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Autore: Nana_mln    01/09/2017    3 recensioni
Salve a tutti. Questa è un storia che scrissi molto tempo fa e solo da poco ho deciso di iniziare a pubblicarla. Ne ho già pubblicata una parte (sebbene con un titolo diverso) su un altro forum, e ora ho deciso di iniziare anche qui. Poiché l'idea l'ho avuta tempo fa (per intenderci seguivo più o meno la quindicesima stagione) non saranno presenti i personaggi più recenti.
La storia tratta dell'evoluzione del rapporto di odio-"amore" tra Shinichi e Shiho, prima e dopo il ritorno nelle loro sembianze naturali, incentrandosi specialmente sui sentimenti e le emozioni che li accompagnano.
*Nota sul titolo: Il titolo è tratto da un verso della canzone Ghost Love Score dei Nightwish.
Buona lettura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Hiroshi Agasa, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scusate per eventuali errori, non sono riuscita a trovare tanto tempo per revisionare :)

Dopo qualche mese di cure e riposo, sulla caviglia di Ai non restava altro che una cicatrice bianca. Aveva vissuto l’evoluzione della sua ferita in modo abbastanza passivo, certa che le sue giovani cellule sapevano bene cosa fare, senza preoccuparsi eccessivamente della sua salute. A differenza del dottor Agasa. Le ronzava sempre intorno, chiedendosi se avesse bisogno di un tè caldo o di una boccata d’aria, se avesse troppo freddo lì sotto e se quel curry che aveva cucinato l’altra sera fosse troppo piccante. Non era bravo a inventare scuse, anche un bambino si sarebbe accorto che erano semplici pretesti per assicurarsi che la piccola Ai stesse bene. Non parlava molto, Agasa la conosceva ormai, e sapeva che a qualsiasi esplicita dimostrazione di attenzione per la sua salute avrebbe reagito dileguandosi in rapidi “Sto bene”, “Non c’è nulla di cui preoccuparsi, dottore.”
Ai aveva trascorso le sue giornate davanti allo schermo del computer, tra formule e rompicapi, incongruenze e vecchi appunti poco leggibili, e finalmente quel giorno le sembrò di essere arrivata a capo di qualcosa. Anzi, a dirla tutta ne era quasi certa. Dopo un’ultima controllata al foglio che aveva tra le mani, salì al piano di sopra portandolo con se. Era davvero di buon umore.
Il dottore era impegnato a riparare le trasmittenti dei Detective Boys, e questo dettaglio per un attimo la disturbò. Nonostante quella brutta sensazione, decise di scacciare qualsiasi pensiero negativo, determinata a conservare l’emozione di quel momento.
“Ai, sei già salita? Hai forse bisogno di qualcosa?”
“Dottore, mi pare che c’è quel suo amico, il signor Takada, che possiede una casa farmaceutica. Per caso, può chiedergli il favore di procurare queste cose?”
Gli porse il foglio. Agasa lo guardò tra le mani della bambina cercando di evitare di posare il cacciavite che era finalmente riuscito a infilare in quella piccola vite di una trasmittente; ma, sgranando gli occhi incredulo, desistette subito dal suo intento, e inforcò meglio gli occhiali sul naso per avere una visione più nitida delle parole. Afferrò il foglio tra le sue mani per avere l’ultima certezza. Sì, ci aveva visto proprio giusto.
“Ai, non dirmi che...?”
La piccola scienziata annuì con un sorriso.
“Accipicchia, questa sì che è una notizia! Shinichi lo sa?”
“Non ancora, avevo intenzione di chiamarlo più tardi. Allora dottore, crede di potermi aiutare?”
Agasa si grattò il capo.
“Beh, è da tanto che non sento Takada, l’ultima volta che ci siamo visti fu proprio quando lui stesso mi chiese aiuto per quei piccoli furti in uno dei suoi magazzini. Però, credo che non avrà problemi a ricambiarmi un favore.”
“Molto bene. Ha recapiti per contattarlo?”
“Da qualche parte dovrei avere il suo numero di telefono. Lo chiamerò il prima possibile e ti farò sapere.”
“Grazie, dottore. Ah, mi raccomando, si assicuri la massima discrezione da parte sua. Si inventi qualcosa sull’uso che vuole fare di quei prodotti. Voglio che vada tutto liscio.”
“Agli ordini!” rispose scherzoso, assumendo la posa di un soldato sull’attenti.
“Così va meglio.” Rispose Ai stando al gioco, con tono altezzoso.
Scese nuovamente al piano di sotto e prese il cellulare.
 
Conan si stava annoiando sul divano dell’agenzia investigativa Mouri, rileggendo per l’ennesima volta gli articoli di cronaca sul giornale del giorno. Goro era intento a guardare la tv sulla sua scrivania, condizione che sarebbe durata ancora per poco prima che crollasse in un sonno profondo. Erano soli in casa. Ran aveva degli allenamenti di Karate intensivi in vista di un torneo alla fine del mese, ed era uscita subito dopo pranzo. Erano quasi le tre, e Conan non faceva che contare i minuti, fissando lo scorrere delle lancette sull’orologio. Aspettava con ansia il ritorno della ragazza, perché quel pomeriggio Goro era atteso da un cliente nella sua villa a Tokyo, e sapeva che senza l’indulgenza della figlia lui non gli avrebbe mai permesso di stargli tra i piedi. Era curioso di conoscere il motivo di quella convocazione fuori sede, e già riusciva a sentire sulla pelle l’ebbrezza di un nuovo mistero da svelare.
Tra una pagina di giornale, uno sguardo all’orologio e un’imprecazione contro il russare rumoroso di Goro, sentì il suo cellulare squillare. Con un rapido sguardo allo schermo lesse il nome di chi lo stava chiamando. Haibara. Era dai tempi dello spionaggio verso gli uomini in nero che non si sentivano per telefono. Che fosse successo qualcosa? Ma no, cosa andava a pensare, non si sarebbe fatto prendere ancora da quell’ansia ormai anacronistica. Sembrava paradossale, come faceva a dimenticarsene? Gli risultava immediato collegare quella sua routine nel corpo di un bambino a quegli uomini, e Haibara era una sorta di anello di congiunzione tra la sua vecchia vita e quella attuale.
Sapeva che stava lavorando all’antidoto per l’APTX4869, ma non si era ancora fatta sentire a riguardo, e lui, spinto dalla sincera fiducia che riponeva nelle sue capacità, non aveva mai pensato di chiederle aggiornamenti. Le aveva fatto promettere di vivere tranquilla, e non sarebbe stato proprio lui a farle rompere la promessa. E forse questo gli aveva quasi fatto dimenticare che dovesse aspettare quell’antidoto, e conseguentemente una chiamata da parte sua.
“Conan, ho delle novità. Potresti passare di qui appena puoi? Preferirei non parlarne per telefono.”
Esattamente trenta minuti dopo erano seduti entrambi sul divano dell’ingresso.
“Quindi sei certa che questa volta funzionerà?”
“Stai tranquillo, ho lavorato utilizzando i dati originali raccolti in laboratorio, ne sono del tutto sicura.”
“Ben fatto, Ai! Allora sono pronto!” urlò Conan con un sorriso a trentadue denti, sporgendo verso di lei il palmo della mano aperta. Lei lo guardò con un’espressione seccata e strinse gli occhi per provocarlo.
“Cosa vuoi?”
“E dai Ai, non fare la vipera!” simulò il pianto di un bimbo disperato, subito prima che Ai gli confessasse che effettivamente non aveva nulla da dargli.
“Sono risalita alla composizione chimica, ma non ho ancora nulla di pronto. Credi che mi metta a giocare al piccolo chimico?”
Rispose incrociando le braccia e girando la testa dal lato opposto. Doveva ammettere che divertente vederlo pendere dalle sue labbra.
Purtroppo però, la reazione di Conan fu molto abbattuta e, senza provare in alcun modo a nasconderlo, lasciò che le sue dita si contraessero esprimendo la sua delusione.
“Ah, capisco... Allora perché tanta fretta?”
“Perché dobbiamo parlare di una questione importante.”
Ai disegnò sul volto un’espressione seria, e questo non contribuì ad alleggerire la tensione che si era creata, apparentemente senza alcuna giustificazione, nella testa di Conan. Eppure il motivo c’era eccome, e prese forma nell’immediato ricordo di quel discorso lasciato in sospeso con Ai.
Possibile che avesse deciso di dirgli tutto riguardo Gin? Ma perché proprio in quel momento, e col pretesto dell’antidoto? Non aveva alcun motivo di mentire, lui stesso le aveva assicurato la sua totale disponibilità nei momenti in cui avesse avuto bisogno di qualcuno. “Qualcuno” avevano detto i suoi pensieri.
Qualcuno? Perché allora fino a quel momento si era convinto che Ai avesse potuto aver bisogno solo di lui?
Mentre cercava di predisporsi mentalmente al tipo di argomento che avrebbero affrontato, i suoi pensieri furono subito bloccati e deviati dalla loro strada dalla domanda di Ai.
“Hai mai pensato al dopo?”
Domanda inaspettata. Si era trovato catapultato in un campo minato diverso rispetto a quello a cui si era preparato. Perché diavolo riusciva sempre a spiazzarlo? D’altra parte, non era difficile capire a cosa si riferisse. Ma era una domanda la cui risposta era fin troppo scontata, tanto che sarebbe sembrato quasi da stupidi cogliere quell’occasione per ripeterla ancora. Decise di non rischiare e prendere tempo finché non fosse stata lei a essere più esplicita. Già, sarebbe stato decisamente più saggio simulare il collasso della sua mente da detective brillante, quindi un ingenuo “Dopo cosa?” rappresentò la soluzione perfetta per smettere di arrovellarsi.
“Dopo cosa?”
“Dopo che sarai tornato Shinichi. Con il corpo di Conan hai costruito una vita intera e l’hai intrecciata con molte altre. Hai intenzione di gestire le conseguenze che comporterà la scomparsa del piccolo Conan o vuoi lasciare quelle persone soffrire?”
“Ti riferisci ad Ayumi, Mitzuiko e Genta?”
“Soprattutto a loro. Ormai sei diventato il loro punto di riferimento, non riesco nemmeno a immaginare come la prenderebbero se il loro Conan sparisse improvvisamente senza lasciare traccia.”
“Tranquilla, mi inventerò qualcosa. Non ti facevo così apprensiva. Tu, piuttosto? Non penserai mica che invece la tua scomparsa passerà inosservata? Guarda che anche a te si sono affezionati molto.”
Tasto dolente, ma non era quello il momento di affrontare l’argomento. “Mi inventerò qualcosa” era stata la risposta di Conan, e le aveva confermato i suoi sospetti. Ancora una volta, Shinichi Kudo aveva dato prova della sua quasi inesistente empatia, o almeno di una grande superficialità nel considerare i sentimenti altrui.
“Ti ricordo che io sono brava a dileguarmi nel nulla.” Ripose con un sorriso sarcastico, tagliando corto. “Sicuramente più di te, che saresti un disastro.” Accentuò volutamente le ultime parole, riferendogli ermeticamente il suo pensiero di poco prima.
Si alzò dal divano e si diresse in cucina. Non lo stava facendo per lui, lo sapeva. Quella volta stava agendo in nome di quell’affetto così sincero che provava per quei bambini, in nome di quel sorriso dolce che Ran spesso le concedeva; perché il “ritorno di Shinichi” avrebbe potuto causare molte più ferite di quante ne avrebbe curate, lei lo sapeva fin troppo bene, ma evidentemente Shinichi non se ne rendeva ancora conto.
“Ti va un po’ di tè? Riusciremo a ragionare meglio con qualcosa di caldo.”
“Ma di che parli? Ei aspetta…” Conan le trotterellò dietro, seguendo il suo passo calmo con le mani chiuse dietro la schiena.
Pochi minuti dopo erano seduti davanti a due tazze di tè verde fumanti.
“Mi vuoi spiegare cos’hai in mente?”
“Voglio aiutarti a inventare una storia. Sarà divertente, non credi?” rispose Ai sorridendo.
Era un sorriso dolcissimo, tanto che Conan non riuscì fare a meno di notare quanto sembrasse rilassata in quel momento, e arrossì leggermente.
Circa mezz’ora dopo erano già nel pieno dello scontro tra le idee di entrambi: un promettente detective liceale e un’ex scienziata di una grande organizzazione criminale avevano mille modi per giustificare la scomparsa di una persona. Ai momenti nei quali litigarono con leggerezza, ognuno sostenendo la superiorità della propria proposta, scherzando su quelle più bizzarre e sulle più macabre, si alternarono momenti di serietà, nei quali cercarono di ragionare lucidamente per mettere in piedi una vicenda che facesse combaciare tutti i tasselli. Si rivelò effettivamente divertente per Conan e, d’altra parte, senza dubbio surreale: erano seduti a tavolino, inventando la storia della sua vita, che al tempo stesso era la storia di una persona inesistente. Inoltre, il comportamento di Ai lo colpì profondamente: i suoi gesti, le sue parole, l’espressione del suo viso quando bevendo dalla tazza si scottò le labbra, il numero di volte che sentì la sua risata, tutto in lei quel pomeriggio gli fece pensare che non l’avesse mai vista così a suo agio. E così, mentre si concentrava su questi dettagli, riuscì a proiettare quelle stesse sensazioni su se stesso, rendendosi conto che era da tanto che non sentiva la testa così leggera. Sentì nascere in lui quell’euforia necessaria per tener testa alla sua rivale, che per tutta risposta non avrebbe di certo lasciato spegnere il suo piacevole buonumore. Dopo qualche ora, infatti, la vicenda sulla scomparsa del piccolo Conan Edogawa giunse all’epilogo.
“Certo che sei proprio un osso duro…” Sospirò Conan appoggiandosi sul tavolo e reggendosi la testa con la mano.
“Beh, intanto devi ringraziare me se a nessuno salterà in testa di venirti a cercare.”
Questa frase, pronunciata affilando accuratamente ogni singola parola, nascondeva l’effettiva pace del suo spirito: in quel momento riusciva ad assaporare quella bella sensazione che si prova quando ci si è adoperati per far del bene a qualcuno. Era riuscita nel suo intento, forse era riuscita a rendere il distacco dal piccolo Conan quanto meno traumatico fosse possibile. Scomparire nel nulla in forma quasi ufficiale avrebbe dato il tempo a Ran di accettare la scomparsa del suo fratellino acquisito al quale si era enormemente affezionata, e avrebbe forse impedito che i suoi piccoli amici vagassero nella tristezza di rincorrere, in un futuro, il fantasma di una persona che non avrebbero mai più rivisto. Non avrebbe tollerato vederli piangere per lui, non dovevano pagare per l’affetto che gli avevano donato. Nessuno dovrebbe pagare per voler bene a una persona.
 
“Dunque, ricapitoliamo. I miei genitori hanno fatto parte dei servizi segreti americani, e sono stati coinvolti in un’operazione importante riguardo il contrabbando internazionale di armi. Qui in Giappone si trova un importante fornitore e, data la loro origine giapponese, erano stati scelti per trasferirsi qui, portandomi con loro per non destare sospetti. Purtroppo, la situazione è sfuggita di mano, e per non mettermi in pericolo mi hanno affidato ad Agasa, un vecchio conoscente. Durante un recente scontro con armi da fuoco, però, mia madre e mio padre hanno avuto la peggio e sono rimati uccisi.”
Ai prese parola.
“I contrabbandieri sono venuti a conoscenza del fatto che tua madre ti ha lasciato un codice contenente alcune informazioni importanti riguardo il nucleo dei servizi segreti di cui facevano parte, e che naturalmente loro hanno intenzione di ottenere. Sebbene tu non sia a conoscenza di dove sia questo codice, loro sono sulle tue tracce, quindi l’FBI ti propone di partecipare al programma protezione testimoni e tu accetti. Dovrai abbandonare tutti, e andrai in America sotto falso nome e con un’identità del tutto nuova, senza che nessuno potrà più venire a cercarti. Puff.” Concluse la bambina, aggiungendo un gesto con la mano per fare scena.
“Beh, in fondo non è poi così distante dalla realtà.” Come riecheggiarono amare queste parole. “Inoltre, grazie alle conoscenze che abbiamo nell’FBI, potremmo rendere la storia più veritiera chiedendo l’appoggio di Jodie o James...”
“…e nessuno potrà mettere becco nelle decisioni di agenti dell’FBI. Penso che anche i nostri piccoli amici capiranno, o almeno se ne faranno una ragione. Sarà dura per loro, ma non hai scelta.”
“Ora ne serve una per te.”
Ai lo guardò sorpresa, e si rese conto che forse non sarebbe riuscita ancora a rimandare quel discorso. Doveva aspettarselo in fondo che quella domanda fosse una conseguenza più che ovvia per il corso degli eventi che aveva lei stessa indirizzato. Eppure, fino a poco prima, tutto quello a cui riusciva a pensare era salvaguardare le delusioni degli altri. Senza indugiare ulteriormente, arrendendosi forse più per stanchezza che per convinzione, decise di uscire allo scoperto con una risposta secca e sibillina, sentendosi in ogni caso impreparata ad affrontarne le conseguenze a causa della profonda insicurezza che fluttuava su quella scelta.
“Non sono sicura che ne avrò bisogno.”
“Non… ne avrai bisogno?”
Non rispose.
Percepì d’istinto, in quella domanda che più che inquisitoria sembrava comunicare la disapprovazione della risposta già prevista, quanto l’aria si fosse improvvisamente appesantita. Cosa le era saltato in mente? Si era ripromessa di tenere per se quella sua intenzione. Era un decisione importante, e come tale c’erano troppi fattori in gioco per riuscire a scegliere. Non poteva in nessun modo separare la sua immagine da diciottenne dal suo passato, e il suo passato voleva cancellarlo a tutti costi dalla sua vita, per non dover vivere di rimpianti per sempre. Doveva cancellare Shiho Miyano. Ma era sicura di avere il coraggio di rinunciare per sempre alla normalità? Dopo tanto tempo grazie ad Ayumi, Mitzuiko e Genta era riuscita a vedere un po’ di sole nella sua vita, nonostante fosse perseguitata dalla paura loro riuscivano sempre a farla sentire parte del gruppo. Le avevano insegnato tante cose. Buffo a dirsi. Era stata una bambina di sei anni a insegnarle il coraggio, e un bambino della stessa età ad insegnarle ad amare. Fino ad allora pensava fosse qualcosa di diverso l’amore. Con Gin era tutto diverso.
Eppure, riusciva a stare incredibilmente bene nelle notti passate con lui. Si sentiva finalmente a posto, nessun tormento, niente rimorsi per le sue azioni: quando lo vedeva si sentiva pulita. Gin sembrava essere l’unico al mondo in grado ignorare i suoi difetti e accettare le sue azioni, perché erano i complici dello stesso grande crimine*. E quando la stringeva o la accarezzava riusciva a sentire il calore delle sue dita attraversare la sua pelle e solcare i suoi brividi e si illudeva che quello fosse tutto dell’amore. Nessun gesto di pura tenerezza, qualche sigaretta fumata appoggiata al suo petto e il suo profumo pungente che impregnava le lenzuola. Quello era l’amore: una faccenda decisamente sopravvalutata. Il loro rapporto era governato dal silenzio, riempito quasi esclusivamente da poche parole maliziose pronunciate efficacemente al solo scopo di stuzzicare l’altro. Nessuno aveva mai osato chiedere o spargere pettegolezzi, ma tutti sospettavano che ci fosse qualcosa tra loro. Eppure Gin, consapevole della soggezione che esercitava sugli altri, sapeva che non avrebbero rischiato di immischiarsi nei suoi affari personali, e frequentava con noncuranza l’alloggio di Sherry anche in orari che avrebbero lasciato poco spazio ai dubbi. Era sempre lui ad andare da lei, mai viceversa. Come se ci fosse una regola non scritta tra loro due che concedeva solo a lui la possibilità di scegliere quando incontrarsi. Ma in fondo, a lei stava bene così: non la distraeva dal suo lavoro e le faceva sfogare la stanchezza di lunghe giornate lavorative. Lei non provava niente. Non doveva provare niente; era questo il motivo per cui lui le si era avvicinato a tal punto. Non riusciva a resistere a una donna che poteva tenergli testa.
Iniziò tutto per caso, un pomeriggio nel suo piccolo studio; e lei capì dal primo momento che non aveva intenzione di opporsi alle sue attenzioni. D’altra parte, chissà se ci sarebbe riuscita, seppure avesse voluto. Se lo era chiesto spesso, ma la risposta era stata sempre la stessa: se doveva essere davvero sincera con se stessa, avrebbe dovuto ammettere che non sarebbe riuscita a non farsi sedurre, perché era incredibilmente attratta da lui, quasi affascinata dalla sua crudele freddezza piena di sfaccettature.
 Gin era il migliore della sua categoria, e sapeva bene dove mettere le mani per raggiungere i suoi scopi e per avere quell’appagamento dovuto a un colpo ben studiato che aveva seguito tutti i piani. E se aveva deciso di metterle su di lei le sue mani, allora significava che anche lei possedeva quella scintilla diabolica che diventò il suo più grande vanto mostrare. Essere scelta dal migliore voleva dire essere la migliore, e questa consapevolezza appagava anche lei; in ogni momento che il suo corpo accoglieva le mani di Gin, la sua vanità le ricordava di porsi su quel podio che la faceva sentire così imbattibile, affondando sempre di più in quell’affare di reciproco egoismo nato per concedersi lusinghe personali e che lei chiamava amore. Lei, così sicura di se come scienziata, ma incredibilmente debole come persona, tanto da non pronunciare mai una parola se non con Akemi, riusciva a sentire il potere tra le mani, imparando pian piano anche come riuscire a controllare giocando col suo corpo le carezze di Gin, scoprendo addirittura che con esso riusciva ad avere lei il controllo della situazione. Lei poteva avere il controllo su Gin.
Quest’effimero desiderio di onnipotenza, però, era destinato a sprofondare in un’oscura angoscia quando alla fine dei giochi lui si addormentava, e in quel letto restava di fatto sola con se stessa e le sue azioni. Perché invece Shiho non ci riusciva, a dormire. Perché in quei momenti era impossibile trattenere le lacrime. Se qualcuno fosse riuscito a vederla piangere, sarebbe rimasto sorpreso dal non vedere neanche una ruga sul suo viso, attraversato invece dalla quantità di lacrime che spetta solo a un pianto accompagnato da urla disperate. Non un singhiozzo, non un respiro spezzava il silenzio nel quale Gin dormiva. Era come se il corpo fosse un involucro autonomo e del tutto indipendente da quello che conteneva. E, purtroppo per lei, lì dentro c’era anche un cuore. Così, tutte le sue insicurezze riaffioravano puntuali, rese ancora più forti dalla paura di tradire la Sherry che stava costruendo e presentando al suo mondo.
Non mostrare a Gin le tue lacrime, asciugati e fai in fretta che potrebbe svegliarsi! Non vuoi che provi pietà per te, vero? Cosa fai, piangi ancora? Non è così che ci si comporta, non è così che sei, vuoi mettertelo in testa? Tutte le persone che i tuoi veleni hanno ucciso sono solo un numero, vale la pena piangere per un numero? Stai così bene con lui, sai bene che è il massimo che puoi ottenere. Andare a letto col capo, mica tutti possono permetterselo!
Si sforzò, si sforzò così tanto per mettere a tacere quelle vocine fastidiose che alla fine riuscì ad assecondarle. Riuscì a sentirsi se stessa in quella parte che le avevano cucito addosso, imparò a bloccare le lacrime e a vivere il rapporto con Gin come una cura nella sua vita, come uno slancio vitale, imparando ad accettare a cuor leggero anche quei “Sei mia” avidamente e morbosamente sussurrati al suo orecchio e ad assecondarlo ogni qualvolta ne avesse voglia; e se non ci fosse riuscita probabilmente avrebbe perso la testa in quel conflitto interiore senza via d’uscita. Col tempo cercò di annullarsi al punto tale che le risultò difficile capire il confine tra ciò che faceva di sua volontà e ciò che faceva per recitare la parte della donna senza cuore.
 E poi…
Le lucciole. Per una persona come lei, un bambino si era perso in un bosco per catturare delle lucciole; a una persona come lei, una bambina aveva urlato con determinazione che non bisogna nascondersi per sempre. Per una persona come lei, un detective paladino della giustizia aveva rischiato la sua stessa vita per salvarla.  Le lucciole…
All’improvviso la mente di Ai tornò nella cucina del dottor Agasa. Si rese conto di essersi lasciata di nuovo trascinare nei meandri dei suoi ricordi, con gli occhi fissi sulle tazze da tè appoggiate sul tavolo. E si maledisse mentalmente con tutta la forza che aveva per aver scelto il momento più sbagliato per farlo. Conan era rimasto a guardarla in attesa di spiegazioni.
“Ai, ti senti bene?”
Doveva rispondere, in fretta. Inventare qualsiasi cosa, anche la più stupida sarebbe bastata; doveva selezionare, selezionare tra tutte le parole che le esplodevano sulla lingua quelle giuste per tenerlo buono senza che facesse altre domande. Ma, come sempre succede in queste situazioni a chi ha una mente dispettosa, quanto più le si ordini di non imboccare certe vie, più queste saranno percorse alla velocità della luce con una determinazione ancora più grande.
“Io…”
Non ci riuscì. Aveva vinto di nuovo lei, la sua testa, aveva distrutto sul nascere le sue intenzioni, inviando in ogni cellula del suo corpo un incontrollabile senso di panico, che le cancellò tutte le capacità razionali.
I pensieri si affollarono, i sensi di colpa sopiti iniziarono a riaffiorare, il suo giudice interiore ricominciò a condannarla senza possibilità di riscatto, volti, parole, parole, tante parole, scorreva tutto dietro i suoi occhi immobili.
 
Lo cherry quando ha macchiato
dai Ai vieni con noi al parco
non va più via
senza di te
tu sarai la mia Sherry
non è divertente
Sherry
non va più via
Non scappare Ai
lo sapevi Miyano?
questa è la fine
non scappare
senza di te
che meritano i traditori :
dal tuo destino
Una persona non può
la morte
nascondersi
Ai
per sempre
 La sua testa stava per scoppiare e prima che riuscisse a rendersene conto iniziò a premere i palmi delle mani sugli occhi per provare a fermare tutto, e lo fece con tanta violenza che Conan le prese i polsi e gliele allontanò dal viso, per impedire che si facesse del male. Ai, sentendo che la sua intimità stava per essere violata, cercò rapidamente di agglomerare tutto nell’unica frase di senso compiuto che riuscì a pensare.
-Non puoi tradire di nuovo, Shiho, non puoi! Loro si fidano di te, non puoi abbandonarli! -
“Ma che ti prende?” la guardò dritta negli occhi tenendole strette le mani in modo che non cercasse di coprirsi. Il suo sguardo era così innocente da sembrare davvero quello di un bambino, era sorgente di una sincerità troppo grande per accostarsi proprio a lei in quel momento.
“Non… non devi toccarmi.” si liberò le mani con uno strattone per riuscire nel suo intento di coprirsi nuovamente il viso, stavolta per difendersi dall’imbarazzo che quella preghiera così umile per il suo orgoglio le causava.
 “Va’ via.”
Non sentì nessun rumore. Conan non si era mosso dalla sua posizione.
“Shinichi, ti prego va’ via.”
 Non provò nemmeno a sbirciare tra le fessure delle sue dita, non le interessava cosa stesse pensando di lei. Voleva solo restare sola.
Conan, a testa bassa, cercava di interiorizzare quella delusione: aveva promesso di starle vicino e lei non glielo avrebbe concesso. Non ancora, non in quel momento. Era davvero così infestata da voler rifiutare anche una spalla per appoggiarsi? Era stato un ingenuo. Non sarebbe servito a niente insistere, la conosceva ormai. Ai era una di quelle persone con le quali la vicinanza si dimostra mantenendo le distanze, quando lo richiedono.
Si alzò dalla sedia, facendola rumorosamente strisciare sul pavimento.
“Ascolta solo una cosa. Non sarà fingendo di essere qualcuno che non sei, che troverai la soluzione a tutto questo.” Infilò le mani nelle tasche dei pantaloncini e si diresse verso la porta della cucina.
“Non farti vedere così dal dottore.”
Ai si accasciò con i gomiti sul tavolo: stava per piangere, ma ancora una volta doveva farlo in silenzio. Perché doveva essere sempre tutto così maledettamente difficile?
“Dimmelo tu…” sussurrò col viso ancora schiacciato sul tavolo.
“Dimmelo tu, Akemi… che cosa dovrei fare?”
*è una frase che usa Hachi in Nana
   
 
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