Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Segui la storia  |       
Autore: Lady I H V E Byron    28/08/2017    1 recensioni
"Ci sono cose, nella vita, cui non puoi fare niente. Come la morte di una persona cara. Lo so, per i primi tempi fa male, senti un enorme vuoto dentro e non vuoi più vedere nessuno. E' un dolore che a stento puoi sopportare, ti fa quasi impazzire. Sei consapevole che non torneranno più, che non puoi fare niente per riportarli in vita e questo ti fa soffrire sempre di più. Alla fine scopri... che tutto quello che puoi fare per loro... è vivere."
------------------------------------------------
Daniela Savoia è una ragazza in lutto per un ragazzo che lei amava; lo shock la porta al mutismo e alla depressione, tanto da rifiutare qualsiasi contatto con il mondo esterno. Nemmeno nell'ospedale psichiatrico dove è stata inviata riescono a trovare una soluzione: Daniela si chiude sempre più in se stessa, senza mangiare, continuamente tormentata da incubi sul ragazzo defunto. L'alternativa, seppur a prima vista assurda, si rivela una vacanza in una SPA, in cui, con sorpresa, incontra le ultime persone che si aspettava di incontrare...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bill Kaulitz, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Threesome, Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note dell'autrice: lo so, mi rendo conto che l'ho buttata sul provinciale...

--------------------------


Daniela’s P.o.V.
 
Stanotte ho sognato di nuovo Gabriele. Ma è stato un sogno un po’ più particolare del solito. Ero vestita da Diva e stavo cantando di fronte ad una folla. Avevo uno splendido abito nero brillante, di quelli senza spalline, aderente e lungo, con uno spacco su una gamba. Avevo un collier di diamanti, con orecchini abbinati, e un’acconciatura bellissima, dei boccoli raccolti sul cranio, con qualche ciuffetto ribelle che cadeva. Mi sentivo bellissima. Al termine della mia esibizione, si stringono tutti intorno a me, per parlarmi, chiedermi autografi e roba simile. Ma non riuscivo a vedere i loro volti o la loro forma: erano tutte figure scure, di cui, però, sentivo la voce. In lontananza, vedo lui, Gabriele, che mi osserva con aria triste, prima di darmi le spalle e andarsene. Cerco inutilmente di farmi strada fra i miei spasimanti, per raggiungerlo.
In quel momento, mi sono svegliata.
 
Mi ero di nuovo alzata con quel fastidioso senso di melanconia addosso. La prima cosa che feci fu annotare il mio sogno sul diario, come facevo ogni giorno.
Erano quasi le 7:00. I raggi del sole filtravano dalla persiana.
A vederla ebbi una strana sensazione.
Percepii come una strana voglia di aprirla. Solitamente era Chiara ad aprire la persiana, ma quel giorno volli farlo da sola.
Di fronte a me apparve uno spettacolo mozzafiato, che mi fece quasi paralizzare dallo stupore: il paesaggio era bellissimo a quell’ora del mattino. Il sole stava spuntando da dietro le colline, e i raggi illuminavano gli alberi lì intorno.
Annusai l’aria, chiudendo gli occhi: fresca, frizzante, genuina.
Era come assistere ad un risveglio della natura, non so come altro descriverlo.
O forse ero io a vederlo così, dopo un periodo in cui tutto era buio per me.
Comunque, sentii un senso di soavità nel mio cuore che mi fece quasi dimenticare la mia melanconia.
Sarei rimasta per ore ad ammirare quell’infinita distesa di natura; Chiara entrò nella mia stanza mezz’ora dopo, sbadigliando.
-Buongiorno, cara…- mi disse; ci impiegò tipo dieci secondi per accorgersi che la persiana era già aperta; infatti si stupì –Ehi, ma… questo…?!- In realtà, non aveva la più pallida idea di cosa dire.
Non risposi. Mi limitai ad inclinare un angolo della mia bocca verso l’alto, come per dirle: “Chissà…”
Come ogni mattina, non feci colazione. Non sentivo la fame. Non ancora. Non sentivo il bisogno di mangiare. Bevvi solo un po’ di acqua zuccherata, come al solito.
Mi sarebbe aspettata una mattinata di trattamenti, il secondo giorno alla SPA: almeno un bagno e persino un corso di yoga. Meditazione, per la precisione.
Chiara venne a prendermi dopo colazione, accompagnata da un’inserviente, che mi avrebbe condotta verso la stanza dove avrei fatto il primo trattamento.
Scendemmo al piano terra, passando di fronte a molte porte. Alcune erano chiuse, altre solo socchiuse.
Le guardavo tutte, senza battere ciglio. Ad un certo punto, il tempo sembrò rallentare.
Ero passata davanti una porta socchiusa: dietro di essa vidi proprio loro, i Kaulitz. Specialmente Bill.
Il caso volle che incrociasse il mio sguardo. Il mio respiro si mozzò di nuovo dalla sorpresa.
Non era un sogno o un illusione. Loro erano davvero lì. Nella SPA dove ero io.
Una volta lontana da lì, rimuginai sul suo volto. Pensai di nuovo a Gabriele. In Bill mi era sembrato di rivedere Gabriele. O in Gabriele rivedevo Bill. I loro occhi erano molto simili, come quello che esprimevano.
Forse era anche per questo che mi piaceva Gabriele: perché assomigliava un po’ a Bill Kaulitz.
 
Tom’s P.o.V.
 
-Tomi, non puoi capire. Era una voce bellissima. Mi stava quasi chiamando a sé, come una sirena…-
Era dal nostro risveglio che Bill non faceva altro che raccontarmi la stessa cosa.
E la voce… e la sirena…
Il mio caro fratellino, a volte, si scordava di essere ormai troppo grande per credere alle favole.
Sperai che la seduta di fisioterapia lo facesse zittire. Niente.
-Billi, devo per caso ricordarti che, nel mondo delle fiabe, con le sirene non finisce mai bene?- gli dissi, ormai al limite della pazienza; per fortuna, le massaggiatrici non compresero una sola parola di quello che stavamo dicendo –Il loro canto trascina verso la morte gli sciagurati uomini che ne rimangono ammaliati.-
La fortuna di essere gemelli è il fatto di capirsi all’istante. Bill seppe cogliere il sarcasmo nelle mie parole.
-Spiritoso…- mi disse, direi un po’ offeso –Se l’avessi sentita anche tu non parleresti così. Era a dir poco angelica… dolce…-
“No, lo sguardo sognante no! Lo sguardo sognante no!” pensai “Poi va a finire sempre male!”
-Devo assolutamente scoprire a chi appartiene quella voce!-
Cercai di riportarlo coi piedi per terra.
-Bill, non puoi giudicare o fantasticare su una persona in base alla sua voce.- dissi, mentre le tenere mani della massaggiatrice toccavano le mie scapole –E se scoprissi che è il cesso dei cessi? Magari un’anziana? O peggio, una ragazza grassa con il monosopracciglio che magari non si depila da mesi?-
Dallo sguardo disgustato che fece e da come guardò da un’altra parte, intuii che aveva colto il messaggio.
Punto per me. Di nuovo.
O così credevo.
Lo rividi di nuovo con lo sguardo sognante. No, non era proprio “sognante”, direi più ipnotizzato, e compresi il motivo.
La porta della stanza in cui eravamo era mezza aperta: la ragazza che il giorno prima mi aveva versato il succo addosso stava passando proprio lì davanti. Indossava degli abiti molto larghi, e non proprio da ragazza giovane, quanto, piuttosto da donna anziana: un camicione verde tre volte grande lei e dei pantaloni grigi sbiaditi. Era davvero pallida in volto e malinconica. Il giorno prima l’avevo vista di sfuggita: a vederla così, sentii come un lieve senso di colpa ad averle parlato in quel modo.
Per fortuna non era una psicopatica, di quelle violente. Bill mi aveva già avvertito di questo. Se gli avevano detto che il suo era solo un caso di depressione, allora potevamo stare tutti tranquilli.
Il suo sguardo era puntato verso Bill, in quanto proprio davanti alla porta, e lui ricambiò, seguendola con il suo, di sguardo.
Non credo mi avesse visto.
Ero in un punto un po’ più “nascosto” rispetto a Bill, che ancora non si era levato di faccia quello sguardo da ebete, senza battere ciglio. Esattamente come fosse stato ipnotizzato.
-Bill? Bill!- urlai, schioccando le dita.
Se ero geloso di Bill? Sì. Un po’ lo sono ancora.
Per fortuna reagì, cadendo nuovamente dalle nuvole.
-Eh?! Cosa…?!-
Quando fa la faccia da ebete, ho sempre una voglia così di prenderlo a schiaffi.
Sospirai.
-Fammi indovinare, stavi guardando la ragazza di ieri.-
Mi osservò di nuovo, e capii tutto.
-No, non dirlo, ti prego…-
Ma quel furbetto lo disse lo stesso.
-Invece sì. Pensa un po’ se quella voce appartenesse a lei…-
Odiavo quando faceva così, ma adoravo quando faceva così.
Beh, in fondo, non aveva tutti i torti a pensarlo. “Se così fosse, brutta non è…” pensai.
Ero tentato di dirglielo, ma l’istinto protettivo mi prese di nuovo. Non ci posso fare niente, sono fatto così.
-Bill, te l’ho detto mille volte di smettere di vedere i film della Disney o di leggere le favole, che ti danno alla testa con tutti quei colpi di fulmine e le coincidenze. Cose del genere capitano solo nei film.-
Bill continuava a prendere l’amore troppo seriamente, come una favola, credeva al vero amore, al colpo di fulmine e via discorrendo. Non mi sorprendeva che tutte le sue storie d’amore fossero finite male. Oddio… anch’io dovrei stare zitto su argomenti di questo tipo…
-E se così fosse?- si ostinò lui.
-E’ impossibile.- continuai –Anche se fosse, secondo quanto ti hanno detto, quella ragazza è muta. Come può una persona muta cantare?-
Lo so, suonava un po’ cinico, ma lo facevo per il suo bene; che diamine, è il mio fratellino… dovevo proteggerlo, no?
Lui sospirò, pur sapendo che lo facevo per il suo bene. Non ho mai sopportato vederlo triste, con il cuore spezzato. Si spezzava anche a me. Non osai nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto, se le cose non fossero andate come voleva lui…
-Forse non è muta del tutto…- mormorò –E se fosse in grado di parlare, ma semplicemente non vuole? Non so come dirlo, ma… è una cosa che sento dentro.-
Sapevo esattamente cosa intendeva dire.
“Lo credevo anch’io, con Ria…” pensai, storcendo di poco la bocca “Ma, come già sai, non è finita bene.”
Ero caduto anch’io in un’illusione; non volevo che a Bill capitasse, di nuovo, la stessa cosa.
Non volli dirglielo, ma forse lo aveva già intuito. Non per niente siamo gemelli.
Smettemmo di parlare per tutto il resto del trattamento.
 
Daniela’s P.o.V.
 
La lezione di yoga era stata molto interessante. Dovevo tenere gli occhi chiusi tutto il tempo e respirare il più possibile. Dicevano che era l’ideale per scacciare i brutti pensieri. Effettivamente, aveva funzionato.
Era l’insegnante a guidarmi: mi mostrava come muovere le braccia in un certo modo o le gambe, non perché non fossi in grado di farlo, ma per fare in modo che memorizzassi i movimenti, senza il bisogno di guardarla fare quei movimenti, per le prossime lezioni, per evitare di distrarmi. Avrei dovuto ripetere quella lezione ogni mattina, dopo l’orario di colazione.
Dopo il bagno, Chiara mi aveva accompagnato in camera, senza nemmeno chiedermi se volevo pranzare. Tanto la risposta era scontata. Sembrava attendere il momento in cui sarei stata io a dirle: -Ho fame.-
Mi chiese ugualmente, però, se avevo bisogno di qualcosa. Scossi la testa, sorridendo lievemente.
Appena entrata, mi feci un bagno normale. So che suona anche questo strano, ma mi stupii anche averlo solo pensato. Era sempre stata Chiara a farmi la doccia, quando ero all’ospedale; anche il giorno prima, alla SPA, mi aveva fatto la doccia. L’ho scritto, no, che gli unici momenti in cui mi muovevo erano solo per navigare su Internet e giocare alla Playstation?
Per il resto, non facevo nulla; mi aiutava Chiara.
Restai a mollo per quasi un’ora, rilassandomi come non mai. Sentire l’acqua accarezzarmi la pelle mi rilassava.
Dopo quasi una settimana di docce, tornare a farmi il bagno era un rientro in paradiso.
Anche spazzolarmi i capelli fu come una rivelazione: mi ero dimenticata quanto mi piacesse spazzolarmi da sola. Toccarmi i capelli.
Questo già lo feci il giorno prima, facendo stupire Chiara.
Stavo piano piano riacquisendo la mia indipendenza.
I trattamenti stavano funzionando. O forse ero anch’io che stavo lottando contro il mio lutto.
Cercavo di non pensarci; cercavo di concentrarmi sulla vacanza.
Quando morì mia zia, ci misi quattro settimane per tornare “normale”. E con “normale” intendevo tornare a sorridere, parlare con la gente, vedere la gente, come se niente fosse accaduto.
Ma questo non significava scordarmi definitivamente di Gabriele o del mio lutto.
I lutti non sono nemici facili. Anche se passa il tempo, sentirai sempre, seppur piccola, quella morsa amara nel tuo cuore, soprattutto se la persona era a te cara. Piccola, ma letale.
Il mio cuore ne stava subendo due, di lutti. Se ne fosse capitato un altro, non avrei esitato a togliermi la vita. Pregai che non succedesse.
Sono sempre stata un tipo che somatizzava i sentimenti “forti”: cedevo facilmente soprattutto al dolore, all’umiliazione, alla paura, a tutti i sentimenti negativi, per questo mi sono sempre definita una persona debole.
Il dolore è impossibile da sopportare, quando sei una persona debole. L’unica via che ti resta davanti, per liberartene, è il suicidio. In fondo, chi avrebbe pianto la mia scomparsa?
Mi avevano ormai abbandonato tutti, da quando sono stata mandata all’ospedale psichiatrico.
Il lutto che provavo per Gabriele non mi abbandonava nemmeno un secondo, non importava quanto mi sentissi o mi mostrassi serena, o quanto riuscissi a distrarmi con i trattamenti. Tornava sempre da me, come un lupo che gira intorno alla sua preda, in attesa di attaccarla.
Facevo il possibile per sopravvivervi, anche fare piccoli gesti, come quello di farmi il bagno da sola o asciugarmi i capelli da sola. Gesti normali e stupidi, ma che dimostravano a me stessa che stavo reagendo.
Quel pomeriggio avrei avuto soltanto una seduta di fisioterapia, subito dopo l’orario stabilito per il pranzo.
Il resto del pomeriggio lo passai di fronte alla Playstation, a giocare a Call Of Duty con Filippo. Mi chiedeva spesso come stavo, anche via WhatsApp.
Le mie uniche risposte erano “Cerco di andare avanti”, giusto per non farlo preoccupare per me.
Naturalmente, lo avevo messo al corrente della SPA, infatti gli raccontavo quali trattamenti che dovevo fare e come mi sentivo al loro termine. Ero solo al secondo giorno, ma notavo dei progressi.
Ero lieta di avere almeno una persona, in tutto il mondo, che si preoccupasse per me.
Mi chiedevo spesso come se la stesse cavando: la morte di Gabriele aveva colpito entrambi, ma forse non così tanto da dividerci. Conoscendolo, forse aveva smesso definitivamente di uscire. O forse aveva affrontato la situazione in modo stoico e aveva deciso di guardare avanti.
Non era come me. E non me la sentivo di seguire il suo esempio. Ci avevo provato, inutilmente.
Osservai la foto di Gabriele. Ogni giorno che passava, appariva sempre più bello, come nella realtà.
Non ebbi mai il coraggio di dirgli che ogni volta che lo vedevo, appariva sempre più bello ai miei occhi.
I miei rimpianti… mi fecero nuovamente cadere nella malinconia.
 
Oggi ho pensato a molte cose, soprattutto a Gabriele. Rivedendo la sua foto, ho riprovato i miei rimpianti. Soprattutto non avergli mai detto quanto fosse bello.
 
Ebbi l’impressione di essere tornata al punto di partenza. Gabriele era il soggetto principale dei miei pensieri. Da una parte, non potevo fare a meno di osservare la sua foto, dall’altra sapevo che era il motivo principale della mia malinconia.
“Avrei dovuto lasciare che Chiara staccasse la sua foto dal muro?” mi domandavo spesso.
No. Non potevo prendere e lasciare il mio unico ricordo di Gabriele. Vederla mi faceva star male, ma almeno potevo ricordarmi di lui.
Il mio era un vero e proprio dilemma.
Mi ritornò in mente Elysa e la cantai, per intero.
Successivamente, riscrissi nel diario.
 
“I miss your feeling
I miss you every single day
If you can hear me
Come back and stay”
 
Quanto vorrei che queste parole si realizzassero…
 
Le lacrime scesero di nuovo e mi buttai sul letto, con la faccia immersa nel cuscino, per non far sentire a nessuno i miei singhiozzi.
Non durarono a lungo.
Udii bussare alla porta. Tre colpi brevi. Una pausa. Un colpo breve.
Chiara.
Era una specie di codice che avevamo creato in ospedale, per distinguere lei dagli altri “visitatori”.
Scesi dal letto e le aprii.
Era tornata in piscina.
Quel giorno non ne avevo voglia. Un po’ per paura di rivedere i Kaulitz e un po’ perché nel pomeriggio il cielo si era annuvolato e io temevo che fosse un preludio alla pioggia. Per fortuna non piovve.
Era entrata essenzialmente per vedere come stavo. Feci il possibile per nascondere le lacrime e mostrarmi non turbata.
Tanto lo avrebbe scoperto comunque, appena letto il mio diario.
Al di là del dolore stavo bene. Mi stava già piacendo quella vacanza.
Pianificai di andare in piscina, il giorno successivo, dopo la lezione di yoga.
Dopodiché avrei avuto il pomeriggio pieno.
Alle 19:00 Chiara uscì dalla stanza, dopo avermi chiesto se volevo andare con lei a cena.
La mia risposta, come sempre, fu negativa, mentre bevevo la mia acqua zuccherata.
Quella sera decisi di vedere un film, “Jane Eyre”, per la precisione, quello del 2011, la versione più fedele al libro.
Gli attori principali erano azzeccatissimi con i loro personaggi. Mia Wasikowska e Michael Fassbender erano dei perfetti Jane Eyre e Edward Rochester.
Persino gli altri attori erano azzeccati con i loro personaggi, specie la signora Fairfax e la signorina Ingram.
Blanche Ingram.
Nel libro ero arrivata al capitolo in cui veniva introdotta, o meglio, quando Jane la vede per la prima volta.
Nello stesso momento, io immaginavo di essere Jane Eyre, Gabriele il signor Rochester e Elena Blanche Ingram. Mi chiedevo spesso chi, per lui, fosse Jane Eyre e chi Blanche Ingram…
Ad un certo punto, misi in pausa la riproduzione. Era la scena del duetto tra Blanche Ingram e il signor Rochester.
Ebbi come uno strano lampo nel cervello. Ma dovetti attendere, prima di fare la pazzia che avevo intenzione di fare.
Poi, a film terminato, spensi tutto.
Presi la chiave della mia stanza e uscii.
Avevo ancora gli abiti che avevo quella mattina. Ci stavo praticamente sei volte, ma almeno mi sentivo libera.
Senza farmi sentire, scesi le scale. Per fortuna era tutto rivestito in moquette.
I corridoi erano illuminati, ma almeno non c’era nessuno.
Mi diressi verso il salone-ristorante. C’erano ancora alcune luci accese.
In mezzo, c’era un pianoforte. Un pianoforte nero, bellissimo.
Era da tempo che non ne vedevo uno.
Da piccola avevo preso lezioni di piano, per poi passare alla tastiera.
Avevo smesso di suonare da almeno sei anni, a causa della scuola, ma a volte la riprendevo, se avevo voglia di suonare qualcosa.
Anche quel pomeriggio ero scesa furtivamente in direzione del ristorante.
Non so cosa mi spinse a farlo, ma lo feci ugualmente.
Mi ero nascosta dietro ad un angolo, stando bene attenta a non farmi scoprire: era un salone enorme, bellissimo, bianco, elegante, con il pavimento di marmo.
C’erano dei tavoli riservati agli antipasti, ai finger food e alle insalate, come in ogni hotel.
Vidi subito Chiara, che con aria golosa stava prendendo diversi crostini, dei pomodori ripieni e chissà cos’altro… mi faceva pena vederla da sola a mangiare, ma io ancora non ne sentivo il bisogno; non mi venne neppure l’acquolina in bocca di fronte a quelle delizie.
Poi, involontariamente, notai loro: i gemelli Kaulitz. Insieme, come al solito.
Essendo vegetariani, si stavano gustando un flan alle verdure; o almeno, sembrava un flan.
Parlavano e ridevano, Dio solo sa di che cosa. Il mio sguardo, però, era puntato verso Bill.
L’emblema della bellezza maschile. E quegli occhi che esprimevano ancora purezza e genuinità, come ai tempi di “Monsoon”, ma che nascondevano sempre qualcosa di oscuro e melanconico. Sì, decisamente quel look gli donava molto più di quello precedente.
In quel momento, avevo notato anche il pianoforte, al centro del salone.
Rimasi ammaliata dalle note, dalla melodia; mancava poco avessi la crisi di Stendhal.
E, naturalmente, nessuno degnò di un applauso il pianista, impegnati com’erano tutti a mangiare.
Quel pianoforte aveva fatto scattare una strana molla in me. Uno sfizio che volevo togliermi a tutti i costi.
Sempre in punta di piedi, mi avvicinai, salendo sul piedistallo su cui era stato messo.
Non era stato chiuso a chiave.
Lo aprii, poi togliendo il panno che copriva la tastiera.
Era da una vita che non vedevo tasti così lucidi e ammalianti.
Non so ancora cosa mi spinse ad uscire dalla mia stanza quella sera; forse stavo impazzendo, forse la mia depressione si stava trasformando in pura follia, ma da quel momento mi domandai spesso cosa sarebbe accaduto, se non avessi fatto così.
Guardandomi intorno, per assicurarmi che non ci fosse nessuno, feci un breve esercizio di riscaldamento, suonando con entrambe le mani.
Poi, suonai veramente qualcosa.
Una melodia triste, che venne accompagnata da una canzone.
 
Bill’s P.o.V.
 
Quella voce era ormai entrata nella mia testa.
Mi domandavo spesso se mi conveniva ascoltare Tom o agire seguendo il mio cuore.
Scelsi la seconda, ovviamente. Non mi importava se fosse una persona brutta o bella, volevo sapere a chi apparteneva quella voce bellissima, angelica.
Salendo nuovamente le scale, quel pomeriggio, la sentii di nuovo.
Stava cantando “Elysa”, una delle canzoni del nostro ultimo album, all’epoca.
Ma non era un frammento: grazie a Dio la cantò per intero, così scoprii finalmente da dove proveniva. Come avevo dedotto, proveniva da una stanza del primo piano.
La seguii, fino a quando non si fece più forte. Raggiunsi la porta e mi fermai.
Sì, la sentivo forte e chiaro. Fa sempre uno strano effetto sentir cantare le proprie canzoni, lo dico per esperienza.
Ma quella voce… com’era triste… sembrava fosse tutt’una con la canzone, come se stesse provando le stesse sensazioni che avevo provato io nel comporla. Come se anche lei… stesse provando un lutto.
Volevo bussare ed entrare, principalmente per farle i complimenti. Ma poi udii dei singhiozzi.
“Forse è meglio lasciar perdere…” pensai, prima di dirigermi in camera.
Almeno sapevo il numero della stanza.
Inutile dire che discussione venne fuori appena ne parlai nuovamente con Tom.
L’unica cosa che posso dire è che non ne parlammo più.
Dopo cena, ero nuovamente sceso al piano terra per prendere un paio di bottigliette d’acqua al bar.
Fu lì che la sentii di nuovo.
Die Sirene.
Proveniva dal salone. Sentii persino il pianoforte.
Determinato, corsi immediatamente lì.
Quella volta non me la sarei lasciata sfuggire.
Riconobbi la canzone. Era un’altra delle nostre.
Volli udirla per intero, come avevo fatto quel pomeriggio con “Elysa”.
 
I wonder I your body tastes
Inside of someone else’s place
Pull away your eyes
there’s nothing left to heal
I’m alone but I know everything you fell
And you waiting on the rain
Through tears my heart is caged
And we fall through fate
But we raise and raise again
And I run run run run run
And I run run run run run
I run run run run run
I just run run run
Tell me how you close the door
Knowing nobody could love you more
Telling all your friends that this love
Was just made for bleeding
Hung up underwater but still
Keep on trying to breathe in
And you waiting on the rain
Through tears my heart is caged
And we fall through fate
But we raise and raise again
And I run run run run run
And I run run run run run
I run run run run run
I just run run run
Our lust for fighting
Tied up in silence
And you waiting on the rain
Through tears my heart is caged
And we fall through fate
But we raise and raise again
And I run run run run run
And I run run run run run
I run run run run run
I just run run run
 
Rimasi ammaliato. La ascoltai con gli occhi chiusi.
Mi avvicinai al pianoforte senza far rumore.
Sorrisi appena scoprii finalmente di chi era quella voce: era proprio lei.
La ragazza dell’ospedale psichiatrico.
Tratti del volto delicati e graziosi, con tante lentiggini, occhi scuri, capelli castani; non riuscii a intravedere le forme del corpo, a causa degli abiti larghi che indossava. Anche il suo aspetto era quello di un angelo.
Non era solo la luce del salone ad illuminarla. Percepivo un’altra luce, più eterea, quasi divina, che la illuminava.
Riuscivo a leggere la tristezza nei suoi occhi, nella sua voce.
Avevo ragione: non era muta del tutto.
“Tom, questa volta ho vinto io.” pensai, soddisfatto.
Ingenuamente, mi feci scoprire.
Avevo posato le bottigliette dell’acqua per terra, per applaudirle.
-Brava.- le dissi, in italiano –Sei bravissima.-
Lei mi guardò spaventata: naturalmente, non si aspettava la mia presenza.
Scese immediatamente dal piedistallo, correndo verso l’uscita, in direzione delle scale.
Io ero entrato da un’altra porta, che collegava il ristorante al bar.
Mi lanciai all’inseguimento, raggiungendola in breve tempo.
-Ehi, aspetta!- le urlai, stavolta in inglese; lei non si voltò nemmeno; udivo il suo respiro, sempre più affannoso e non solo per la corsa; dovevo averla spaventata molto.
Per sdrammatizzare, la buttai sul ridere.
–Solo perché la canzone si intitola “Run  run run”, non significa che tu debba correre per forza!-
“Bill, sei proprio un idiota.” pensai, un secondo dopo. “Davvero un bel modo per cercare di sistemare questa situazione…”
Ero sempre stato una frana in certe cose.
Prima che salisse l’ultimo gradino, riuscii a prenderla per un polso, stringendolo.
Lei si dimenava come un animale, per liberarsi; ogni tanto si lamentava.
-Ti prego, non scappare!- supplicai, cercando di rassicurarla –Non devi avere paura di me.-
Ma lei non sembrò ascoltarmi. Continuava a dimenarsi e a lamentarsi, ma io non mollavo.
Fino a quando non la sentii esclamare: -Leave me alone! (Lasciami sola!)-
Mi sgomentai, a tal punto da mollare la presa.
La vidi sparire nel buio, prima di udire una porta che si apriva e poi si chiudeva.
Sì, era la stessa stanza da cui quel pomeriggio avevo sentito “Elysa”.
Ero rimasto incantato dalla sua voce, sia mentre cantava, sia quelle poche parole che aveva pronunciato.
Che bella pronuncia che aveva…
E le sue labbra… così colorite, come se si fosse tolta da poco il rossetto. No, erano così di natura.
Persino le sue mani erano belle, con le dita lunghe ed eleganti, come quelle di una pianista.
Preso da un improvviso impeto di rabbia, battei un piede per terra, dandomi continuamente dello stupido.
Sì, davvero un pessimo modo per iniziare una conoscenza.
Rassegnato, tornai al piano terra, per riprendere le bottigliette d’acqua.
 
Daniela’s P.o.V.
 
Mi ero esercitata tantissimo per suonare e cantare “Run run run”.
A casa di Gabriele c’era un pianoforte da parete; pensavo di suonargli questa canzone, una volta tornata a casa sua dopo il concerto.
Mi ricordavo ancora le note, grazie al cielo.
Era stata un’impresa ricordarmele tutte, ma, per amore, tutto è possibile.
Non mi aspettavo proprio la presenza Bill Kaulitz.
Lo vidi comparire all’improvviso, mentre mi applaudiva.
Presa da una forte ansia, cercai di scappare.
Lui era riuscito a raggiungermi e non aveva la minima intenzione di mollarmi.
A quel punto, mi era sfuggito.
-Leave me alone!-
Tornai subito in camera, chiudendomi la porta alle spalle, riprendendo fiato.
Ripensai a quanto era successo poco prima: avevo parlato.
Dopo quasi due settimane, avevo nuovamente parlato.
Che strana sensazione provai a sentire nuovamente la mia voce. E non cantata, ma parlata.
Sentii il mio cuore farsi più leggero, come se parlare avesse sbloccato un’altra piccola parte di me.
Dovetti combattere la mia tentazione di entrare in camera di Chiara e urlarle che ero tornata a parlare.
Avevo sempre odiato parlare, ma erano bastate quelle tre parole a farmi venire una voglia smisurata di parlare fino allo sfinimento.
Chiara non aveva ancora preso il mio diario. Era nuovamente sotto la doccia.
Approfittando di quel breve lasso di tempo, scrissi questo.
 
Stasera, dopo aver cantato “Run run run”, ho di nuovo parlato. Di fronte a Bill Kaulitz!
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Lady I H V E Byron