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Autore: EffyLou    28/08/2017    0 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
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I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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3 - Trollmann


«Incassa! Stringi quegli addominali!» gli urlò Leyendecker a bordo ring, le mani in tasca.
Johann al centro del quadrato, le gambe piantate a terra leggermente divaricate, il mento incassato, i gomiti accostati al corpo. Sopportava pazientemente i colpi potenti di Kaspar. L’amico era più basso di lui, ma era un peso massimo col pugno di un orso.
«Lui ci va leggero, ragazzo, ma Koska ci andrà giù pesante. Colpisci più forte, Kaspar!».
Da due settimane avevano preso la decisione di provare a far combattere il giovane peso medio contro un peso massimo. Un orso di ottantacinque chili contro lo zingaro di settantuno.
Johann strinse i denti sotto i colpi più forti dello sparring partner.
«Se mi si incrina una costola e non combatto più sarà per colpa tua, vecchio» gli fece, accennando un sorriso di sfida. Leyendecker liquidò quella possibilità con un gesto della mano.
Terminato l’allenamento, Johann si passò l’asciugamano sul corpo madido di sudore. Kaspar gli mollò un pugno giocoso al braccio, quasi a volersi scusare.
In realtà Rukeli non voleva farlo quell’incontro, aveva paura. Quel bestione pesava quindici chili di più, e se ci restava secco? Alla fine ci avrebbe provato comunque, ma era preoccupato.
Il pugilato è uno sport in cui si muore.

 
In quel mese e mezzo non aveva più visto Frieda.
Ogni tanto ci pensava, pensava di andare a salutarla, allora saltava sulla moto e andava al Der Blume. Non la trovava. Provava a casa sua, suonava al citofono e non gli rispondeva nessuno. La chiamava da sotto la finestra attirando sguardi severi, ma lei non si affacciava.
Pensò che lei non volesse vederlo per chissà quale motivo, e se così fosse sarebbe stato bene chiarire. Non gli andava proprio di lasciar andare quell’amicizia.
Un giorno era andato al pub, aveva chiesto di lei.
Una ragazza di almeno ventitré anni, con i capelli rossi, bella come Venere, gli fece un sorriso di cortesia. «È partita. Non sapeva nemmeno lei quando sarebbe tornata» si strinse nelle spalle.
«Tu sei sua amica?» si sedette al bancone.
«Sì. Mi chiamo Hildi» lo guardò languida, «e tu sei il pugile Gipsy Trollmann»
«Solo Johann» la corresse con un sorriso pieno di sottintesi.
Lei inclinò la testa da un lato. «Come mai chiedi di Frieda?»
«Non la vedo da un po’ e mi sono preoccupato. È mia amica»
«Non credo proprio, non si diventa amici dopo un paio d’ore insieme, tesoro».
Quella frase lo lasciò interdetto. Aveva pensato di chiedere a quella cameriera dai capelli rossi di vedersi più tardi, ma aveva un modo di fare che non gli piacque molto. Frieda era sfacciata e impertinente, ma aveva un atteggiamento molto leggero e bonario. Hildi no, sotto quell’impertinenza aveva una vena polemica e distruttiva, che non piacque molto a Johann.
«Senti, se ti capita, dille solo che sono passato e che la saluto. E… dille di farmi avere sue notizie, se può» le lasciò un biglietto con l’indirizzo della palestra.
Hildi fece un gesto d’assenso col capo e lui se ne andò in silenzio. Avrebbe dovuto mettere da parte il pensiero della ragazzina cosacca per il momento.
 
 


29 agosto 1930

Spichernsaele, Berlino.
Quella sera, le mani di Johann Trollmann erano fasciate più strette per proteggerle meglio. Doveva essere rapido, picchiare forte, ricorrere ad ogni mezzo possibile e leale. Non poteva competere con quel bestione, poteva solo farlo stancare e smantellarlo.
Ragionò un attimo sulla strategia da adottare, seppur ci fosse Leyendecker a parlargli nelle orecchie di una possibile tecnica da utilizzare. Gli stava massaggiando il braccio per sciogliere i muscoli e parlava, parlava e parlava. Sapeva che lo zingaro avrebbe fatto come voleva come al solito, ma doveva provarci a far valere le sue ipotesi. Johann Trollmann non l’ascoltava nemmeno.
Eccolo di nuovo che saliva sul ring saltando le corde a piedi pari, la folla in delirio. Lanciò un bacio al pubblico e a qualche signorina alle prime file. Nei loro occhi lesse il desiderio, si compiacque dell’effetto che provocava alle ragazze.
I suoi occhi si spostarono sul colosso di ottantacinque chili all’altro angolo. Il petto peloso come quello di un orso, gli occhi neri e piccoli come biglie. Rukeli trattene a stento una smorfia.

«Non fare cose stupide.» gli intimò Leyendecker «Anticipa. Entragli nella guardia. Respira. Con lui non puoi giocare, Johann».
Bisognava essere rapidi e concisi con Trollmann. Troppe parole distoglievano in fretta la sua attenzione volubile.
«Speriamo che non dovranno raccogliermi con un cucchiaio quando quel grizzly avrà finito con me» borbottò, mentre Kaspar gli stringeva le cinghie dei guantoni. L’ultima parola uscì quasi sottoforma di sputo a causa del paradenti.

Suonò il gong.
Johann pregò ogni santo di non restarci secco sotto i pugni pesanti di quell’orso.
Eppure si accorse in fretta che Koska non usava molto il cervello, puntava ai movimenti meccanici e alla forza bruta. Una mossa piuttosto pericolosa, quando si aveva a che fare con Trollmann, perché quelle mosse le conosceva e le anticipava tutte.
Gli ronzò intorno mandando a vuoto ogni suo colpo. Il gigante si infuriava, metteva più rabbia nei colpi. Johann non distoglieva gli occhi dai suoi, gli leggeva l’anima e anticipava ogni movimento.
Al quarto round Koska era stanco e infuriato per i jab di disturbo che gli rifilava lo zingaro. Non l’aveva colpito neanche una volta, era davvero umiliante. Il pugile ballerino non era né sudato né affaticato. Gli rifilò una serie di montanti e ganci che fecero traballare il colosso, e poi si allontanò con un paio di saltelli, a distanza di sicurezza. Lo scrutò a lungo con quegli occhi di lupo, un predatore a caccia. Aveva le braccia lungo i fianchi, camminava lungo il perimetro del ring. Golia in balìa di Davide, immobile al centro del quadrato.
L’allenatore di Koska gli urlò di darsi una mossa e concludere il match. Leyendecker fischiò a Rukeli, gli fece segno di tenere la guardia alta. Trollmann non gli diede ascolto.
Koska prese coraggio, si avvicinò allo zingaro masticando il paradenti. Solo allora Johann alzò la guardia, lo fissò negli occhi. Vide una vena sul collo del toro guizzare, capì che stava arrivando un gancio potente. Lo schivò come un gatto, e gli entrò nella zona d’ombra. Esplose in una raffica di colpi al costato e al viso.

L’arbitro fischiò la fine del match. Vittoria ai punti per Trollmann, stracciante.
La folla esplose in grida d’esultanza, urlavano il suo nome battendo i piedi a terra. Un peso medio aveva stracciato un peso massimo quindici chili più pesante, con velocità e intelligenza.
Il ragazzo non si trattenne dall’improvvisare una danza fantasiosa e comica sul ring, che fece scoppiare a ridere la platea.
Una moretta gli lanciò un mazzo di rose. La foto di quel gesto fece il giro della Germania.
Lui afferrò quel dono, le sorrise in quel modo furbastro e rubacuori che solo lui aveva, e lei si sciolse.

 


Hannover.
Una settimana dopo era con l’amico Paul Schubert e Max Walloschke. Vecchi amici della Sparta Linden. Avevano deciso di vedersi in occasione di una gara di moto all’Eilenriede.
Era arrivato alle tre del pomeriggio alla stazione centrale, Max era andato a prenderlo con la sua nuovissima macchina e Johann aveva commentato dando una pacca sul tettino. Poi insieme erano andati a prendere Paul, ed infine alla corsa di moto.

Johann amava le moto da quand’era un ragazzino. La sua prima gara la vide a quindici anni, con i primi incontri dilettantistici in cui intascava un paio di marchi. Quanti bastavano per pagarsi il biglietto sugli spalti. La maggior parte delle volte ci andava da solo, poi tornava a casa e raccontava la gara ai fratelli più piccoli: con la mano destra simulava il gesto di dare gas e con la voce faceva ruggire i motori distinguendoli per marca, Albert e Stabeli scoppiavano a ridere ogni volta.
Altre volte andava accompagnato, ma non sugli spalti. Johann, Julius e Ferdinand si arrampicavano sugli alberi vicino alla pista e stavano appollaiati sui rami. Era scomodo, ma si divertivano da matti.

«So che ti sei fatto comprare una moto» cominciò Paul, dopo l’ondata di motociclette che passò in curva di fronte alla loro platea.
«E devi sentire che rombo di tuono quando do gas!», imitò con la voce il suono della sua motocicletta.
«Se fa davvero così, è una cagata!» lo prese in giro Max.
«Tuona più forte.» si difese con noncuranza «Sempre meglio di quel pezzo di lamiera che chiami macchina»
«Te la sogni! Non sai le nottate con le migliori Fräulein di Hannover in quella macchina!»
«Fratello, non ho bisogno di una macchina per fare sesso in pace, non abito mica con i miei genitori» alzò una spalla, le sopracciglia inarcate in un’espressione trionfale.
«Come sono le donne a Berlino?» domandò Paul.
«Te ne presento qualcuna un giorno che vieni a trovarmi. Sono quasi tutte bellissime. Il loro profumo, i capelli, le labbra rosse. Qui non c’è quel tipo di donna, credimi»
«E l’hai trovata quella sopra le altre oppure sei l’eterno scapolo?»

La sua mente corse involontariamente a Frieda. Voleva davvero smettere di pensarci, a quella ragazzina, ma non ce la faceva. Guardava il cielo e vedeva i suoi occhi, parlava di donne e pensava a lei, guardava l’oro dei gioielli delle signore e ci vedeva i suoi capelli.

Si grattò il collo, il pomo d’Adamo che sporgeva un poco ma non si vedeva molto per via del collo possente. «Sono tutte le mie.» ghignò, ma fu un momento perché presto tornò serio «Una ragazza c’è. Ci siamo visti tre volte, non so nemmeno che fine abbia fatto in questo periodo»
«Quindi, fammi capire… Ha qualcosa in più ma non è la tua donna? Io intendevo se ti eri fidanzato o se c’era qualcuna che ti piaceva!»
«Ma che fidanzato! Te l’ho detto, c’è questa ragazza che non ho capito se mi piace o no, ma che comunque è diversa dalle altre»
«Cioè, com’è?»
«Occhi azzurri, bionda»
«Non è niente di che, poi tu hai un debole per le bionde. Me la ricordo Mathilde, sai?» esclamò Max mollandogli una gomitata.
«Me la ricordo anche io! La tua prima cotta, la biondina che aveva perso la testa per te, e tu per lei, ai tempi dell’Heros!» aggiunse Paul, pungolandolo.
«Lei è diversa da Mathilde» brontolò Johann, incrociando le braccia al petto.
«Spero non sia come Isabel, allora. Dio, lei era insopportabile, non so come facevi. Proprio vero che più di un carro di buoi, tira solo la…»
«Ma ti ricordi tutte quelle con cui sono stato?!» sbottò il sinti, senza fargli finire il proverbio «No, non è come Isabel, non è come Mathilde, non è come nessun’altra delle donne che ho avuto. Lei è Frieda, punto e basta. Scommetto che una ragazza così non l’avete mai conosciuta, non è classificabile. E comunque sembra una bambina. Ha vent’anni e pare averne quindici, è la ragazza più bassa che io abbia mai incontrato»
«Si maneggia meglio» ammiccò Max.
Johann arricciò il naso, ripensando al gancio dentro che Frieda aveva mollato a quello che l’aveva toccata sotto la gonna. Era piccola ma sembrava avere il pugno pesante, e non gli andava molto di testarlo sulla propria pelle.
«Però è uno spasso» concesse con un’alzata di spalle.
«Amici con benefici?»
Johann lo guardò con le sopracciglia aggrottate e un mezzo sorriso incredulo. «Tu hai qualche problema, fratello, hai una fissa», esclamò facendo scoppiare a ridere Paul.
Quando le moto ripassarono sulla curva davanti a loro, per l’ultima corsa, il pubblico esplose in un applauso e si alzarono tutti in piedi.
Boxe, moto e donne. La vita di Rukeli, ventidue anni.

 
Era tornato a casa la sera, dopo essere andato a ballare con Paul e Max in una delle balere che frequentavano fin da adolescenti.
La sua casa a Tiefenthall era esattamente come la ricordava. Minuscola, grigia e puzzolente. Sua madre stava pulendo le stoviglie della domenica, suo padre fumava un sigaro alla finestra.
Carlo e Mauso giocavano a carte sul tavolo, con Stabeli e Albert che li guardavano. Le sue tre sorelle erano grandi, non abitavano più in quella casa. Nemmeno Carlo, in realtà, però faceva spesso visita ai genitori.

La prima era Maria, classe 1894, soprannominata “Bumsli” perché da piccola sbatteva (bumsen) su tutti gli oggetti di casa; poi c’era Anna, nata nel 1897, soprannominata “Lammchen” (agnellino) per via del faccino d’angelo; la terza sorella era Wilhelmine, del 1899, soprannominata “Kerscher” per via della bocca rossa come ciliegie (kirsche).
Poi era arrivato Carlo, nato nel 1902. Carlo era solo il nome con cui lo chiamavano tutti, poiché si chiamava Wilhelm, in verità. “Carlo” perché kalo in romanì significava nero, e lui era il più scuro di tutti. Scuro di capelli, di pelle, di occhi. Era un po’ severo, ma alla fine neanche tanto se ci si faceva l’abitudine. Era sempre stato studioso e ligio alle regole, e contrario alla scelta di Johann di diventare pugile perché: «Diventerai stupido a forza di prendere le botte».
Poi c’era Ferdinand, del 1904. I suoi capelli avevano riflessi ramati al sole, e quando si arrabbiava diventava tutto rosso, per questi motivi l’avevano soprannominato Lolo, che significava rosso in romanì. Adorava fare a botte.
Per terzo, alla fine del 1907, era arrivato Rukeli, ovvero albero in romanì. Lo soprannominavano così perché i suoi capelli ricci crescevano come le fronde ed era alto e maestoso come il tronco di un albero.
Dopo di Rukeli, arrivò Julius nel 1910. Lo chiamavano Mauso perché da bambino sembrava un topolino (maus). Aveva vent’anni.
Poi c’era Albert, classe 1914. Anche lui tirava di boxe, aveva cominciato da bambino alla BC Heros con Johann. Imparò tanto dal fratello, era pieno di talento.
Infine, nel 1916, era arrivato Heinrich. Ma per tutti era Stabeli, perché era secco come una bacchetta (stäbe).

Tra di loro non si chiamavano col nome di battesimo, ma con i soprannomi. Ci erano così abituati che quando il maestro, alla scuola elementare, aveva chiamato Johann per nome la prima volta, lui non si era nemmeno voltato. Venne visto come un gesto di maleducazione e si beccò uno scappellotto.
A Carlo piaceva la scuola, si era diplomato e laureato. Faceva sempre i compiti.
A Johann, invece, non era mai piaciuta. Non riusciva a stare seduto sulla sedia, doveva sempre muoversi; e poi non poteva distrarsi un momento che subito veniva rimproverato. Gli piaceva studiare e imparare, leggeva moltissimo, ma non sopportava l’idea di dover stare seduto e non poter parlare. Insomma, non gli piaceva sottostare alle regole di altri.

Non aveva neanche voluto imparare un mestiere, perché fin da quando aveva otto anni ed era salito sul ring la prima volta, si era impuntato che la sua strada era la boxe. Sapeva pescare, sapeva suonare il violino, sapeva andare a cavallo, sapeva ballare, pattinare e fare il pane. Correva veloce, sia con le gambe che con la motocicletta. Ma fare un mestiere? Non se ne parlava.mDa quando era salito su quel ring, aveva visto il suo futuro come un sogno.

Il pugilato all’inizio non era apprezzato, anzi era quasi illegale: erotico, violento e brutale. L’unico sport che rendeva bestie gli uomini per un’ora e mezza, e dopo la doccia a fine incontro se ne andavano vestiti di tutto punto. Poi i pugili avevano cominciato ad avere successo.
Venivano trattati al pari degli attori del cinema americano, come superstar e divi. Facevano film, pubblicità, set fotografici per le riviste.
A Rukeli questa seconda parte non importava. Era salito su quel ring, aveva preso i primi pugni, perdeva sempre e si faceva sempre male, nel suo misero peso mosca.
Aveva imparato che il pugilato era non arrendersi e non lasciarsi abbattere dal dolore fisico e dalla sconfitta, morale e sportiva. Perché errori e sconfitte nella boxe facevano male fisicamente, anche parecchio, e ci voleva una bella quantità di testardaggine per andare avanti.
Aveva imparato che non era solo dare pugni, ma era anche non prenderli. Era un gioco. Il più bravo restava in piedi. E chi era il più bravo? Quello con più fiato, più abilità, più volontà. Anche prima della tecnica.
Leyendecker gli aveva detto che un campione non si formava in palestra. Si formava dall’interno, da un sogno e da un progetto. Tutto il resto era conseguenziale.
Da quando Johann aveva cominciato ad inanellare vittorie importanti, già da dilettante, aveva reso orgogliosi tutti i sinti di Hannover. Era considerato una specie di eroe, il barlume di speranza del suo popolo.

«Sei uno sgangherato» lo salutò Friederike, sua madre, a modo suo.
Johann le stampò un bacio sulla fronte, per rabbonirla, e diede una pacca sulla spalla del padre.
«Com’è andato il rientro? E la gara?» gli chiese Schnipplo.
«È stata assurda. Gli spalti tremavano!»
«Mi fai l’imitazione delle moto?» gli chiese Stabeli, tirandolo per la giacca.
E Johann partì con quel consueto gesto che faceva ogni volta. Mimò il manubrio, con la voce tuonò il rombo delle motociclette. Stabeli e Benni amavano quando lo faceva, era così divertente. Poi Rukeli condiva quelle imitazioni vocali con facce buffe, rendendo tutto più spassoso.
«Quando ripartirai?» domandò Friederike.
«Non parto. Il diciannove settembre ho un incontro alla Barghaus. Non mi conviene fare avanti e indietro»
«Avremo l’onore di avere il grande Gipsy Trollmann per una ventina di giorni» commentò ironico Julius, lanciandogli uno sguardo divertito. Johann ricambiò il sorriso. Sì, era felice di essere tornato a casa.
   
 
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