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Autore: JacquelineKeller01    21/08/2017    2 recensioni
[MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Lea ha diciassette anni quando torna nella sua città natale in seguito ad alcuni problemi familiari. Tutto ciò che vuole, dopo un anno intero passato a guardarsi le spalle, è recuperare il rapporto con suo padre e un po' di sano relax. Ma sin da subito il destino sembra prendere un'altra piega.
Isaac è l'essere più irritante che Lea abbia mai incontrato nella sua vita, con quella sua arroganza e i repentini cambiamenti di umore, porterà novità e scompiglio nella vita della giovane.
Tra un rapporto che fatica ad instaurarsi, vecchie ferite non ancora del tutto sanate ed un patrigno che sembra darle la caccia, Lea si ritroverà ad affrontare sentimenti che non sapeva essere in grado di provare, specialmente non per uno come Isaac Hall.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Se c’era una cosa in cui Lea Wilson aveva sempre riposto estrema fiducia era il suo istinto.
Non l’aveva mai tradita, non quando suo fratello Dean era uscito di casa per non tornare mai più, non quando un ciclista l’aveva investita sul marciapiede di ritorno dal Minimarket e non l’aveva tradita nemmeno stavolta, quando Isaac si era presentato fuori dalla sua scuola con in mano un Happy Meal e la faccia da schiaffi di chi sa di averla già vinta in partenza.
«Che ci fai qui?» Domandò Lea, cercando di controllare il tremolio della sua voce e mantenere un’espressione piatta.
Come se fosse possibile…
Stava provando mille emozioni in quel momento e non aveva idea di quale fosse quella più giusta.
Era felice nel saperlo lì, fuori dal suo letargo, sano e salvo. Era arrabbiata perché se ne era andato, l’aveva trattata come una pezza da piedi e poi era tornato senza nemmeno scusarsi. Era spaventata perché temeva potesse essere lì per un qualsiasi altro motivo che non aveva nulla a che fare con lei e che i suoi fossero solamente castelli campati in aria.
Isaac non rispose subito. Per svariati istanti il silenzio regnò padrone.
La piccola Wilson prese persino in considerazione l’idea di allontanarsi e tornare su i suoi passi, ma i suoi piedi sembravano ancorati a terra. Qualche istante dopo, il giovane si strinse nelle spalle, porgendole la busta marroncina.
«Il mercoledì pomeriggio non hai lezioni e non ti piace restare a mangiare in mensa. Dici che sembra cibo masticato.» Disse semplicemente.
La giovane boccheggiò qualche istante. Tutto vero, ma non era ciò che gli aveva chiesto . «Non hai risposto alla mia domanda.» Gli fece notare.
Voleva sentirselo dire, se era lì per lei allora voleva sentirlo dalle sue labbra.
Durante il loro ultimo incontro lei si era messa in gioco, glielo aveva detto chiaro e tondo: sarebbe rimasta se solo lui glielo avesse chiesto, sarebbe rimasta per lui. Se adesso era Isaac, quello con qualcosa da dire, non gli restava che parlare.
«Sono qui perché voglio scusarmi e…» Mormorò, lasciando la frase sospesa a metà.
Parlare con Lea non era mai stato così difficile.
Aveva la gola secca e le parole sembravano tutte fin troppo stupide, come se non fossero abbastanza per esprimere a voce ciò che provava in quel preciso momento. L’euforia, la paura, il rimorso, la speranza…
«E…?» Lo esortò la giovane.
«Dovevo vederti. Dovevo dirti che sono pazzo di te, Lea Wilson.» Ammise infine lui.
Lea espirò sommessamente. Non si era nemmeno resa conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento.
Quindi era davvero così. Non era l’unica a provare quei sentimenti…
Isaac mosse un passo verso di lei e la giovane dovette far ricorso a tutte le sue forze pur di non muoverne uno all’indietro.
Si sentiva intorpidita, incapace di provare alcuna emozione, quasi si trattasse di un sogno.
Abbassò lo sguardo, puntandolo altrove, per poi riportarlo sul giovane. Sospirò.  
Non aveva aspettato per mesi, eppure non si sentiva ancora del tutto pronta a perdonarlo. «Isaac io… Perché ti sei tolto la maglietta?» Domandò, aggrottando la fronte.
Non che la cosa le dispiacesse, sia chiaro, solo… perché? Perché adesso? Perché in un parcheggio pieno di gente? Ma soprattutto: perché nessuno diceva niente o chiamava la polizia? Non rientrava nella categoria degli atti osceni in luogo pubblico?
Isaac le sorrise, poggiandole un dito sulle labbra. «Fai troppe domande, Bambi. Rilassati e lascia che mi prenda cura di te.» Mormorò languido, poggiandole le mani sulle spalle.
Lea sbatté ripetutamente le palpebre. C’era decisamente qualcosa che non andava, ma tutto sommato, se la vita ti da i limoni…


Quando Lea aprì gli occhi, la prima cosa che si premurò di fare fu gettare a terra quell’aggeggio infernale che continuava a ronzarle nelle orecchie. In quel momento poco le importava che la sveglia fosse stata impostata sul cellulare, aveva ben altro per la testa.
Quindi si era trattato di un sogno…
Le sue emozioni, i suoi pensieri e le sue paure, tutte riassunte in un dannatissimo sogno.
Eppure sembrava così reale, quelle sensazioni devastanti e quelle parole… “Dovevo dirti che sono pazzo di te”, se si concentrava poteva ancora sentirne l’eco nelle orecchie.
Probabilmente gli eventi della sera prima dovevano averla sconvolta più del previsto.
Restare a cena a casa di Red non si era rivelata una grande idea, se invece di lasciarsi convincere fosse rimasta ferma sulla sua posizione forse avrebbe avuto occasione di parlargli. Forse, se se lo fosse trovato davanti, senza possibilità di fuga, non avrebbe permesso alla parte più codarda di lei di prendere il sopravvento. Invece era rimasta, e, al suo ritorno, era stata capace solamente di restare a guardare mentre rientrava nella sua stanza e chiedersi quanto tempo fosse rimasto ad aspettarla.
Sospirò, spingendosi il cuscino sul viso.
Aveva ragione Isaac: ogni volta che lui provava a fare un passo in avanti, lei ne faceva cento indietro.
Cosa diavolo non andava in lei?
«Papà si chiede se hai intenzione di uscire dal letto o se ci hai preso gusto a finire in detenzione!» Esclamò Aiden, prendendo posto in un angolo del letto.
Lea non lo aveva nemmeno sentito entrare. Evidentemente il rumore nella sua testa superava di gran lunga quello del mondo esterno.
«E’ successo solo tre volte.» Brontolò la giovane, voltando le spalle al fratello. «Non dovrebbe farla tanto tragica.»
«Solo tre volte, si, ma nell’ultimo mese. Non si entra così alla NYU!»
«Non andrò alla NYU!»
«Beh, non si entra così nemmeno negli altri college…»
La piccola Wilson sospirò, gonfiando le guance.
Cosa voleva saperne suo fratello? Nemmeno c’era andato al college. Ma soprattutto: perché doveva parlarle di prima mattina quando aveva la reattività di un bradipo ed il mal di testa facile?
«Pensi di andartene?» Domandò la ragazza, tirandosi  le coperte fin sopra la testa, più acidamente di quanto avrebbe voluto.
Si sarebbe alzata, prima o poi, dovevano solamente darle un momento.
Aiden annuì. «Vado, vado!»  Mormorò, alzandosi in piedi. «Ma se entro quindici minuti non scendi, manderò Carmensa a cercarti.»
Lea lo liquidò con un distratto movimento della mano, prima di rannicchiarsi su se stessa.
Doveva alzarsi dal letto, farsi coraggio ed andare a scuola eppure era così bella l’idea di poter tornare a sognare Isaac di nuovo, fantasie erotiche a parte.
Con un sonoro sospiro, l’ennesimo da quando aveva aperto gli occhi, la giovane si liberò dal suo groviglio di coperte, diretta verso il bagno. Un quarto d’ora dopo, s’infilava una fetta di pane tostato tra i denti ed usciva di casa.
«Hai bisogno di un passaggio?» Domandò suo padre, porgendole la busta del pranzo.
Lea se la infilò dentro la tracolla, scuotendo il capo. «Ho promesso a Red che saremmo andate insieme. Devo aiutarla a studiare per il test di francese.»
«A che ora è il test?»
«Alla prima ora.»
«E come pensa, esattamente, di riuscire a studiare un intero capitolo in meno di dieci minuti?»
«E’ Red.» Esclamò la ragazza, stringendosi nelle spalle. «S’inventerà qualcosa.»
Suo padre scosse il capo, mentre la guardava attraversare il vialetto tutta sola.
Era preoccupato. Temeva che gli eventi degli ultimi mesi potessero averla spinta sul fondo, sulla cattiva strada; temeva di non essere un buon genitore, perché aveva preso con se un’adolescente spezzata ed aveva lasciato che si leccasse le ferite da sola, perché era più semplice così.
Se solo lo avesse saputo, Lea lo avrebbe rassicurato del contrario. Ma se c’era un peccato che accomunava ognuno dei componenti della famiglia Wilson erano, sicuramente, le parole non dette.
«Pantaloncini corti e maglione della nonna? Non pensi sia un controsenso?»
Nelle ultime due settimane, uscendo di casa, la piccola Wilson, aveva smesso di voltarsi verso il giardino degli Hall. Si era rassegnata, oramai, all’idea che sarebbe passato molto tempo prima di rivedere Isaac inginocchiato sul pratino davanti a qualche auto mezza rotta o a cavallo della sua moto ed, quel mattino, invece eccolo lì, seduto sulla veranda con l’immancabile sigaretta tra le labbra.
Il suo cuore perse un battito ed inevitabilmente il sogno di quella notte le rimbombò nella testa.
L’aveva approcciata per primo, forse c’era ancora una qualche speranza per loro…
Lea si passò la lingua tra le labbra, prima di muoversi verso la staccionata bianca che divideva le due proprietà. Un sorrisetto le affiorò sulla bocca, ma tentò di reprimerlo.
Una piccola parte di lei era ancora arrabbiata, o meglio: delusa.
«Fa abbastanza freddo questa mattina.» Mormorò.
«E non hai freddo anche sulle gambe?»
«Ne ho di più sulle braccia.»
Quello scambio di battute sembrava così dannatamente impacciato. Sembravano due ex che non si vedevano da una vita e a cui andava bene così; quei tipi di coppie che si fermano a bere qualcosa in un bar e poi restano in silenzio, perché le cose tra loro sono finite male ma non hanno più nulla da dirsi.
Eppure loro non erano una coppia di ex fidanzati, solo due ex di un qualcosa a cui si erano impegnati a non voler dare un nome.
Restarono a fissarsi per quello che sembrò un tempo interminabile, poi, finalmente, Isaac tornò a parlare.
La sera precedente si era preparato un discorso nella sua testa.
Sapeva quello che doveva dire, sapeva come doveva dirlo, eppure era come se le parole non volessero uscire dalla sua bocca.
«E’ il mio compleanno!» Mormorò infine.
Lea sorrise. Lo sapeva. A Santa Clara gli aveva comprato un regalo. All’epoca erano già abbastanza in rotta, ma aveva dato per scontato che le cose non potessero che migliorare…
«Davvero?» Replicò, passandosi una mano tra i capelli.
«Si.»
«Auguri.» Poi, di nuovo, quell’odioso silenzio. «Pensi di andare da qualche parte?»
Una volta le aveva raccontato che quando era bambino lui e sua madre si mettevano in auto e non smettevano di guidare fin quando non trovavano un posto che ispirasse entrambi; anche dopo la sua morte aveva continuato a portare avanti quella tradizione.
Sapeva che anche quell’anno sarebbe andato da qualche parte, temeva solamente che se avesse lasciato calare il silenzio non ci sarebbe stata più una seconda occasione.
Il ragazzo annuì. «Andrò al Pacific Park, ho una questione in sospeso con una ragazza.»
«Mi hai quasi baciata, lì!» Le parole erano uscite dalla bocca della giovane senza che lei se ne rendesse conto. Eppure, per la prima volta nella sua vita, non provò imbarazzo né terroro, si sentì solamente più leggera, come se non esistessero parole più giuste di quelle.
«Lo so.» Mormorò l’altro. «Vuoi venire con me?»
«Non pensi che la tua ragazza sarebbe gelosa? Sappiamo entrambi che le tue conquiste non provano troppa simpatia per me.»
«Questa qui è diversa. Allora, ci vieni con me o no?»
Lea si morse il labbro inferiore, lasciando che quel sorrisetto, trattenuto dal primo istante, le si formasse sulla bocca.
Stava parlando di lei. La sua questione in sospeso era lei.
Il suo stomaco fece una capriola e si rese conto che le emozioni di quella mattina, quelle che aveva definito così reali, non erano nulla comparate a ciò che provava adesso. Comparate alla confusione, l’euforia e la gioia di quel momento. Non provava rabbia, non si chiedeva se fosse il caso di perdonarlo o meno, era già tutto chiaro.
«Io…» Riuscì a mormorare Lea, prima di venire brutalmente interrotta dalla sua migliore amica.
«No, lei viene con me.» Tuonò perentoria Red dall’interno della sua piccola auto carta zucchero. «Deve aiutarmi con il test di francese.»
La piccola Wilson si voltò verso la migliore amica, rivolgendole uno sguardo supplichevole. Non poteva farle questo adesso.
Red sapeva quanto aveva sofferto quella situazione e sapeva anche avrebbe trovato il modo di farsi perdonare in futuro. Non poteva, davvero non poteva, metterle i bastoni tra le ruote in quel momento. «Red…» La supplicò.
La rossa la fissò truce.
Sapeva cosa stava per succedere, stava per essere bidonata…
«Non puoi abbandonarmi adesso. E’ un idiota. Abbiamo parlato male alle sue spalle per tutto questo tempo!» Esclamò.
«Red, per favore…»
«Lea me lo avevi giurato!»
«Mi dispiace, mi farò perdonare.»
«E Billy? Gli avevi promesso che avreste pranzato insieme oggi.» Le ricordò l’altra.
Giusto. Billy.
Lea se lo era persino dimenticato.
Era un ragazzo che frequentava il suo stesso corso di matematica e dopo mesi e mesi di corte spietata era riuscito a spillarle un si per un appuntamento, in amicizia. Quando aveva visto Isaac la cosa le era totalmente passata di mente.
Quando era con lui non riusciva a pensare a niente, figuriamoci ad un altro ragazzo. «Coprimi. Per favore.»
Red la fissò con la bocca spalancata, prima di emettere un sonoro sospiro ed annuire. «Va bene, ma mi devi un enorme favore, Lea Wilson. Un gigantesco favore.»
La piccola Wilson sorrise, prima di attraversare di corsa il vialetto di casa Hall e fiondarsi all’interno dell’auto.
Faceva un po’ strano trovarsi lì, dopo tutto quel tempo.
Non ci saliva dalla sera in cui erano andati al molo, quella fatidica sera che avrebbe avuto il potere di cambiare tutto.
Il giovane salì dal lato del guidatore qualche istante più tardi, rivolgendole un sorriso  e continuando a fissarla a sottecchi.
«Quindi…» Bofonchiò, rivolgendole un’espressione di puro scherno. «Billy Dougherthy?»
Lea si voltò, piazzandogli uno scherzoso pugno sul braccio. «Pensa a guidare e a porgermi delle scuse decenti, non alla mia vita sentimentale.»
«Ed io che pensavo di averla scampata.»
«Pensavi male. Io pretendo delle scuse e pretendo che tu le porga anche a mio padre. Delle vere scuse, di quelle con i contro cavoli.» Esclamò con aria saccente.
Isaac alzò un sopracciglio verso l’alto, prima di infilare la chiave nel quadro. «Io parlavo dei rivali.»
Alla giovane non servì guardare il suo riflesso nello specchietto per sapere di essere arrossita.
   
 
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