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Autore: Luana89    31/08/2017    0 recensioni
«Perché?». Mi guardò dubbiosa.
«Perché cosa?»
«Perché rimani se odi l’idea di mostrarmi il tuo corpo?». Ero sinceramente curioso.
«Perché .. – una pausa, le sue dita sul gancio del reggiseno. Lo tolse – preferisco questo piuttosto che..»
«Piuttosto che?»
«Tornare in quella casa». Le dita sottili e dalle unghie corte e colorate sfilarono via le mutandine. Nuda e imperfetta.
«Lo preferisco anch’io». Continuò a fissarmi dubbiosa, non capiva se parlassi di lei o di me stesso. Non avrei comunque esaudito la sua curiosità. Per il momento. Le indicai il divano, la prima cosa che fece fu coprirsi con il lenzuolo.
«Come devo mettermi? Insomma c’è qualche posa precisa..?» quando era nervosa parlava velocemente, memorizzai anche quel dettaglio.
«In effetti si». Mi avvicinai a lei, la costrinsi a sedersi e piegare le ginocchia al petto, il lenzuolo cadde appena scoprendole un seno. Le braccia abbandonate mollemente, le dita che accarezzavano i piedi candidi, le spalle ricurve come se portasse addosso il peso del mondo e il viso chino e appena rivolto alla finestra.
«Questa non è una posa..»
«Lo è. E’ la tua». Mi guardò e stavolta ero sicuro avesse capito. Era così che la vedevo, un’anima stanca e ferita. Come me?
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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IV

Taglia, allinea, avvolgi la banconota, tira e perditi.
Taglia, allinea, avvolgi la banconota, tira e perditi.
Taglia, allinea, avvolgi la banconota, tira e perditi.
 
 

Hope

 
Seduta al tavolo della mensa fissavo il grande orologio di fronte a me provando a scovarmi dentro poteri psichici che spingessero in avanti le lancette, tornai a guardare il mio vassoio quasi intatto. Quel giorno servivano cotolette a scuola e gli studenti attorno a me sembravano felici. Scartai gli alimenti solidi aprendo il succo di frutta che bevvi avidamente, la temperatura fuori iniziava a essere più gradevole, ottobre era già a metà e senza rendercene conto saremmo piombati dritti nel Natale. Ma nella mia vita quella festa era bandita, niente canti natalizi o pupazzi di neve. La sedia di fronte la mia si mosse, sollevai gli occhi incontrando quelli azzurri di Nicole che mi sorrise.
«Ti ho vista tutta sola e ho pensato di tenerti compagnia, non ho sedute per le prossime due ore.» Continuava ancora a girarmi intorno e per quanto io la scacciassi iniziavo ad abituarmi alla sua presenza.
«Quindi ha pensato bene di tenersi in allenamento psicanalizzando me». Pensavo l’avrei offesa, mi stupì sentirla ridere e il senso di colpa divenne pressante.
«Voglio solo conversare, anche se ci credi poco». Sbocconcellò la mela svogliatamente, evidentemente eravamo in due a non avere appetito.
«Okay, conversiamo allora, domandi pure». Perché sapevo ci fossero delle domande.
«Tua madre non si è mai presentata alle riunioni né alle attività ricreative..» tentennò un po’, era evidente sapesse di addentrarsi in un campo minato. Mi guardai attorno, le voci divennero ovattate e io mi dissociai totalmente.
«Lei ha una madre dottoressa? – annuì con cautela cercando di capire dove volessi andare a parare – suppongo sua madre sia una ‘’madre’’.»
«La tua non lo è?». Non lessi pietà nei suoi occhi, era un passo avanti.
«E’ questo il punto. Lei non potrà mai capirmi, perché non c’è passata, non ha mai vissuto una situazione simile. Sua madre probabilmente l’ha sempre spronata a inseguire i propri sogni, a non demordere solo perché ‘’donna’’ a non sentirsi discriminata, le avrà fatto regali di compleanno, sarà stata presente alla sua laurea, avrà ascoltato le sue confidenze sui fidanzati. Avrà..» non riuscii a proseguire, piangevo senza neppure rendermene conto e il fiato mi mancò. La sua mano coprì il dorso della mia.
«Io penso che tua madre sia ancora lì, purtroppo esistono dei demoni che possiedono il nostro corpo senza poter far nulla. Quello di tua madre è l’alcool». Non volevo la giustificasse.
«Penso che se morisse non verserei neppure una lacrima». Tirai su col naso e mi sentii una bugiarda. Asciugai i miei occhi schiarendomi la voce.
«Vedo spesso un ragazzo girarti intorno – non so perché pensai stupidamente ad Aj – è Juan Hernandez, e non è raccomandabile». Risi senza un motivo apparente.
«Oh dottoressa, lei ha proprio l’indole da crocerossina». Mi fissò severa per poi ridere, non ero riuscita ad offenderla neanche stavolta.
«Ciò che voglio dire è che aspettare la manna dal cielo è sbagliato Hope, se la tua vita non ti piace smettila di circondarti di persone che possono solo peggiorarla. Come Hernandez». Juan aveva decisamente una vasta, nonché pessima, reputazione.
«Ho conosciuto un ragazzo». Non so perché lo dissi, forse avevo sul serio bisogno di amiche.
«E com’è?». I suoi occhi si riempirono di curiosità e divertimento, forse a causa del mio viso.
«E’ uno stronzo, ma bello. E dipinge. Dipinge me». Sorrisi fintamente orgogliosa, lei se ne accorse e rise.
«Non fatico a crederci, sei così bella da affascinare chiunque. Anche il tuo bel pittore». Restammo in quel tavolo per un tempo infinito che durò troppo poco. Quando mi alzai da lì la mia cartella sembrava più leggera e sentivo di aver trovato un’amica.
 
Il murales blu dei Crips era stato coperto da altri scarabocchi, suonai il citofono attendendo di sentire la sua voce. Non arrivò. Due minuti più tardi – e altrettanti squilli dopo – sentii solo il portone aprirsi. Era stata una bella giornata, nei limiti, e man mano che salivo le scale sentivo la trepidazione crescere a dismisura. Era sbagliato farsi coinvolgere tanto da qualcuno che neppure conoscevi, non sapevo il suo nome né chi fosse, poteva pure essere un killer su commissione per quanto ne sapevo.
Osservai la porta socchiusa e percepii qualcosa di diverso che non seppi catalogare. Richiusi l’uscio avviandomi verso il corridoio che ormai conoscevo bene e finalmente lo vidi. La stanza era nel caos, tele distrutte e squarciate gettate a terra, la mia – una delle poche superstite – giaceva contro il muro ancora incompleta. Osservai le sue spalle ricurve sul tavolo mentre tirava una striscia di coca con una banconota da cinquanta dollari. I miei probabilmente.
«Oggi non si dipinge, non ho ispirazione». Il suo tono nervoso, diverso dal solito.
«Che stai facendo?». Domanda banale, probabilmente lo pensò anche lui.
«Va via». Tirò su col naso, gli occhi rossi e aridi, il suo corpo si muoveva a scatti e quasi teso.
«Quindi era vero, tiri coca». Non riuscivo a crederci, attesi che il disgusto mi inondasse come succedeva con Juan, ma mi accolse solo il silenzio.
«Essere me non è semplice». Le dita affusolate si insinuarono tra i capelli già spettinati.
«E’ la scusa che ti dai?». Lo guardai sprezzante e ne ricevetti in cambio uno sguardo di puro astio.
«Oppio, cocaina, marijuana, ecstasy qualsiasi cosa distragga le voci dal mio cervello». Si picchiettò la tempia con l’indice, riuscivo ancora a vedere Aj oltre quella patina.
«Quella merda ti fa solo scoppiare il cervello.»
«Che cazzo ci fai qui?». Il tono aggressivo mi fece indietreggiare, adesso lo riconoscevo a stento. Il sorriso era solo una smorfia, il pallido riflesso di ciò che era stato.
«Sei stato tu a chiedermi di ..» non riuscii a finire il discorso, per cosa mi stavo giustificando esattamente?
«Sei soddisfatta adesso?». Lo fissai dubbiosa.
«Dovrei?»
«Hai provato a capire fin dal nostro primo incontro, sei soddisfatta adesso? Sei soddisfatta di vedere la mia vita in pezzi come la tua?». I miei occhi si inumidirono, quella era una cattiveria che non ero sicura di meritare. Forse ero stata invidiosa di lui si, mi resi conto di essermi fermata solo all’apparenza.
«Sei un bastardo.»
«Lo diceva spesso anche mio padre, e forse mia madre gli avrebbe dato ragione se solo mi avesse conosciuto». Tornò a chinarsi e tirare un’altra striscia perfettamente allineata, stava parlando di se e per un attimo il fatto che lo stesse facendo sotto l’effetto di droghe passò in secondo piano. Volevo continuare ad ascoltare e mi avvicinai.
«Sei incuriosita Hope – il mio nome assunse nuovi significati, colori, sfumature e profondità – sei così ossessionata dall’idea che hai cucito di me.»
«Non sai ciò che dici». O forse lo sapeva sin troppo bene.
«Hope. Hope. Hope. Quando ti conobbi pensai avessi un bel nome, faceva proprio al caso mio – mi sorrise – perché tutti abbiamo bisogno di una patetica speranza. Di qualcosa che zuccheri le nostre vite, le edulcori abbastanza. Che ci faccia stare a galla.»
«E’ per questo che volevi ritrarmi?». Non rispose alzandosi e iniziando a camminare in circolo.
«Devi sparire». Sollevò le mani scacciando l’aria e con essa anche me. Mi sentii rifiutata anche da lui.
«Sai che c’è di nuovo? Sei come tutti gli altri, un patetico stronzo che si finge superiore solo quando usa colori e pennelli, ma in realtà sei solo un comunissimo ragazzino immaturo». Avevo il fiatone. Lo vidi accucciarsi al pavimento e fissarmi.
«Ho conosciuto puttane che si spogliano per molto meno di cinquanta dollari, avrei dovuto chiedere a loro». La mia rabbia si diramò in ogni arto, oscurò i miei occhi, mi coprì come una coltre salendo sino al cervello. Non ebbi più controllo del mio corpo mentre urlavo avventandomi contro di lui. Le mie dita artigliarono la maglia, la sentii lacerarsi ma ciò che non sentii fu la sua resistenza e quando me ne accorsi era già troppo tardi. Le mie unghie avevano graffiato la pelle e strappato la sua maglia, steso sul pavimento mi fissava senza alcuna sorpresa.
«Sei contento adesso?». Mi fissai le mani, tremavano.
«Dovresti usare questa rabbia più spesso, la gente eviterebbe di calpestarti». Ne ebbi abbastanza dei suoi giochini subdoli, girai i tacchi correndo via da quella stanza, da quella casa e da lui. Avevo chiuso. Mi venne in mente Nicole e le cose che le avevo confidato, mi sentii ancora più patetica.
 
Juan dormiva a pochi metri da me completamente nudo, mi coprii sentendo improvvisamente freddo. Un freddo che penetrava le mie ossa. Mi misi a sedere fissando il tramonto infuocato oltre il balcone, anche quello sembrava privo di colori. Tutto era assenza. La tavolozza del pittore sparita come lui, non lo sentivo né vedevo da dieci giorni, la mia vita era piombata nuovamente nella ciclica e letale routine che mi ero forgiata con le mie mani. Non riuscivo a togliermi dalla testa l’espressione del suo viso mentre tirava col naso quella disgustosa polvere bianca. Anche quell’immagine appariva in bianco e nero, mi guardai le mani e anche queste persero colore. Sentivo la gola riarsa, il letto cigolò e un sospiro mise fine alla mia agonia.
«Sei sveglia? – annuii senza guardarlo – vestiti e fatti bella, stasera andiamo al locale». Il ‘’locale’’, la bettola preferita da alcuni membri dei Latin Kings, musica latina, rum a fiumi e tanta dissolutezza. Non era male, togliendo Juan e tutta la sua cricca. Sospirai alzandomi dal letto, trascinandomi addosso il lenzuolo spiegazzato dalle futili stampe floreali.
 
‘’Hope. Hope. Hope’’, la lenta cadenza che scandiva il mio nome accompagnava ormai i miei passi, il modo in cui lo aveva pronunciato era impossibile da scordare. La musica impazzava dentro il locale dalle luci soffuse, corpi avvinghiati ballavano anche se personalmente ero sicura stessero copulando. Un braccio mi cinse le spalle, istintivamente abbassai la minigonna a jeans lungo le cosce guardando Juan.
«Ti diverti?». Beh.. no?
«Molto, hanno cambiato gestione di nuovo?». Osservai il barman, non lo conoscevo.
«Si, vieni ti presento un amico». Conoscevo tutti gli amici di Juan, era un nuovo membro della gang? Mi afferrò la mano, le fissai entrambe con una smorfia prima che i miei occhi non si posassero su una figura di spalle poggiata al bancone. Era familiare.
«Ti presento Aj, ci siamo conosciuti giorni fa.»
 
Sentii un buco nero spalancarsi sotto i miei piedi.
 

AJ

 
Minigonna, una maglia bianca corta e aderente lasciava scoperto l’ombelico. Era impossibile non fissarla, non notarla, non pensare cose assurde. Il viso di Juan si frappose tra noi due, sorrisi adesso padrone di me, il fatto che fosse sbiancata e tremasse non mi sfuggì, forse pensava fossi lì per farla uccidere?
«Lei è Hope, la mia donna». Il tono possessivo era così disgustoso e degradante, sorrisi ugualmente inarcando un sopracciglio.
«Hai proprio buongusto». Soltanto lei capì il retrogusto mordace della mia affermazione, Juan si limitò a ridere.
«Tienimela d’occhio, chiamo i ragazzi». Si allontanò così lasciandoci soli a squadrarci.
«Che diavolo ci fai qui?». Attaccò lei riprendendo lievemente colore.
«L’ho conosciuto qualche giorno fa, il dove non ti piacerebbe». La fissai ambiguamente e lei capì. Chissà se era gelosa del sapere che il suo fidanzato andava con le puttane.
«Vai a puttane?». Forse non lo era, no.
«Te l’ho detto, cerco qualcuno che si spogli per me e si lasci ritrarre». La ferii ancora. Bevvi avidamente la mia birra, le sue dita si toccarono le braccia come se avesse freddo. Eppure in quel posto c’erano circa cinquanta gradi percepibili. Afferrai il mio chiodo nero gettandoglielo tra le braccia.
«Bel giubbotto.»
«Mettilo, e la prossima volta pensaci bene prima di uscire nuda». Le fissai le cosce e fui certo di vederla arrossire.
«Come conosci Juan?»
«Te l’ho detto, è stato un caso». Non mi credeva. Risi divertito.
«Se volevi vedermi bastava chiamarmi». Reclinai il viso fissandola incuriosito.
«Sei sicura quindi fosse una scusa per vedere te?»
«Non lo è?». Ci sperava. Mi morsi l’interno della guancia adocchiando Juan poco distante, mi sorrise sollevando un bicchiere, non ricambiai.
«Ho pensato avessimo chiuso, no?». Non capì probabilmente che cercavo una conferma.
«Tiri ancora?». Era questa la cosa importante?
«Ti diverte molto metterti in croce per gli altri, vero? Se proprio vuoi saperlo, non succede spesso, è qualcosa che – ponderai bene le parole – è solo qualcosa che capita. Ti consiglio comunque di non curarti troppo dei miei problemi, ne hai uno proprio alle tue spalle». Si voltò in tempo per vedere Juan ed Eric venirci incontro.
«Allora avete fatto amicizia?». Evitai di ridere sarcasticamente, e Hope non rispose. Non credo avessimo mai affrontato la tappa dell’amicizia noi due, anzi ad oggi penso sia impossibile.
«Hai una fidanzata taciturna». Ridemmo entrambi e Hope mi corrose con un’occhiata.
«Aj viene da Detroit». La vidi fissarmi cercando di capire se fosse o meno la verità.
«Già». Il mio laconico commento le tolse qualsiasi dubbio: avevo mentito.
«I suoi genitori lavorano in fabbrica e lui sopravvive con lavoretti racimolati per caso». La vidi faticare nel mantenere un’espressione neutra. Avevo esagerato con le stronzate?
«Ma che bravo ragazzo». Il sarcasmo grondava da ogni poro. Risi involontariamente, Juan ci fissò stranito ma non ebbe il tempo di ribattere. La musica si stoppò improvvisamente sovrastata dal rumore di spari. La prima cosa che fece Juan fu estrarre l’arma, la prima cosa che feci io fu afferrare il polso di Hope e trascinarla a terra.
«Stai bene?». Ci guardammo e annuì. I Cruz non si annunciavano mai suonando il campanello. Vidi B-Bomb marciare in testa con il mitra in mano. Bicchieri frantumati e urla isteriche non riuscivano a coprire quelli delle armi. Juan disse qualcosa ma non lo sentii, approfittai della sua distrazione per trascinare Hope via da lì verso l’uscita laterale.
«Che cazzo sta succedendo?». Era nel panico.
«Sul serio non lo sai? – correvo fissandola poco convinto, la sua espressione restò immutata – CAZZO NON LO SAI SUL SERIO». Corsi più veloce fino alla moto, estrassi le chiavi dai jeans e il motore ruggì, le feci cenno di salire allontanandomi dal Poco Loco e dagli spari.
 
«Perché i Cruz erano lì?». Scese come una furia di fronte casa sua.
«Ricordi Raphael? – annuì come se temesse il continuo – era il nipote di uno dei ragazzi dei Crips, vogliono la testa di Juan e Carlos, insieme a molte altre». Sbiancò barcollando, le afferrai il braccio trattenendola ma si scostò inferocita.
«Hanno visto anche te, adesso vorranno anche la tua testa e tu vivi nel loro quartiere». Quindi era preoccupata per me? Le sorrisi divertito premendo l’acceleratore.
«Non preoccuparti, sopravvivrò». Non dissi altro allontanandomi da lì, sentendo i suoi occhi sulla mia schiena. Sembravano mandarmi a fuoco.
 

 

Hope
 

Il giubbotto riposto ordinatamente sulla gruccia, appeso allo specchio, mentre lo fissavo seduta sul mio letto. Dovevo mettere insieme i pezzi, sentivo la mente confusa dalle troppe informazioni. Aj aveva mentito a Juan sul suo passato, il che non era poi così assurdo visto che non parlava neppure a me della sua vita. I Crips volevano lo scalpo di Juan, avevo sentito Carlos parlare con mia madre e a quanto pare durante la sparatoria era rimasto ferito al braccio mentre alcuni suoi amici ci erano rimasti secchi. Mi coprii il viso con le mani, tremavano ma non me ne curai. Sarebbero andati a cercare anche lui? Lo avevano visto con Juan, magari pensavano erroneamente facesse parte dei Latin Kings. Erroneamente? Se non per me, per chi e cosa si era spinto fino a quel punto? Perché diventare amico di Juan? Ecco, quelle erano le tessere che non riuscivo a incastrare. La luna fece capolino da una nuvola, la sua luce fece brillare un oggetto metallico ai miei piedi: le sue chiavi di casa. Le afferrai fuggendo come una ladra dalla mia stessa casa, attenta a non farmi vedere da nessuno nel cuore della notte.
 
La mezzanotte era ormai passata da venti minuti, le chiavi girarono nella toppa e io sgusciai veloce dentro l’androne buio e odoroso di muffa, persino quelle stupidaggini sembravano divenute una routine. Salii lentamente poggiandomi al corrimano, dovevo riprendere a fare sport o quelle scale mi avrebbero decisamente distrutta. La porta chiusa mi si parò davanti, rigirai le chiavi tra le dita indecisa, magari dormiva? Gliele avrei lasciate sul comodino in quel caso andando via. Annuii decisa e finalmente aprii, non sentii alcun rumore ma la luce dello studio era accesa, quindi non stava dormendo. Silenziosamente percorsi il corridoio, sentii una voce che non era familiare ed ebbi un cedimento ma ormai era tardi, aprii lentamente osservando la scena che mi si parò di fronte: seduto sul solito sgabello, la tela di fronte a se e il pennello tra le dita mentre una ragazza nuda stesa sul letto posava per lui. Non so perché risi, non c’era un cazzo da ridere in effetti.
«Ecco svelato il mistero delle chiavi». Non mi guardò impegnato a fissare la ragazza che dal canto suo invece mi osservava basita.
«Non pensavo di disturbare.»
«Ormai il danno è fatto». Lo incenerii con un’occhiata, non aveva colto il mio sarcasmo quindi? Strinsi le chiavi tra le dita cercando di mantenere la calma. Sostituita. Ecco come mi sentivo, era quella la parola che balzava da parete a parete nel mio cervello, come una pallina impazzita lanciata con troppa forza. Quindi bastava un corpo qualsiasi per prendere il mio posto? Ma certo. Almeno Juan non sembrava riuscire a rimpiazzarmi, a differenza sua. La cosa però non sembrava consolarmi. Sentii i suoi occhi su di me, ma io non riuscivo a distogliere i miei da quel letto sfatto e da quel corpo nudo.
«Ti paga?». La mia voce non sembrava mia. La ragazza si mosse a disagio tra le lenzuola.
«No, lui non paga mai è solo un.. passatempo». No? Non sapevo come prenderla. Tornai a fissarlo.
«Pensavo avessi chiuso con me». Oh che bastardo. Risi ancora.
«Non propinarmi stronzate, è solo questo che fai da quando ci conosciamo, no?». Non rispose, e mi fece male e rabbia al tempo stesso.
«Sto solo cercando qualcuno come te.»
«Direi che sei sulla buona strada». Indicai la ragazza, non l’avevo guardata benissimo ma la sua bellezza non passava inosservata.
«Sono sulla pessima strada». Non mi guardò pulendo il pennello, l’odore impregnò le mie narici. Era solo uno stronzo come tanti, scossi il capo ripugnata da me stessa e dagli sciocchi pensieri che mi avevano fatto vivere nella stupidità voltandogli le spalle. Riuscii a percorrere circa tre passi prima che la sua mano si serrasse sul polso, trattenendomi. Provai a divincolarmi.
«Mollami subito». Non lo fece, grazie a dio.
«Dovresti andare». Non lo disse a me ma alla ragazza sul letto che dal canto suo stava già rivestendosi, percepiva anche lei la sensazione di essere superflua? Io si, fino a due minuti fa era esattamente così che mi sentivo.
«Ti è finita l’ispirazione?». Lo beffeggiai crudelmente.
«Non è mai iniziata a dirla tutta». Come sempre non si piegò ai miei mezzucci. Il tonfo della porta e fummo soli. Mi lasciò andare solo in quel momento tornando a sedersi sullo sgabello, afferrando il pacco di sigarette per accenderne una. Mi lasciava sul serio basita, era normale? O ero io quella anormale? Percorsi i pochi passi che mi separavano dalla poltrona dove mi accomodai, sentivo ogni fascio di nervi pronto a scattare e con la coda dell’occhio vidi il mio ritratto incompleto ancora poggiato al muro. Lo indicai.
«Non lo hai distrutto alla fine?». Seguì la mia traiettoria nonostante sapesse a cosa mi riferissi.
«Speravo di trovare qualcuna che potesse sostituirti, magari solo il corpo se non il viso. Ma non ho avuto successo». Sollevò le spalle lasciandomi sbigottita.
«Non credo di essere così unica.»
«Non vedi oltre, è questo il tuo problema. Pensi che ritrarti voglia dire solo conoscere la misura delle tue tette? Pensi sia solo quello che dipingo?». Sembrò offeso per la prima volta, e mi sentii quasi in colpa.
«Smetti di frequentare Juan». Mi sorrise sghembo.
«Temi gli dica che posi nuda per me? O che ti ho baciata? O che presto faremo sesso?». Aprii più volte la bocca per parlare, ma ci riuscii svariati tentativi dopo con suo sommo divertimento.
«Faremo sesso?». Non mi venne niente di brillante a parte quello.
«In effetti non mi dispiacerebbe». Ecco, un minuto prima mi lasciava accaldata e l’attimo dopo ustionata a causa della rabbia.
«A me si». Sorrisi a denti stretti.
«Dovresti allontanarti tu da Juan, la situazione diventa sempre più tesa Hope. I Cruz prepareranno una vendetta coi fiocchi, questi assalti sono solo un antipasto». Sembrava parecchio informato.
«E io che c’entro?». Ci fissammo.
«Non risparmieranno sicuramente la fidanzata di Juan». Mi raggelai, non volevo morire. Lo avevo pensato spesso si, ma non volevo sul serio ..insomma. Volevo un sacchettino e lui lo capì. Mi venne vicino trascinandomi sul divano aperto, stendendomi quasi a forza per poi imitarmi. Si girò su un fianco continuando a guardarmi.
«Non posso lasciarlo, nessuno lascia Juan Hernandez è lui che al massimo ti getta via». Attendevo lo facesse da un anno.
«Il problema non è lasciare solo Juan, ma tutta la tua vita. Quando avrai il coraggio di vedere, vedere davvero, lo capirai». Io lo capivo già, ma appunto mancava il coraggio. Chiusi gli occhi sentendomi stranamente tranquilla con le sue dita sulla mia schiena.
«I tuoi genitori lavorano in fabbrica, eh?». La mia voce strascicata non perse l’ironia, sentii la sua risata attutita dal cuscino, era piacevole.
«Quantomeno adesso so il perché.»
«Il perché di cosa?». Mi sentivo andare alla deriva.
«Il perché preferisci me a lui». Non riuscii a rispondere, la mia lingua non rispondeva ai comandi e il mio corpo era intorpidito. E poi che bugia avrei potuto propinargli di fronte a quella disarmante verità?
 

 
  
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