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Autore: EffyLou    27/08/2017    0 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
- - - - - -
I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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2 - Gibsy



4 luglio 1930

Da ottobre a luglio, Johann aveva combattuto dieci volte. Quello sarebbe stato l’undicesimo incontro.
Aveva inanellato nove vittorie, aveva perso solo una volta a gennaio contro Erich Tobeck. E solo perché era stato così testone da voler combattere con la febbre.
Kaspar aveva quasi gioito. «Magari è la volta buona che qualcuno ti ha messo apposto quella testa dura che ti ritrovi».
Johann aveva sorriso. Ma ti pare.
Si stava facendo largo nella categoria dei divi. Munito di quella bellezza selvaggia e tenebrosa, di quel corpo statuario, e di quell’ironia e solarità, aveva tutte le carte in regola ed era sulla buona strada per diventare il pugile più amato della Repubblica di Weimar.
I cronisti e i giornali gli davano sempre più attenzioni, e la sconfitta morale avuta con le selezioni per le Olimpiadi sembrava solo un ricordo lontano.

 
Birreria Bock di Berlino, a Kreuzberg Fidicinstraße, l’incontro col feroce Vogel. Aveva combattuto contro di lui già una volta. Il giorno del suo ventiduesimo compleanno, il 27 dicembre 1929, ed aveva vinto per knock-out. Si era regalato quel trionfo.
La birreria Bock aveva un grazioso giardino con lanterne di carta, gazebi in sottile ferro battuto e tavoli bianchi laccati. L’interno era una lunga sala con un corridoio centrale e i tavoli ai lati, in fondo c’era una rientranza con una struttura sopraelevata. La parete sinistra era fatta di enormi finestre, il soffitto di travi di ferro e lampadari rotondi, bianchi.
Per quell’occasione, avevano montato il ring al centro della sala e avevano allestito i tavoli tutt’intorno. Il tavolo dei giudici era stato sistemato sulla struttura sopraelevata nella rientranza in fondo alla stanza per garantire una buona visuale.
C’erano quasi mille persone. In ogni incontro di Trollmann, il pubblico aumentava di volta in volta.
Johann era nello spogliatoio. Kaspar gli stava stringendo le fasce sulle mani. Zirzow si era messo a fumare la pipa e Leyendecker massaggiava le spalle al giovane sinti.
«Non devo dirti niente, ragazzo. Conosci lo stile di Vogel, sai come muoverti, e in ogni caso faresti come ti pare»
«Stasera ci sarà Schmeling a vederti.» gli disse Zirzow «E poi andremo a cena con lui e il suo manager»
A Johann si mozzò il respiro. «Ma… il campione del mondo dei pesi massimi?»
Leyendecker gli schioccò le dita sull’orecchio, facendolo voltare di scatto per la sorpresa. L’allenatore scoppiò a ridere all’espressione del ragazzo. «E chi sennò?»
«E viene a vedere me
«Smettila di fare il pugile campagnolo, con questa tua umiltà. Se sei umile non vai da nessuna parte, a Berlino.» lo imbeccò Zirzow «Certo che viene a vedere te. Hai un enorme talento, non immagini neanche, e un bell’impatto sulle masse».
Johann ammutolì. Max Schmeling era campione mondiale dei pesi massimi da poco, ed era un modello da seguire per il giovane professionista. Non riusciva a credere che il campione era venuto a vedere lui.

Durante le operazioni del peso, fecero una foto a lui e a Vogel.
Johann sorrideva, le mani dietro la schiena, la faccia pulita, gli occhi innocenti; l’altro era più aggressivo nell’atteggiamento, i pugni stretti lungo i fianchi e il mento alzato, lo sguardo sprezzante.
Quando il fotografo finì di scattare la foto, Vogel gli lanciò un’occhiata di disprezzo.
«Schmutziger Zigeuner»
«Che hai detto?» lo incalzò Johann.
«Ho detto che sei uno sporco zingaro. Ci vediamo sul ring, pagliaccio» e sputò di lato, voltandosi e andandosene.
Era la prima volta che qualcuno lo disprezzava così apertamente, da quand’era a Berlino. Quand’era arrivato, credeva che certe cose nella boxe non contassero, che l’unica cosa che contava era il modo di boxare a prescindere dalle origini. Invece non era stato così. Dal suo debutto con Bolze, i giornali e i cronisti, e ora anche Vogel, rimarcavano le sue origini sinti e lo chiamavano zingaro. In generale senza disprezzo, ma a volte qualcuno lo diceva quasi volesse insultarlo.
Ma Johann era questo, non doveva dimostrare di essere nessun altro.

Salì sul ring. O meglio, saltò sul ring. Aveva deciso, da qualche incontro, che quella sarebbe stata la sua entrata in scena. Appoggiava la mano sul paletto e saltava le corde - a cento quarantacinque centimetri dal tappeto, se stava eretto lì vicino gli arrivavano appena sopra il gomito - a piedi pari, senza toccarle mai, e quando atterrava faceva un inchino che faceva esplodere la folla in una tempesta di applausi. Poi salutava con la mano e faceva scivolare via l’accappatoio dal corpo ambrato. Infine indossava i guantoni, e Kaspar l’aiutava a mettere il paradenti.
Vogel era agguerrito, aggressivo. Cercava di costringerlo al combattimento ravvicinato ma Trollmann scivolava via, come il vento. Lo colpiva con jab di disturbo, gli sorrideva, e lo infastidiva con colpetti leggeri. Il puro gusto di dare spettacolo, e di dar fastidio a qualcuno che lo disprezzava.
Poi aveva cominciato a picchiare più forte, nascondeva le rocce dei pugni dietro sorrisi.
Infine aveva vinto ai punti. Una donna dai capelli nocciola gli lanciò un bacio. Lui scherzò, fece finta di afferrarlo e barcollò sul quadrato, inscenando uno svenimento. La folla rise, e anche Leyendecker.
«Oh, piantala di fare il giullare!» aveva sorriso poi, trascinandolo via dal ring.
Sputò il paradenti nel secchio di Kaspar e si gettò l’asciugamano sulle spalle. Non era sudato, solo un po’ sulla nuca.

«Bell’incontro» cantilenò una voce familiare, mentre Johann si avviava verso lo spogliatoio.
Non seppe dire con certezza come fece a sentirla, nel trambusto, ma si voltò. Incrociò due occhi di cielo e un ampio sorriso si aprì lentamente sul bel viso del pugile.
Fece dietrofront, andando da Frieda. Come se una melodia lo incatenasse alla sua voce e lui non fosse in grado di resistere.
«È la prima volta che ti vedo qui» disse solo.
«Non seguo il pugilato, di solito» gli sorrise furbamente.
Aveva una molletta che teneva a bada i capelli d’oro al lato del viso. Una camicia leggera a maniche corte, color crema, infilata nell’elastico della gonna a vita alta che non arrivava nemmeno alle ginocchia. Ai piedi, due graziose scarpe basse che lasciavano scoperto il collo del piede.
«Quindi in altre parole sei venuta per me.» le fece un sorriso malizioso «Sono felice di rivederti. Ti trovo in forma»
«Anche io mi trovo in forma»
« “Grazie Johann, sei stato così bravo questa sera!” » simulò la voce da donna, sfarfallando le ciglia, prima di guardarla con un sopracciglio alzato.
«Come sei egocentrico. Hai già le tue ammiratrici pronte a dirtelo e cadere ai tuoi piedi» replicò Frieda, con un sorriso malizioso, riferendosi al bacio lanciato da quella ragazza e intorno a cui lui aveva dato spettacolo.
«Devo andare adesso, ho una cena con Max Schmeling.» ammiccò «Quando posso trovarti al pub?»
«Non te lo dico» gli fece la linguaccia mentre si allontanava nella folla.
«Non fare la preziosa!» le urlò, allargando le braccia «Okay, so dove abiti! Mi attacco al tuo campanello di casa nel cuore della notte, poi vediamo!»
E nella folla, l’unica cosa che sentì fu la sua risata cristallina. Rise anche lui, e tornò nello spogliatoio.

 
 

Durante la cena con Schmling e Machon, a Trollmann era stato offerto di seguirli in America e allenarsi lì con loro. Lontano dalla Germania. Lontano dalla sua famiglia. Lontano dalle bestie nere che attendevano smaniose nell’ombra. Aveva rifiutato.

Il giorno seguente, in tarda mattinata, Rukeli saltò sulla sua nuovo motocicletta. Indossò il casco e gli occhialoni. Da Charlottenburg, dove abitava, arrivò fino a Zillestraße. Poco lontano.
Il motivo era molto semplice. Frieda.
Si fermò sotto il portone della ragazza, con la scusa di chiederle un favore aveva tutta l’intenzione di rivederla. E chissà, chiederle di uscire insieme, andare a bere qualcosa. Teneva con sé una busta di pantaloncini sportivi. Si avvicinò al citofono pieno di cognomi, ma non conosceva quello di lei.
Al diavolo.

Indietreggiò di diversi passi, fino al limite del marciapiede.
«Frieda!» urlò, mettendo le mani vicino alla bocca per far rimbombare meglio la voce.
La chiamò un paio di volte, qualcuno si affacciò per vedere chi fosse il pazzo che urlava sotto il palazzo. Alla fine, da una delle finestre centrali al terzo piano, si affacciò un viso conosciuto.
La ragazza si appoggiò alla soglia della finestra, morse uno spicchio di arancia.
«Sei completamente fuori di testa, Trollmann»
Johann le fece un ampio sorriso, che lei ricambiò.
«Sali. Terzo piano» gli disse poi e rientrò in casa. Pochi secondi dopo, sentì il ronzio del portone che veniva aperto.

Il ragazzo salì le scale di corsa, al terzo piano trovò una porta aperta. Sul campanello c’era scritto Bilda. Entrò con cautela, chiudendosi la porta alle spalle. Si ritrovò in un piccolo ingresso con un comò al lato della porta, un orologio a pendolo e un attaccapanni. A destra una porta con i vetri portava nel salotto, a sinistra in cucina, e dritto di fronte a sé c’era un piccolo corridoio con altre quattro porte chiuse, probabilmente due camere, un bagno e un ripostiglio. Il pavimento era di legno chiaro, alle pareti c’era la carta da parati con un motivo floreale molto delicato, e quadri di paesaggi e qualche foto di quelli che dovevano essere i genitori di lei da giovani.

Frieda era appoggiata al tavolo della cucina, il corpo avvolto da una vestaglia da camera in lino verde pastello, le gambe nude e i piedi scalzi. I capelli tutti arruffati.
«Ti ho svegliata?» le chiese, facendo un passo nella sua direzione.
«No, figurati. Ci pensano i vicini a svegliarmi, di solito.» sbuffò un sorriso «Posso offrirti qualcosa?»
«Acqua, per favore».
Si accomodò su una delle sedie intorno al tavolo, e osservò la ragazza trafficare nei scaffali e negli sportelli in cerca di un bicchiere e una bottiglia d’acqua minerale. Glielo passò facendolo scivolare sul legno del tavolo.
«Una vera cameriera provetta» commentò, ironico.
«Come mai sei venuto qui? Pensavo che ieri sera stessi giocando» non c’era acidità nella sua voce, solo divertimento. Una scintilla di sfida e ironia che brillava anche nei suoi occhi sfrontati.
Lui sorrise, mentre teneva ancora le labbra sul bicchiere. Poi lo posò, e si pulì i lati della bocca con la punta delle dita.
«Tu sai cucire? O conosci qualcuno che sappia farlo?»
«Dipende, cosa devi fare?» si sedette vicino a lui, nel posto a capotavola.
Johann tirò fuori i pantaloncini dalla busta e li posò sul tavolo. Erano quattro paia: uno nero, uno bianco, uno grigio con le righe nere, uno grigio e basta.
«Mi sembrano integri. Cos’hanno che non va?» gli diede un’occhiata, tastando il tessuto.
«Non c’è scritto il mio nome.» rispose, asciutto «Sapresti apportare questa piccola modifica per me?»
«Basta prendere un pennarello» lo prese in giro.
Johann alzò gli occhi al cielo. «Dai, altrimenti devo cercare un sarto. Volevo prima chiedere a te»
Lei si sentì importante. «Sì che lo so fare. Posso farteli subito se vuoi, non ci vorrà molto».
Il ragazzo annuì, e quando lei si alzò, la imitò. La seguì in una delle camere da letto.

La sua, probabilmente. C’era un letto singolo dalle lenzuola candide tutte sfatte, e un altro lettino ancora perfetto. Si chiese se avesse un fratello o una sorella, ma le foto sul muro gli fecero capire che era figlia unica.
La stanza profumava di lavanda, alle pareti c’erano appese fotografie di Frieda da bambina. Una bella bambina con i boccoli biondi e con enormi occhi di cielo. Foto di lei con sua madre e suo padre. Foto con un enorme gruppo di persone, non avevano l’aria di essere tedeschi. Foto di cavalli, di maneggi, di una ragazza che tendeva un arco con la freccia incoccata e puntava al cielo, sempre avanti, sempre in alto. Foto di una ragazza con due medaglie al collo e una coppa in mano. Poi c’erano articoli di giornale incorniciati, con la foto di una ragazza a cavallo intenta a saltare un tronco d’albero. Datata 1928, la scritta dell’articolo recitava: Deutscher Meisterin, Reiten cross-country.
Ricordava di aver letto quei giornali e quegli articoli. Non fece domande, non subito.

Frieda si era seduta di fronte alla macchina da cucire, aveva preso il primo paio di pantaloncini che le capitava a tiro e aveva inserito il filo d’oro. Posizionò il tessuto nero sotto l’ago del macchinario.
«Cosa vuoi che ci scriva? Johann, Trollmann, oppure…? So che i tuoi sostenitori ti chiamano solo Troll, magari potrei…» gli chiese, riscuotendolo dai suoi pensieri.
«Gibsy» la interruppe, distratto.
Lei si girò col corpo per guardarlo. «Vuoi che ti scriva “zingaro” sui pantaloncini? Davvero? E perché con la b, Gibsy?»
Johann fissò i suoi occhi neri in quelli di cielo. «Sui giornali mi chiamano Gipsy. Voglio stare al gioco, ma come dico io, quindi Gibsy. Mi chiamano zingaro, mi trattano da zingaro. Io sono zingaro e gli darò lo zingaro.» ripensò a Vogel la sera prima, con una punta di rammarico, tanto che abbassò appena la voce «Non voglio nasconderlo».
Lei studiò il suo cambio di espressione, incuriosita. «Ti fai beffe di chi ti sbeffeggia.» sorrise «Mi piaci, Trollmann».

Detto ciò, si voltò e cominciò a cucire la scritta d’oro sul tessuto nero. Lui si era seduto sul letto, e la guardava mentre lavorava. C’era qualcosa in lei che la rendeva diversa ma apparentemente ordinaria. Non aveva niente di più, fisicamente, rispetto alle altre donne tedesche, eppure era diversa. Non era come le altre. C’era qualcosa nel suo sguardo impertinente, una luce di libertà che sfavillava come fuoco.

«Esattamente, quanti anni hai?» le chiese, inclinando la testa.
«Diciannove. Saranno venti a settembre»
«E sei così bassa?» la provocò. Lei non si voltò neppure, gli tirò il paio di pantaloncini appena finito dritto in faccia.
«Stronzo di uno zingaro. Sei tu che sei alto.» stavolta lo guardò, con la coda dell’occhio «Che ti davano da mangiare, pane e concime?»
«Beh sei un po’ bassa per me, in effetti.» meditò, considerando che c’erano venticinque centimetri di differenza tra loro «Ma per te potrei fare un’eccezione sai? Per il tuo umorismo»
«Parli come se ce l’avessi solo tu» lo prese in giro bonariamente.
«Che cosa?»
Lei mimò il gesto della pistola con le dita della mano, senza voltarsi. Si girò solo per fargli un sorriso malizioso. «Il pistolino».

Johann non riuscì a trattenere una risata. Fragorosa e roca, che coinvolse presto anche Frieda. Nessuna ragazza gli aveva mai parlato così. Era strano sentire una ragazza parlare così apertamente di quelle cose, di quei tempi. E poi, era difficile trovare una donna scherzosa come Frieda.
Mentre le risate andavano scemando, la porta d’ingresso si aprì e si richiuse.
Johann si allarmò, pronto a nascondersi. Non era bello farsi trovare in casa da solo con una ragazza.
Lei, invece, restò tranquilla a cucirgli i pantaloni. Si fermò solo quando la voce di un uomo non troppo giovane la chiamò.
«Sono in camera mia» si voltò verso la porta, appoggiandosi con le braccia allo schienale della sedia.
Guardò Johann, ancora allarmato, e gli fece un sorriso più dolce di quel che sarebbe dovuto essere.
Il padre di Frieda si affacciò in camera e vedendo il volto del pugile, quasi non gli caddero le braccia a terra.
«Ma tu sei Johann Trollmann!»
Il ragazzo scattò in piedi, un sorriso affabile e rilassato, da vero divo. Allungò la mano per stringere quella dell’uomo. Doveva avere circa cinquant’anni, gli occhi erano come quelli di Frieda, i capelli radi e biondo scuro, lo stesso colore dei folti baffi che caratterizzavano il viso. Il fisico possente nonostante l’età, la stretta di mano salda e forte. Il signor Bilda doveva esser stato forte come un toro da giovane.
«È un piacere fare la sua conoscenza, signore»
«Il piacere è mio, figurati. E chi se lo aspettava, il nuovo volto del pugilato tedesco in casa mia!» poi si rivolse alla figlia «Non mi avevi detto di voi due»
«Papà, non farti strane idee.» sghignazzò «Ci conosciamo, tutto qui. Gli sto cucendo i pantaloncini» sventolò il tessuto in aria come una bandiera, mostrandogli infine il lavoro svolto.
«Non me l’hai detto lo stesso.» borbottò il padre «Ti ha offerto qualcosa almeno?» domandò di nuovo rivolto a Rukeli.
«Sì, signore»
«Allora le sei simpatico»
«Te ne vuoi andare? Stiamo parlando di cose serie» esclamò Frieda, esasperata. Johann aggrottò le sopracciglia. Il signor Bilda alzò le mani, ed uscì chiudendo la porta. Il ragazzo si appoggiò al tavolo con la macchina da cucire, per guardarla meglio, spavaldo.
«Cose serie?»
«Ti prego.» alzò gli occhi su di lui, sorridendo «Andava bene la scritta?»
«Sì, non ho molte pretese»
«Te la dovevi far andar bene comunque» replicò, con un sorrisetto furbo.
«Sei tu?» indicò le pareti.

Mentre attendeva la fine del suo lavoro, si era messo a sbirciare i titoli dei giornali incorniciati, aveva letto gli articoli.
Campionessa nazionale di equitazione, disciplina cross-country, nel 1928. Pensò alle coincidenze. Lui veniva scartato dalle Olimpiadi, lei aveva toccato l’apice della sua carriera a soli diciotto anni.
«Sembra una vita fa.» rispose in un sussurro «Non sono più campionessa»
«Ti hanno spodestato? Troppo bassa?» cercò di sdrammatizzare.
Lei sorrise. «Troppo cosacca. Troppo femmina. Troppo giovane.» alzò le spalle «Non potevano lasciare il titolo ad una come me, disonorava i tedeschi».
Aveva toccato l’apice ed era caduta. Precipitata. E ora i ruoli si rovesciavano: lei cadeva, lui ascendeva.
«Quindi sei cosacca. Russia?»
«Ucraina. Ti ho deluso?» gli fece un sorriso da folletto dispettoso.
Ma Johann lo vide, nel fondo degli occhi di cielo, una scintilla d’amarezza e frustrazione. Ecco perché lei non gli aveva parlato di niente, si vergognava. Gli slavi e in particolare gli ucraini, in Germania, non erano ben visti. Quasi al pari degli zingari.
«E perché mai? Io sono sinti, che c’è di peggio?» ironizzò «Siamo così simili. Entrambi nomadi, entrambi scartati e visti sotto una cattiva luce dal mondo intero. Eppure siamo unici, sai? Proprio per le nostre tradizioni.» alzò le spalle «Dovresti imparare a fare della tua diversità, la tua forza. Cuciti una maglietta con scritto Kosak, io l’avrei fatto»
«La fai facile tu.» gli sorrise, sardonica «Sei bello come un divo e bravo sul ring. E sei un uomo. Le donne non hanno vita facile. Sai no? La regola delle quattro K[1]. Se vedono una donna puntare troppo in alto, le tagliano le ali» fece il gesto delle forbici con le dita.
«Mi hanno scartato dalle Olimpiadi, nel ‘28.» le ricordò «Tagliano le ali a tutti i diversi».
Lei sbuffò un mezzo sorriso, lo sguardo più docile e mansueto. Gli passò un altro paio di pantaloncini, pronto.
«Vedo che non sei uno che ragiona col pistolino o con i pugni allora, ce l’hai un cervello in quella testa riccioluta»
«Va bene, allora visto che hai appurato che ho un cervello e hai ammesso che ti piaccio, ti farò una proposta indecente. Vuoi uscire con me?»




 

[1] La regola delle “quattro K”.
Concetto introdotto in Germania durante l’epoca Guglielmina, descrive con quattro parole in lingua tedesca il ruolo della donna: Kinder (figli), Kirche (chiesa), Küche (cucina), e Kleider (vestiti).
   
 
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