più, di chiudere tutti fuori dalla sua vita che fine avevano fatto? Sherlock se lo chiese, ma, mentre indossava il cappotto, non seppe darsi una risposta.

In più era inutile negarlo e fare finta di niente: quando aveva sentito la voce di John provenire dall'apparecchio, aveva avuto un tuffo al cuore e non necessariamente in modo negativo. Aveva provato nostalgia nel risentirla, felicità quasi: la rabbia, il dolore e la tristezza erano arrivate solo in seguito. E Sherlock davvero non riusciva a capacitarsene, non sapeva cosa fare. Ormai però aveva detto a John che sarebbe sceso a parlargli- ma perché l'aveva fatto, perché?!- e rimangiarsi la parola data per codardia non era davvero nel suo stile. Quindi si fece forza, si strinse di più nel cappotto e via, uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

Attraversò il corridoio con il cuore in gola, quando iniziò a scendere le scale lo stomaco era ormai quasi disintegrato e raggiunto l'atrio della residenza studentesca, non sentiva altro che terrore cieco. Prima di aprire la porta d'ingresso di fermò, guardando verso il basso: si rendeva conto solo in quel momento di avere addosso solo pigiama, vestaglia e pantofole, coperti solo dal suo cappotto. E poi oddio, aveva la barba. E i capelli, cielo, chissà com'erano conciati... Victor aveva ragione quando gli aveva detto che sembrava un barbone. John non doveva assolutamente vederlo così, altrimenti... Altrimenti cosa, Sherlock? Non avevi deciso di chiudere con lui? Non dovrebbe importarti ciò che pensa. Il problema era che non era certo fosse così.

Sherlock scosse la testa, stringendo forte la maniglia della porta tra le dita e serrando le palpebre con una smorfia. Al diavolo. Uscì dall'edificio, fermandosi sotto alla piccola tettoia in pietra che, all'imbocco della breve scalinata che portava al giardino, segnalava l'ingresso alla residenza. John era ancora fermo dove Sherlock l'aveva visto alla finestra, le mani affondate nelle tasche della giacca nera. Sembrava infreddolito, a disagio e Sherlock sentì un groppo alla gola quando si rese conto di non averlo mai visto in quel modo.

Quando lo sentì uscire, John sollevò la testa verso di lui, incrociando il suo sguardo. In un primo momento restarono immobili a fissarsi, senza sapere cosa dire o fare. John sembrava sorpreso, ma non ci volle molto a realizzare che non lo fosse positivamente: quando la sua espressione sgomenta si trasformò in una preoccupata, Sherlock si ritrovò a distogliere lo sguardo, stringendosi le braccia attorno al petto. John lo raggiunse subito dopo, salendo piano i pochi scalini che li separavano e fermandosi davanti a lui, anche se, notò Sherlock, a distanza di sicurezza.

"Ciao." mormorò John e Sherlock rispose con un cenno del capo, senza riportare lo sguardo sul suo viso.

"Ciao." rispose dopo qualche istante, a bassa voce. John si inumidì le labbra, poi chiese, teso:

"Che sta succedendo, Sherlock? Dimmelo tu, perché onestamente io non ci sto capendo più niente."

"Non c'è granché da capire, John."

John emise una risatina secca, vuota, attirando lo sguardo sorpreso di Sherlock su di sé: quando John tornò a guardarlo in faccia, Sherlock restò totalmente basito nel cogliere il suo sguardo arrabbiato, deluso e ferito, reso ancora più tagliente da quel sorrisetto appena accennato.

"Non me la dai a bere, Sherlock. Non stavolta." sibilò, gelido. Sherlock aggrottò la fronte, stringendo un poco le palpebre.

"Non è questione di dartela a bere o meno, John: non c'è davvero niente da dire."

"Sì, invece, cazzo!" sbottò John, perdendo definitivamente la calma, "Prima ci frequentiamo per due mesi, ci vediamo tutti i giorni e praticamente viviamo attaccati al cellulare quando non siamo insieme. È stato così anche durante le vacanze, abbiamo passato ore su Skype! E poi c'è stato quel bacio e tu che sembravi ricambiare quello che provavo io e gli enigmi... Sembrava andasse tutto bene, forse anche troppo. E infatti poi tu che fai?"

John si interruppe per ridere di nuovo, quasi isterico. Scosse la testa, facendo un paio di passi avanti e indietro e scuotendo la testa, le mani nei capelli. Ad un tratto si fermò di nuovo, davanti a Sherlock, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Gli rivolse un sorriso ironico e vuoto, accompagnato da uno sguardo ferito.

"Mi scrivi quel maledetto messaggio nemmeno un'ora prima del nostro appuntamento, scaricandomi con un patetico 'Scusa, John, stasera non ce la faccio: sarà per la prossima volta'. Peccato che quella prossima volta non ci sia mai stata, visto che sei praticamente sparito dalla faccia della Terra senza dire una parola!"

"Non sono sparito."

"No, certo che no: ti sei solo limitato a non farti più vedere, a non rispondere alle mie chiamate. Non mi hai nemmeno scritto un messaggio, Sherlock, un singolo messaggio. Era troppo faticoso per te scrivermi un dannato SMS per dirmelo? Neanche in faccia, tra l'altro."

Sherlock aggrottò la fronte.

"Un messaggio per dirti cosa?"

"Oh beh, questo devi dirmelo tu: dopo tutto, non sono io quello che sta trattando l'altro come un maledetto estraneo, no?" ringhiò John a denti stretti. Era arrabbiato, furibondo Sherlock l'aveva intuito. Da una parte gli dispiaceva, ma d'altronde lui cosa avrebbe potuto fare, altrimenti? John aveva scelto quella ragazza, per lui non c'era più posto. Che senso avrebbe avuto rima spero e rimandare un addio ormai inevitabile? Subito dopo quel suo ragionamento, però, Sherlock vide l'espressione e lo sguardo rabbioso di John cambiare, facendosi più sofferenti.

"È perché non sono abbastanza per te, non è vero?" mormorò John, con un sorriso che voleva sembrare ironico ma risultò solo triste e ferito, "Io sono solo lo stupido John Watson: un idiota come tanti altri, non sono niente di speciale. Sono troppo normale per te, non sono mai stato abbastanza e poteva anche andare bene fino a quando non ti fossi annoiato con me, non ti fossi stancato di avere attorno qualcuno di così banale. Non sono mai stato alla tua altezza, l'ho sempre saputo. È inutile dire però che per un po' io ci ho sperato lo stesso, anche se con il senno di poi... Beh, fa un po' troppo male, cazzo."

Sherlock, impietrito per l'orrore, guardò John abbassare lo sguardo e stringersi nella giacca, a disagio. Sentiva la testa vuota, il cuore pesante: aveva fatto soffrire John. Nonostante tutto, quel pensiero, la consapevolezza di aver fatto star male l'unica persona che avesse mai amato davvero... Gli spezzò il cuore un'altra volta.

"N-non... Non è andata così." balbettò e John sollevò di nuovo lo sguardo su di lui. Inarcò un sopracciglio, mettendosi a braccia conserte.

"Ah no?" mormorò, distaccato, "E allora com'è andata, Sherlock? Eh? Dimmelo tu, avanti!"

Quando si rese conto che la rabbia di John era tornata alla carica, qualcosa scattò come una molla nel cervello di Sherlock: John non aveva alcun motivo di essere arrabbiato, semmai era lui a dover essere furioso. Tutto quello che era successo non era certo stato a causa sua, quindi se c'era qualcuno che avrebbe dovuto arrabbiarsi tra loro due, quello era proprio lui. Non John, lui non ne aveva alcun diritto. E così Sherlock lo fece, per la prima volta dopo giorni reagì, abbandonando quell'atteggiamento da vittima che ormai l'aveva stancato. Le parole iniziarono ad affollarsi nella sua mente, a riempirgli la bocca e controllargli la lingua, fino a quando Sherlock non riuscì più a starsene zitto e scoppiò.

"D'accordo, John, te lo dico io com'è andata, dato anche apparentemente sei o troppo stupido per capirlo o troppo ipocrita per accettarlo: non è andata così come dici tu. Non è stata colpa mia, non sono certo io quello che si è stancato e ha deciso tutt'un tratto di rimpiazzare l'altro, quello che fino a due giorni prima si diceva tanto innamorato e invece già si vedeva con qualcun altro! Non sono io quello che si annoiava e che ha deciso di scaricare l'altro- anzi, no, non di scaricare, ma di continuare a prenderlo in giro come se niente fosse! Quindi scusami se ti ho chiuso fuori, John, scusa tanto, non volevo farti soffrire, ma guarda un po'? A quanto pare la colpa non è mia, come vorresti farla passare tu!"

John, colto alla sprovvista da quello sfogo improvviso, lo fissò in completo mutismo, sgomento. Aveva aggrottato la fronte, gli occhi leggermente spalancati in un'espressione di pura confusione. Non capiva, quello era evidente. E infatti dopo pochi attimi chiese:

"Ma di che diavolo stai parlando?!"

"Oh, ma non mi dire: chi è che ora vuole darla a bere all'altro, John? Allora, chi?" sibilò Sherlock e John scosse la testa, per poi esclamare:

"Non voglio darti a bere proprio niente, Sherlock, non capisco sul serio di cosa tu stia parlando! Vedersi con qualcun altro, ma che stai dicendo?!"

"Basta, John, credi che non lo sappia? Smettila di fingere."

"Non sto fingendo, Sherlock, non capisco davvero che cosa stia succedendo!"

"Oh, falla finita! L'altra sera ti ho visto, okay? Ti ho visto con quella ragazza, abbracciati davanti al tuo dormitorio, ti ho visto fare il fidanzatino con lei, farci l'idiota! E vogliamo parlare di quando dopo la nostra ultima videochiamata lei ti ha chiamato 'Johnny', appena uscita dalla doccia e mezza nuda? Vuoi davvero farmi credere che lei non esista, di essermi immaginato tutto?"

Sherlock si fermò per riprendere fiato, ma senza che se ne accorgesse il dolore e l'amarezza presero il posto della rabbia con cui aveva parlato fino a quel momento, riportandolo di nuovo a soffrire per ciò che stava passando.

"Vuoi davvero farmi credere di essere tu quello che non si sente abbastanza perché non è mai veramente abbastanza, quello che viene scaricato sempre e comunque perché in realtà è solo un idiota, un idiota che crede che prima o poi qualcosa cambierà e invece finisce sempre allo stesso modo, quello che... Q-quello che si illude di aver finalmente trovato qualcuno che lo veda in modo diverso, ma che in fondo lo crede solo un fenomeno da baraccone con cui è facile divertirsi, perché lui è così stupido da cascarci sempre."

Sherlock interruppe il suo sfogo, il respiro accelerato dalla foga con cui le parole gli erano uscite di bocca. Distolse lo sguardo da John- non che ce ne fosse bisogno: ormai le lacrime imminenti gli impedivano di vedere alcunché. Tirò su col naso e si asciugò gli occhi con una manica del cappotto, prendendo un respiro tremante.

"Pensavo sarebbe andata diversamente, ma in fondo che mi aspettavo? Siete tutti uguali, alla fine, Eurus aveva ragione... Aveva ragione su tutta la linea." sussurrò, le labbra piegate in un sorriso amaro. John scosse la testa.

"No, Sherlock, non è così, lasciami spiegare." disse facendo un passo verso di lui e allungando la mano verso il ragazzo. Sherlock si ritrasse, indietreggiando verso l'ingresso del dormitorio.

"No, io... Risparmiami le scuse, ne ho abbastanza, davvero. Scusami, ma si è fatto tardi, dovrei rientrare." mormorò, voltandosi verso la porta e accingendosi ad aprirla per sparire al suo interno, segnando la rottura definitiva di quello che c'era stato tra lui e John. L'avrebbe anche fatto, a ben guardare. L'avrebbe fatto davvero, se non fosse stato per John, che con uno scatto avanti gli afferrò il polso tra le dita, trattenendolo sul portico. Sherlock aveva già aperto la porta, ma girò lo stesso la testa verso di lui, rivolgendogli uno sguardo gelido quando constatò che John non si sarebbe arreso facilmente.

"Lasciami andare." sibilò e John scosse la testa.

"No."

"Lasciami, ho detto!"

"E io ti ho detto di no, cazzo, non ti lascio!" sbottò John e a quel punto qualcuno spalancò una finestra, mettendo la testa fuori e urlando:

"Avete finito di sbraitare, Watson?! Qui c'è qualcuno che vorrebbe dormire!"

"E allora torna dentro e vai a farlo, no?! Io e Sherlock siamo un tantino impegnati, se non ti dispiace!"

"Perché, altrimenti che fai? Ti metti a urlare anche contro di me?!"

"Non provocarmi, Billy: studio medicina, so come slogare un'articolazione e so come farlo in modo molto doloroso!" minacciò John, guardando il tizio biondo e con l'aria da tossico che aveva osato interromperli. Billy roteò gli occhi, poi però rientrò e chiuse di nuovo la finestra. John tornò a rivolgere a Sherlock la sua attenzione e lui, decisamente irritato, sibilò, cercando di nuovo di divincolarsi:

"Si può sapere che cosa vuoi ancora da me? Non ti sembra di aver già fatto abbastanza, non ti sembra il caso di smetterla con questa recita una volta per tutte?!"

"Cristo santo, Sherlock, ma in che lingua devo dirtelo per fartelo capire?!" esclamò John, lasciandolo andare con uno scatto per poter gesticolare ampiamente, così come richiedeva il suo stato d'animo, "Io sono innamorato di te, dannazione, è così difficile da capire?!"

"Certo, e immagino che tu abbia detto lo stesso anche alla tua nuova fiamma, la biondina che ama chiamarti Johnny. A proposito, come si chiama? Hai anche tu un nomignolo per lei o non siete ancora così... intimi?" sibilò Sherlock, acido. John scosse la testa, lasciandosi sfuggire un sorriso sarcastico. Quando tornò a guardare Sherlock, si inumidì le labbra e disse:

"Si chiama Harriet... Anche se tutti la chiamiamo Harry."

"Oh bene... Vedo che la confidenza allora non vi manca, siete a posto!"

"Beh, sai com'è..." commentò John, schioccando la lingua mentre incrociava le braccia sul petto, "Sono cose che succedono quando conosci una persona praticamente dalla nascita."

"Ma perfetto, allora è anche un'amica di famiglia, grandioso!"

"No, Sherlock, non è un'amica di famiglia."

"Ah no? E allora chi è, sentiamo!"

"È mia sorella, dannazione!" sbottò John, spalancando le braccia in un gesto esasperato. Sherlock si tramutò in una statua di sale, completamente impietrito. Sbatté un paio di volte le palpebre, poi balbettò:

"Tua... T-tua sorella?"

"Sì, per la miseria, mia sorella." disse John, scandendo quelle ultime due parole come se avesse a che fare con un bambino. Sherlock in quell'attimo ebbe un flash del giorno in cui si erano baciati, quando quella telefonata li aveva interrotti. John aveva ricevuto una telefonata da qualcuno che si chiamava Harry e lo aspettava a casa... Ma certo, John stava parlando con Harry, sua sorella! Come aveva potuto essere così stupido e non fare quel collegamento? E sì che la ragazza gli era sembrata familiare e John in passato gli aveva accennato di avere una sorella maggiore, accidenti a lui che non gli aveva mai chiesto come si chiamasse. Si sarebbe risparmiato diversi giorni d'Inferno.

John continuava a fissarlo in silenzio, le labbra contratte in una linea dura. Sembrava arrabbiato, forse anche irritato e sicuramente deluso, ma la tristezza e il dolore di poco prima erano spariti. Anche Sherlock doveva ammettere di sentirsi più sollevato, anche se ad essere onesti, tutta la sofferenza provata in quei giorni ora era stata sostituita da una massiccia dose di imbarazzo misto a vergogna.

"I-io... Io credo di doverti delle... scuse." bofonchiò Sherlock, affondando le mani nel cappotto e tenendo lo sguardo fisso sulle punte delle sue pantofole. Erano orrende, quelle pantofole, ma dove diavolo le aveva prese?! Aspetta, ma... Oh, non sono le mie, sono quelle di Victor. Risolto il mistero. John, di nuovo a braccia conserte, inarcò un sopracciglio.

"Ma non mi dire." commentò soltanto e Sherlock fece una smorfia.

"Il sarcasmo non ha mai portato nessuno a grandi risultati, John."

"Chissà perché però con te funziona alla grande."

"Beh, si vede che lo uso meglio." mormorò Sherlock, schiarendosi la voce con un colpo secco. John scosse la testa, rivolgendo uno sguardo al giardino innevato attorno a loro. Dopo qualche attimo, iniziò a parlare.

"Quando hai visto Harry chiamarmi, dopo la doccia... Eravamo a Brighton per Capodanno, a casa della sua ragazza."

"La sua ragazza?"

"Harry è omosessuale." spiegò tranquillamente John, riportando lo sguardo sul volto di Sherlock, che si lasciò sfuggire un'espressione genuinamente sorpresa e un singolo:

"Oh."

"Lei e Clara, la sua ragazza, volevano passare l'ultimo giorno dell'anno insieme, così come il primo del nuovo arrivato. I miei avevano prenotato un soggiorno per due non ricordo dove, quindi Harry e Clara hanno pensato bene di ospitarmi. Io..." John si fermò un attimo, schiarendosi la voce, "Forse quel giorno sono stato un po' frettoloso chiudendo la chiamata, me ne rendo conto solo adesso. Il fatto è che non volevo che Harry sapesse, non subito. Lei tende a buttarsi a capofitto nelle cose, senza curarsi delle conseguenze e cogliendomi in flagrante a parlare con te, credo proprio che si sarebbe intromessa e vista la sua delicatezza da elefante in una cristalleria e io che continuavo a farmi fisime... Diciamo che non mi sembrava il caso di presentarvi così e allora ho affrettato le cose, forse un po' troppo."

Sherlock restò in silenzio mentre John sospirava, per poi riprendere il discorso.

"Harry decise di riaccompagnarmi qui in auto, la mattina del primo: Clara aveva dato l'okay e sarebbe venuta con noi e... Beh, diciamolo pure: le ho stressate entrambe così tanto con te che morivano dalla voglia di vederti, anche se io mi sono sempre opposto fermamente."

"Perché?" chiese Sherlock, confuso. John ridacchiò.

"Perché non volevo fare mosse avventate, Sherlock: prima dovevo vederti e parlarti, assicurarmi di come stessero le cose tra noi. Poi, e solo poi, ti avrei fatto conoscere quella matta di Harry. E vedendo com'è andata a finire, direi che ho fatto bene." e qui John gli scoccò un'occhiataccia, a cui Sherlock rispose incassando la testa nelle spalle, "Comunque, mi hanno dato uno strappo qui. Harry ha voluto a tutti i costi aiutarmi a scaricare il borsone e mi ha accompagnato fino all'ingresso. È lì che ci hai visti?"

Sherlock annuì.

"Sì, voi... Eravate abbracciati, scherzavate e sembravate così... intimi."

"Tranquillo, non siamo Cersei e Jaime Lannister: l'incesto non è mai stato nelle nostre corde." commentò John e Sherlock aggrottò la fronte.

"Chi sono Cersei e Jaime Lannister?" chiese, confuso. John sorrise e scosse la testa, per poi rispondere:

"Te lo spiegherò più tardi, adesso non è il momento. Quando ci hai visti abbracciati... Stavo chiedendo a Harry come stesse. Se seguisse la terapia prescritta dal medico, se prendesse i farmaci... Se ce la stesse facendo da sola. E in caso così non fosse, le ho ricordato che io ci sarei stato."

"È... È malata?" chiese Sherlock, cauto. John aggrottò la fronte, perplesso, poi si rese conto del malinteso e scosse la testa, dicendo nel frattempo:

"No, no, lei... Lei ha avuto un problema con l'alcol. Ora sta bene, ne è uscita, ma... Beh, non è stato facile e le ricadute in questi casi sono sfortunatamente comuni. Volevo assicurarmi che stesse bene."

"È normale, sei suo fratello."

"Sì, però così facendo ho perso te." commentò John, tranquillo e Sherlock ebbe un tuffo al cuore. Abbassò lo sguardo e deglutì, stringendosi nel Belstaff.

"Credevo che lei fosse la tua ragazza. Credevo che... Sì, che volessi lei al posto mio, perché io non ero abbastanza per te. Lei invece sì: ti avrebbe dato quello che io non sarei nemmeno stato in grado di prevedere e ti avrebbe reso felice. Non volevo mettermi in mezzo, lei sembrava farti felice. Chi ero io per rovinare tutto?"

"Quindi è per questo che sei... Beh, in questo stato. Capelli, pigiama, aria sciupata e barba... Non ti avevo mai visto con la barba."

"Questo perché generalmente la detesto. Ma stavolta avevo ben altro a cui pensare."

"Mmh. E suppongo sia sempre per questo che sei sparito. Perché credevi di non essere abbastanza."

"Lo credo ancora. In più ho fatto un errore di valutazione piuttosto serio: mi avevi accennato a tua sorella in passato, prima che ci baciassimo lei ti aveva anche telefonato e quando l'ho vista mi sembrava familiare, anche se non ho capito che mi era familiare perché mi ricordava te. Solo un idiota farebbe sbagli del genere e nessuno vuole avere a che fare con un idiota, perciò... Forse non sono così intelligente come mi piace credere." mormorò e John sospirò, scuotendo la testa. Si massaggiò la radice del naso con aria stanca, poi gli rivolse uno sguardo esasperato, anche se con un sottofondo piuttosto evidente di affetto.

"Che cosa devo fare con te, Sherlock Holmes?"

"Non lo so. Però ti capirei se... Se volessi tagliare i ponti con me. Mi sembra giusto, insomma-"

"Ma mi ascolti quando parlo?" lo interruppe John, in apparenza irritato ma sotto sotto divertito. Sherlock, sinceramente confuso, aggrottò lievemente la fronte.

"Sì?"

"E invece mi sa di no. Dio, Sherlock, io ... Io sono pazzo di te: lo sono da quel giorno da Starbucks, quando ci siamo parlati per la prima volta, e lo sono rimasto per tutte queste settimane, sempre e comunque. Mi sono innamorato del tuo modo di parlare, di pensare, di vedere il mondo e le persone, del tuo essere così atipico e unico, meraviglioso... Mi sono innamorato di te, brutto idiota che non sei altro: in che lingua devo dirtelo per fartelo capire?" disse John, portandosi ad una distanza francamente ridicola da Sherlock. Il giovane Holmes sollevò appena un angolo delle labbra in un timido sorriso, tenendo lo sguardo basso.

"L'inglese può andare bene, credo. Ma se preferisci il greco..." commentò a bassa voce e John rise. Subito dopo, con una lentezza estenuante, il biondo estrasse dalla tasca dei jeans un biglietto, quasi consumato per tutte le volte che era stato aperto e tenuto in mano: era ricoperto da cima a fondo da scritte a matita, alcune cancellate con delle righe, altre con la gomma, altre conservate ma sbiadite a forza di passarci sopra involontariamente la mano. John tornò a guardare Sherlock negli occhi e si lasciò sfuggire un sorriso nervoso, esitante.

"Te l'avevo detto che l'avevo risolto. Ci ho messo un po', ma... Alla fine ce l'ho fatta."

"E la soluzione corretta qual'è?"

"Beh... Speravo che me lo dicessi tu." mormorò, porgendogli il biglietto. Sherlock lo prese tra le dita e, lentamente, lo aprì. Le scritte in matita erano sparse in giro attorno all'anagramma scritto da Sherlock tempo prima, ma sotto quella frase priva di senso c'era una nuova aggiunta in penna. La soluzione.

Former Soul Away Deny Even Whale Vain Libbey

You Have Always Been And Forever Will Be In My

Sherlock lesse la frase e sorrise.

"È corretto," disse, "ma incompleto: manca qualcosa, non trovi?"

"Heart e Mind: ho capito dopo che il cervello non era da intendere in senso letterale, però ammetto di averci speso parecchio tempo e soprattutto neuroni."

"E ne è valsa la pena?" mormorò Sherlock e John sorrise, facendoglisi ancora più vicino.

"Per me sì. Che mi dici di te?" chiese e Sherlock sospirò, abbassando lo sguardo a terra.

"Mi dispiace, John: ho fatto un casino, mi sono sbagliato e ho fatto stare male entrambi, mi dispiace davvero e-"

"Ehi, zitto, stai zitto una volta tanto e ascoltami." lo interruppe John, prendendogli il viso tra le mani e portando lo sguardo di Sherlock sul suo volto, "Ormai quello che è successo è successo, non ha senso continuare a rimuginarci su. In futuro ti chiedo solo di fidarti di me, Sherlock, di fidarti di me e lasciare che ti renda felice, perché sono certo di poterlo fare."

"Io mi fido di te. Davvero, lo faccio, è che ti ho visto con lei e non-"

"Non fa niente, Sherlock, davvero. E... Beh, posso capire cosa ti sia passato per la testa: al posto tuo non so come avrei reagito. Okay, forse lo so, probabilmente avrei fatto a botte con il ragazzo che avesse provato a prendere il mio posto, in queste situazioni tendo a perdere la calma un po' troppo facilmente."

"Victor voleva spaccarti il naso, pensa." commentò Sherlock e John sollevò le sopracciglia in un'espressione sorpresa.

"Ah, ecco perché quando l'ho visto ieri mi ha guardato così male, adesso è tutto più chiaro. Beh, non l'avrei biasimato, in caso l'avesse fatto: per come credevate stessero le cose, sarebbe stato abbastanza naturale. Mi dispiace solo che... Sì, insomma, che tu non mi abbia detto nulla. Avremmo risolto molto più in fretta."

"Lo so e credimi, mi dispiace così tanto, John. Sei arrabbiato con me?"

John alzò gli occhi al cielo, scuotendo poi la testa con un sorriso mascherato da smorfia.

"No, scemo, non ce l'ho con te... Anche se a dirla tutta avrei preferito che ti fosse fidato un po' più di me."

"Te l'ho detto, John, mi dispiace, ma-"

"Sherlock, per l'amor del cielo, vuoi piantarla di scusarti? Ho capito che ti dispiace, non c'è bisogno di continuare a ripeterlo."

"Non mi sembra di aver detto abbastanza, però. Non mi sembra di aver fatto abbastanza, di essere abbastanza. Non voglio deluderti, John." sussurrò Sherlock, piano. John gli sorrise dolcemente e gli sfiorò lo zigomo con il pollice, intenerito.

"Se tu provi almeno un decimo di quello che io provo per te, allora credimi: per me è già molto più che abbastanza."

"Davvero?"

"Davvero." mormorò John, senza smettere di sorridergli. Sherlock iniziò a farlo a sua volta, appoggiando le mani sulla vita di John per tenerlo più stretto a sé, e in quel momento il campanile della città prese a rintoccare la mezzanotte. Entrambi alzarono lo sguardo in alto, verso il cielo scuso da cui aveva ricominciato a fioccare leggera la neve. Qualche cristallo, sospinto dalla lieve e fredda brezza della notte, li raggiunse e andò a posarsi sui loro abiti, risaltando sulla stoffa scura e pesante indossata da entrambi. John, le mani ormai appoggiate alle sue spalle, tornò a guardarlo, armato di un sorriso ancora più luminoso e smagliante.

"È mezzanotte!" esclamò e Sherlock, confuso dal suo entusiasmo, inarcò un sopracciglio.

"Dunque?"

John lo squadrò per qualche istante, probabilmente cercando di capire se lo stesse prendendo in giro o meno; quando poi si rese conto che Sherlock fosse sinceramente perplesso, scoppiò a ridere, divertito.

"Sei incredibile, maledizione, sei davvero incredibile..."

"In senso buono o...?"

John gli sorrise. Gli accarezzò la guancia con una mano, dicendo poi:

"Buon compleanno, idiota."

"...oh. Cioè, io- grazie. Me n'ero dimenticato."

"Me n'ero accorto. Meno male che ci sono io a ricordartelo, allora."

Sherlock ricambiò il sorriso.

"Sì, direi di sì."

John rise leggermente e, quando la sua risata si trasformò nuovamente in un sorriso silenzioso, Sherlock raccolse il coraggio a due mani e fece quello che aveva sempre sognato di fare, sin dal primo momento in cui i suoi occhi si erano posati su John: lo strinse di più a sé, accentuando la presa sui suoi fianchi, inclinò lievemente il capo e lo baciò, chiudendo gli occhi e beandosi di quel contatto così a lungo sospirato. Aveva desiderato così tanto quel momento con John, aveva bramato per anni quel bacio, un bacio che lui stesso stava dando al ragazzo che amava e che sospettava avrebbe amato fino a che il suo cuore non avesse cessato di battere.

John ricambiò subito il bacio, le dita affondate nei ricci scuri di Sherlock e muovendo le labbra contro le sue in un contatto dolce e delicato, tenero e soprattutto pregno dell'amore che provavano l'uno per l'altro e che ormai era diventato del tutto inutile, oltre che impossibile, celare allo sguardo. Non fu un bacio da film, da copertina o chissà che, tutt'altro: fu lento, un po' impacciato e scoordinato, del tutto imperfetto. Fu proprio per questo che Sherlock però lo amò alla follia: perché quel suo essere imperfetto lo rendeva anche essere unico e quindi solo e soltanto loro. Era semplicemente il bacio di Sherlock e John, due ragazzi follemente innamorati e felici per ciò che avevano duramente lottato è pazientemente aspettato: il loro amore, qualcosa che nessuno avrebbe potuto portargli via.

Quando John pose fine a quel bacio, lo fece sorridendo contro le labbra di Sherlock, senza accennare a spostarsi nemmeno di un millimetro.

"Sai, con questa tua trovata ti sei quasi fatto perdonare del tutto."

"Ah sì? E cosa manca per completare quel tutto?"

"Un paio di cose."

"Quali?"

"Beh," iniziò John, sfiorandogli la guancia, "innanzitutto spero che tu ricominci a farti la barba o che per lo meno tu la tenga curata."

"È perché sembro un vecchio e tu non vuoi farti vedere in giro con un vecchio, vero?"

"Diciamo di sì. Anche se devo confessartelo: di solito preferisco i miei chimici e aspiranti detective ben rasati."

"Mmh, direi che posso accordarti questa condizione senza alcun problema, la faccia inizia a prudere e lo odio. L'altra?"

"L'altra è tosta, Sherlock. È davvero una prova d'amore, estrema per la sua pericolosità." mormorò John, palesemente preoccupato per finta. Sherlock inarcò un sopracciglio, per nulla intimidito e parecchio incuriosito.

"Correrò questo rischio. Ora parla, di che si tratta?"

John sogghignò e con uno scatto di separò da lui, le mani dietro la schiena.

"Dovrai dividere in frappuccino con me. E per 'dividere' intendo 'metà io e metà tu'." esordì John con aria solenne e Sherlock, inorridito, strabuzzò gli occhi.

"Cosa?! Non se ne parla, neanche morto!"

"E allora non ti perdono."

"Stai scherzando, spero."

"No, veramente no."

"John, ti prego, non puoi farmi questo!"

"Oh sì, invece, e lo farò. Scegli: prendere o lasciare." disse John, mettendosi a braccia conserte davanti ad uno Sherlock pietrificato dal disgusto.

"Sei una persona crudele, lo sai?" mugugnò Sherlock dopo un po', abbassando lo sguardo con aria sconfitta. John si illuminò e sorrise.

"Significa che lo farai? Berrai un frappuccino con me?"

"Vedi di non rinfacciarmelo ogni trenta secondi, potrei anche cambiare idea!" sibilò Sherlock, disgustato. John rise e tornò ad abbracciarlo, stringendogli le braccia attorno alle spalle mentre Sherlock faceva lo stesso con la sua vita.

"Un frappuccino per due. È romantico, non credi?"

"È vomitevole, direi. Però... Diciamo che per te potrei anche fare un'eccezione."

"Davvero?" chiese John. Sherlock sorrise.

"Neanche te lo immagini, John." mormorò e John lo strinse più forte, lasciando che Sherlock affondasse il viso nell'incavo del suo collo.

Sherlock avrebbe fatto ogni eccezione possibile e immaginabile, se John solo glielo avesse chiesto e aveva l'impressione che sarebbe stato così per un lungo tempo.

Stranamente, quel pensiero lo fece sorridere.


 

 

 

"Ripetimi di nuovo cosa ci facciamo qui dentro, John: ti prego, ripetimelo, perché per me questa tappa è assolutamente priva di alcun nesso logico! Ma soprattutto, a chi diavolo può piacere una zuccheriera a forma di ananas dorato, eh?! C'è davvero qualcuno disposto a comprare questo obbrobrio?"

"Beh, se l'hanno fatto penso di sì."

"Ma che diavolo hanno nel cervello i danesi, che razza di gusti hanno?! E qualcuno vuole spiegarmi questa insana mania che è dilagata recentemente per gli ananas? Per Dio, perché farci addirittura delle lampade e osannarli come fossero delle icone sacre?! C'è un culto segreto, una specie di nuova setta di cui non sono al corrente? L'Ordine Dei Cavalieri Dell'Ananas?"

"Ma come ti escono certe battute?!"

"Tu prima spiegami perché questa fissazione con quegli affari gialli."

"Perché sono... carini?"

"Carini? Carini?! John, noi due abbiamo un concetto di 'carino' davvero diverso."

"Non esagerare, adesso."

"Oh, ma andiamo, è solo un frutto, per la miseria, un maledetto frutto e fa pure schifo! Perché proprio gli ananas, perché non usare, che so, mele o banane?!"

"Sherlock, non per interrompere il tuo interessantissimo monologo ai danni degli ananas e romperti le uova nel paniere, ma in realtà le banane sono molto usate nella cultura moderna, solo che generalmente nel gergo comune lo sono per indicare altri... ambiti."

"Quali altri ambiti?"

"Sono certo che con un po' di fantasia tu ci possa arrivare da solo."

"...Ah. Tu parli di quell'ambito, quello... Quello. Beh... Sì, i -insomma, le banane sarebbero comunque più interessanti di un ananas e- oh, per l'amor del cielo, John, hai venticinque anni, cresci un po' e smettila di ridermi in faccia, non c'è niente di divertente in un dannatissimo ananas!"

C'erano tante cose- forse anche troppe- che Sherlock Holmes detestava a proposito del genere umano, anche se doveva ammetterlo, il loro numero era considerevolmente diminuito da due anni a quella parte. Stare con John lo aveva ammorbidito - rimbecillito, avrebbe detto affettuosamente Victor-, ma sorprendentemente Sherlock lo accettava senza troppi problemi. Forse era perché John invece aveva assorbito la sua acidità perduta e ora era un po' più insofferente rispetto a quando l'aveva conosciuto: se poi si teneva conto della sua indole passionale e facilmente irascibile, si otteneva un combo micidiale. Sherlock adorava vederlo perdere le staffe e mettersi a inveire contro chicchessia- a patto che, cosa che accadeva alquanto spesso, quel chicchessia non fosse lui. In quel caso non c'era davvero niente di divertente.

Sherlock Holmes, ventitré anni di sarcasmo concentrati sempre in uno spilungone di un metro e ottantatré ora meno secco e più in forma rispetto al passato- maledetto John che lo costringeva a mangiare nei momenti meno opportuni con un sordido ricatto-, era in procinto di laurearsi: di lì a una settimana avrebbe discusso la tesi e poi libertà!, finalmente il suo periodo di tortura all'università sarebbe terminato per sempre e lui sarebbe stato libero di seguire la sua strada, fare quello che voleva e soprattutto dedicarsi a tempo pieno a quello che ormai considerava già il suo lavoro: le indagini e la caccia ai criminali.

Alcune cose nella sua vita erano rimaste le stesse, in quei due anni: Starbucks, ad esempio. Sherlock ci lavorava ancora- anche se pure quel periodo della sua vita era ormai ridotto agli sgoccioli- e continuava a detestare le bevande, i clienti, ma soprattutto i frappuccini. Quelli li avrebbe odiati sempre e comunque senza riserva, ormai era un dato assodato. John ogni tanto riusciva a berne uno insieme a lui, ma poi doveva sdebitarsi ampiamente con il suo ragazzo- e quello sdebitarsi di solito implicava loro due chiusi in camera di Sherlock o rintanati nell'appartamento di John per ore e ore a fare Dio solo sa cosa. I vicini, dai suoni provenienti da uno o l'altro luogo, ne avevano una mezza idea, ma avevano imparato a loro spese che provocare uno dei due era già di per sé pericoloso, ma provocarli insieme era praticamente un tentativo di suicidio.

Victor era un'altra delle poche costanti nella sua vita ed era naturalmente rimasta tale: di lì a poco aveva iniziato a fare coppia fissa con Carly e qualche volta, con sommo orrore di Sherlock, avevano anche fatto delle uscite a quattro, in cui inevitabilmente dei Victor e John lievemente sbronzi finivano per giocare a braccio di ferro e dei Sherlock e Carly parecchio esasperati finivano per fare commenti acidi sui loro partner sperando che non si rompessero qualche osso nel frattempo. Era cinica e sarcastica, Carly, a volte persino un po' acida. A Sherlock, tutto sommato, non dispiaceva.

In ogni caso, il suo amico aveva ripreso a vedere John di buon occhio- c'era voluto un po' per fargli capire che no, quella ragazza era davvero Harriet Watson e non un trucco per ingannare Sherlock- e in quei due anni di frequentazione erano persino diventati amici, fatto che a Sherlock non poteva che fare piacere, anche se non l'avrebbe mai ammesso. Victor era rimasto lo stesso bastardo sarcastico e idiota di sempre, non era cambiato di una virgola: sfotteva ancora Sherlock per le sue paranoie quando si parlava di John e di come lui si sentisse inadeguato e incredulo riguardo al fatto di averlo ancora accanto dopo tutto quel tempo, gli urlava addosso quando Sherlock si rifiutava di uscire e fare vita sociale - anche se in questo casi poi subentrava John che, in un modo o nell'altro, riusciva a fargli prendere una boccata d'aria per un po'-, ma soprattutto c'era sempre e comunque per lui, qualsiasi cosa Sherlock avesse fatto poteva stare certo che Victor l'avrebbe supportato e sopportato.

E poi... Beh. Poi c'era John.

Da quella notte di gennaio, John era diventato ufficialmente il suo ragazzo e anche a distanza di due anni, Sherlock lo amava come se fosse il loro primo giorno insieme. Avrebbe fatto di tutto per lui, non esagerava, l'avrebbe fatto davvero. Aveva anche bevuto dei frappuccini per lui, fatto alquanto sconvolgente e disgustoso ai suoi occhi. John lo aveva cambiato, ma Sherlock era sicuro che l'avesse fatto in meglio e non poteva che esserne felice.

Si sentiva così maledettamente fortunato ad avere qualcuno come John, cosa aveva fatto per meritare il suo amore, per meritarsi una persona così speciale come lui? Sherlock non riusciva a capirlo ed era terrorizzato alla prospettiva che anche John un giorno si facesse quelle stesse domande e decidesse che era vero, Sherlock non lo meritava, e che quindi avrebbe fatto bene a trovarsi qualcun altro. La prospettiva di perderlo era diventata il suo peggior incubo, Sherlock non poteva farci niente. C'erano delle volte in cui però la paura di essere abbandonato dall'uomo- perché sì, ormai John era un uomo, ai suoi occhi- che amava veniva eclissata dalla felicità accecante che lo stare con John scatenava in lui. John lo faceva ridere, cosa che con altri succedeva piuttosto raramente. John lo capiva, seguiva i suoi ragionamenti quando deduceva e non lo considerava strano o inquietante, al contrario: lo sosteneva e lo incitava a continuare, dandogli persino una mano con i suoi assurdi esperimenti e le indagini. John lo amava, glielo dimostrava ogni giorno in ogni modo possibile.

Sherlock ricordava ancora la prima volta che gli aveva detto "Ti amo", un paio di mesi dopo il ventunesimo compleanno di Sherlock: stavano dissezionando un cervello in piena notte, di nascosto in uno dei laboratori dell'università; Sherlock aveva bisogno di un campione di tessuto cerebrale per un esperimento e John aveva sentito qualche giorno prima dal suo professore di anatomia che ormai quel cervello era vecchio, non era più buono per le dimostrazioni e le lezioni, e che quindi di lì a pochi giorni se ne sarebbero liberati. John l'aveva detto a Sherlock e il moro aveva commentato con un "Potremmo prenderne un campione: dovranno disfarsene in ogni caso, quindi perché non approfittarne?". E così era stato: mentre John tagliava un pezzo di corteccia con il bisturi, Sherlock aveva fatto una qualche battuta delle sue e l'aspirante medico era scoppiato a ridere, aveva le lacrime agli occhi.

"Dio, Sherlock, quanto ti amo..." aveva commentato poi, ancora divertito mentre scuoteva lievemente il capo. Sherlock aveva sbarrato gli occhi, gelato.

"Ripetilo."

"Che cosa?"

"Quello che hai detto, il fatto che tu mi... Ripetilo."

John aveva alzato lo sguardo dal cervello, fissandolo su di lui. Gli aveva sorriso, dolcemente.

"Ti amo." gli aveva detto, come se fosse la cosa più semplice e naturale del mondo. E Sherlock, per tutta risposta, gli era praticamente saltato in braccio e l'aveva baciato, mentre un John pericolosamente prossimo al perdere l'equilibrio posava il bisturi, si appoggiava al tavolo e lo stringeva a sé. Era stata una nottata divertente, in fin dei conti. Sherlock a volte si fermava a riflettere su quanto fosse stato fortunato a conquistare John, a quanto quel ragazzo gli avesse stravolto la vita e l'avesse riempita di sé, rendendola ancora più speciale: di solito lo faceva dopo aver fatto l'amore con John, quando lui gli passava un braccio attorno alle spalle, tenendolo stretto al suo corpo, e Sherlock appoggiava la testa sul suo petto, intrecciando le gambe e le mani con quelle del suo ragazzo. Vedendolo perso nei pensieri, John gli avrebbe chiesto se andasse tutto bene e Sherlock sorridendogli appena avrebbe detto che sì, andava tutto a meraviglia. Si sarebbero baciati, poi Sherlock avrebbe affondato il viso nell'incavo del suo collo e John gli avrebbe dato un bacio tra i capelli, accarezzandogli la spalla con tocchi leggeri nel frattempo.

Sherlock amava John alla follia, di questo ormai era sicuro al cento per cento. Nonostante ciò, c'erano tuttavia delle volte in cui avrebbe tanto voluto strozzarlo.

Come quel giorno, ad esempio.

Sherlock era di riposo, non sarebbe dovuto andare da Starbucks a preparare caffè e obbrobriosi intrugli col ghiaccio- erano agli albori di giugno e, col caldo in aumento, anche il numero di frappuccini e bevande fredde cresceva in modo direttamente proporzionale. Caso volle che anche John fosse a casa, libero dai turni all'ospedale vicino all'università dove aveva trovato un posto stagionale per proseguire con le sue attività di praticantato. Da quando aveva finito l'università, John si era rimboccato le maniche e non aveva smesso neanche un attimo di lavorare: faceva la spola tra una clinica privata, lo studio di un medico generico e l'ospedale, alternando i periodi in qui lavorava qui e lì a seconda delle necessità dei suoi datori di lavoro.

Stava facendo strada, era davvero bravo e Sherlock era così orgoglioso di lui: era fiero di poter dire "Guardate, quello è il mio ragazzo e ha il mondo ai suoi piedi", era fiero di ciò che stava facendo, del suo essere sempre pronto a correre in aiuto di chi ne avesse bisogno e di salvare vite. Era fiero di lui e lo sarebbe sempre stato: lo aveva capito già il giorno della sua laurea, quando John aveva lanciato in aria il tocco insieme agli altri studenti e poi lo aveva guardato, rivolgendogli il sorriso più luminoso che Sherlock avesse mai visto. Poco dopo il fotografo della cerimonia aveva scattato una foto di loro due insieme, Sherlock in giacca e cravatta, elegantissimo, e John con la toga e il tocco, stretto a lui: in quella foto entrambe sorridevano all'obbiettivo, erano felici e innamorati. John ne teneva una copia incorniciata appesa al muro del salotto, in casa sua, Sherlock in una cornice sulla sua scrivania. Adorava quella foto e non era raro che si perdesse a guardarla in silenzio, sorridendo come un cretino senza motivo apparente- anche se, in realtà, il motivo c'era eccome.

Comunque, quel giorno anche John non doveva lavorare e la sera prima aveva chiamato il suo ragazzo, proponendogli una giornata insieme a Londra. Ultimamente, tra il lavoro di tutti e due, la stesura e la revisione della tesi da parte sua e un progetto di cui John si ostinava a non volergli parlare, Sherlock lo vedeva meno di prima: certo, John passava sempre al campus e alla fine riuscivano comunque a ritagliarsi minimo un paio d'ore per stare insieme, ma poteva capitare che alle volte fossero entrambi stanchi per lo studio o il lavoro e nessuno dei due riuscisse a godersi quei momenti come avrebbe voluto. Era quindi naturale che Sherlock accettasse con un certo entusiasmo, anche se fosse stato per lui sarebbero benissimo potuti restare a casa di John- dove, tra l'altro, ormai non metteva piede da settimane e iniziava a sentirne nostalgia- a guardasi un film o... a fare altro. L'importante era staccare la spina e stare insieme, a Sherlock davvero non importava fare chissà cosa, ma John aveva insistito per Londra, sostenendo di aver già programmato tutto e di avere bisogno di lui per fare delle cose non definite- e purtroppo adatte ad essere viste anche al grande pubblico, quindi decisamente lontane dal genere di attività che in un primo momento erano gravitate nella mente di Sherlock.

"Vada per Londra, allora!" aveva concesso Sherlock la sera prima, quasi esasperato. Durante la notte si era immaginato gli scenari più improbabili e allucinanti, tipo gite per i musei o lanciare il pane alle anatre nei laghetti di un qualche parco. Aveva anche considerato l'ipotesi dello zoo e ne era sinceramente rimasto inorridito. Si era immaginato davvero tutto, ogni cosa.

Tutto, tranne quello.

Erano partiti in treno verso le otto e arrivati alla capitale, John aveva messo in chiaro che quel giorno le tappe del loro giro per Londra erano già decise e fissate e che Sherlock non avrebbe avuto alcuna voce in capitolo in proposito. Il giovane Holmes si era opposto, ma John aveva interrotto le sue lamentele con un bacio, riportandolo al silenzio nel giro di pochi secondi.

La prima tappa fu la colazione. E il posto prescelto fu ... Starbucks. Sherlock, davanti all'ingresso del locale, aveva guardato John come se fosse impazzito.

"Stai scherzando, vero?" gli aveva chiesto. John si era stretto nelle spalle, rivolgendogli uno sguardo falsamente dispiaciuto mentre serrava le labbra in un sorriso per metà smorfia.

"Uhm... No. Non sto scherzando. Io prendo un frappuccino, tu che vuoi?"

Quella prima fermata della loro allucinante giornata fu un duro colpo per Sherlock, il primo di una purtroppo lunghissima serie: John non fece altro che trascinarlo per tutta la mattina in negozi di vestiti, cianfrusaglie, alcuni erano anche negozi di arredamento e lui avrebbe davvero voluto buttarsi sotto un autobus per porre fine a quella sofferenza. Più le ore passavano, più i posti in cui John lo portava diventavano impossibili: per pranzo lo portò da McDonald's. Quel cretino di John osò portare lui, Sherlock Holmes, da McDonald's! Lo avrebbe soffocato con un Cheeseburger, aveva deciso.

"Okay, io ho fatto, ora tocca a te."

"Qual'è il tuo ordine?"

"Questo qui, in basso al display."

"Un Crispy McBacon, un Big Tasty, patatine grandi, salsa BBQ e... Una Coca-Cola grande? Ma quanto mangi, John?!"

"Quando vado da McDonald's prendo sempre cose del genere, se ci fossi venuto prima con me l'avresti saputo. Allora, tu cosa prendi?"

"Ah, non lo so, mi sembrano tutte porcherie. Okay, allora magari acqua, patatine piccole e... Non lo so, un toast?"

"Un toast?"

"Hai voluto portarmi a mangiare in questo posto? Ora ti adegui!"

"Ma andiamo, Sherlock, vieni da McDonald's e prendi un toast! Prendi un hamburger, almeno, uno semplice."

"No, John, scordatelo, non prenderò uno di quegli abomini, tipo... Cos'è quello, un Big Mac? Beh, qualunque cosa sia, no!"

"Ma perché?!"

"Perché no, per l'amor del cielo! Ti sembro mio fratello, per caso?!"

"Tuo fratello, che c'entra tuo fratello, adesso?"

"Questo è il genere di cibo per cui Mycroft segretamente stravede: dolci, cibo spazzatura... Dio, quella fogna ingurgiterebbe di tutto."

"Tu no, invece."

"No, appunto e- John, che stai facendo, non ti azzardare a ordinare i Milkshake, guarda che me ne vado! Non lo voglio, John, non lo bevo, non... Ti odio."

"Lo so, ti amo anche io. Andiamo alla cassa a pagare?"

Sherlock per un po' aveva pensato che quella di McDonald's fosse stata la tappa finale a quel Tour Degli Orrori per Londra, se ne era autoconvinto: i suoi nervi non potevano sopportare ancora quella tortura, basta. Purtroppo, Sherlock si sbagliava: il peggio doveva ancora arrivare e aveva un nome, anche.

Flying Tiger Copenaghen.

Sherlock conosceva bene quel posto: era lì che aveva acquistato i regali di John per quel Natale, cuore, biglietto, scatola e cervello. In seguito aveva scoperto che anche John aveva acquistato lì il suo quaderno: senza nemmeno saperlo avevano preso i rispettivi regali nello stesso posto e si erano fatti entrambi una risata a quel pensiero. Però in quel momento l'unica cosa che Sherlock voleva fare era prendere a testate il muro fino a perdere i sensi.

Quando erano entrati nel negozio, John aveva preso un cestino per riporre la merce da acquistare, scaricando ad uno scocciatissimo Sherlock parte delle borse con gli acquisti precedentemente fatti- tutte cose inutili, a detta di Sherlock: cosa diavolo se ne sarebbe fatto John di uno stura-lavandino decorato come se fosse una rana? Cosa? E le cose che stava prendendo adesso, ma cosa aveva intenzione di farsene? Piatti, bicchieri, posate, mollette per il bucato, aveva preso e messo in quel maledetto cestino di tutto e di più. E ora, che Iddio lo fulminasse in quel preciso istante, stava mirando a quella maledetta zuccheriera a forma di ananas dorato, nonostante tutte le critiche che Sherlock aveva appena fatto a proposito di quell'affare.

"Non vorrai prendere anche quella cosa, spero." sibilò e John si strinse nelle spalle.

"Mi serve una zuccheriera."

"A cosa ti serve una zuccheriera, John?! A cosa ti serve tutta quella roba, a dire il vero! Devi rivenderla, contrabbandarla, cosa?!" sbottò, allargando le braccia esasperato e facendo ondeggiare le borse con le lenzuola riportanti una tavola periodica gigante e due cuscini con le stampe di alcuni simboli chimici. Sotto sotto a Sherlock piacevano davvero tanto e dannazione, avrebbe davvero voluto tenerli per sé. Da se stesso si sarebbe potuto aspettare un acquisto del genere, ma John capiva poco o niente di chimica, giusto le basi, quindi perché prendere tutta quella roba? Da mettere in un appartamento in affitto già provvisto di tutto dal proprietario, oltretutto? Davvero non capiva. John sospirò e riportò lo sguardo sugli articoli davanti a sé.

"Dai, dammi una mano a scegliere una cornice per le foto: quale tra queste?"

"John, a cosa serve tutto questo, vuoi spiegarmelo?!"

"Tu rispondi alla domanda delle cornici."

"Quella lì, quella in legno nero. Tra tutte è la più decente."

"D'accordo, allora prendo questa. E delle salviette per le mani? Che dici, quella a quadri rossi? O forse è meglio blu?"

"John, per Dio!"

"Sherlock, prima di aiuti a scegliere cosa prendere, prima possiamo andarcene da Tiger."

"Per andare dove? Torniamo a casa?" chiese Sherlock, speranzoso di porre fine a quella giornata di sofferenze. John fece un'espressione strana, poi tornò a guardare le cornici.

"Sì... Qualcosa del genere. Prima però dobbiamo fermarci in un ultimo posto."

"Ancora?! John, ti prego, basta, dammi tregua!"

"Abbi ancora un po' di pazienza, solo un po' di pazienza."

"Ma-"

"Ti fidi di me?"

"John, ma c'entra questo adesso, non è il caso di tirare in mezzo la questione della fiducia!"

"Sì invece, rispondi: ti fidi di me?" chiese John, appoggiando il cestino a terra e prendendo il viso di uno Sherlock più che confuso tra le mani. Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre, poi annuì.

"Certo che mi fido, anche se con la tua fantastica gita di oggi ha rischiato di giocarti questa carta. Adesso vuoi dirmi che sta succedendo?"

"Più tardi. Più tardi te lo spiegherò, promesso. Ora però scegli, forza: salvietta a quadri rossi o blu?"

Uscirono da Tiger mezz'ora più tardi, armati di altri cinque chili di quelle che Sherlock reputava cianfrusaglie e persino una abat-jour dal fusto nero con una fantasia di coltelli e armi da fuoco sul paralume grigio antracite- l'unica cosa che Sherlock, preso dalla frenesia degli acquisti, aveva preso di sua spontanea volontà al grido di "Se proprio dobbiamo buttare via un patrimonio in roba inutile, almeno facciamolo per qualcosa ne valga la pena!". John aveva sorriso a quel commento.

Erano stracarichi di borse, almeno cinque per braccio per entrambi e tutte piene di oggetti di uso comune in una casa- ma che nessuno dei due necessitava, dannazione!

"Allora, qual'è la prossima tappa? Ci fermiamo alla Nespresso a prendere una macchinetta del caffè e una selezione di cialde aromatizzate alle torte?" chiese Sherlock, ironico. John inarcò un sopracciglio, poi si strinse nelle spalle e disse:

"Una macchinetta del caffè? Beh, se la vuoi prendere possiamo-"

"Era sarcasmo, John!" strillò Sherlock, praticamente isterico. John roteò gli occhi e si sporse verso la strada, fermando un taxi libero di passaggio.

"Dai, monta su e dammi una mano a caricare tutto." disse poi al suo ragazzo, che rispose con una smorfia esasperata. Riuscirono a salire sulla macchina con tutte le borse a seguito dopo pochi minuti e a quel punto il tassista chiese a Sherlock:

"Per dove, signore?"

Sherlock lo fulminò con un'occhiata sprezzante e sibilò, acido:

"Lo chieda a lui, che tanto ha già pianificato tutto, come il mio rapimento per questa giornata d'inferno!"

Il tassista rivolse a John uno sguardo perplesso e il giovane Watson si ritrovò a sospirare alzando gli occhi al cielo.

"Lo scusi, quando è irritato diventa insopportabile, come i bambini."

"Non sono un bambino, John!"

"Certo, certo. Comunque, 221B di Baker Street, per favore." disse John, rivolgendo al proprio fidanzato a malapena un'occhiata e facendo un cenno d'intesa al tassista. L'uomo annuì e mise l'auto in moto, iniziando il viaggio per le vie di Londra. Sherlock nel frattempo rivolse a John uno sguardo dubbioso.

"Cosa c'è al 221B di Baker Street?" chiese e John, lo sguardo perso fuori dal finestrino, gli rispose con un:

"Abbi pazienza e vedrai."

"Questa storia della pazienza ti sta sfuggendo di mano, Watson."

"Sei proprio sicuro che stia sfuggendo di mano a me?" mormorò John e Sherlock lo fulminò con un'occhiataccia. Dopo averlo fatto, però, si fermò ad osservare con più attenzione il suo fidanzato, ad un tratto incuriosito: John era nervoso, il suo sguardo, la sue espressione e ogni piccolo particolare della sua postura ne erano la riprova. L'idea di andare in quel posto, l'idea di farlo con lui lo rendeva nervoso. Già, ma perché?

Il viaggio durò relativamente poco, ma ad entrambi sembrò un'eternità. Quando l'auto si fermò, accostandosi al marciapiede, Sherlock praticamente si precipitò giù dal veicolo, scavalcando John e le borse senza curarsi dei richiami indignati del fidanzato. Non c'era nessun negozio: davanti a lui c'era solo un piccolo bar, una specie di tavola calda/ caffetteria chiamata "Speedy's". Notò solo in seguito il numero 221B affisso ad una porta nera, in numeri di quello che sembrava ottone. Aggrottò la fronte, voltandosi verso il taxi e quindi verso un John esasperato che, dopo aver pagato il tassista, stava scaricando le borse da solo.

"Non c'è niente qui, John." esclamò, tornando poi a guardare l'edificio, "C'è solo una casa, nessun negozio d dubbio gusto."

"Certo che c'è una casa, cosa ti aspettavi?"

"Te l'ho detto, un altro negozio di ciarpame. Che ci facciamo qui?"

"Se ti degnassi di aiutarmi con le borse invece di contemplare la porta, te lo farei vedere." commentò John, secco. Sherlock gli rivolse l'ennesima occhiataccia della giornata, poi però tornò indietro e prese a sua volta alcuni sacchetti, fino a che sul marciapiede non restò più nulla. A quel punto John avanzò verso la porta, suonò il campanello e restò in attesa, fino a che una donna sulla sessantina non venne ad aprire la porta.

"John, caro, ben arrivato! Su, su, entra, dammi qualche borsa!" esclamò la signora, scostandosi quanto bastava per permettere il passaggio. John sorrise e disse, entrando in casa:

"Non si disturbi, Mrs. Hudson, non sono così pesanti come sembra."

"Parla per te." bofonchiò Sherlock a bassa voce, ma abbastanza forte affinché John lo sentisse. Sherlock vide le sue spalle alzarsi e abbassarsi a causa del sospiro emesso, poi lo sentì dire:

"Mrs. Hudson, lui è Sherlock Holmes, il ragazzo di cui le avevo parlato."

La donna spostò istantaneamente lo sguardo su di lui e sgranò gli occhi, sorpresa. Sherlock la studiò per qualche istante in uno stato di perfetto silenzio e immobilità, per poi limitarsi a salutarla con un cenno del capo.

"Benvenuto, Sherlock, ben arrivato!" disse, gioviale. A quel punto guardò John, in piedi accanto a lei, e bisbigliò:

"Avevi ragione, caro, è davvero molto carino."

"Glielo avevo detto che non era male." mormorò John con un mezzo sorriso e Sherlock, più stranito che mai, decise di averne avuto abbastanza.

"John, possiamo lasciare giù le borse? Non mi sento più le braccia e le spalle mi urlano di dolore." si lamentò e John portò lo sguardo su di lui per un istante, tornando poi a Mrs. Hudson.

"È un problema se le lasciamo di sopra?" chiese e l'anziana scosse la testa, dandogli un colpetto sulla spalla.

"Nient'affatto, caro, andate pure."

"Grazie. Sherlock, vieni con me." disse John, iniziando a salire le scale. Sherlock roteò gli occhi, poi si decise a seguirlo: ora era tutto più chiaro. John l'aveva portato a fare la spesa per la casa di quella donna. Dio mio, che giornata sprecata! Passandole accanto, Sherlock si fermò davanti a Mrs. Hudson, riprendendo a studiarla come se niente fosse. L'anziana, un po' perplessa, lanciò uno sguardo a John, poi azzardò un:

"Credo che John ti stia as-"

"Aspetterà. Suo marito era uno spacciatore." osservò Sherlock, atono. La donna sollevò entrambe le sopracciglia in un'espressione sorpresa, gli occhi un poco spalancati.

"Sì, lo era, ma ora è-"

"Morto, sì. In America, giusto? Florida, probabilmente."

"Ma come fai a-"

"È una storia lunga. E comunque dovrebbe smetterla con l'erba: alla sua età non è molto salutare." commentò Sherlock, quasi annoiato. Mrs. Hudson, ad occhi sgranati, sbatté un paio di volte le palpebre, incredula, e John, che nel frattempo era tornato indietro per vedere che fine avesse fatto e aveva sentito tutto, esclamò, scioccato per quella scenetta:

"Sherlock!"

"Che c'è? È vero!"

"Lo so, ma non- senti, sali e basta."

"Ma John-"

"No, stai zitto e sali. Subito." ordinò John con fare perentorio, per poi rivolgere la sua attenzione a Mrs. Hudson, "Lo perdoni, Mrs. Hudson, a volte perde il controllo delle corde vocali."

"Non è vero!"

"Sì, invece, e stai zitto!"

"Oh, non ti preoccupare, John: non è la prima testa calda con cui ho a che fare." commentò la donna, rivolgendo un sorrisetto complice e un occhiolino a Sherlock, che invece la squadrava totalmente allibito. Riprese a salire le scale mentre la donna si voltava e spariva oltre una porta lungo un piccolo corridoio, lì al piano terra, e decise che quella era assolutamente la giornata più assurda che gli fosse capitata nell'ultimo periodo.

Raggiunse John al primo piano, entrando in un salotto spoglio, privo di qualsiasi elemento d'arredamento, fatta eccezione per i mobili base: due poltrone- a Sherlock piacque molto quella più moderna, fatta di morbidi cuscini di pelle grigio scura posizionato su uno scheletro di ferro... Era molto nel suo stile-, un divano, librerie lungo la parete con il caminetto, specchio alla parete, sopra il caminetto, un tavolo con due sedie posto tra due finestre. John era sparito oltre la porta di quella che Sherlock suppose essere la cucina e quando tornò indietro era sprovvisto delle sue borse.

"Allora," chiese, "che ne dici?"

"Dell'appartamento, intendi?"

John annuì, le braccia conserte. Sherlock si strinse nelle spalle, appoggiando i sacchetti a terra e facendo qualche passo nella stanza.

"Non saprei... Carino. Un po' spoglio, forse, si potrebbe migliorare. Mrs. Hudson si è appena trasferita?"

"No, lei... Lei abita al piano terra. Senti, Sherlock, io devo... Devo parlarti di una cosa. Una cosa importante." disse John, tornando agitato e sulle spine tutto d'un colpo. Sherlock percepì un rivolo di sudore freddo scendergli lungo la spina dorsale. Forse non era nulla, forse non avrebbe dovuto preoccuparsi... Ma nella sua mente gli scenari catastrofici e apocalittici avevano già iniziato ad ammassarsi e sovrapporsi e lui si stava già preparando al peggio.

"Cosa?" chiese, a fil di voce. John si inumidì le labbra con la punta della lingua, torturandosi le mani con fare nervoso. Ad un tratto tornò a guardarlo negli occhi e proruppe con un:

"Ieri sera ti ho mentito, Sherlock."

"Mi hai mentito... Riguardo a cosa?"

"Ad oggi: io non ero di riposo, oggi. Settimana scorsa, quando tu non eri lì, sono passato da Starbucks e ho chiesto a Molly i tuoi turni: quando ho saputo che oggi saresti stato di riposo, ho chiesto un giorno di permesso in ambulatorio." mormorò John e Sherlock aggrottò la fronte, confuso.

"Perché l'hai fatto? Il giorno di permesso, dico, perché?"

"Beh, in realtà non ho proprio preso un giorno di permesso, ho semplicemente finito un giorno prima di lavorare: mi hanno pagato meno, quindi erano anche contenti..."

"Non capisco, John. Perché tutto questo, qual'è la ragione?"

"Perché volevo e soprattutto dovevo portarti qui."

"Per 'qui' intendi 'qui a Londra'?"

"No, per 'qui' intendo 'qui qui', Sherlock. In questa casa." disse John e Sherlock inizialmente non capì. Poi però, alle spalle di John, notò qualcosa che lo raggelò: una stampa appesa al muro, la stampa di un teschio bianco su fondo nero. La stampa che lui stesso gli aveva regalato l'anno prima a Natale e che fino a poco tempo prima era appesa alle pareti di casa Watson, nel suo appartamento vicino all'università.

In quel momento tutto acquistò un senso e Sherlock capì: John che per un po' non l'aveva più portato a casa sua; la stampa che gli aveva regalato improvvisamente finita in un appartamento vuoto; la spesa di tutti quegli oggetti da casa, oggetti per una casa vuota; "Stiamo tornando a casa?" "Qualcosa del genere."; l'essere così schivo e riservato di John riguardo a tutta quella giornata e quel famoso progetto di cui non voleva parlargli, la fantomatica sorpresa... Dio, come aveva fatto ad essere così stupido?

"Questa non è una casa qualunque." mormorò, ricominciando a camminare lentamente per la stanza e poi fermandosi di nuovo e voltandosi verso John, "Ti stai trasferendo qui."

John annuì, tenendo lo sguardo fisso a terra. Sherlock prese un respiro profondo, poi chiese:

"Perché non me l'hai detto prima?"

"Volevo farti una sorpresa: il mio contratto in ambulatorio stava per finire e Mike- te lo ricordi Mike, no? Quello che studiava medicina con me, robusto e con gli occhiali- mi ha trovato un posto al St. Barts, qui vicino: lavora lì, stavano cercando qualcuno per un posto fisso e lui ha fatto il mio nome; ho fatto qualche settimana fa il colloquio e... Beh, mi hanno preso. Comincerò tra un mese."

"Oh. Sono... Sono felice per te, è una bella notizia. Ma come farai ad andare avanti in questo mese? Il trasloco, la spesa... Tutto."

"Ho messo un po' di soldi da parte per l'occasione. E il trasloco è già tutto pagato, mancano solo una manciata di scatoloni. I mobili qui ci sono già tutti, sai? Letto, tavoli, cucina... Tutto. Mancavano solo piatti, bicchieri e il resto delle cose che abbiamo comprato oggi."

"Ah. Quindi... Quindi oggi mi hai portato con te per scegliere biancheria e stoviglie."

"In pratica sì: a volte trovi i miei gusti orrendi, non volevo rischiare di scegliere qualcosa che non ti piacesse." mormorò John, imbarazzato e Sherlock inarcò un sopracciglio, per poi dire:

"John, apprezzo il pensiero, davvero, ma non è a me che questa roba deve piacere: dopo tutto, stiamo sempre parlando di casa tua."

"Io pensavo più a casa nostra, a dire il vero." sussurrò John, rivolgendo a Sherlock un'occhiata esitante. Il ragazzo sbatté un paio di volte le palpebre, sicuro di non aver sentito bene.

"Io non... Non c-credo di... Potresti ripetere, per favore, John?" balbettò, sconvolto. John sorrise, avanzando lentamente fino a quando non si trovò davanti a lui. "Casa nostra, Sherlock. Mia e tua."

"Nostra. Mia e tua. Nostra..." ripeté Sherlock, sempre più incredulo ad ogni tentativo. John abbassò lo sguardo sul pavimento, poi lo riportò di nuovo sul suo ragazzo e, intrecciando le mani con le sue, iniziò a spiegare:

"Il mio nuovo lavoro mi legherà a Londra, che mi piaccia o meno: per un po' ho pensato di fare la spola tra qui e Cambridge, non sono vicine ma mi sono detto che avrei potuto farlo. L'appartamento è in centro, è ben servito dai mezzi- la fermata della metropolitana è proprio qui a due passi- e alla fine il viaggio Londra-Cambridge è circa un'ora di treno, c'è gente che fa di molto peggio per lavorare. L'avrei fatto per te, solo per stare con te, non lo nego. Poi però mi sono reso conto che non avrebbe avuto senso: stai per laurearti, Sherlock, dopo l'università è chiaro che vorrai andare avanti con la tua vita e questo, conoscendoti, probabilmente avrebbe significato venire qui, a Londra. E allora ho pensato che potesse essere una buona idea: insomma, tutti e due a Londra, avremmo comunque avuto bisogno di un appartamento e sicuramente avremmo dovuto condividerlo per poterci premettere le spese- almeno, io avrei dovuto farlo. E poi ho conosciuto Mrs. Hudson: era con me in sala d'aspetto quando sono andato al Barts per il colloquio; abbiamo chiacchierato un po', mi ha detto della casa e ci siamo scambiati i numeri. Sai, in caso mi avessero preso e avessi avuto bisogno di una casa qui in città. Ma a parte tutto questo, il vero nocciolo della questione è che..."

John s'interruppe, emettendo una risata tremante con quella sua voce spezzata per l'emozione.

"Oh, Sherlock, io ti amo da impazzire, tu non sai neanche quanto. Voglio condividere ogni singolo giorno, ora, minuto e secondo, affrontare ogni ogni ostacolo, ogni novità e avvenimento con la persona che amo di più al mondo: voglio svegliarmi accanto a lei ogni mattina, voglio farci colazione insieme, vedere la TV, preparare l'albero di Natale e soffrire il caldo in estate, litigare per chi dovrà uscire a comprare il latte, passare notti insonni a fare l'amore... Voglio tutto questo con una sola persona e quella persona sei tu, sempre e solo tu e lo sarai per il resto dei miei giorni. Ho venticinque anni, non ho visto molto del mondo, ma so cosa voglio, l'ho sempre saputo da quel giorno, dal momento in cui ho capito di amarti alla follia: c'è solo una cosa che desidero più di ogni altra e questa cosa è trascorrere il resto della mia vita accanto a te, Sherlock Holmes. E questo mi sembrava un buon modo per iniziare a farlo."

Sherlock restò in silenzio, sgomento. Per un attimo, all'inizio aveva pensato che John stesse per mollarlo, non lo nascondeva. Ma questo... Dio, questo era davvero oltre ogni sua più ardita speranza. John lo amava davvero, voleva passare il resto della sua vita con lui, solo e soltanto con lui. Cielo, Sherlock faceva fatica a realizzarlo: lui provava esattamente lo stesso nei confronti di John, ma pensare che fosse proprio John a desiderare di non avere nessuno accanto che non fosse lui... Era incredibile.

Quella di John era... Era stata la più bella dichiarazione d'amore che avesse mai sentito. Nessun film, libro o poesia avrebbe potuto competere, ai suoi occhi: era stata incredibile, semplicemente meravigliosa ed era stata per lui. Tirò su con il naso e realizzò solo in quel momento di avere le lacrime agli occhi. Accidenti a te, John Watson, guarda cosa mi hai fatto..., pensò, asciugandosi gli occhi con una manica del leggero giubbotto che portava quel giorno.

"Hai... Hai fatto un bel discorso, davvero. Mirato, molto... Mmh-hm, molto efficace, d'effetto." mormorò e John chiese, inclinando lievemente il capo con fare un po' timoroso:

"E ha funzionato?"

Sherlock fece per rispondere, ma il suono di qualcuno che bussava alla porta lo distrasse. Entrambi volsero lo sguardo in direzione dell'ingresso del salotto e Mrs. Hudson fece la sua comparsa nel loro campo visivo.

"Allora, ragazzi, che ne dite? Vi piace?" chiese, tutta contenta; poi assunse un'aria più comprensiva e aggiunse:

"C'è un'altra camera vuota al piano di sopra, nel caso ve ne servissero due." Sherlock vide John arrossire e aprire la bocca per rispondere, ma fu più veloce.

"Credo che una sarà più che sufficiente, Mrs. Hudson." disse sorridendo e John strabuzzò gli occhi, voltando di scatto la testa verso di lui. Sembrava incredulo, ma a poco a poco la sorpresa lasciò spazio all'entusiasmo e alla felicità, mentre un sorriso si allargava sul suo volto e prendeva quello di Sherlock tra le mani, avvicinandolo al suo. Sherlock poggiò le dita sulle sue, ricambiando dolcemente quel sorriso e quello sguardo che John riservava solo a lui.

Mrs. Hudson provò una tenerezza indescrivibile guardando quella giovane coppia. Quasi si commosse nel vedere quanto si amassero, l'amore che provavano l'uno per l'altro. Capì che forse per momento era speciale per loro, unico e irripetibile; in punta di piedi fece dietrofront e li lasciò soli. Sherlock apprezzò molto quel gesto; alla fine quella vecchia signora gli era simpatica, sarebbero andati molto d'accordo.

"Era un sì, quindi?" chiese John, speranzoso. Sherlock sorrise.

"Per il resto dei miei giorni, John." sussurrò in risposta e John, trattenendosi a stento dal ridere, lo baciò con slancio, premendo le labbra sulle sue. Sherlock lo strinse a sé, ricambiando il bacio e lasciando che John si abbandonasse contro di lui. Entrambi soffocarono una risata sulla bocca dell'altro, ma andava bene così: erano giovani, innamorati, avevano un lungo avvenire davanti a loro, una vita intera davanti da vivere con coraggio, speranza e passione.

Insieme.

 

FINE


 

 

Note:
Ciao a tutti!
Eccoci qui, il momento è arrivato. Il Gran Finale! So bene che quella di settimana scorsa è stata una fine ingrata (e so anche di essere in ritardo con la pubblicazione, but Carry On My Wayward Son), ma credo di essermi fatta perdonare con questo epilogo francamente sdolcinato e lungherrimo. Siete d'accordo?
Ora, passando al capitolo: io credevo di aver avuto l'ideona del secolo, invece SBAM!, avete capito tutti che la ragazza era Harry. Però ehi, il dubbio è rimasto quasi a tutti e questo un pochino mi consola. Per la scena-sclero su Tiger e gli ananas ringraziate Chipped Cup, che su Twitter ha invocato a gran voce una OS a parte con questo prompt e io, lunga come una lumaca e indecisa come una malattia che sembra se ne vada poi ritorna, non avendo ancora finito l'epilogo ho pensato bene di inserirlo qui (la cosa divertente è che in tre settimane avrò scritto sì e no sette pagine, in due giorni diciannove, evviva le cadenze regolari). Oltretutto mi ha reso anche più divertente e credibile tutta la parte del 221B, quindi thank you very much, Sà <3. Però la scena di McDonald's è stata farina del mio sacco, perché se proprio devo fare una cosa trash tanto vale farla per bene... E scrivere di Sherlock in quella situazione, mezzo sclerato e tanto desideroso di asfaltare il suo Jawn, mi ha fatta morire dalle risate.
Io vi voglio ringraziare di cuore, a tutti quanti: grazie per aver letto, grazie per aver commentato, grazie per aver fatto questo viaggio con me e aver accompagnato questi due idioti alla fine, che poi sarà solo l'inizio della loro vita insieme. Ringrazio chi ha letto e basta, chi ha parlato con me della storia attraverso messaggi e recensioni, chi ne ha parlato ancora di più su Twitter e mi ha non solo fatta felice, ma innamorare ancora di più di questi due idioti e delle loro storie, del modo in cui solo loro sanno e possono amarsi. L'avrò ripetuto ormai trecento volte, ma davvero, non avrei mai pensato che questa storia avrebbe avuto un tale successo e invece eccoci qui. Grazie di cuore, a tutti voi <3
Parlando ancora di Twitter, in settimana ho lanciato un sondaggio per decidere quando pubblicare la prossima fic e, visti i risultati, tra qualche giorno inizierò a postarla. In ogni caso avviserò anche sul mio profilo, anzi se volete fare due chiacchiere mi trovate all'account @_damn_sherlock_
Bene, momento spam finito. Ancora, grazie di cuore a tutti, ad ognuno di voi.
Se volete farmi sapere che ne dite o semplicemente fare due chiacchiere, potete lasciarmi un messaggio, una recensione o semplicemente contattarmi su Twitter, parlare con voi è sempre bellissimo e, oltre a divertirmi, imparo sempre qualcosa di nuovo, sia dalle critiche che dalle chiacchiere.
Direi che... Beh, ho finito. Stavolta per davvero.
Un bacio e un abbraccio fortissimo a tutti, alla prossima!
Cami



P.S.: qualche settimana fa ho fatto questa cosa, una specie souvenir di questa fic, ma ho voluto aspettare la fine per allegarla alla storia
https://pbs.twimg.com/media/DGeoL7HXUAAbP_P.jpg

   
 
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