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Autore: Blablia87    10/08/2017    6 recensioni
Piccola raccolta di one shot e flash a tema Johnlock.
Poco più che brevi barlumi, senza una precisa collocazione temporale.
(Il rating può variare)
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Prompt
: “Hospital visits”
Tipo di coppia: Slash (Johnlock)
Rating: Verde

 
 
 

Famiglia
 
 

«Mi dispiace, non posso farla entrare.» L’infermiera alzò le spalle, scuotendo la testa. «Oltre l’orario di visita sono ammessi solo i parenti» spiegò, in un inglese incerto, indicando il cartello alle proprie spalle.
Sherlock lesse l’avviso con aria insofferente, sillabando ogni parola con le labbra socchiuse.
«Très bien» rispose dopo qualche secondo, rispolverando dal Mind Palace tutto il francese del quale fosse a conoscenza e abbassando gli occhi sulla donna. «Je pense que nous pourrions obtenir un accord.»
 
«Bonjour chéri» esordì qualche minuto più tardi, entrando trionfante nella piccola stanza dove John – la gamba destra tenuta in trazione da grosse corde metalliche – stava riposando, la testa reclinata da un lato e le mani strette sul petto.
Il medico socchiuse gli occhi, confuso. Impiegò qualche secondo prima di riuscire a mettere a fuoco il profilo dell’altro, in piedi di fianco alla porta.
«Sherlock…» sussurrò, rauco, cercando di mettersi seduto. «Pensavo ti avessero fatto uscire…» aggiunse, un sollievo evidente nella voce.
«Visto la tua pressoché nulla conoscenza dell’idioma parlato dal personale medico, era impensabile che ti lasciassi solo e mi limitassi a farti visita per due misere ore al giorno» ribatté il detective, avvicinandosi al letto. John aggrottò la fronte, sbattendo un paio di volte le palpebre. «Sono i farmaci, o hai appena esposto un pensiero gentile riuscendo comunque a darmi dell’incompetente?» rise, fingendosi offeso. «Ad ogni modo, non ho capito cosa hai detto entrando, poco fa.»
«Nulla, era sol-» cominciò Sherlock, interrotto dal suono di passi lungo il corridoio. L’infermiera si affacciò nella stanza, un sorriso dolce sul viso. «Vous allez bien?» domandò al detective, lanciando un’occhiata complice a John. Lui sollevò un sopracciglio, disorientato.
«C'est bon, merci» la tranquillizzò Sherlock, chiudendo la mano destra del medico nella propria. John avvampò di colpo, spalancando gli occhi e la bocca. «Che…» cominciò. Il detective si girò verso di lui, facendogli un veloce occhiolino e aumentando la presa attorno alle sue dita.
La donna li osservò per qualche secondo con aria complice, prima di salutare e chiudere la porta dietro di sé. Per un lasso di tempo imprecisato, i due rimasero immobili. John basito, gli occhi fissi sulla mano del detective. Lui in piedi accanto al letto, concentrato sul calore che sentiva irradiarsi sotto il palmo.
«Sherlock…?» provò il medico qualche istante dopo, il viso in fiamme.
«Come?» sembrò scuotersi lui, girandosi verso l’altro. «Ah, sì. Certo» commentò, liberando la mano di John dalla sua stretta.
«Mi vuoi dire cosa sta succedendo…?»
«Nulla di importante» rispose il detective, andandosi a sedere su una delle poltrone a lato del letto. «Ho dovuto dire una piccola bugia, per poterti garantire una mia presenza costante come sostegno e interprete.»
«Che tipo, esattamente, di bugia?» si informò John, continuando a guardarsi la mano. La sensazione della pelle dell’altro stava scomparendo poco a poco e, si rese conto, la cosa lo rattristava.
«Una sciocchezza» replicò Sherlock, cercando una posizione comoda per riuscire a riposare. «Ho detto loro che siamo sposati.»
«Tu… Cosa?» balbettò John, iniziando a tossire convulsamente, la saliva incastrata in gola.
«Erano ammessi solo i parenti, quindi mi sono informato su che tipo di controllo applicassero per la verifica della familiarità» rispose il detective, senza scomporsi. «È venuto fuori che era sufficiente compilare un modulo ed assumersi, in caso, ogni responsabilità di un’eventuale falsa dichiarazione» terminò, alzando le spalle con noncuranza. «Dubito che verranno mai a Londra a contestarmi un reato minore compiuto a Parigi.»
«Per… questo, mi hai preso la mano?» domandò il medico, sollevando con un certo sforzo gli occhi dalle proprie dita.
«Una copertura, per poter risultare credibile, necessita di piccoli accorgimenti. Da’ alle persone ciò che si aspettano di vedere, e non noteranno nient’altro.» Il detective si lasciò scivolare in avanti, allungandosi in diagonale sulla seduta.
John rimase ad osservarlo, in silenzio, per qualche secondo. Con il collo piegato in modo innaturale e le gambe lunghe e magre quasi per intero fuori del cuscino della poltrona, sembrava quasi fragile, indifeso. Improvvisamente non era più il grande Sherlock Holmes, il detective delle incredibili capacità che lo aveva trascinato sino in Francia per riuscire ad assicurare alla giustizia un pericoloso latitante. Non era più nemmeno la persona carica d’ira cieca che aveva minacciato di morte il fuggitivo – prima che il tempestivo arrivo della polizia gli impedisse di compiere qualche gesto avventato – perché, durante la colluttazione seguita al suo tentativo di fuga, gli aveva spezzato tibia e perone in vari punti. Era un uomo che, senza lamentarsi, cercava di trovare una posizione adatta a poter riposare su una poltrona troppo piccola per lui.
Un pensiero improvviso attraversò la mente del medico come una lama: non avevano fatto altro, da quando si erano conosciuti. Si erano adattati l’un l’altro giorno dopo giorno, a costo di stare scomodi, pur di non lasciare mai l’altro da solo. E, sebbene Sherlock lo avesse fatto sempre in modi tanto bizzarri da risultare spesso molesti, non c’era stato un solo momento importante nel quale non fosse stato presente.
«Non puoi dormire in quella posizione» sussurrò John, spostandosi di lato per quanto reso possibile dai ganci che gli ancoravano la gamba alla struttura metallica posta attorno al letto.
«Non dormo. Riposo» rispose l’altro, scivolando ancora un po’ in avanti.
«Certo. Dimentico che il grande Sherlock Holmes non dorme mai» sorrise il medico, battendo la mano nello spazio libero che si era venuto a creare di fianco a lui. «Puoi riposare qui, se vuoi» suggerì, spostandosi ancora di qualche centimetro. «Questo letto è enorme. E non credo ti faranno storie, visto che siamo sposati» aggiunse, con tono allegro.
Sherlock alzò un sopracciglio.
«Domani mattina dovrai andare a rilasciare una dichiarazione su quanto successo, non credo tu voglia andarci con la schiena a pezzi» insistette John.
«La mia schiena starà benissimo» lo tranquillizzò il detective, con fare sbrigativo.
«Come vuoi» si arrese l’altro, riportandosi al centro del materasso e affondando la testa nel cuscino.
Rimasero in silenzio qualche secondo, entrambi con gli occhi chiusi.
«Pensi ma a come sarebbe?» chiese John in un sussurro, quando il silenzio iniziò a sembrargli troppo pesante. Le palpebre ancora abbassate, ebbe la sensazione che l’aria fosse divenuta elettrica, così come i suoi respiri.
«Come sarebbe cosa?» Sherlock socchiuse gli occhi, accigliandosi.
«Essere sposato. Avere una famiglia tua» rispose il medico, rimanendo immobile.
«Il concetto di famiglia è ampio» replicò il detective e, per un istante, la sua voce parve tremare. «Potrei affermare di averne già una, ad esempio. Formata da me, il mio lavoro… e te.»
John socchiuse le labbra, sorpreso, voltandosi in direzione dell’altro. «Mi ritieni la tua famiglia?» sussurrò, il respiro fermo al centro del petto.
«Il significato etimologico di “famiglia” è “piccola comunità di persone che abitano nella stessa casa". Come vedi…»
«Avanti, sai che non intendevo “famiglia” in senso etimologico» lo interruppe John, sospirando. «Intendo: non pensi mai a come sarebbe trovare qualcuno da amare, con il quale progettare il futuro…»
«Perché dovrei» ribatté Sherlock, aiutandosi con le mani a tornare seduto in modo corretto.
«Perché è nella natura degli esseri umani creare legami, e cercar-»
«Non è nella mia natura cercare qualcosa che già possiedo. Perché dovrei comprare – o desiderare - un nuovo pacchetto di sigarette se ne ho già uno nascosto sotto il divano?» spiegò, portando le mani davanti a sé.
«Tu… cosa? Pensavo di averli buttati tutti!» John prese un profondo respiro, scuotendo la testa. «Okay, va bene. Di questo parleremo poi. Comunque non credo tu abbia colto il punto.»
«No, John, sei tu a non averlo colto» commentò il detective, con voce bassa.
Il medico aggrottò le sopracciglia, confuso.
«Non ho bisogno di immaginare come sarebbe, avere una famiglia» sussurrò Sherlock, alzando le spalle. «Perché ne ho già una.»
«È bello che tu pensi a me e al tuo lavoro come a una famiglia, ma ci sono tanti aspetti che non prendi in considerazione, facendolo. Ad esempio l’affetto, l’amore, il coinvolgimento sentimentale e fisico, e…» John si bloccò, gli occhi immobili sul volto serio dell’altro. «Aspetta… In realtà tu li prendi in considerazione, non è vero?» balbettò poi, mentre la verità diveniva limpida davanti ai suoi occhi. «Dio…» esalò, agitato. «Certo che li prendi in considerazione… quando mai hai tralasciato un aspetto, nel formulare un’affermazione…»
Sherlock abbassò gli occhi per qualche secondo, deglutendo. Poi li riportò sul viso dell’altro, cercando di rimanere impassibile. «Come ho già ribadito, non è mia abitudine cercare qualcosa che già possiedo. Che la mia idea di famiglia non sia condivisa da un altro membro della stessa è, ai fini del mio sentirmici parte, ininfluente. Adesso, se vuoi scusarmi, credo che andrò a fumare una delle sigarette del pacchetto nascosto nella nostra stanza d’albergo» terminò, alzandosi.
«Ho sempre pensato non ti interessassero, queste cose» ammise John, con voce roca, osservando l’altro indossare con un veloce movimento di spalle il proprio cappotto.
Sherlock si bloccò, guardandolo con aria interrogativa.
«Tutti quei discorsi sull’amore, su come renda sciocchi, fragili, e andrebbe evitato…» continuò il medico, un sorriso amaro sul viso.
«L’amore rende fragili, logora i rapporti, e andrebbe evitato» confermò il detective. «Ne stiamo avendo una prova lampante proprio adesso» sottolineò, iniziando a chiudersi i bottoni del soprabito.
«L’amore rende fragili se si sceglie di maneggiarlo come se fosse un’arma.»
«Io ho scelto anni fa di non maneggiarlo affatto. Eppure, eccone le schegge.» Sherlock si portò le labbra tra i denti, lasciando vagare lo sguardo nella stanza per qualche secondo. «Sarò di ritorno prima del prossimo giro di visita.»
«Non…» iniziò John, puntellandosi sulle mani per potersi tirare più su possibile. «Potresti non andartene, per favore?» chiese, con voce bassa.
Il detective inclinò la testa da un lato. «Non ho intenzione di continuare a parlare di questo, se è quello che vuoi fare» chiarì, nel tono una durezza che John non aveva mai sentito prima.
«Va bene» acconsentì il medico, annuendo. «Non parlare di questo, se vuoi. Ma ho bisogno di farlo io. Perché è questo che si fa, in una famiglia.»
«John.»
«Quindi adesso siediti e lascia che dica io un paio di cose» continuo John, senza dar segno di averlo sentito. «Sono anni, anni, che ti sento ripetere quasi quotidianamente quanto i rapporti siano poco più che meri strascichi dei nostri istinti atavici…»
«A ben guardare non è possibile negarl-»
«Quanto chi ama sia debole, irrazionale, menomato.»
«Anche questo…»
«Sono anni che mi sento un completo idiota, davanti alla tua algida figura da virtuoso del pensiero, da incorrotto portatore della verità su cosa sia da uomini savi e cosa da bestie irrazionali.»
«Non ho mai dett-»
«Sono anni, maledizione, che sbatto come una mosca contro un muro di gomma, cercando di trovare qualcuno in tutta Londra che possa anche solo per un secondo adombrare la tua onnipresente figura nella mia povera mente da uomo normale, che riesca a oscurare, e zittire, quella voce nella mia testa che ripete senza tregua da quando ti ho conosciuto che mai nessuno in nessuna parte del mondo sarà mai abbastanza per prendere il tuo posto nella mia esistenza, anni che giro come un satellite cieco attorno ad un pianeta che non mi scorge se non quando mi trovo ad oscurare per qualche secondo la sua visuale rispetto ad un enorme sole di raziocinio e logica, e tu, oggi…»
Le labbra del detective premute con forza contro le proprie, John sentì le parole spengersi in gola. Tutta la frustrazione percepita fino ad un attimo prima scomparve tra le mani fredde dell’altro, che gli racchiudevano il viso con una presa salda ma delicata.
Si staccarono, senza fiato, qualche attimo dopo, rimanendo a fissarsi in silenzio.
«Vuoi…?» riuscì a dire John, dopo un paio di tentativi, tornando a spostarsi di lato rispetto al materasso.
Sherlock - con un movimento lento e fluido - si sdraiò accanto a lui raggomitolandosi in posizione fetale, la testa china sul petto e vicina a quella dell’altro.
«Forse dovresti toglierti il cappotto, sai?» commentò il medico, cercando di parlare normalmente nonostante il frastuono del proprio cuore che si agitava nel petto.
Il detective si sfilò il soprabito senza alzarsi, lasciandolo cadere a terra.
«Da quanto… Da quanto pensi che siamo una famiglia?» domandò John in un sussurro, quando il silenzio divenne troppo prolungato.
«Dal primo giorno, penso. Non ricordo con precisione, all’epoca tendevo a catalogare i ricordi legati alle emozioni per aree troppo vaste1)
«Adesso non lo fai più?»
«Non quelli che riguardano te, no» mormorò il detective, alzando un po’ la testa.
John prese un respiro profondo, cercando di combattere la commozione che sentiva premere all’altezza del petto. Si chinò verso il detective, sforandogli la fronte con la propria.
«E tu? Da quando ti senti “un satellite cieco”?» domandò lui, serio.
«C’è stato un pomeriggio, circa tre mesi dopo il mio trasferimento Baker Street, nel quale sono uscito dalla clinica pensando che ero davvero felice di tornare a casa» ricordò John, cercando di girarsi verso l’altro senza mettere in tensione i fili che sorreggevano la gamba. «Mentre mi avviavo verso la metro, all’improvviso, mi sono reso conto che “casa” non significava più Baker Street, ma te» confessò, impacciato. «Perché diamine abbiamo aspettato che finissi ricoverato in una clinica francese, per dirci tutto questo?»
«Non lo so» ammise Sherlock. «Forse perché non ho mai dovuto fingere che fossimo sposati, prima di oggi» ipotizzò, aprendosi in un sorriso impacciato. John rimase qualche secondo immobile, osservando con meraviglio il viso dell’altro illuminarsi.
«A tal proposito…» sussurrò il medico, incantato, portando una mano sul volto del detective. «Grazie, per essere rimasto.»

«Sei la mia famiglia» rispose semplicemente il detective, in un sussurro, chiudendo gli occhi.

«E tu la mia» aggiunse John, le labbra a sfiorare quelle dell’altro.
 
 
 
 
 
Note:
 
1) Sto leggendo un libro, interessantissimo, dal titolo “Mastermind: pensare come Sherlock Holmes” di Maria Konnikova.
Nel testo si analizza il metodo di pensiero di Holmes (in opposizione a quello di Watson, più simile a quanto messo in opera ogni giorno da tutti noi), insegnando metodi per allenare la mente a ragionare in modo più pulito e logico.
Oltre che una buona guida, è anche un appassionante viaggio nell’intelletto del nostro amato detective, e ne consiglio caldamente la lettura. :)
So che la frase al termine della quale ho aggiunto la nota potrebbe sembrare “poco sentimentale”, considerando che Sherlock ammette di non ricordare con esattezza il momento nel quale ha iniziato ad amare John.
Ma leggendo il libro della Konnikova si impara presto che non è facile fissare un ricordo se, mentre lo si vive, non si ha la sensazione forte che sia indispensabile e vada custodito. E Holmes è il primo a definire la propria mente come un contenitore dove scegliere accuratamente cosa inserire o meno.
Ho immaginato che, semplicemente, un giorno abbia guardato John e si sia reso conto in modo coscientemente di amarlo e di averlo sempre fatto.
Non potendo recuperare ricordi cancellati (la prima volta che ha sentito lo stomaco contrarsi vedendo l’altro, ad esempio, sensazione sulla quale magari non si era focalizzato, preso da caso o da un esperimento), ha volutamente scelto di custodire gelosamente tutti i successivi.
Non lo so, mi sembrava una scelta romantica, vista nell’ottica “Sherlock Holmes”. ^_^’’



Angolo dell’autrice:
 
Ancora una volta, grazie.
Sto diventando (ma ho il sospetto di esserlo sempre stata! XD) ripetitiva, me ne rendo conto. Spero che possiate perdonarmi. ^_^’’
Mancano 19 giorni al rientro. La casa è completamente a soqquadro, e la mia mente assieme a lei.   
Scrivere queste piccole OS mi sta aiutando molto, e spero che possano essere una buona compagnia anche per voi.
 
A presto,
B.
 
   
 
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