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Autore: Doomsday_    16/09/2017    1 recensioni
- Future!fic -
Dopo cinque lunghi anni di pace, la fragile quiete di Beacon Hills viene nuovamente spezzata. Un nuovo nemico minaccerà di sottrarre al Branco quel che per loro conta più della vita stessa.
Dal testo:
"Il corvo la fissava silenzioso, gli occhietti intelligenti sembravano scrutarle l'anima.
Fu allora che le piume si tramutarono in gocce di sangue. Colarono lente e calde lungo il braccio di Lydia. Eppure lei continuò a carezzare quel grumo rappreso fatto di morte con un sorriso pacifico a rasserenarle il viso.
"
Genere: Angst, Fluff, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kira Yukimura, Lydia Martin, Malia Hale, Scott McCall, Stiles Stilinski
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Undicesimo Capitolo










 
Un'altra notte era trascorsa, lenta, scandita dal ticchettare fastidioso dell'orologio. Stava seduta al tavolo della cucina, dove aveva trascorso anche le notti precedenti. Lydia non dormiva più, non da quando avevano trovato la Profezia della Morrigan – se non si consideravano i sporadici sonnellini a cui si abbandonava su uno dei tanti libri celtici che Jordan le aveva recuperato dalla Biblioteca della città.
Non dormiva più, non nel suo letto, non accanto a suo marito. Appena si sdraiava gli occhi le si spalancavano come due tazzine da caffè.
Aveva paura, non sopportava più quei strani sogni silenziosi coperti di sangue che la venivano a trovare ogni volta che le palpebre le cedevano.
Almeno, tra le pagine di quei libri dalla lingua sconosciuta, riusciva a trovare una sorta di pace. Non riusciva ad avere visioni, ma almeno stava agendo, stava per decifrare l'indizio forse più importante che avevano tra le mani. Finalmente aveva trovato uno scopo e questo riusciva ad espiare il senso di colpa che la divorava, anche se per un tempo troppo breve, ma sufficiente per farle recuperare una sorta di tranquillità fittizia.
Allora si armava di una caraffa di caffè bollente e della tazza che Allie aveva dipinto per lei alla festa della mamma. Prendeva posto al tavolo della cucina, circondata da tutti i libri, e incominciava la disperata ricerca di ogni parola di quella strana profezia.
Per ora era riuscita a tradurre solo la prima frase e mai traguardo le sembrò tanto distante.
Spesso, come anche quella notte, Allie si accucciava accanto a lei. Avvicinava una sedia a quella di Lydia e ci si rannicchiava sopra a mo' di gatto, abbandonando la testa sulle gambe della madre e alle sue coccole.
Lydia era certa che la piccola stesse tremendamente scomoda, ma non aveva il coraggio di spostarla quando si addormentava con i pugni chiusi aggrappati alla sua maglietta.
Allie era cambiata molto e sapere che a tre anni sua figlia non era più la bambina solare e spiritosa che era sempre stata, distruggeva Lydia più di qualsiasi altra cosa.
Di tutti i cuccioli del branco, Allie era quella che sembrava pagare più le conseguenze di quella nuova minaccia.
Aveva iniziato a soffrire di terrori notturni, era spaventata all'idea di uscire fuori di casa e ogni volta che i suoi genitori uscivano lasciandola con la nonna le prendevano attacchi di panico difficili da gestire.
In quei giorni Allie era diventata l'ombra di Lydia: se faceva un passo lei la seguiva e si aggrappava a una sua gamba finché non si fermava o si sedeva da qualche parte.
Lydia accarezzò i morbidi capelli biondo fragola di sua figlia con le lacrime agli occhi, come ogni mattina le capitava di fare.
La notte aveva ceduto posto all'alba già da molto e in un battito di ciglia il sole era sorto rivelando una luminosa e calda mattinata.
Eppure in casa Parrish le tapparelle erano ancora tutte abbassate e le tende tirate. Viveva ancora la notte dentro la loro cucina.
Persino Jordan era già uscito per andare a lavoro, segnando l'inizio ozioso di una nuova giornata.
Ma era bello restare intrappolati nell'incanto della notte finché Allie non si svegliava.
Lydia restava a guardarla ammaliata e ad accarezzarle i boccoli, arrovellandosi il cervello con quell'unica frase che per ora aveva a disposizione.
"Vedo un mondo che non mi sarà caro".
Fin quando la bambina non apriva gli occhi, se li stropicciava e si lasciava andare a un lungo e tenero sbadiglio.
 
***


La katana disegnava archi precisi ed eleganti. Kira, i muscoli tesi, la mente in sintonia con la Volpe, sembrava una macchina di guerra priva di imperfezioni.
Si stava allenando da circa un paio d'ore, senza sosta. Matty giocava dentro al box, ogni tanto piagnucolava per cercare attenzioni, ma Kira era totalmente assorta: esisteva solo la katana e la Volpe.
Scott era uscito con Adam e Caleb per la partita di inizio stagione di Lacrosse.
Scott. Il pensiero di suo marito strisciò fin dentro le profondità della sua mente.
La katana calò, Kira si mosse, si spostò di lato incrociando con grazia i piedi e poi eseguì un affondo.
Sentì la Volpe dentro di sé agitarsi quando i suoi pensieri chiamarono nuovamente alla mente il volto di suo marito.
Si mosse ancora, per tornare in posizione di attacco ma perse l'equilibrio ed inciampò.
Riuscì a rimanere in piedi ma lo stato di trance che trovava durante ogni allenamento si spezzò.
Posò la katana e si chinò poggiandosi con le palme delle mani sulle ginocchia, con il fiatone.
"Tornatene nel deserto allora! Vattene! Che diavolo ci fai ancora qui se non sei felice?".
Scott aveva urlato quella mattina, aveva tirato e rotto oggetti, rabbioso come lo era stato anche nei giorni precedenti.
"Adam, nostro figlio, potrebbe essere la prossima vittima ma tu pensi solo a riunirti alle Skinwalker!"
"Ci penso proprio per il bene dei nostri figli, Scott"
"No tu vuoi scappare! Sei così terrorizzata dal rimanere sola, dal provare il dolore straziante della perdita di un figlio, che saresti capace di abbandonarli e voltare la testa pur di non vedere!".
La lite di quella mattina era stata una delle più spaventose che Kira avesse mai affrontato con Scott.
Lui oramai la vedeva come una codarda egoista e nulla poteva più dissuaderlo da tale sospetto.
Kira sentiva le mani formicolare, i nervi ancora tesi pronti a scattare. Si sentiva sopraffatta dall'angoscia. Stare ferma lì, ad allenarsi, alla continua attesa del ritorno di Scott, giorno dopo giorno, dopo giorno ancora, la stava lentamente divorando.
Matty piagnucolò ancora, tirando i pupazzi contro la rete del box. Allora Kira si rese conto di quanto tempo era stata lontana con la mente, così lontana che neppure le richieste di attenzione di suo figlio erano riuscite a raggiungerla.
Eppure questo insistente sentimento di agire, di muoversi, di scappare si era ormai annidato dentro al suo cuore, martellando incessantemente.
Ogni battito era un invito a reagire, ad andarsene.
Il suo cellulare, abbandonato per terra non molto lontano da lei, prese a squillare. Era Scott.
Kira ebbe l'impressione che suo marito sapesse quel che le stava passando per la testa in quel preciso istante.
Si tirò su e raggiunse il box, prese Matty in braccio, cullandolo appena per farlo calmare. Ignorò il telefono che continuava a suonare, accusatorio. Poi salì al piano terra e, senza prendere né borsa e né cambiandosi i vestiti, uscì di casa.
 
***


La dottoressa Redwell guardava Malia con cipiglio accusatorio, mentre passava la sonda dell'ecografo sul suo ventre.
Non c'era più traccia del livido sul suo viso e persino la ferita alla spalla era ormai guarita, ma la dottoressa non sembrava essere meno sospettosa.
Dopo quell'incidente, infatti, la Redwell aveva deciso si fare più controlli e visite ravvicinate.
«Va tutto bene?» chiese Malia, dato che il silenzio la stava esasperando.
La dottoressa tirò fuori la siringa con il solito liquido bianco e le fece due iniezioni, poi prese a palparle il ventre. Le sue dita erano calde e delicate sulla pelle, ma i suoi gesti decisi. Premeva punti precisi, eseguendo manovre sconosciute.
Poi, dopo un profondo sospiro, disse: «Non le mentirò, signora Stilinski: voglio che si lasci ricoverare. Non è un suggerimento, né un invito. È un ordine».
Malia pensò a Jamie e a Stiles e le mancò subito l'aria: «Questo è fuori discussione» sbottò.
Alla dottoressa non piacque quella risposta.
«Non penso che lei si renda conto della situazione. Le ho detto di restare a riposo e lei non l'ha fatto, ora il feto è in sofferenza. Questo vuol dire che rischia di perdere sua figlia. Era una delle migliori gravidanze con placenta previa che abbia seguito e adesso...»,
«Non posso ricoverarmi. Ho un figlio che non posso lasciare da solo».
«Ne ha due, adesso» le fece notare la dottoressa, con sguardo inequivocabile.
Malia strinse le labbra.
«Senta», disse la dottoressa Redwell «non è una bella situazione, questa. Sono quasi certa che procederemo con un cesareo entro un paio di giorni».
Malia portò le mani a coprire il grembo «Un paio di giorni?» balbettò, «Come? No. È troppo presto», protestò.
Il panico si diramò in lei e per un attimo si sentì persa senza Stiles accanto a tenerle la mano.
Quella possibilità la investì con tale forza da lasciarla lì impalata, inebetita e con gli occhi sgranati, incapace di dire altro.
Si immaginò quella neonata che negli ultimi mesi aveva visitato i suoi sogni, piccola e rosea stretta tra le sue braccia e un brivido la colse impreparata.
Se Claudia fosse nata sarebbe divenuta finalmente reale, concreta. Non sarebbe più stata una parte del suo corpo, quel qualcosa che viveva dentro di lei, con cui era un tutt'uno, che sentiva di poter proteggere da tutto.
Avrebbe voluto dire avere davvero un altro figlio, dopo mesi in cui si era ripetuta che probabilmente non l'avrebbe mai vista nascere viva.
Era ancora un sogno, per lei, un sogno dalla consistenza di fumo e dal sapore agrodolce.
La suoneria del suo cellulare la riscosse. Lo tirò fuori dalla tasca dei jeans e controllò il display: Stiles. Stiles aveva bisogno di lei.
Il suo cuore iniziò a galoppare imbizzarrito e quasi il fiato le mancò in gola. L'irrefrenabile istinto di protezione d'un tratto mise tutto il resto in secondo piano. Doveva raggiungerli, assicurarsi che stessero bene e proteggerli.
Scivolò giù dal lettino, dicendo: «Mi scusi, ma ora devo proprio andare».
«Uscendo da quella porta sta condannando sua figlia» fu la pacata risposta della dottoressa, che Malia – con un groppo in gola – ignorò.
 
***


Lo spettacolo che Scott e Stiles si trovarono davanti quando arrivarono sulla scena del crimine fu raccapricciante.
Il terreno era intriso di sangue e persino l'erba aveva assunto un'inquietante colore nero.
Dai rami di tre alberi pendevano arti e teste mozzate, come frutti marci di un albero demoniaco.
I corpi martoriati – o quel che ne rimaneva, ovvero solo i busti – erano ammassati contro i tronchi su cui spiccavano netti e profondi graffi.
Formavano un triangolo, un macabro spettacolo di precisione.
Scott e Stiles si guardavano attorno, nessuno dei due emise un fiato.
La scientifica stava ancora fotografando tutti i dettagli, registrando ogni particolare di quello spietato eccidio.
Avevano lasciato i bambini chiusi nella volante dello Sceriffo Parrish, con due agenti per ogni lato a sorvegliarli, ma dinanzi a quella scena entrambi i genitori ebbero il desiderio viscerale di tornare indietro a prenderli e portarli a casa, per non lasciarli più di vista.
«Chi si accanirebbe su delle persone in questo modo?» mormorò Stiles, ancora sotto shock.
«Non ne ho idea, ma di certo non si tratta del nostro Darach» rispose Scott, «Sembra qualcosa di assolutamente fuori controllo» boccheggiò.
Stiles ammutolì per qualche secondo, percorrendo con gli occhi l'intera scena del crimine da quella distanza.
«No, hai ragione. Non si tratta del solito assassino. Guarda i solchi sul terreno» disse percorrendoli con l'indice «i corpi sono stati spostati più volte».
Fu piuttosto complicato individuare Lydia in mezzo al resto degli uomini della scientifica. Tutti indossavano tute bianche, spessi occhialoni di plastica e mascherine a celargli il volto.
Uno di loro si allontanò dalla scena del crimine per andare verso Scott e Stiles. Si tolse il cappuccio della tuta e appena i due intravidero i capelli rossi capirono subito che si trattava di Lydia.
Non sembrava sconvolta, eppure ai due amici parve pallida in modo preoccupante e le sue labbra tremavano ormai d'abitudine, come un fastidioso tic.
Lo sguardo della Banshee era rivolto unicamente a Scott, il loro Alpha. I suoi occhi erano grandi più del normale, spaventati, in una disperata ricerca di qualcosa che gli avrebbe potuti rassicurare.
«Cos'è successo, Lyds?» chiese Scott, con voce ben più rassicurante di quanto usasse con lei nell'ultimo periodo.
Lydia ci mese un po' prima di rispondere. I suoi occhi vagavano da Scott a Stiles in cerca di rassicurazione, annunciando allo stesso tempo quanto stava degenerando tutto quanto.
«Erano dei tifosi» mormorò, la voce rauca. «Umani», scandì con tono ancor più basso.
«Abbiamo ritrovato dei brandelli di magliette sportive sui corpi. Pare che siano dei tifosi dei Beacon Rollers. Con ogni probabilità si erano riuniti qui nel bosco, vicino al campo sportivo, per far baldoria prima della partita che si sarebbe disputata il giorno seguente e... questa è la fine che hanno fatto».
«Darach?» chiese Stiles, senza mezzi termini. Il sangue gli ribolliva nelle vene, arrivandogli al cervello. Vedeva tutto rosso in quel momento, ma era curioso di sapere cosa ne pensasse Lydia, nonostante sapesse che i suoi sospetti fossero esatti.
«C'è qualcosa di strano qui» bisbigliò la ragazza, come se qualcuno la stesse ascoltando.
«È diverso. È tutto diverso. Il modo in cui sono stati uccisi, la brutalità dell'atto... sembra opera di una belva priva di controllo e non del nemico che ci siamo ritrovati davanti fino ad ora. Lui è controllato, sa esattamente cosa fare e perché farlo. Ha uno scopo. Mentre questo... è soltanto un macello».
Stiles annuì. Non poteva che essere più d'accordo.
Vide avvicinarsi a passetti rapidi la sua collega, l'agente Jonas. Si distaccò dai due, per impedire che continuassero il discorso e attese che la ragazza lo raggiungesse.
Di bassa statura, in una divisa che la faceva sembrare ancora più piccola, Martha Jonas sembrava una bambolina. Teneva i capelli biondi raccolti in una crocchia severa e l'espressione seria e concentrata che aveva in quel momento riusciva solo a suscitare tenerezza.
Per questo Stiles non era solito trattarla come gli altri agenti. Come poteva fidarsi di una ragazzina all'apparenza così delicata e affidarle la propria vita e quella dei suoi uomini?
Ma d'altronde non gli sarebbe dispiaciuto scoprire che Jonas non fosse capace solo a portargli il caffè la mattina e a girargli intorno prendendo appunti senza dimostrare neppure un briciolo di iniziativa.
Il fatto era che a lui quel tipo di donna proprio non piaceva ed era sicuro – sin dal primo momento in cui Martha Jonas era stata affidata sotto la sua ala protettiva – che la giovane aveva di certo sbagliato lavoro. Bisognava avere la pelle dura, lo stomaco forte e il cuore di pietra per sopravvivere a quel lavoro.
«La stavo aspettando, capo! Tutti chiedono di lei» squittì la giovane agente, porgendo i guanti in lattice a Stilinski.
«Andiamo, allora» rispose Stiles, tirando fuori dalla tasca un fazzoletto per potersi coprire il naso da quel lezzo nauseante.
Lydia si calò su il cappuccio e li seguì, mentre Scott rimase più in disparte.


L'Alpha continuava a guardarsi attorno, girandosi più e più volte in direzione della macchina dove avevano lasciato i bambini. Si sentiva agitato, con la forte sensazione di dover andarsene da lì, di dover essere in un altro posto in quel momento.
"Non aveva il volto. Era un bambino senza volto, Scott! Un bambino senza occhi, né bocca. Un bambino morto". Quella frase lo ossessionava giorno e notte, ripresentandosi anche nei momenti meno opportuni, senza che lui la riportasse alla mente. La sentiva come se ci fosse di nuovo Lydia davanti a lui a urlargliela in faccia, con l'esatta intonazione graffiante e tragica. Il suo cuore iniziò a palpitare veloce. Stava perdendo il controllo.
A niente serviva pensare che quell'ansia era dovuta al luogo in cui si trovava o al fatto che Kira non rispondeva al telefono da quando era uscito di casa senza salutarla.
Prese a ripetersi che i bambini stavano bene, che Adam era al sicuro. Non sarebbe diventato quel bambino senza volto che aveva visto Lydia. Tornò a osservare Lydia e Stiles muoversi tra i resti, guardandoli come se stessero seguendo le linee di un disegno, di qualcosa di più grande. Indicavano i corpi e gli arti sparsi e ne commentavano la posizione e ogni taglio.
Anche Scott era rimasto catturato dai tre alberi. Ancora la triade che si ripeteva; ma questa volta aveva un non so che di stucchevole, di scialbo, improvvisato.
«Sembra come se un essere fuori controllo abbia fatto tutto questo e il Darach ne abbia nascosto le tracce, per quanto possibile» stava dicendo Stiles. Scott lo riusciva ad udire a fatica, nonostante i suoi sensi fossero allerta per captare ogni singolo rumore attorno a loro. Un malessere lo colse alla bocca dello stomaco. Un sapore amaro gli invase la bocca e in un attimo centinaia di immagini gli affollarono la testa: il Darach, silenzioso, acquattato tra gli alberi, che aspettava solo che loro si allontanassero dai bambini per agire. Il Darach, misterioso e forte che metteva a terra le guardie. Il Darach che apriva la macchina e metteva finalmente le mani sui bambini. E sangue, sparso sui sedili, su tutta la macchina. Piccoli arti lanciati ovunque, le teste recise dai corpi, allineate sul tettuccio della volante e parti di interiora spalmati sui finestrini.
Un conato di vomito gli risalì dalla gola e Scott non riuscì più a star fermo lì, guardando i due cercare informazioni nascoste sotto quello scempio.
Tornò indietro, quasi correndo, diretto alla volante dello Sceriffo.
I quattro agenti erano ancora attorno alla macchina e Scott rallentò il passo.
Caleb se ne stava affacciato al finestrino, bussando tristemente con il piccolo pugno contro il vetro, il viso speranzoso nell'aver individuato il padre arrivare.
Scott gli rivolse un sorriso tirato. Il cuore sollevato nell'aver trovato tutto come lo avevano lasciato. La scena che si era lasciato alle spalle lo aveva solo condizionato più del dovuto.
Aprì lo sportello e Caleb si gettò tra le sue braccia.
Scott gli accarezzò i capelli sentendolo piagnucolare contro il suo petto.
«Tranquillo, campione. Ora papà vi riporta tutti a casa, okay?» lo rassicurò, ma il piccolo prese a scuotere veloce la testa.
«No, papà» mugugnò «Adam è andato via e io non voglio tornare a casa senza Adam».
Per un lungo istante Scott non comprese le parole del bambino, ne capì perché nella macchina c'erano solo Caleb e il piccolo Jamie.
Poi, con suo figlio stretto ancora tra le sue braccia, si tirò in piedi tremando dal panico, guardò il cielo e ululò.
Un grido di dolore, di rabbia e disperazione. Adam non se ne era andato, l'avevano preso.
E allora il suo viso e il suo corpo iniziarono a mutare, i peli crebbero coprendo ogni superficie, finché accanto a Caleb non ci fu più l'uomo ma il lupo.




   
 
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