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Autore: Luana89    30/08/2017    0 recensioni
«Perché?». Mi guardò dubbiosa.
«Perché cosa?»
«Perché rimani se odi l’idea di mostrarmi il tuo corpo?». Ero sinceramente curioso.
«Perché .. – una pausa, le sue dita sul gancio del reggiseno. Lo tolse – preferisco questo piuttosto che..»
«Piuttosto che?»
«Tornare in quella casa». Le dita sottili e dalle unghie corte e colorate sfilarono via le mutandine. Nuda e imperfetta.
«Lo preferisco anch’io». Continuò a fissarmi dubbiosa, non capiva se parlassi di lei o di me stesso. Non avrei comunque esaudito la sua curiosità. Per il momento. Le indicai il divano, la prima cosa che fece fu coprirsi con il lenzuolo.
«Come devo mettermi? Insomma c’è qualche posa precisa..?» quando era nervosa parlava velocemente, memorizzai anche quel dettaglio.
«In effetti si». Mi avvicinai a lei, la costrinsi a sedersi e piegare le ginocchia al petto, il lenzuolo cadde appena scoprendole un seno. Le braccia abbandonate mollemente, le dita che accarezzavano i piedi candidi, le spalle ricurve come se portasse addosso il peso del mondo e il viso chino e appena rivolto alla finestra.
«Questa non è una posa..»
«Lo è. E’ la tua». Mi guardò e stavolta ero sicuro avesse capito. Era così che la vedevo, un’anima stanca e ferita. Come me?
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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III



Bevvi avidamente il caffè seduto sopra la moto intento ad osservare il traffico del mattino, non era particolarmente stimolante né era ciò che cercavo in quel preciso momento. Ciò che cercavo si intrufolò in una bettola pochi minuti dopo, finii il caffè accartocciando il bicchiere, attraversando la strada senza curarmi delle auto. La sala giochi era immersa in una nube di fumo e chiacchiericcio insistente, attraversai diversi tavoli ignorando le occhiate astiose dirigendomi in fondo.
«Sei arrivato finalmente». B-bomb imbucò la palla con precisione rivolgendomi uno dei suoi soliti sorrisi brillanti in contrasto col colore scuro della sua carnagione. Presi posto in uno degli sgabelli liberi accendendomi la seconda sigaretta della giornata, mischiando la mia nube tossica a quella già presente.
«Ho visto il tuo messaggio, dì un po’ non potresti mandare messaggi in segreteria come tutti o chiamare?». Lo sentii sghignazzare venendomi vicino, quella mattina di fronte il mio portone spiccava l’ennesimo graffito, di un blu intenso proprio come il loro colore d’appartenenza. Una semplice parola marchiata a fuoco e seppi con certezza fosse per me.
«Non lo sai? Ormai i cellulari non sono più sicuri, diciamo che le acque sono burrascose al momento». La notte precedente avevo udito spari in lontananza, i Latin Kings avevano ricambiato il servizietto di due giorni prima ai danni di alcuni compagni.
«Cosa ti serve?». B-Bomb mi fissò, così come me nessuno era certo del suo reale nome. Lo avevo conosciuto una vita fa a Los Angeles, ero uno dei pochi bianchi per la quale provava stima, oltre i membri della cricca. Ironico come fossi io quello soggetto al razzismo in quel luogo.
«Mi serve la testa di Juan Hernandez e Carlos Suarez, puoi darmela?». Ci fissammo scoppiando a ridere. Qualcuno mi passò una lattina di birra, bevvi avidamente tirando poi dalla sigaretta.
«Tocca a te staccargliela di netto, non vuoi mica che i tuoi compagni pensino io sia più valoroso di te?». Lo presi in giro beccandomi una finta occhiata truce,sapevo che non era tutto.
«Amico le cose si stanno mettendo male, quei figli di puttana ci stanno sfidando e l’Irlandese non è per niente contento». L’Irlandese, così chiamato nella cricca probabilmente a causa delle sue origini era colui che deteneva il monopolio della filiale lì a Chicago. I Crips erano nati nei sobborghi di Los Angeles anni prima, ma le loro spire ormai coprivano l’intero stato.
«Lo immagino, Raphael era solo un bambino». Il ragazzino di undici anni ucciso tre giorni prima era il nipote di uno dei membri, non l’avrebbero fatta passare impunemente.
«Farò a loro la stessa cosa, donne bambini non me ne frega un cazzo. Qualcuno pagherà.»
«Dovrebbe pagare solo chi è coinvolto, altrimenti saresti uguale a loro». Lo sapeva ma se ne fotteva, in fondo anche loro non erano meglio degli ispanici.
«Juan o Carlos hanno mogli, compagne, figli?». Mi irrigidii appena, il punto era quello e temevo arrivasse.
«Lascia perdere le donne. Carlos vive dove capita e scopa persino le prese d’aria, quanto a Juan..» rimuginai qualche istante e fu il mio errore.
«Ha una donna vero?». Scossi il capo bevendo avidamente la birra.
«Lui la considera tale, ma lei lo detesta». Scrollai le spalle con indolenza lasciandomi scrutare da quegli occhi neri.
«O hai indagato troppo bene, o conosci la puttana». Mi indicò col dito e un sorriso storto, risi senza suono.
«Entrambe le cose, quindi lascia in pace la ragazza. Puoi farlo?». Ci fissammo mutuamente, non ero sicuro mi avrebbe ascoltato. Alla fine sospirò sbattendo a terra la stecca.
«Potrei farlo si. Mi raccomando allora, sei i miei occhi in quella zona di merda.»
Respirai a pieni polmoni l’aria estiva una volta uscito, mentre camminavo a zonzo la mia mente andò indietro di qualche settimana.
 
Bighellonavo nella zona dei Latin Kings come al solito, era tutto noioso e stantio, finché un suono non mi colpì le orecchie. Urla. Urla di una donna ubriaca, e il tonfo di una porta. Fu allora che la vidi mentre correva con quegli improbabili short fiorati e la canotta grigia. Mi colpirono i suoi occhi, e quando un auto l’abbordò mi colpirono le sue pessime conoscenze. Era quindi la donna di Juan Hernandez quella? L’avevo depennata dalla mia mente fino al secondo incontro casuale in quella caffetteria. Se era piombata nuovamente di fronte a me doveva pur esserci un motivo, no? E poi quando mi sarebbero ricapitati ancora degli occhi così?
 

Hope

 
Erano passati esattamente tre giorni, era scomparso l’inchiostro dalla mia mano ma non il suo viso dalla mia mente. A dirla tutta non sapevo se stessi sbagliando io a non andare o lui a non chiamare, eravamo rimasti come sospesi e incompleti un po’ come la tela usata per il mio ritratto.
Un clacson mi costrinse a girarmi, ero sicura di vedere la Mustang rossa di Juan venirmi incontro ma così non fu. Mi chinai e il sorriso della dottoressa Freeman mi fece tornare a respirare.
«Sali, ti do uno strappo fino a casa». Acconsentii e due minuti dopo fissavo i palazzi fatiscenti dal comodo sedile in pelle.
«La ringrazio dottoressa.»
«Chiamami pure Nicole quando non siamo a scuola». Il suo sorriso era dolce, mi permisi di osservarla meglio. Capelli biondi e lievemente mossi lunghi appena sopra il seno, fisico slanciato, trentacinque anni al massimo. Non aveva fede al dito ma all’anulare spiccava un diamante che non passava inosservato.
«Ti sposerai?». Lo indicai e fui certa di vederla arrossire.
«L’anno prossimo, a Dio piacendo». Era credente quindi.
«Non è di Chicago, vero?»
«No, sono nata in California, ho preso un periodo di pausa dall’ospedale per dedicarmi a chi ha bisogno concreto e non può permettersi aiuti economicamente». Chicago era molto concreta, e piena di casi umani ai suoi occhi.
«Sei una brava persona». Le diedi del tu e ne ricevetti in cambio un sorriso simpatico.
«Volevo vederti oggi, ti ho cercata durante la pausa senza successo. Vorrei facessimo più sedute insieme, vorrei non pensassi di essere sola». Strinsi la cartella tra le dita, appena girato l’angolo avrei visto casa.
«Non si getti in cause perse dottoressa Freeman.»
«Nicole». Mi corresse gentilmente nonostante avessi gelidamente usato il cognome di proposito.
«Non ho bisogno di aiuto». Le sorrisi forzatamente uscendo dall’auto, non si mosse finché non mi vide entrare.
Al mio ingresso per poco un piatto non mi centrò in pieno viso deformandomi i connotati, lo schivai appena in tempo voltandomi sbigottita verso la figura dai capelli rossicci.
«Mamma stavi per ammazzarmi». Mi fissò con gli occhi lucidi e annacquati.
«Pensavo fossi un poliziotto». Un che? E da quando i poliziotti possedevano le chiavi di casa? Ma soprattutto da quando li accoglievi coi piatti?
«Sono venuti ancora? Dovresti solo sbattere fuori quel parassita.»
«Parli di te?». Se mi avesse schiaffeggiata avrei gradito di più. Si sedette al tavolo bevendo con mani tremanti.
«Per colpa sua moriremo un giorno di questi, non vuoi rendertene conto?». Mi ritrovai a sussurrare rabbiosamente quelle parole beccandomi un’occhiata velenosa. La porta si aprì di colpo e Carlos insozzò l’aria col suo fetore, era quello il segnale per sparire nella mia camera.
Indossai degli skinny neri in pelle e una maglia lunga e larga piuttosto vecchiotta, era meglio concentrarsi sullo studio e svuotare la mente dallo schifo oltre la mia porta. Riuscii nell’intento solo per un’ora scarsa prima che la mia porta si aprisse con un boato.
«Devi uscire, ho una commissione per te». Conoscevo bene le ‘’commissioni’’ di Carlos.
«Sto studiando.»
«Resti comunque una puttana frigida pure se riempi il tuo cervello di stronzate, muovi il culo». Restai immobile fissando il taglierino vicino a me. Mi sentii afferrare e trascinare fuori, osservai mia madre riversa sul divano, mi fissava come se non mi vedesse. La odiavo.
«MAMMA». Provai inutilmente a metterla in mezzo, non mi ascoltò seppellendo il viso tra i cuscini.
«Prendi questo pacco e imbucalo nella cassetta delle lettere in disuso». Era droga.
«Fallo tu». Lo schiaffo rese rovente la mia guancia. Mi ficcò il pacco a forza tra le mani sbattendomi fuori casa. Senza scarpe. Diedi alcuni pugni all’uscio e un calcio che servì solo a farmi imprecare di dolore. Fissai il cielo, non c’erano stelle quella notte, tirai su col naso i miei occhi completamente pieni di lacrime che non volevano cadere nel vuoto. A piedi scalzi camminavo sul marciapiede, auto chiassose mi superavano ignorandomi o prendendomi per il culo, stringevo il pacco tra le mani convulsamente finché un rumore insistente non attirò la mia attenzione. Era una moto, non mi voltai. E se erano poliziotti in borghese? Sentii la pelle d’oca mentre con la coda dell’occhio la vedevo accostarsi e venirmi sempre più vicina, iniziai a correre e giurai di aver sentito una risata.
«Ma ti piace proprio risultare assurda?». Quella voce ebbe il potere di bloccarmi con un piede ancora in aria. Per poco non caddi mentre fissavo il mio personale Pittore sorridere divertito.
«E tu che diavolo ci fai qui?». Domanda legittima.
«Sono uscito con alcuni amici». Risposta altrettanto legittima della quale non mi fidai, quindi conosceva gente nel mio quartiere?
«Capisco..». Non era vero, non capivo. Tornai a camminare, la cassetta della posta a pochi metri.
«Dove stai andando?». Indicai la sagoma rossa imbrattata di graffiti e ormai abbandonata senza dare altre spiegazioni. Lo vidi fissare il pacco tra le mie mani ma non disse nulla, camminò fianco a fianco con la moto finché non imbucai quella maledetta consegna.
«Vieni con me?»
«Dove?». Lo fissai dubbiosa.
«Credo sia preferibile dormire da me piuttosto che per strada, o no? E poi devo ancora finire il mio ritratto, pensavo ti fossi tirata indietro». Stavo per ribattere ma la sua espressione mi zittì, mi stava prendendo per il culo provando a darmi tutta la colpa di quel silenzio prolungato.
«Vai a farti fottere». Sollevai la gamba salendo dietro di lui, allacciando le braccia ai suoi fianchi.
«Agli ordini.»
«Dì un po’, come mi hai riconosciuta a quella velocità?». Si voltò appena.
«Vuoi che non riconosca il culo più bello di Chicago?». Partimmo al suono rombante del motore e della sua risata, entrambe talmente aggressive da lasciarmi interdetta.
Restai immobile con la guancia sulla sua schiena a fissare il panorama che sfrecciava sotto i nostri giovani occhi, era demotivante sapere che nessuno si sarebbe preoccupato della mia sparizione improvvisa, a nessuno interessava dove dormissi o se uscissi scalza per consegnare droga. Esistevano sul serio quelle madri che rimboccavano le coperte, cucinavano pasti caldi, allacciavano meglio la sciarpa attorno al collo dei propri figli? Dovevo chiederlo alla dottoressa Freeman forse, per qualche motivo ero sicura Aj non avrebbe saputo rispondermi.

 
 

AJ

 
Spensi il motore di fronte casa, attesi di vederla scendere e avviarsi verso il portone per estrarre il cellulare. Pochi tasti, qualche secondo, prima di riporlo e raggiungerla.
«Non hai portato il cibo». Mi fissò cercando di capire se dovesse prendermi seriamente, la lasciai nel dubbio infilandomi nell’androne buio.
«Non vedo un cazzo, esci il cellulare». Le sue imprecazioni mi divertivano, era così poco ‘’femminile’’ alle volte.
«Affidati ai tuoi sensi.»
«Certo, tanto se mi spacco la faccia sarò io a dover subire una plastica». Risi ancora e le presi la mano, non si divincolò e io l’appuntai mentalmente.
«Allora affidati a me.»
«Queste frasette spicce funzionano?»
«Ah ma allora sei di coccio, ti ho detto che se ci provassi te ne accorgeresti». Ero sicuro mi stesse guardando con il desiderio di mandarmi a cagare.
«Certo, certo.»
«Cos’è quel tono? Sei delusa perché non ci provo?». Mi spinse rudemente, incassai il colpo soffocando la risata con un finto colpo di tosse. Aprii la porta lasciandola passare fissandole i piedi scalzi e anneriti. Respirai insoddisfatto facendole cenno di seguirmi.
«Non vorrai mica che posi per te a quest’ora?». Il modo in cui lo disse suonò comico.
«Esiste un’ora specifica per l’arte?». Il mio tono genuinamente curioso le tolse qualsiasi risposta.
«Io dico che è una scusa per vedermi nuda, ancora.»
«Io dico che vorresti lo fosse, ancora». Un’altra botta alla mia spalla e accesi le luci dello studio. Mi diressi verso il divano che aprii senza troppi sforzi indicandoglielo per poi sedermi sullo sgabello. La fissai raggomitolarsi in maniera pressoché identica alla posa usata quel giorno per ritrarla. Non parlammo per un tempo indefinito, limitandoci a fissarci e studiarci, o semplicemente rifletterci l’uno negli occhi dell’altro. Alla fine mi avvicinai sedendomi accanto a lei, la mia mano toccò la guancia arrossata non più rovente.
«Una persona tempo fa mi disse ‘’AJ tu attiri schiaffi’’, non ha proprio conosciuto te». Rise a bassa voce nonostante gli occhi lucidi.
«Quella persona ha ragione, te ne darei uno in questo istante». Non ebbi dubbi sulla veridicità.
«Dovresti darlo a chi ti ha fatto il livido sotto l’occhio o quello al polso, sarebbero schiaffi decisamente più meritati». Ne ero sicuro? Forse no. Alcuni li meritavo anch’io.
«Hai una famiglia?». Restai in silenzio qualche secondo elaborando, persino domande comuni mi suonavano difficili.
«Tutti hanno una famiglia». Scrollai le spalle con noncuranza ma stavolta non se la bevve.
«Tua madre e tuo padre non sentono la tua mancanza?»
«No. E comunque non sono più in vita». Non vidi commiserazione nei suoi occhi, sembrava invidiarmi.
«Sognare la morte della propria madre è un peccato mortale, vero?». Non risposi.
«Dovresti solo muovere il culo e andar via da quella casa». Una smorfia le alterò i lineamenti belli e puliti.
«Juan mi scoverebbe persino all’inferno». Si stoppò consapevole di aver parlato troppo, abbozzai un sorrisino.
«Juan ti ucciderebbe sapendo che dormi con un altro ragazzo?». La fissai in maniera furba.
«Teoricamente dormirò da sola, il ragazzo in questione giura di non volerci provare». Toccò a lei adesso fissarmi in maniera furba.
«Quindi glielo dirai?». Mi puntò spavalda.
«Certo». Che bugiarda.
«Dobbiamo scongiurare il pericolo, non posso rischiare che il fantomatico ‘’Juan’’ sappia di me». Assottigliò lo sguardo senza capire, finché non mi sporsi catturandole le labbra con le mie. Il suo corpo si irrigidì una frazione di secondo, le labbra immobili si mossero appena e infine si schiusero con un sospiro. Fu quello il segnale. La mia lingua invase l’antro caldo della sua bocca, accarezzò la gemella lasciando che la scoprisse, aggrovigliandosi e lasciandosi andare. Sentii le sue dita artigliare la stoffa della mia camicia attirandomi ancora più vicino, non che volessi allontanarmi in quel momento. Era elettrizzante, un po’ come dipingerla completamente nuda. Sospirai all’interno della sua bocca prima di lasciarla andare, respirava veloce e le sue labbra erano arrossate.
«Juan ti staccherebbe la testa per questo.»
«Dì a Juan che ‘’giuro di non volerci provare’’». Mi alzai con un mezzo sorriso ascoltando la sua risata quasi sospirata, vi era scherno nel tono.
«Baci tutte le tue modelle?». Finsi di pensarci attentamente.
«Solo quelle che come te so ci starebbero». Provò a strapparmi la maglia da brava donna infuriata ma sgusciai velocemente fuori dalla stanza.
 
 

Hope

 
Perché tutti gli uomini che giravano come satelliti in quel pianeta che era la mia vita, dovevano essere dei fottuti bastardi? Tutti in maniera diversa ovviamente, sia mai mi abituassi alla tediosa routine per carità. Soffocai un’imprecazione contro il cuscino, ero stesa in quella maledetta stanza dall’odore di tempera da ore, o almeno così pensavo. Quel maledetto viscido stronzo infame probabilmente dormiva della grossa nella sua stanza, sarei voluta andare ai piedi del suo letto e sgozzarlo. Mi misi a sedere puntando lo sguardo oltre la finestra, sul muro di fronte spiccava il marchio distintivo dei Crips, non che ne fossi stupita quella era la loro zona. La mia mente tornò a dissociarsi pensando al bacio avvenuto in quel divano, che cosa significava per lui? Probabilmente un cazzo. Probabilmente era stato una specie di gesto di pietà nei miei confronti, o semplice orgoglio maschile quando avevo citato Juan. Sospirai riavviandomi i capelli alzandomi in punta di piedi per imboccare il corridoio, aprii piano la sua porta intravedendo la sagoma stesa sul letto. Era nudo? Soffocai uno sbuffo roteando gli occhi, non aveva il minimo pudore quello stronzo infame. Continuai a fissarlo finché non sentii le molle del letto cigolare, col cuore in gola scappai nuovamente nello studio seppellendomi sotto le lenzuola. Cercai di udire altri rumori, si era svegliato? Mi aveva visto? Mi addormentai preda dell’ansia senza rendermene conto.
 
Un rumore impercettibile, un respiro appena più profondo, mugugnai accarezzandomi l’addome scoperto. Ci misi qualche istante a ricordare tutto, i miei occhi si aprirono e la prima cosa che vidi fu Aj seduto intento a fissarmi. Balzai a sedere.
«Da quanto sei lì?». Mi sorrise col suo solito modo di fare accattivante.
«Ha importanza?»
«Ovvio. Osservare la gente mentre dorme è da pazzi». Lo indicai sbuffando.
«Quindi sei pazza». Silenzio. Mi aveva visto ieri, merda. Non risposi schiarendomi la voce, lo vidi alzarsi e afferrare un bicchiere di carta che mi passò. Caffè, sorrisi senza un reale motivo bevendo con gusto.
«Come sai che mi piace zuccherato?». Lo guardai dal bordo fumante.
«Consideri la tua vita troppo amara, prediligi le cose dolci». Lo stava facendo ancora, era impossibile averla vinta con lui e quella sua mania d’osservare.
«Hai avuto solo fortuna, ammettilo e falla finita». Tornai a bere fissando oltre la finestra, sapevo di dover tornare a casa ma non volevo.
«I tuoi vestiti sono sulla sedia». Annuii senza particolare enfasi, avevo saltato nuovamente la scuola.
«Grazie per l’ospitalità». Continuai a non guardarlo ma sentii chiaramente i suoi passi dirigersi verso la porta, stava uscendo.
«Domani». Stavolta mi venne impossibile non guardarlo.
«Domani cosa?»
«Domani continuiamo il ritratto, ti aspetto nel pomeriggio sii puntuale». Uscì così come suo solito, come un ladro esperto a cui avevano consegnato una copia delle chiavi. Iniziavo a detestarlo. Ma mentre mi vestivo capii quanto mentissi a me stessa.
 
Le urla dentro casa mi accolsero già dal primo gradino, mi feci coraggio inserendo la chiave nella toppa ed entrando. La mia faccia sbigottita accolse Juan che mi veniva incontro mentre Carlos imprecava e mia madre fumava nervosamente.
«DOVE CAZZO STAVI». Dovevo dargli spiegazioni?
«Eravamo preoccupati». Juan fu più pacato, ma il mio viso dubbioso non ebbe tentennamenti. Da quando si preoccupavano per me?
«Che succede?». Perché era ovvio fosse successo qualcosa. Juan mi circondò le spalle con un braccio.
«Ieri dopo la tua consegna alcuni membri dei Cruz – altro nome dei Crips – hanno fottuto la partita di droga bruciandola in mezzo alla strada». Le urla di Carlos coprirono la voce di Juan che mostrava tensione dalla rigidità del corpo. Mia madre mi fissò.
«Non ho visto nessuno in strada quando..» la mia voce morì sul finale, sospettavano di me? Carlos sembrò leggermi nel pensiero.
«Se scopro che è tutta opera tua ti uccido, lurida puttana..» non finì la frase provando ad avventarsi ma Juan fu più veloce mettendosi in mezzo.
«Piantala Carlos lei non c’entra». Non sapevo per cosa mostrarmi più impaurita, se per Carlos o per la preoccupazione di Juan.
Per la seconda volta nell’arco di poche ore mi trovai trascinata fuori da casa mia. Stavolta però al mio fianco c’era Juan, non Aj. Provai a convincermi che andava bene così. Una cosa era certa, qualcuno aveva fatto una soffiata ai Cruz .. ma chi?
 
«Dove hai dormito stanotte?». Fissai il mio pseudo fidanzato senza saper bene cosa dire.
«In strada». Pessima bugia, ma conoscendo Carlos e le mie poche interazioni sociali era credibile.
«Perché non sei venuta da me?». Mi fissò con occhi indagatori e non seppi cosa rispondere.
«Ascoltami bene Hope, se scopro che provi a fottermi ..Carlos sarà l’ultimo dei tuoi problemi». Mi sorrise e la sua carezza mi raggelò il cuore.
 
  
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