Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    19/08/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

“Mio figlio non ha mai fatto nulla senza il mio permesso.” disse Elisabetta Aldovrandini, gli occhi spenti e il naso lungo puntati verso il Doge: “E non inizierà certo ora a fare diversamente. Se io gli dirò di seguire i patti, lui li seguirà. Pandolfo non muove un passo, senza che sia io a guidarlo.”

Agostino Barbarigo ormai aveva già deciso di firmare l'alleanza che quella strana donna era venuta a proporgli, ma, chissà perché, lo intrigava sentirla parlare.

Rimini era un avamposto importante per Venezia e i termini dell'accordo erano favorevoli tanto alla Serenissima, quanto al Doge in persona.

L'unica remora, per il momento, che aveva fatto tentennare per tutti quei giorni Barbarigo, era stata la fama di Pandolfo Malatesta, tanto disprezzato dai suoi stessi sudditi da essere chiamato da tutti Pandolfaccio.

“Vostro figlio è il signore di Rimini, però, non voi.” disse l'uomo, infastidito dal grattare della punta della penna del suo segretario sulla pergamena.

Detestava quella mania che colui aveva di segnarsi tutto, ma doveva ammettere che a volte tornava molto utile. Soprattutto con gente astuta come quella Elisabetta Aldovrandini che ora si trovava davanti.

La madre del Pandolfaccio non era più giovane, eppure conservava un fisico asciutto e un volto quasi privo di rughe. La sua espressione era ciò che di più strano il Doge avesse mai visto in vita sua. Sembrava uscita da un racconto che parlava di malefici e fantasmi.

Per un breve istante, fu portato a chiedersi se la storia che la voleva come mandante dell'omicidio di Raimondo Malatesta fosse vera.

Se la fosse stata, allora quella donna, con le sue labbra piccole e strette e il suo passo da uccellino in gabbia, sarebbe stata capace di far travestire il figlio appena diciassettenne da mendicante, e di fargli raggiungere con quell'inganno Raimondo e poi farglielo pugnalare a morte.

Con un brivido lungo la schiena, il Doge si passò una mano inanellata sulla barba candida, mentre Elisabetta, senza batter ciglio, rispondeva: “Finché sarò viva io, mio figlio farà solo quello che voglio io e per voi non sarà un problema.”

“Voi non siete eterna.” ribatté Barbarigo, sempre più sconcertato dal tono indifferente con cui la madre di Pandolfo stava portando avanti le trattative.

“Non lo sono – confermò l'Aldovrandini – ma non sono nemmeno vecchia, né malata. Penso io a tenere a freno mio figlio. Firmate.”

Scuotendo piano il capo e pensando che quella sarebbe comunque stata la naturale fine della loro diatriba, il Doge afferrò la boccetta d'inchiostro e si apprestò a mettere il suo nome in calce a quel documento pieno di correzioni e strafalcioni.

“Vorrei comunque ricordarvi – disse Barbarigo, senza trattenersi, mentre firmava – che vostro figlio ha formalmente danneggiato la nostra fazione, andando contro i nostri nel cesenate, non molto tempo fa. I nostri richiami sono caduti nel vuoto, almeno finché voi non siete giunta qui.”

“Il passato è passato.” disse Elisabetta, quasi annoiata.

“Ma il presente è presente!” esclamò il Doge, scomponendosi per la prima volta: “Vostro figlio si è anche impicciato nella guerricciola tra i Martinelli e i Tiberti e questo non lo doveva fare! O almeno doveva parteggiare per il faentino e non per i Martinelli, che sono nostri nemici!”

L'Aldovrandini fece un lento respiro e poi concesse: “Gli è stato chiesto un aiuto e lui l'ha fornito, sotto buon compenso. Anche se la guerra è in territorio di competenza dei Manfredi, non potete dire che voi ne siate stato danneggiato.”

Il Doge si morse il labbro. Quello che gli stava dicendo era vero. Il suo impegno di correre in aiuto di Faenza, se lo scontro si fosse fatto troppo imponente, era solo un mucchio di belle parole. Per ora nemmeno un arciere era partito da Venezia alla volta della Romagna.

“Ora conviene anche a voi questa alleanza.” concluse la donna, riprendendosi la pergamena ormai firmata e facendo una riverenza prima di andarsene.

Barbarigo sbuffò, quasi divertito e poi, con un mezzo sorriso, disse al suo segretario: “Fossi in suo figlio, anche io ne avrei paura.”

 

“Alzatevi.” sibilò Caterina, quando si trovò davanti Achille Tiberti in ginocchio nel mezzo dello studiolo del castellano.

Con lentezza, l'uomo si mise in piedi, ma tenne la testa bassa e gli occhi sbarrati. Se non fosse stato abbastanza orgoglioso da riuscire evitarlo, probabilmente sarebbe scoppiato a piangere.

La Contessa fece cenno a Cesare Feo di lasciarli soli e il castellano, abituato a essere estromesso dai colloqui privati della sua signora, se ne andò chiudendosi la porta alle spalle.

La Tigre aspettò qualche momento, prima di affrontare apertamente Tiberti. Andò al camino e si scaldò un attimo le mani. Poi passò accanto alla poltrona che era stata di Giacomo, ma preferì sedersi dietro alla scrivania, convinta che quella fosse una postazione più formale.

“Che cosa siete venuto a dirmi? Che avete perso? Che la situazione vi è scappata di mano? Che avete bisogno di aiuto?” chiese la donna, giocherellando con il tagliacarte di Cesare.

Achille deglutì e, invece di parlare, si limitò a far cenno di sì con il capo.

Caterina lo osservò attentamente. Era in abiti da guerra, con tanto di armatura. Portava addosso il tanfo della battaglia e il sangue, lavato via solo in parte dalla pioggia che doveva aver incontrato lungo la strada, era ancora ben riconoscibile.

“Sapete cosa comporterebbe, un mio ingresso in questa vostra inutile guerra?” chiese la Contessa, parlando molto lentamente e apparentemente senza rabbia.

Quella lieve apertura convinse Achille a sollevare lo sguardo. La sua signora continuava a passarsi tra le mani il tagliacarte. La lama, corta e sottile, ma molto affilata, agitò il Capitano in modo irrazionale.

“Io... Io... Non...” iniziò a balbettare Tiberti, la gola prosciugata e il cuore che correva come un puledro impazzito.

“Se io entrassi armata nelle terre di Astorre Manfredi – spiegò la Tigre, con calma – la mia azione verrebbe vista come un'ingerenza nei loro affari.”

“Ma voi siete alleata dei Manfredi...” soffiò Achille, giocandosi la carta del disperato: “Vostra figlia, madonna Bianca, è la mogli di Astorre Manfredi...”

Gli occhi verdi di Caterina corsero ai suoi con una rapidità e un'aggressività che lo fecero retrocedere di mezzo passo: “La mia alleanza con Manfredi è solo fumo negli occhi. Quel matrimonio, per ora, non vale niente.”

L'uomo non sapeva più cosa pensare e sentiva la gamba dolente cedergli sotto il peso della fatica, della paura e dell'armatura. Avrebbe dato qualunque cosa per potersi riposare, ma sapeva che non poteva cedere. Aveva promesso a se stesso che avrebbe tentato il tutto e per tutto per salvare suo fratello Palmerio.

“Se non volete aiutarmi, almeno non punitemi... Lasciatemi ripartire. Giuro che non vi darò più noia...” fece l'uomo, ricadendo in ginocchio.

La Tigre si alzò, aggirò la scrivania e, piantandosi davanti a lui, lo invitò a guardarla in volto: “Che cosa sta succedendo a Civitella?”

Achille spiegò con un buon numero di dettagli tutti gli eventi che lo avevano portato a correre a Forlì a tentare di ottenere il suo aiuto. Caterina capì subito dove erano stati gli errori dei fratelli Tiberti e si rese anche conto che, con i miseri fondi dei due, sarebbe stato impossibile fare altrimenti.

“Pandolfo Malatesta sta sostenendo i vostri avversari?” chiese, corrucciandosi, sentendo come Achille avesse descritto lo stemma dei Malatesta dipinto sugli scudi di alcuni nemici.

“Sì, mia signora.” confermò l'uomo, non riuscendo a capire se quella notizia giocasse a suo favore o sfavore.

“Cosa mi dareste, in cambio del mio aiuto?” chiese la donna, le braccia lungo i fianchi e le labbra strette in una linea severa.

“La mia vita.” rispose prontamente Achille, sentendo un vuoto all'altezza del cuore per il sollievo.

“E che me ne faccio, io, della vostra vita?!” sbottò Caterina, che trovava quelle frasi a effetto prive di significato, in momenti tanto seri.

“La mia fedeltà, la mia spada, il mio tempo, qualunque cosa.” riparò Tiberti, prostrandosi ai suoi piedi.

Con un calcetto, la Leonessa lo fece rialzare: “Avete ancora contatti nel cesenate?” chiese.

L'uomo ci pensò e poi annuì.

“Allora, oltre a essere al mio completo servizio, vi occuperete di curare la diplomazia per me in quelle zone. E poi, in primavera, farete guerra a Pandolfo Malatesta. Ma a titolo personale.” elencò la Contessa: “Se ci saranno ritorsioni, sarete voi a pagare, ma se vincerete, sarò io a prendermi il bottino.”

Tiberti avrebbe accettato qualunque cosa, perfino di strapparsi il fegato di pancia e mangiarselo lì dov'era, perciò accettò subito: “Lo farò! Lo farò, mia signora! Grazie, siete così clemente! Io vi ringrazio...”

“Predisporrò affinché una colonna di soldati riparta con voi entro domattina.” concluse Caterina, scansando le mani sporche di sangue di Achille, che cercavano il bordo del suo vestito come quelle di un penitente davanti alla statua di un santo: “Vi darò anche dell'artiglieria. Chiudete questa questione in fretta e non fate nulla per irritare i Manfredi. Niente saccheggi, niente razzie e nessuna scorreria sulle città vicine a Civitella.”

Tiberti annuiva febbrilmente e, quando la Tigre lasciò intendere che il colloquio era concluso, l'uomo scoppiò a piangere di gioia.

Una volta fuori dallo studiolo, Caterina dovette reprimere un moto di ribrezzo, nel sentire i singhiozzi del Capitano. Non sopportava vedere uomini del calibro di Tiberti ridursi in certi stati.

Se non fosse stata guidata dal buon senso, quell'accesso di pianto dirotto, probabilmente, le avrebbe fatto cambiare repentinamente idea.

 

Juan Borja guardava il pentagono di torri del castello di Bracciano e la bandiera francese che sventolava irrispettosa e arrogante dalla finestra più alta.

Il campo era stato allestito a distanza notevole, eppure da lì la vista era pressoché perfetta e questo, purtroppo, si stava rivelando una lama a doppio taglio, per il figlio del papa.

Se da un lato gli altri comandanti erano felici di aver trovato un punto d'avvistamento così favorevole, dall'altro quella posizione privilegiata imponeva al giovane Borja di inventare e pianificare attacchi sorprendenti e letali.

Invece il rampollo romano non faceva altro che proporre azioni prive di senso pratico, perfino puerili, degne di un ragazzetto che si barcamena per la prima volta con esercizi sterili di tattica e strategia militare.

Erano lì ormai da qualche giorno e non aveva fatto altro che piovere. Juan sentiva le ossa rammollirsi in quell'umidità e rimpiangeva sempre con maggior forza i salotti spagnoli o anche quelli romani. Non poteva nemmeno indossare i suoi begli abiti. Tutto quel fango li avrebbe rovinati.

E così vagava vestito come un soldataccio qualunque, mesto in viso e con lo stomaco perennemente sottosopra.

Non riuscendo a ottenere il benestare degli altri comandanti a sferrare un attacco, Juan stava prendendo tempo componendo editti futili in cui inneggiava a se stesso, a suo padre e alla loro causa, incitando i nemici a disertare le fila degli Orsini e tradirli.

Ovviamente, ancora nessuno di loro aveva deciso di seguire il caldo consiglio del Borja. Anzi, era probabile che stessero ridendo di lui, oltre le spesse mura di cinta del castello di Bracciano.

“Guidobaldo da Montefeltro è qui.” avvisò uno dei sottoufficiali di Juan.

Il giovane, le cui guance smunte erano coperte ormai di barba rossiccia, dato che non aveva nemmeno più trovato la voglia di radersi o trovare qualcuno che lo facesse per lui, trattenne un sospiro e rientrò nella sua tenda, in attesa del Duca di Urbino.

Quella volta aveva avuto una bella idea. Gli era stata suggerita, ma poco contava. Aveva deciso di attaccare Trevignano. Se avessero preso quella città, forse Bartolomea Orsini avrebbe deciso di arrendersi.

“Comandi.” disse Guidobaldo, entrando nel padiglione.

Grondava di pioggia e la sua armatura era tutta scheggiata. Malgrado la giovane età, il suo viso lungo lasciava trasparire una sicurezza di sé che Juan gli invidiò in modo talmente viscerale da odiarlo all'istante.

“Preparate i vostri soldati, Duca.” disse il figlio del papa, raddrizzando le spalle nella speranza di apparire più credibile: “Ho deciso di attaccare e voi attaccherete con me.”

 

Giovanni stava salendo le scale della rocca, diretto alla sua stanza, due gradini alla volta. Teneva in tasca una lettera appena arrivatagli che gli confermava che il suo piano stava andando a gonfie vele.

Di solito, non era incline a sfruttare la ricchezza della sua famiglia per mettersi in mostra, ma quella volta, aver speso un po' dei suoi preziosi fiorini, avrebbe potuto tornargli utile per far capire alla Contessa quanto fosse interessato a lei.

Non era sua intenzione fare regali costosi a tutti i costi, ma era deciso a fare dei regali – o almeno quello personale per lei – che la colpissero per l'idea. Per puro caso, l'idea si era rivelata molto esosa.

“Buongiorno, ambasciatore.” fece la Tigre, che era all'imboccatura della scala.

Giovanni, facendo l'ultimo gradino, ricambiò con un breve inchino: “Mia signora.”

“Vi vedo in gran forma.” notò la donna, che aveva seguito con discrezione dall'alto tutta l'ascesa del fiorentino.

I suoi movimenti erano agili e scattanti. Proprio come la prima volta che l'aveva visto, a Caterina diede l'impressione che fosse più giovane dei suoi ventinove anni.

Sistemandosi due riccioli ribelli che erano scivolati sulla fronte, il fiorentino assicurò: “Mi sono ripreso in modo eccellente, questa volta. E vi ringrazio moltissimo per i ricostituenti che mi avete fatto portare.” aggiunse l'uomo.

“Per così poco.” minimizzò Caterina.

Il Popolano avrebbe preferito se fosse stata lei a portarglieli, ma aveva apprezzato ugualmente il gesto, anche se il flacone era stato affidato a un servo tanto maldestro che per poco non l'aveva lasciato cadere in terra.

“Ho visto partire una nuova colonna di soldati, stamane...” abbozzò Giovanni, le iridi chiare che indugiavano sul volto armonioso di Caterina.

“Vedo che ogni tanto vi ricordate di fare l'ambasciatore per Firenze.” lo pungolò Caterina.

Il Medici arrossì violentemente per quell'insinuazione: “Voi potrete anche essere convinta del contrario, ma la mia era una domanda innocente. Mi chiedevo solo se stesse andando tutto bene...”

“Mi hanno trascinata in una guerricciola inutile.” disse la Contessa, a denti stretti: “E ho accettato di aiutare Tiberti solo perché è stato un soldato fedele nei miei confronti. Non è da me lasciarmi trascinare da certi sentimentalismi...” commentò, come tra sé.

“A volte fa bene, seguire l'istinto.” provò a dire Giovanni, mentre con un passo si faceva più vicino.

“Madre!” la voce un po' acuta di Bernardino arrivava dal fondo delle scale.

La donna guardò giù, appoggiandosi al corrimano e quando vide il suo figlio più piccolo salutare con la manina, gli chiese: “Mi stavi cercando?”

Bernardino annuì e aggiunse: “Ho imparato a tendere l'arco!”

“Aspetta, arrivo a vedere.” assicurò la donna.

In quel momento, Caterina aveva sotto il suo sguardo sia Giovanni sia il figlio nato dall'amore con Giacomo. Per una frazione di secondo, quella scena le fece venire una strana vertigine.

Il Medici tirò un sospiro, e si scansò per permettere alla donna di raggiungere i gradini.

Passandogli accanto, la Tigre concluse il loro discorso dicendo: “Seguire l'istinto a volta va bene, avete ragione, ma questa volta so che mi sto cacciando da sola in grosso guaio.”

 

“Eccolo là! Il Macchia!” delle voci sguaiate e delle risate riecheggiarono per la via Larga.

Niccolò Machiavelli, con un riflesso ormai inconscio, si portò nervosamente le mani al ciuffo di fittissimi ricci neri, ribelli e indomabili che troneggiava sul lato della sua testa, come una scomoda dichiarazione di guerra contro il mondo intero.

Mentre il suo proverbiale sorriso, stampato sul viso asciutto dall'alba al tramonto, si faceva appena più freddo nell'accostare il gruppo di giovani fiorentino che l'avevano apostrofato poco prima, Niccolò ricambiò il saluto, ma senza andare oltre un breve cenno del capo.

Il cielo era livido e il venticello freddo che spirava dall'Arno prometteva neve. Perfino l'odore dell'aria suggeriva l'imminente arrivo, quanto meno, di una bella gelata.

“Allora?” lo fermò uno, staccandosi dal muro contro cui si era appoggiato: “Cosa avete oggi da dire, segretario della seconda cancelleria?”

Era chiaro come avesse aggiunto quelle ultime parole con chiaro tono di scherno. Machiavelli, però, finse di non accorgersene e anzi, provò a stare al suo gioco.

“Da parecchio tempo sono segretario dei Dieci. Dovreste seguire con maggior attenzione a politica della repubblica.” disse il ventiseienne Niccolò, stringendo al petto la sua cartelletta di cuoio piena di documenti, nell'improvviso timore di vedersela strappare.

“Segretario di uno e dell'altro, poco conta.” fece uno degli altri perdigiorno: “Tanto il vostro cognome non vi permetterà mai di sedervi sullo scranno del Gonfaloniere di Giustizia.”

Punto sul vivo, Machiavelli incurvò appena le spalle, di norma tenute drittissime, e guardò l'orizzonte: “Scusatemi tutti, miei signori, ma sono atteso al palazzo della Signoria. Si deve discutere di un fatto gravissimo e...”

“E senza di voi non possono?” lo canzonò il primo che lo aveva apostrofato.

Niccolò, a quel punto, abbandonò i metodi bonari. Fissò con insistenza quello che aveva appena parlato e poi strinse gli occhi. Senza dar peso agli altri, che ridacchiavano ancora tra loro, si avvicinò un po' al ragazzo e gli sussurrò alle orecchie parole vaghe, a cui nemmeno lui avrebbe saputo dare un senso.

Tuttavia, si fece premura di mescolare assieme nella stessa frase il nome dei genitori del tizio che lo aveva preso di petto, quelli del Gonfaloniere di Giustizia, quello dei Medici e perfino quello di molti altri membri influenti della Signoria.

Confuso e spaventato dal cambio repentino di tono di Machiavelli, il giovane fece segno agli altri di andarsene: “Forza, muoviamoci...” disse.

“Ancora buongiorno a voi!” li salutò Machiavelli, agitando amabilmente la mano.

Quando fu certo che se ne stessero andando, riprese a camminare a passi rapidi, mettendo le secche gambe una davanti all'altra con frenesia.

“Così imparate a chiamarmi Macchia.” bofonchiò tra sé, mentre una mano ritornava ancora al ciuffo di ricci.

Odiava quel soprannome, soprattutto perché era nato per quel suo stupido blocco di capelli impossibile da debellare. Un giorno, pensò, si sarebbe risolto a farsi radere anche la testa, oltre che le guance!

Quando arrivò al palazzo della Signoria, come previsto, la riunione era già cominciata ed era accesissima.

Si stava parlando della condotta di Carlo Orsini. Il figlio illegittimo di Virginio Orsini, il signore di Bracciano, aveva ricacciato indietro le truppe imperiali, ma, quando avrebbe dovuto restare a Livorno per scongiurarne il ritorno, aveva invece lasciato il fronte, cominciando a spostarsi verso sud.

“Sta andando ad aiutare sua zia a Bracciano!” esclamò un membro della Signoria: “Come possiamo dargli torto?”

“Aveva un accordo con noi, però!” ribatté uno della fazione avversa.

“I tedeschi non torneranno! L'Imperatore non ha interessi a farlo!” fece un terzo.

Niccolò, come gli altri spettatori accalcati appena oltre la porta della sala del Consiglio, ascoltava tutto con l'avidità di chi vuole prevedere il futuro.

Tuttavia, pensò di aver perso qualche battuta, quando di punto in bianco udì uno dei più ferventi sostenitori di Savonarola ululare: “E Giovanni dei Medici che fa?! Vuole venderci a una milanese!”

Seguì una turbolenza tale che per un momento i vetri delle finestre vibrarono pericolosamente.

“Non dite sciocchezze! Il Medici sta mettendo a punto alleanze che...” fece il Gonfaloniere di Giustizia, senza riuscire a terminare.

“Dov'è suo fratello Lorenzo?” sbottò ancora quello che aveva parlato prima: “Ha detto che sarebbe stato la garanzia vivente della buonafede di Giovanni, ma io qui non lo vedo!”

“Calma, calma!” invocò il Gonfaloniere, mentre la sala si accendeva di grida e recriminazioni.

Niccolò non si raccapezzò più, con tutti quanti che urlavano e si insultavano, andando a rivangare anche eventi di mezzo secolo prima.

“E comunque – concluse il Gonfaloniere di Giustizia, quando riuscì finalmente a riottenere una specie di silenzio in aula – Giovanni dei Medici per il momento non ha fatto nulla ai danni della repubblica, anzi, pare sia riuscito a mitigare gli animi dei signori romagnoli, quindi non vedo perché sia necessario prendersela con lui.”

“Siete sempre dalla parte dei Medici! Che siano dei Lorenzo, dei Piero o dei Giovanni!” accusò uno degli Arrabbiati.

Il Gonfaloniere agitò la campanella per riportare l'ordine: “Giovanni dei Medici avrà presto occasione di dimostrare la sua fedeltà! Gli è stato mandato ordine di contrattare alcuni acquisti di derrate alimentari per Firenze. Da come si comporterà, sapremo che decisioni prendere.”

“Ordinate il rientro immediato di Lorenzo!” tentò uno dei membri della Signoria.

“La seduta è tolta!” annunciò il Gonfaloniere, levandosi il cappello e asciugandosi la fronte, grondante di sudore, benché fuori cominciasse a cadere qualche fiocco di neve.

Niccolò si strinse nelle spalle e lasciò la sala assieme agli altri curiosi. Non lasciò però il palazzo, andando negli uffici presso cui lavorava.

Se solo avesse potuto dire la sua, se solo fosse stato abbastanza importante da poter parlare alla Signoria...

Mentre cominciava a vagliare le carte su cui sarebbe stato impegnato fino a sera, la mente di Machiavelli spaziò e vagò, cercando disperatamente una via per farsi largo in mezzo a tutti quanti e diventare l'uomo più ascoltato e famoso di Firenze.

 

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas