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Autore: JacquelineKeller01    10/09/2017    2 recensioni
[MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Lea ha diciassette anni quando torna nella sua città natale in seguito ad alcuni problemi familiari. Tutto ciò che vuole, dopo un anno intero passato a guardarsi le spalle, è recuperare il rapporto con suo padre e un po' di sano relax. Ma sin da subito il destino sembra prendere un'altra piega.
Isaac è l'essere più irritante che Lea abbia mai incontrato nella sua vita, con quella sua arroganza e i repentini cambiamenti di umore, porterà novità e scompiglio nella vita della giovane.
Tra un rapporto che fatica ad instaurarsi, vecchie ferite non ancora del tutto sanate ed un patrigno che sembra darle la caccia, Lea si ritroverà ad affrontare sentimenti che non sapeva essere in grado di provare, specialmente non per uno come Isaac Hall.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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(Allor, ho scritto il capitolo dal cellulare non ho quindi idea di quanti errori possano esserci. Vi prego quindi di perdonarmi, in caso di veri e propri ORRORI, ho provato a fare una revisione ma dal cellulare non è poi così semplice. Detto questo, vi auguro buona lettura e spero che il capitolo vi piaccia. c:)


«Quindi non siete arrivati nemmeno al Pacific Park?» Domandò Red, con aria civettuola, comodamente spaparanzata sul letto della sua migliore amica, mentre osservava attentamente le lunghe unghie laccate.
Lea sospirò, scuotendo il capo per l’ennesima volta.
Erano chiuse in quella stanza da quel pomeriggio e la piccola di casa Wilson non aveva idea di quante volte la rossa le avesse posto quella stessa domanda. Decine, centinaia forse…
La rossa aveva incominciato a farle l’interrogatorio non appena la campanella aveva segnato la fine delle lezioni e, da allora, non sembrava intenzionata a cedere all’idea che tra lei ed Isaac non fosse successo assolutamente niente.
«Te l’ho già detto, Red!» Protestò la mora, facendosi scorrere davanti agli occhi gli indumenti appesi alle stampelle per l’ennesima volta. «Niente di niente.»
«Non riesco a capire se siete i due esseri più ottusi al mondo o se le circostanze vi siano solo avverse.»
«Forse entrambe.»
La giovane sospirò.
Gli eventi del giorno precedente erano stati per lo più eventi da dimenticare.
Quello che era iniziato come un vero e proprio viaggio verso il paradiso, si era poi trasformato in una strada per l’inferno.
A metà strada il Suv nero di Isaac aveva incominciato a fare i capricci ed il giovane aveva appena fatto in tempo a parcheggiare su di una piazzola prima che l’auto decidesse di morire del tutto.
Dopo arguti ed attenti esami durati quasi un’ora, il giovane Hall aveva affermato che il motore era grippato ed aveva proseguito imprecando e sproloquiando su un sacco di cose di cui Lea non aveva capito una mazza.
«Quindi la macchina si è semplicemente fermata, i cellulari non avevano segnale e voi avete camminato per cinque chilometri fino alla prima stazione di servizio?» Ricapitolò Red.
L’altra annuì. «Esattamente.»
«Avete passato cinque chilometri in silenzio?» Inquisì, allora, la rossa.
Lea si sentì arrossire.
Certo che non avevano passato cinque chilometri in silenzio.
Avevano parlato, parlato a lungo ed era stato strano ed elettrizzante allo stesso tempo. Per la prima volta da quando era lì aveva sentito la voglia di aprirsi totalmente con qualcuno, non lo aveva fatto ma era stato comunque un bel passo avanti.
«Isaac si è scusato!» Esclamò, voltandosi a guardare la migliore amica negli occhi. «Si è scusato, mi ha raccontato della lettera di sua madre, delle sue sensazioni, di suo padre…»
«Quale dei due?»
«Non essere una stronza, Red!»
La rossa sbuffò, poggiando la schiena contro il letto e le gambe contro il muro. La testa a penzoloni.
Non voleva essere una stronza, era solamente una domanda lecita. Non è che quell’appellativo, adesso,  indicasse qualcuno in particolare, anzi, era abbastanza vago, ma era meglio lasciar cadere l’argomento.
«E come siete arrivati a questo, allora?» Domandò, facendo scorrere lo sguardo sulla figura della mora.
Lea si strinse nelle spalle. «E’ successo e basta!» Sussurrò. «Eravamo sul vialetto, ci eravamo appena salutati ed io stavo per rientrare a casa, quando mi ha fermata. Mi ha detto che stasera saremmo usciti, solo io e lui, come ai vecchi tempi, che non era una domanda, e che si sarebbe stata una sola differenza…»
«Sarebbe stato un appuntamento.» Conclusa l’altra e la giovane si limitò ad annuire.
Aveva ostentato una calma che non le apparteneva fin quando non aveva raggiunto la sua stanza, le tapparelle erano ancora abbassate e solo allora si era permessa di sfoggiare il suo assurdo e ridicolo balletto della felicità.
Giurava di non essersi sentita mai tanto euforica in tutta la sua vita e persino in quel momento, dopo ore intere passate a razionalizzare la cosa, non poteva ancora fare a meno di sorridere al solo pensiero.
«Non ho mai pensato fosse il ragazzo giusto per te…» Esclamò la rossa, rivolgendole un sorrisetto apprensivo. «Credevo ti avrebbe fatta soffrire o che si sarebbe preso solamente gioco di te, ed invece mi sbagliavo. Ti ha insegnato tanto…» Aveva un tono solenne, quasi materno…
«Beh, sicuramente, da ieri, il mio repertorio di parolacce è decisamente più ampio!»



«Tesoro sei uno schianto!» Esclamò Marìa Elèna, stringendola in un abbraccio.
Lea fissò la matrigna con un mezzo sorriso, mentre ricambiava la stretta in maniera estremamente impacciata.
«Ti ringrazio, ‘Lèna!» Mormorò, abbastanza in imbarazzo, muovendo un passo all’indietro.
Nonostante fossero, ormai, quasi due mesi che condividevano la stessa casa e la stessa quotidianità, la giovane non si era ancora abituata a quegli scambi di affetto. Per anni aveva vissuto in un ambiente estremamente gelido, tutto quel calore, adesso, le era estraneo.
Sua madre non era solita a certe cose, la abbracciava poco e baciava meno, ma, allo stesso tempo, abbastanza affinché la giovane fosse del tutto incapace di voltarle le spalle.
Con suo padre e la nuova famiglia era diverso, doveva solamente farci il callo, poi quell’alone di stranezza sarebbe finalmente scomparso.
Lea sperava vivamente che l’altro alone a scomparire sarebbe stato quello che era calato su suo padre dal pomeriggio precedente. Le teneva il muso da quando, di rientro da quella pazza giornata, lo aveva avvertito del fatto che la sera seguente avrebbe avuto un appuntamento.
Diceva di sentirsi tradito.
«Io penso, invece, che tu sia troppo scoperta.» La rimproverò l’uomo, seduto all’isola della cucina, prendendo un sorso di thè verde dalla sua tazza. Se ne stava semplicemente lì e la fissava in cagnesco, se si concentrava abbastanza, era sicura, di poterlo sentire ringhiare.
Lea fece correre lo sguardo sulla sua figura riflesso nello specchio in salone.
Non le sembrava di essere così scoperta…
I pantaloni bianchi a vita alta le fasciavano le gambe fin sopra le caviglie ed il top azzurro a quadrettini bianchi le lasciava scoperte le spalle ed una fascia di ventre. Oggettivamente era andata in giro più svestita!
«Ma veramente…» Mormorò.
L’uomo la interruppe con un gesto distratto della mano. «Se non ti perdi in chiacchiere, fai ancora in tempo a cambiarti.»
«Ma io non voglio cambiarmi!»
«Dovresti.»
«Ho passato ore davanti all’armadio alla ricerca di un completo che mi stesse bene!»
«Allora continua a cercare, questo ti fascia i fianchi. Ultimamente hai messo su un po’ di pancetta.»
La piccola Wilson si portò le mani al ventre, spalancando la bocca stupita.
Se l’intento di suo padre era quello di farla vacillare, beh… ci stava riuscendo alla grande. Al momento non era più tanto convinta che quello fosse l’outfit più adatto per la serata!
«Oh, ma smettila, Peter!» Lo rimproverò la moglie, rivolgendogli uno sguardo fulminante. «Sta benissimo e farà girare un sacco di teste questa sera.»
Il padre sbuffò, alzandosi in piedi. «L’unica testa che girerà è la sua.» Borbottò. «Quei tacchi sono talmente alti che se guarda dove mette i piedi rischia un attacco di Acrofobia!»
Lea ringraziò il cielo quando sentì il clacson del rover di Isaac richiamare la sua attenzione.
“Di classe”, pensò mentre salutava velocemente l’intera famiglia e si trascinava fuori dalla porta.
«Dovevo portarti dei fiori?» Domandò il ragazzo, bloccando le portiere.
Non aveva mai avuto grandi problemi nell’organizzare, sia ad Isabella che Rebecca era sempre piaciuto uscire a cena ed andare al drive in o in qualche locale. Lea Wilson non gli rendeva le cose così semplici; non le piaceva bere, non le piaceva ballare, non le piacevano i locali pretenziosi, tendeva ad addormentarsi al cinema… Insomma, le sue opzioni erano decisamente più ridotte del solito.
Sulla questione dei fiori aveva riflettuto un intero pomeriggio ed era arrivato alla conclusione che non fossero necessari; le aveva detto che sarebbero usciti e che sarebbe stato esattamente come ai vecchi tempi. Ai vecchi tempi non le regalava fiori. Eppure, perché, adesso non era più così sicuro della sua scelta?
Lea trattenne per un secondo il respiro, umettandosi le labbra.
Era tutto così strano.
«Dei fiori o un Happy Meal…» Esclamò nel tentativo di riuscire a smaltire parte di quella tensione.
Il ragazzo emise un risolino, stringendo le mani sul volante, evidentemente a disagio. «A quello posso rimediare!»


«Non riesco a credere che tu abbia chiesto il menù delle carni in un ristorante di pesce!» Esclamò Isaac, ancora preda delle risa più incontrollate, passandosi le dita sotto gli occhi.
Lea lo fissò truce, portandosi le braccia conserte sotto il seno.
Il giovane Hall non aveva smesso di ridere su quel suo piccolo incidente di percorso, praticamente dal loro arrivo, e non sembrava intenzionato a farlo nemmeno nell’immediato futuro, il che non faceva che renderla estremamente irritabile. Lei non aveva certo riso di lui quando aveva saputo dei suoi problemi di dissenteria, il fatto che fossero fasulli faceva parte di un’altra storia.
«Ridi quanto vuoi!» Brontolò aumentando il passo. «Ma sappi che lo farai da solo perché io ho tutte le intenzioni di tornarmene a casa.»
Doveva sembrare una vera idiota mentre incepiscava nella sabbia nel vano tentativo di allontanarsi velocemente e non gettare sabbia in punti in cui la sabbia non dovrebbe essere, ma in quel momento poco le importava; aveva già provveduto a fare una pessima figura, quella sarebbe stata solamente l’ennesima che si aggiungeva all’elenco.
Stava arrancando verso l’uscita della spiaggia, con le scarpe strette in mano, quando le dita dell’altro si strinsero attorno al suo polso. Lea si voltò, mantenendo comunque la sua aria arrabbiata.
Sul volto del ragazzo c’era ancora lo spettro di quell’ultima risata, ma qualcos’altro si stava facendo largo nei suoi occhi, qualcosa che aveva una nota di urgenza.
«E va bene, scusami!» Mormorò, portando la mano libera a carezzare la guancia della giovane. «Non dovevo prendermi gioco di te, è che sei stata così dannatamente divertente!»
La piccola Wilson sbuffò e voltò il capo dall’altro lato, ma Isaac la costrinse a tornare con lo sguardo fisso davanti a se.
Le dita di lui le massaggiavano le guance e la tenevano, in un certo senso, ancorata.
«Mi sono dimenticato di dirti che sei bellissima.» Mormorò.
La verità era che, quando l’aveva vista sulla soglia di casa, impaziente di raggiungerlo, cervello e lingua avevano interrotto le comunicazioni. La sua testa era andata in tilt, forse perché tutto quello sembrava fin troppo strano per essere vero.
Un appuntamento con Lea Wilson, la stessa Lea Wilson a cui da bambino aveva tagliato i capelli e che aveva tormentato di pugni. Quella stessa Lea che non era nemmeno il suo tipo.
«Anche tu non sei male.» Bofonchiò la giovane, umettandosi le labbra.
Non avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura che aveva sentito le budella fare la capriole quando l’aveva visto.
Non che fosse vestito in modo così particolare, ma una parte di lei si sentiva speciale al pensiero che si fosse infilato in una camicia bianca solamente per lei. L’altra rimpiangeva gli abiti scuri, ma si stava lentamente abituando a quella versione così soft e QUASI sofisticata del suo vicino di casa.
«Sono solo non male?» Domandò, inarcando le sopracciglia.
«Sono solo bellissima?»
«Touché.»
Lea si lasciò scappare un sorrisetto divertito e poggiò la testa contro le clavicole sporgenti del ragazzo.
Profumava di buono, di muschio bianco e dopo barba.
Per tutta la vita, da quel momento in poi, avrebbe associato quegli odori solo ed esclusivamente a lui.
Inutile a dire ed inutile a fare, quando si trattava di Isaac Hall le bastava gran poco perché le passasse l’arrabbiatura.
Si staccò da lui solamente quando una goccia di pioggia le colpì la nuca.
«Sta incominciando a piovere.» Sussurrò Isaac, rafforzando la stretta sulle loro dita intrecciate. «Vuoi tornare a casa?»
Lea scosse il capo, muovendo un passo all’indietro, trascinando con se il ragazzo.
Tutt’attorno a loro l’intensità della pioggia aumentava e le poche persone rimaste incominciavano a muovere i primi passi verso le loro auto.
Alla piccola Wilson, invece, la pioggia piaceva e voleva godersi il momento fino alla fine. Voleva vedere il mare in tempesta, sentire i vestiti appiccicati contro il corpo, i capelli schiacciati contro la nuca ed il vento fresco che le accarezzava la pelle scoperta. Voleva sentirsi febbricitante.
«Avrei dovuto essere qui!» Esclamò di punto in bianco, bloccando il giovane sul posto. «Non c’è giorno che non me ne penta.» Aveva un enorme groppo in gola, ma se voleva davvero che tutto ciò funzionasse doveva riconoscere e prendersi la sua parte di colpe. «Tu avevi bisogno di me ed io non c’ero…»
«Lea…» Mormorò Isaac.
Non voleva sentire.
Aveva passato una bella serata e non voleva certo rovinare tutto riprendendo un discorso già finito. Aveva ammesso di aver sbagliato, c’era qualcos’altro di cui parlare?
«Ti prego, lasciami finire.» Lo interruppe lei, avvicinandosi e stringendogli il viso tra le mani. Se doveva dirlo, aveva bisogno che lui la guardasse negli occhi. «Io ti ho lasciato.» Esclamò. «Non avevo idea di cosa sarebbe successo, ma non ci ho nemmeno voluto pensare. Io…» Fece una breve pausa. «Io non sono brava con i confronti. Per tutta la vita li ho evitati nemmeno fossero peste solamente perché mi era stato inculcato in testa che non ero abbastanza forte per poterli sopportare, quindi li aggiravo. L’ho fatto sempre e, purtroppo continuo a farlo, anche quando non dovrei.» Un secondo istante di silenzio calò su di loro. «Invece di salire su quell’auto, quella mattina, avrei dovuto semplicemente dirti che sono pazza di te.»
Quelle parole erano uscite dalle sue labbra incontrollate.
Quando aveva lasciato casa sua, un paio di ore prima, non aveva certo calcolato che la serata avrebbe preso una piega del genere, non aveva dubitato del fatto che avrebbe spillato ogni cosa.
Sarà stata la pioggia o forse la bottiglia di vino che si era scolata a cena eppure sentiva di aver fatto, per la prima volta, la cosa giusta.
Isaac alzò lo sguardo su di lei.
Fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di guardarla negli occhi, aveva fissato le sue spalle ma non le aveva viste realmente, però aveva ascoltato attentamente, ma semplicemente non era ancora stato del tutto in grado di metabolizzarlo.
Si passò una mano sulla bocca, emettendo un sospiro roco.
Aveva la gola secca.
«Tu non sei il mio tipo!» Mormorò ed il cuore di Lea perse un battito, prima di scendere sul fondo del suo stomaco. «Tu sei mora e a me piacciono le bionde, mi piacciono le ragazze slanciate a tu sei alta un tappo ed un barattolo, non fai che lamentarti e spesso sei insopportabile. Parli in continuazione e mi fai venire mal di testa, hai questo modo di fare strano che a volte mi spaventa, esasperi le situazioni e sembri avere un vero e proprio talento nel cacciarti nei guai dai quali io, poi, devo tirarti fuori. Mi fai arrabbiare e a volte vorrei solamente potermi liberare di Lea Wilson.»
La giovane stava trattenendo il respiro ed in quel momento i suoi polmoni bruciavano alla disperata ricerca di aria, lo stesso facevano i suoi occhi ma per il desiderio di poter piangere.
Si umettò le labbra.
«Allora perché non lo fai?» Mormorò, la voce risultava tremolante e spezzata, ma non c’era modo che potesse mantenerla sotto controllo in quel momento. Stava per cedere. «Perché non ti liberi di me?» Domandò, sebbene non fosse del tutto sicura di voler sentire la risposta.
«Perché nonostante tutto, tra i due, penso di essere stato io quello ad aver perso la testa per primo.»
   
 
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