Note
dell’autrice:
Mi
sembra giusto dare un minimo di spiegazioni a chi dovesse ritrovarsi a leggere
questa shot, dal momento che, per vari motivi, ho
preferito limitare l’azione interna ai due soli protagonisti, senza dilungarmi
in approfondimenti sull’ambientazione.
In un
futuro in cui le protesi sono all’ordine del giorno, un ragazzo che ha visto
morire la madre scienziata rifiuta qualsiasi cosa sia artificiale. Quando la
sua mente viene definitivamente spezzata dallo stress post-traumatico, lo
psicologo che si prende cura di lui cerca di convincerlo a tentare un’operazione
che potrebbe salvargli la vita.
Uno dei
due personaggi, Giles Morgan, compare inoltre in Twisted
Mind, l’ultima long che ho postato su questo sito. Questa shot
è comunque da considerarsi una AU.
★Iniziativa:
Questa storia partecipa al contest “Humans +” a cura
di Fanwriter.it!
★Numero Parole: 979
★Traccia: 13. “L’essenziale è invisibile agli occhi.”
(Il piccolo principe)
SHUTDOWN
«Non possiamo più
aspettare. Stai morendo.»
Una sentenza di
morte che non ammetteva ulteriori repliche.
Fredde e
contrite, quelle parole penetrarono il silenzio come un sasso lanciato in un
lago, e allo stesso modo lasciarono spazio solo ad altro silenzio.
Avevano
combattuto l’uno contro l’altro, senza darsi tregua, per mesi: da un lato il
morituro, Ael, i cui occhi azzurri sembravano di
giorno in giorno sempre più simili a pozzanghere opache di fango; dall’altro
lato lui, Giles, la persona che lo costringeva a vivere.
Non aveva neanche
accettato il ricovero ospedaliero, Ael, perché gli
ospedali lo terrorizzavano. Aveva trascorso i primi anni della sua vita
nascosto dietro il camice di una geniale madre scienziata, attraverso la quale
aveva visto come il potere avveleni la mente e come giocare a fare dio
distrugga l’anima. Quando, infine, l’inevitabile era accaduto ed Ael era rimasto solo, aveva giurato a se stesso che quel
mondo non avrebbe avuto anche lui.
Non si sarebbe
certo rimangiato ora le sue parole, anche se significava che non avrebbe visto
il sole levarsi.
«E allora?»
sussurrò, tanto stanco da faticare ad articolare poche parole.
Non riusciva a
racimolare abbastanza coraggio da distogliere gli occhi dal soffitto bianco e
posarli su Giles, fermo innanzi alla finestra.
L’uomo lo
redarguì, con voce graffiante «Smettila di far finta di non capire.»
Sapeva benissimo
quali fossero i pensieri che affollavano la mente di Giles. Lo conosceva bene,
ormai: stava pensando a sua sorella morta, mentre con lo sguardo vagava perso
sullo skyline della città imbruttita dalla pioggia scrosciante.
Gli dava le
spalle, ma Ael riusciva a immaginare senza difficoltà
l’espressione di rabbia trattenuta sul suo volto.
Aveva perso Fanny
e ora non accettava di perdere anche lui. Del tutto comprensibile, almeno da un
punto di vista logico. Se gli avessero chiesto di individuare l’emozione
corrispondente, avrebbe detto sofferenza senza pensarci due volte, ma
anche senza capire il reale peso di quella parola.
«Perché dovrebbe
importarmi se muoio?»
«A me importa.»
Sentirgli
pronunciare quelle parole, ammettere senza alcuna remora che gli importava
di lui ebbe su Ael l’effetto di un pugno dritto
nello stomaco. O forse di una pugnalata al cuore. Non lo sapeva più.
Da quando aveva
perso la sua anima, le emozioni e le sensazioni si erano tramutate lentamente
in un diagramma piatto: il diagramma della sua vita, che senza ulteriori
stimoli scorreva inesorabilmente verso la fine.
Un’anima non era
qualcosa di rimpiazzabile, nessuna protesi avrebbe potuto farne le veci, e Ael non aveva la minima intenzione di mettere piede in un
ospedale.
Era testardo, Ael, ma vedere Giles stringere i pugni per poi uscire
furiosamente dalla camera lo fece traballare, come se un residuo della persona
che un tempo era stato si fosse risvegliato per farlo sentire in colpa. Non era
da lui sentirsi in colpa, non lo era stato neanche quando aveva avuto un’anima
e delle emozioni.
Si lasciò andare
ad un sottile e muto sospiro, osservando Giles sparire oltre la porta. Infine,
allo stremo delle forze, spostò lo sguardo verso la finestra, osservando
l’impeto della pioggia che giocava col vento.
In quel mondo
folle, in cui persino i cuori avevano smesso di battere per sete di vita, lui
non ci voleva vivere.
***
Giles Morgan non
aveva il potere di salvare vite. Non era un medico: era uno psicologo della
peggior specie, uno di quelli meschini, che più di una volta si lasciano
pervadere dalla carezzevole sensazione di saper esercitare del potere sulla
psiche delle persone.
Eppure si era
votato all’impresa di aiutare quel ragazzo problematico, talmente problematico
da riuscire a distruggere l’unica parte del corpo che l’umanità non era in
grado di ricreare.
Dopo notti
insonni e ricerche interminabili, aveva rintracciato una scienziata disposta a
tentare una disperata operazione all’amigdala, la parte del cervello addetta al
controllo delle emozioni. “La sua anima”, come la chiamava Ael. Un flebile ma luminoso raggio di speranza, che era
stato condannato alle tenebre dall’irremovibile volontà dello stesso ragazzo:
aveva scelto di morire lentamente in un letto, in una cupa notte di tempesta.
Giles aveva fatto
del suo meglio per salvarlo, e invece avrebbe dovuto assistere al suo
funerale. E questo trasformava ogni fibra del suo corpo in frustrazione.
***
Verso le cinque
la porta si aprì un’ultima volta, con uno scricchiolio prolungato che ridestò Ael da un sonno ormai da tempo privo di sogni.
Prima di rendersi
conto della situazione e prima che i suoi occhi riuscissero a delineare i
contorni dell’arredamento, il ritmico (ed inconfondibile) incedere di Giles lo
colse di sorpresa. Ma ancor più sorprendente fu vederlo procedere spedito verso
di lui e, senza alcuna delicatezza, scaricare sulle sue povere gambe una
custodia nera di medie dimensioni e dal peso non indifferente.
«Hey!» si lamentò il ragazzino, infastidito «Che modi!»
Giles non era
delicato, ma neanche così brusco di solito.
«Non tentare la
sorte, ragazzino.» rispose lo psicologo, apprestandosi a svelare ciò che era
celato nella valigetta.
Fece scorrere da
lato a lato la zip con un rapido movimento, e davanti agli occhi di Ael si materializzò tutto ciò che desiderava avere nei suoi
ultimi momenti: il suo violino. La gola gli si seccò, trasformando in un breve
mugolio incostante quel briciolo di emozione che il suo cervello riuscì ad
elaborare.
Nel frattempo,
Giles era tornato a guardare fuori dalla finestra e gli dava le spalle, in un
dolceamaro chiudersi del cerchio. Sul vetro, Ael
poteva vedere riflesso il suo volto rassegnato ma stranamente quieto: stavolta
non aveva paura di guardarlo.
«Che ne dici di Danse Macabre, un’ultima volta?» propose Giles, incrociando
gli occhi azzurri del ragazzo attraverso il riflesso.
Ael annuì lentamente, ricacciando in fondo alla gola lo strano fastidio troppo
forte per essere ignorato, ma troppo debole per essere chiamato emozione.
Le dita ossute sfiorarono lo strumento musicale con devozione, quasi fosse
l’unico modo rimastogli per esprimere ciò che aveva dentro di sé.
«Danse Macabre sia.»