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Autore: Rei_    28/09/2017    4 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Michele tornò dal suo giro serale più contento del solito. Era riuscito a camminare tutto il giorno senza un aiuto, e non si sentiva neanche troppo stanco.
Si rigirò di poco nel letto, strofinando i capelli corti sul cuscino, chiedendosi se Nicolò stesse riuscendo a gestire la complicata situazione del Fronte.
Quando fece per prendere l’acqua dal comodino, vide qualcosa che prima non aveva notato. Era una busta gialla voluminosa. La prese in mano, incuriosito, ma la curiosità si mutò in sgomento quando vi lesse il mittente.
Riccardo Marchesi.
La aprì, incerto. Cosa poteva voler scrivere Marchesi a lui? All’interno vi erano diversi fogli numerati, scritti con una calligrafia piccola e ordinata.
 
“Caro Michele,
probabilmente ti sembrerà strano in questo momento ricevere una mia lettera. Ti sembrerò un nostalgico, ma ho sempre ritenuto che certe cose è meglio scriverle a mano.
Prima di tutto i convenevoli, come stai? Mi auguro bene, i dottori mi hanno garantito che stavi guarendo. Spero che uscirai presto, anche se dovrai ammettere che l’ospedale del mio amico non è un posto così brutto dove passare la convalescenza.
So che in questo momento, conoscendoti, sarai preoccupato dal contenuto di questa lettera. È comprensibile, vista l’aria che tira là fuori. Ti chiedo, tuttavia, di leggere tutto con calma. So che sarà lungo, e mi scuso in anticipo per questo. È necessario che tu sappia delle cose che ti riguardano, ma ho pensato che sia più corretto raccontarti la storia per intero.
Non penso che tu sappia molto di me, alcune cose immagino te le abbiano raccontate gli altri e altre le avrai sentite in giro. La mia storia è spesso sbandierata su giornali e televisioni, da signori che pensano di sapere qualcosa di me solo perché è ciò che io voglio far vedere loro.
Ad esempio, sono in pochi a sapere che a diciott’anni sono andato via di casa. Forse ti sembrerò senza cuore, ma non vedo né sento i miei genitori da allora. Mi avevano iscritto ad una scuola privata e controllavano che studiassi notte e giorno. Dovevo avere sempre i voti migliori della classe e non esitavano ad umiliarmi se mi fermavo un millimetro al di sotto delle loro aspettative. Ti lascio immaginare quanto li odiassi, non li ho mai perdonati per avermi considerato solo un oggetto da modellare.
Come puoi immaginare, però, i miei genitori erano molto benestanti. Ho dovuto lottare un bel po’, ma a diciott’anni sono riuscito a reclamare la mia parte di eredità e ad andare a vivere da solo, comprando la mia attuale villa. Ed è stato un uomo ad aiutarmi a fare questo: Goffredo Ranieri. Un uomo che conobbi a sedici anni a scuola proprio grazie ai miei genitori, felicissimi di spingermi dalla parte “giusta” della politica, verso gli alti livelli della società. A dispetto di ciò che volevano i miei, però, la politica diventò la mia valvola di sfogo dallo studio. Nel partito stavo bene, mi sentivo apprezzato per ciò che facevo, ero sempre spronato a fare di più e ogni obiettivo che raggiungevo, anche se piccolo, mi riempiva d’orgoglio. Era il mio piccolo mondo, dove ero qualcuno e dove potevo decidere io il mio destino.
Perciò, una volta che andai via da casa, chiesi a Goffredo un posto di lavoro. Diventai funzionario del partito, stretto collaboratore dei più alti dirigenti. Lavoravo in un ufficio ai piani più alti di piazza del Gesù e rispondevo direttamente a Goffredo di ogni cosa. Pensa Michele, a soli diciott’anni avevo già scavalcato tante persone, senza alcun merito particolare.
Per un anno fui felice. Il partito andava bene, partecipavo a convegni e manifestazioni e conoscevo tante persone. Mi sentivo libero.
Dopo il liceo decisi di iscrivermi alla facoltà di Scienze Politiche della Sapienza, e fu lì che iniziarono i problemi. Ero costantemente diviso tra il lavoro, lo studio, i corsi e le iniziative da portare avanti. Goffredo voleva a tutti i costi insegnarmi ad essere un dirigente, così faceva in modo che io entrassi in ogni organizzazione studentesca affine alla nostra area cattolico-liberale. Lo scopo era sempre recepire informazioni, muovere le fila, imporre un controllo su quel vasto mondo eterogeneo.
Tutto ciò mi causava una gran quantità di lavoro e di stress. Mi alzavo ogni mattina alle sei e crollavo sul letto all’una, passando le serate a fare giri di chiamate per organizzare, mediare, informarmi su tutto. Nonostante questo, non ero mai all’altezza delle aspettative.
Goffredo esigeva sempre di più da me e mi rimproverava per ogni minima sbavatura. Non aveva più affetto nei miei confronti, non mi sorrideva più, non mi cercava se non per darmi nuovi incarichi o per rimproverarmi di quelli trascorsi.
Vedi, Michele, senza accorgermene ero passato da una prigione all’altra. Sono scappato dalla mia famiglia per finire di nuovo in catene, dopo essermi illuso di aver trovato la libertà. E un conto è scappare dalla gabbia dove ti ci hanno messo, un altro è evadere da quella che ti sei costruito attorno. Avevo bisogno di una nuova valvola di sfogo, e la trovai per caso una sera in uno squallido bar di periferia.
Fu uno spacciatore ad offrirmi per primo la mia nuova libertà, dentro un bagno sporco. Non avevo mai provato droghe prima, non ne ero nemmeno mai stato attratto. A scuola circolavano, ma ogni volta che c’era l’opportunità avevo sempre rifiutato. Ma quella sera feci il grande passo. Ero particolarmente arrabbiato, con Goffredo e con me stesso. Avevo bisogno di qualcosa di drastico, di un viaggio di sola andata per un altro mondo, e ottenni ciò che volevo.
Non voglio nasconderti nulla, Michele. Ho passato i successivi due anni a provare di tutto, con preferenze verso gli allucinogeni, alternati spesso ad anfetamine e coca. La mattina studiavo in università, il pomeriggio giravo per riunioni, la sera facevo le solite chiamate e la notte la trascorrevo tra bar malfamati e viaggi mentali di ogni tipo.
Goffredo, ad un certo punto, doveva essersi accorto di questa mia nuova occupazione, ma non mi ha mai detto nulla. A lui bastava che svolgessi il mio dovere come sempre, il resto non era un problema suo. Non gli importava così tanto di me.
Io, invece, mi stavo lentamente accorgendo di stare sviluppando una dipendenza, di esagerare nel mischiare, di stare andando verso il punto di rottura. Eppure, non potevo davvero farne a meno, non riuscivo più a sopportare la giornata, le persone, i rimproveri e i finti elogi senza quella dose di libertà. E più sentivo il rischio di farmi del male, più continuavo, perché in fondo non mi importava così tanto. Non esagero se ti dico che prima o poi sarei morto se avessi continuato con quei ritmi, ma poi qualcosa è cambiato.
L’origine del cambiamento si chiama Francesco, proprio quel Francesco Venturi di cui hai tanto sentito parlare.
La prima volta che lo vidi fu ad una manifestazione organizzata dai sindacati studenteschi. Noi avevamo accettato di sostenere la rivolta insieme alla sinistra, perché gli studenti erano tutti pronti a iniziare una guerra contro la riforma dell’università. Pensa un po’ che strano per me, ritrovarmi in piazza dalla parte degli studenti contro una riforma fatta dal governo del mio partito, di cui ero anche parte
dell’organizzazione. Però fu proprio Goffredo ad incoraggiarmi a partecipare. Era tipico della strategia dei democristiani di un tempo tenere il piede in due scarpe.
Quel giorno fu uno dei più felici per me, dopo anni di apatia fatta di sniffate e pastiglie che pretendono di darti la gioia. Fu una manifestazione bellissima: il nostro camioncino metteva musica e canti popolari, nettamente diversi da quelli di rivolta che il gruppo di studenti capeggiato da Thomas cantava davanti a noi. Io parlavo con tutti, mi riconoscevano e mi sorridevano. Mi sentivo come all’inizio della mia carriera politica: niente impegni, niente responsabilità, niente giochi di palazzo, solo la gioia di un corteo tra la mia gente, fatto di musica e di sano casino.
Francesco mi strinse la mano, presentandosi. Disse che era uno studente di Bologna, estasiato dall’idea di essere a Roma, quella città dove secondo lui tutto poteva succedere. Si presentò praticamente a tutti quel giorno, sembrava che ogni persona del mondo gli stesse simpatica. Passò la giornata intera a fare casino, a prendere in mano il megafono, gridando slogan e lanciando cori. È bastato quel corteo perché piacesse a tutti. Sai, era una di quelle persone che sa come coinvolgere gli altri e rendere allegro ogni momento, uno di quelli che non può in alcun modo starti antipatico.
Sul carro a parlare c’era anche Marcello Pasqui, un altro di quelli venuti da Bologna. La prima volta che lo conobbi a quella manifestazione mi colpì per il suo contegno e la serietà che aveva nel parlare. A quel tempo non mi andava tanto a genio.
Quel giorno fu magico, e la sera tutti ci ritrovammo a bere in un pub. Ero così euforico che non sentivo il bisogno di alcun tipo di droghe, ma solo di una buona birra e la giusta compagnia.
Quando fu ora di andare, Francesco ci comunicò che non aveva un posto dove dormire. Era tipico di lui dire sempre le cose all’ultimo momento, come se fossero di bassissima importanza rispetto al fatto di essere insieme a divertirci.
Mi proposi di ospitarlo a casa mia. Si mostrò subito molto stupito dal fatto che già vivessi da solo, ma molto di più lo colpì l’idea che io lavorassi per i vertici del partito. Gli sembrò una cosa fantastica, per me invece da un po’ era sinonimo di stress e amarezza accumulata.
Con Francesco si creò questa strana situazione. Lui invidiava me, che poco più grande di lui avevo già raggiunto importanti obiettivi. Io invece invidiavo lui, poco più giovane di me, perché era ancora libero di viversi la parte bella della politica, non aveva responsabilità e aveva invece quella sana ingenuità e quel genuino entusiasmo che io avevo perso troppo presto.
Successe che quella notte facemmo una corsa fino al Quirinale, e lui si mise a gridare ai quattro venti come un cretino totale. Voleva farsi vedere. Aveva dentro un fuoco che era impossibile spegnere, e che si manifestava nelle cose più assurde.
Dormimmo in camera mia, e io restai ad osservarlo per un po’ riuscendo solo a pensare a quanto mi avesse rallegrato la giornata, e a quanto fossi fortunato ad averlo conosciuto un po’ meglio.
La mattina dopo ripartì per Bologna. Io tornai alla mia vita quotidiana, alla politica d’ufficio, ai miei studi e alle mie uscite con i peggiori gruppi di persone che puoi incontrare a Roma. Frequentavo spacciatori di basso rango, ragazzetti di strada che vivevano per quello. Mi rispettavano perché ero ricco, e io uscivo con loro solo per avere della droga buona, non erano certamente considerabili amici. Non che in quegli anni avessi mai avuto dei veri amici, intendiamoci. In quello schifoso liceo ho sempre odiato tutti, dal primo all’ultimo. All’università stavo stringendo qualche rapporto grazie ad un’associazione studentesca che fondai assieme ad altri, ma come puoi immaginare era più un rapporto di lavoro che di amicizia vera. Tutt’altra cosa rispetto a ciò che nacque con Francesco. Restammo in contatto tramite e-mail, scrivendoci praticamente ogni giorno. Per la maggior parte del tempo si parlava di politica. Lui voleva sempre sapere le ultime notizie dalle segrete stanze di Piazza del Gesù, e io invece volevo raccontare le piccolezze dell’associazione universitaria, scrivendo delle nostre battaglie e dei litigi con i comunisti di Thomas. Avere qualcuno con cui parlare di queste stupidaggini era importante per me.
Francesco, invece, mi raccontava delle vicende bolognesi, dei piccoli tafferugli tra fazioni e dei problemi del partito, e per ogni cosa chiedeva il mio consiglio. Pensava che essendo “l’uomo di Goffredo” sapessi meglio di altri cosa fare. Io non ne avevo idea, a quei tempi non ero ancora bravo come adesso nel gioco della politica, ma naturalmente facevo finta di saperla lunga per non fare brutta figura. Poi, tra un racconto e l’altro, io e Francesco parlavamo di noi, delle nostre giornate e dei nostri progetti. Alla sera tornavo a casa felice
all’idea di avere una sua e-mail da leggere, e succedeva che a volte mi dimenticavo addirittura di aver bisogno di droghe in corpo.
Parlare con lui mi faceva bene. In qualche strana maniera avevo trovato un amico. Ma le cose cambiarono un’altra volta.
Ero in università quando un gruppo di fascisti impedì a me e a Thomas di accedere all’aula comune delle associazioni, che poi
venne vandalizzata. Quel giorno mi presi un pugno di ferro in faccia perché rifiutai di arretrare. Credimi, non avevo mai visto Thomas così spaventato. Fino a quel momento io e lui eravamo stati avversari. Ce ne dicevamo di tutti i colori: io prendevo in giro lui per i vestiti sgargianti e lui prendeva in giro me per i miei firmati. Da quel momento, però, io e lui non siamo stati più gli stessi.
È strano ritrovarsi catapultati da un momento all’altro nell’età adulta. Prima c’è qualcuno che ti protegge, che ti dice cosa fare. Poi ci sei tu, tu e basta, davanti a dei prepotenti pronti a farti del male.
Convinsi Thomas a convocare una riunione urgente con tutte le sigle dell’università per parlare di ciò che era accaduto. Lui aveva paura, ma alla fine accettò. È fatto così. Ha una morale forte, che non riuscirebbe mai a tradire, e in fondo l’ho sempre ammirato per questo.
Ora, indovina in quanti vennero a quella riunione? Nessuno!
Tutti avevano una paura matta. Il nostro scontro davanti all’aula era già girato di bocca in bocca, e nessuno studente o insegnante intendeva mettersi contro qualcosa che non si poteva sconfiggere.
Pensa che ridere. Un comunista idealista e un cattolico pragmatico, da soli, contro la più grande minaccia politica e sociale degli ultimi tempi.
Non fu per niente facile, te lo posso assicurare. Gli anni che seguirono furono i più complicati in assoluto. I fascisti diventavano più forti, le voci che si opponevano erano sempre meno, e il mio partito iniziava ad essere sommerso dagli scandali di Tangentopoli. Ogni giorno ne arrestavano uno, un po’ come sta accadendo oggi grazie a te. La storia si ripete, come vedi.
In tutto questo casino io e Thomas giravamo per l’università, cercando di convincere gli studenti dell’importanza di combattere. Ma bastava qualche voce anche vaga di studente malmenato dai fascisti per distruggere tutto il nostro lavoro. La paura aveva annientato ogni sano ideale, e noi avevamo disperatamente bisogno di qualcuno che ci sostenesse, e in quel periodo tutti noi giovani stavamo odiando il partito per il suo silenzio.
Fu allora che arrivò Sinistra Democratica.
Negli anni di cui ti parlo, il partito che conosci non esisteva ancora. Al suo posto con quel nome c’era un piccolo partitino fatto degli eredi del defunto PCI. Un partito che aveva appena subito un duro congresso, con la sconfitta del caro Arturo Costa e la successiva perdita in termini di militanza ed entusiasmo di tutta un’area radicale del partito, la quale per nessun motivo accettava di avere perso.
Beh, immaginati un po’ lo stupore mio e di Thomas di vedere questi ultracinquantenni distribuire volantini davanti all’università, inneggiando alla rivolta contro i nuovi fascisti, con tanto di logo su simbolo rosso.
Parlai a lungo con Thomas. Lui li conosceva per sentito dire. A quell’epoca apparteneva all’area dei delusi in cerca di partito, e per uno come lui SD era qualcosa di moderato. Per me, invece, era qualcosa di troppo a sinistra. Comunque, iniziammo un rapporto di dialogo con quei vecchi e svolgemmo qualche iniziativa assieme. Thomas fu il primo a entrare nel partito, tirandosi dietro qualche coraggioso degli studenti di sinistra.
Dentro la DC, invece, il malumore aumentava. Ogni giorno mi arrivavano e-mail arrabbiate da parte di Francesco e di Marcello, che si chiedevano disperati dove fosse il partito e l’Azione Cattolica mentre i neofascisti crescevano. Io cercavo sempre la mediazione, rispondevo che il partito stava valutando azioni politiche, quando invece passavo le sere in ufficio a sfornare comunicati stampa per difenderci dall’ennesimo deputato in manette. La situazione era assurda, e Goffredo non mi ascoltava.
Poco a poco, tutti gli altri partiti sparirono silenziosamente dalla società. All’inizio qualcuno aveva cercato di protestare, ma ogni volta che accadeva c’era una spedizione punitiva il giorno dopo. Le sedi venivano incendiate e vandalizzate, gli esponenti più in vista venivano picchiati per strada, senza che nessuno intervenisse. Ogni notte io e Thomas tornavamo a casa guardandoci le spalle. Io ero più fortunato perché avevo l’autista personale, ma spesso ho avuto paura per la sua incolumità.
In tutto questo, noi studenti non ci siamo mai tirati indietro. Eravamo l’unica vera forza politica rimasta nel paese, ridotta in semi- clandestinità. Grazie a Thomas a Roma e tramite altri contatti in diverse città italiane, riuscimmo ad ottenere le sedi di Sinistra Democratica per riunirci. C’erano semplici studenti, associazioni di vario tipo, tutto un mondo esterno alla sinistra ed esterno anche alla politica, che però aveva intenzione di lottare con le unghie e con i denti, perché sapevamo che i nuovi fascisti non erano solo uno scherzo da ragazzini, come troppo spesso i media lo dipingevano. Da lì in poi, tutto procedette in modo spontaneo. Tutti insieme ci riunivamo con i reduci di Sinistra Democratica e organizzavamo delle azioni condivise, che poi trasmettevamo ai circoli delle altre città. Utilizzavamo la loro fotocopiatrice, i loro spazi, la loro mailing list, la loro forza militante, persino la loro macchinetta del caffè.
Eravamo già un’organizzazione unica senza saperlo, perché eravamo uniti da un nemico così forte che aveva annullato tutti i motivi che avevamo per scontrarci.
Ma c’era di più. Quel piccolo, stupido partito di sinistra, votato da nessuno e frequentato da pochi anziani, era stato l’unico a resistere, ad avere la forza di non piegarsi davanti alla paura di ritorsioni. Il loro coraggio ci dava la spinta per non arrenderci.
Fummo proprio noi giovani cattolici a spingere la DC
all’unificazione. Passai un intero pomeriggio chiuso in una stanza con Goffredo a spiegargli la folle idea, ma lui era contrario.
Abbandonare una tradizione di decenni, di un partito che aveva sempre vinto, moderato e di centro, per finire in una nicchia di comunisti nostalgici e sinistroidi perdenti? Non se ne parlava!
Uscii da quel colloquio deluso come non mai. Giorno dopo giorno mi convinsi che avrei abbandonato per conto mio, che era ora di cambiare la mia casa politica e mandare tutti al diavolo. Ma inaspettatamente, dopo tre giorni Goffredo mi richiamò. Accettava la mia proposta.
Non voglio negarti che ci fu un ragionamento di tipo strumentale. Goffredo è un uomo di grande lungimiranza, sapeva che la DC sarebbe presto affondata e che Sinistra Democratica stava diventando popolare tra i giovani, oltre ad essere l’unico partito rimasto con le sedi aperte. Però, se noi giovani non avessimo mai spinto il partito in quella direzione, mettendoci sia l’entusiasmo sia il rischio
dell’impresa, nulla di tutto questo sarebbe mai successo, e la storia sarebbe andata diversamente.
Io, Francesco e Marcello festeggiammo come non mai. Eravamo i tre che per primi avevano avuto l’idea e che di più si erano spesi, e avevamo vinto. Ci fu un grande congresso di rinnovamento di Sinistra Democratica, ma in quegli anni a nessuno importava che il gruppo dirigente fosse a maggioranza di sinistra o democristiano. Stavamo compiendo una lotta enorme tra i giovani, stavamo risvegliando la partecipazione popolare! I congressi erano inezie a confronto.
Io, Marcello e Francesco ci infilammo nella direzione nazionale, e per Francesco fu una bella scusa per venirmi a trovare più spesso. Non ci eravamo mai smessi di scrivere in quegli anni. Lui era diventato la persona più importante della mia vita, e me ne accorgevo perché quando era in programma una riunione nazionale alla quale partecipava anche lui, i giorni prima iniziavo ad essere inspiegabilmente allegro. A volte passavo le nottate a scrivergli o a rileggermi le sue mail vecchie al posto di uscire per cercare droghe. Comunque, impiegai molto tempo prima di fidarmi così tanto da rivelargli il mio segreto. O meglio, non è che non mi fidassi, ma non volevo assolutamente svelargli quel lato di me. Perché Francesco mi stimava sinceramente, mi ammirava, mi considerava un gran dirigente e un ragazzo d’oro, e io non volevo deluderlo in alcun modo.
Però, una sera mi decisi a farlo. Ero sotto effetto di diverse droghe, tra cui dell’ecstasy mischiata ad alcolici che mi era salita male. Gli scrissi una mail delirante, scusandomi mille volte di quello che ero.
Gli confessai che era solo grazie a lui se mi stavo drogando molto di meno, ma che troppo spesso non reggevo, avevo bisogno di quella roba e non sapevo come uscirne. Lo pregai di non abbandonarmi, di perdonarmi, gli dissi che era la persona più importante per me e che avevo un bisogno disperato di lui. Una mail ridicola e penosa, insomma. Se ci ripenso adesso mi viene da ridere, ma i giorni immediatamente successivi furono un inferno per me, perché lui non mi rispondeva.
Mi aveva abbandonato. E avrebbe fatto bene, perché lo avevo deluso. E invece no.
Dopo quattro giorni me lo trovai al campanello. Non ebbi il coraggio di dire niente. Lui mi abbracciò e io piansi, piansi come un bambino. Sai, ho pianto in pochissime occasioni nella mia vita. Non ho pianto quando sono andato via da casa dei miei. Non ho pianto quando quel fascista mi tirò il pugno di ferro sull’occhio. E quel giorno piansi, perché avevo trovato l’unica persona al mondo che si era preoccupata per me. Che era rimasta, nonostante i miei difetti. Che mi aveva perdonato per ciò che ero.
Quel giorno mi chiese una cosa. Disse che se era vero che per me lui era così importante, avrei dovuto smettere di prendere qualsiasi droga, e io gli feci quella promessa. La rispettai veramente, perché per me quella era una cosa molto seria. O meglio, la rispettai fino al giorno che immagini.
Francesco restò a dormire da me tre giorni. La prima sera dormimmo abbracciati l’uno all’altro. La seconda ci baciammo. La terza
facemmo l’amore per la prima volta.
Non puoi neanche immaginare come mi sono sentito. Fino a quel giorno non avevo mai sfiorato un ragazzo, e andavo con le ragazze ogni tanto giusto per divertimento. Ma quella volta fu completamente diverso, fu la cosa più destabilizzante che provai. In quel momento, tutte le droghe che avevo provato mi sembrarono dei giochetti per pischelli. Ma non solo, mi sembrava di aver vissuto vent’anni e passa rinchiuso in una stanza sola, quando fuori c’era un mondo intero di emozioni che aspettava solo che io aprissi la porta.
Lui dormì con la testa appoggiata sul mio petto, e io mi sentivo il ragazzo più fortunato del mondo. Non affrontammo mai la questione da un punto di vista razionale. Non ce ne fu bisogno, perché io ero convinto che lui era la persona più importante della mia vita. Lui mi accettava, mi cercava, mi voleva bene, e questo mi bastava.
L’anno che venne dopo fu il più intenso della mia vita e senza dubbio il più felice, nonostante fu anche l’anno in cui i fascisti furono più violenti. Ogni giorno c’erano aggressioni a membri di Sinistra Democratica, unico partito schierato apertamente contro quelle organizzazioni, e fu disposto un codice di sicurezza per tutti noi.
Iniziammo a riprenderci gli spazi, a riunirci nelle aule vuote, ad appendere manifesti nella notte. Io e Thomas a Roma, Marcello e Francesco a Bologna, e tanti altri ragazzi nelle università italiane, quelli che oggi vengono definiti “i partigiani del terzo millennio”.
Era diventata una specie di gara di coraggio, e ogni aggressione diventava una medaglia al valore. Questo perché, nonostante la gravità della situazione, sembrava che nessuno rischiasse davvero la vita.
Thomas venne aggredito una notte e fu ricoverato con una costola rotta. Ci fu una grande rivolta del popolo di Roma, che non poteva tollerare che qualcuno commettesse una violenza ad un ragazzo innocente. Vedi, ogni aggressione era in realtà una benedizione, perché aiutava la gente a svegliarsi. Ricordo che in quel periodo Thomas in ospedale aveva sempre qualche compagno attorno. Essere tutti in pericolo ci rendeva uniti e solidali tra noi, come una famiglia. Anche se il resto del partito litigava eccome, con una guerra tra bande per chi dovesse comandare, con Goffredo che muoveva le fila per fare egemonia cattolica.
Eppure, in mezzo al rischio più estremo, ero felice. Avevo la persona che amavo di più al mio fianco, avevo un’associazione universitaria fatta di ragazzi fantastici, che avevano deciso di stare in prima fila insieme a me, che mi volevano bene. Avevo un partito nel quale si discuteva, ma che poi la sera si trasformava in un rifugio, dove noi giovani ci ritrovavamo per cantare, bere insieme e scacciare la paura. Il lavoro che continuavo a svolgere per Goffredo non mi dava più tante grane. Ora mi rispettava, perché sapeva che in quel nuovo partito godevo della massima stima.
E poi, successe.
A questo punto puoi immaginare ciò che ti sto per raccontare. E sai, penso che sia molto giusto scriverti tutto questo, perché tu hai sempre visto solo da lontano queste vicende, e voglio che tu sappia cosa è davvero significato perdere Francesco. Per me, per tutti.
Perché è da questo fatto che in realtà inizia tutto. È per questo che ti sto scrivendo questa lettera.
Mi è un po’ difficile raccontarti a chiare lettere come mi sono sentito. Se ci ripenso, ancora oggi, non ho che un vago ricordo delle mie emozioni.
Ricordo che era venuto da me il giorno prima. Si era fermato per una riunione e mi ha portato a Ostia per farsi il bagno. Quella notte gli dissi di stare attento, perché mi sembrava troppo imprudente. Non rispettava spesso le misure di sicurezza, sfidava apertamente i fascisti e nelle riunioni era quello che più di tutti insisteva per passare al contrattacco. Nonostante ciò, non avevo mai avuto davvero paura per lui, mi sembrava semplicemente impossibile l’idea di perderlo.
Il giorno dopo tornò a Bologna. La sera, mentre camminava per la città, venne catturato da tre ragazzi. Lo uccisero con le botte. Uno lo teneva fermo e gli altri colpivano. Lo picchiarono fino a rompergli tutte le ossa, fino a sfigurargli il viso, fino a impedirgli di respirare, poi lo lasciarono a terra. Ancora oggi non si sa chi siano quei maledetti assassini.
La mattina dopo mi svegliai con la pioggia. Ricordo il cielo grigio, ricordo il rumore rilassante dell’acqua scrosciante. Non sai quante volte ho immaginato di tornare a quel giorno solo per prendere a schiaffi il me stesso di allora, che si era svegliato in quel modo così spensierato, ignaro di ciò che era accaduto.
A casa mia venne tutto lo stato maggiore di SD. Dapprima non gli credetti. Negai il fatto con insistenza e cercai di chiamare Francesco diverse volte senza successo.
A quel punto uscii di casa correndo. Mi sembrava di camminare su un filo sospeso nel vuoto. Continuavo a illudermi per non cadere, inventandomi qualsiasi storia per immaginare come tutto poteva essere falso. Poi, però, capitai davanti ad un’edicola e vidi i giornali esposti.
Nella prima pagina di ciascuno vi era la foto di Francesco, ma non il Francesco che ricordo. No, la foto era quella di Francesco con il volto sfigurato e insanguinato, con gli zigomi rotti e il naso frantumato, con le orecchie fuori dalla loro posizione e gli occhi ancora terrorizzati, senza vita.
Vomitai l’anima in quel momento. Iniziai a gridare, a piangere, a distruggere ogni giornale che mi capitava in mano. Mi portarono via con l’ambulanza.
Per diversi giorni fui in uno stato di totale shock. Quella foto mi ossessionava, mi lampeggiava davanti e io non riuscivo a vedere nient’altro. Fu quell’immagine a distruggermi lentamente, a torturarmi, a farmi desiderare la morte.
La mia vita era finita lì. Perché se Francesco era morto, allora io non potevo vivere. Se qualcuno era stato così sadico da picchiarlo in quel modo, lasciandolo a terra e mandando la foto ai giornali, voleva dire che niente aveva più senso.
Avevano vinto loro.
Una volta uscito dall’ospedale, mi rinchiusi in casa. Non volevo vedere nessuno, specialmente i miei compagni di partito, che invece suonavano insistentemente alla porta e al cellulare. Sapevo che stavano male, che stavano soffrendo molto anche loro, ma non sarei riuscito a dividere quel dolore. Condividerlo lo avrebbe reso più reale di quanto lo fosse, invece fino a quel momento avevo fatto in modo che fosse una cosa solo mia, una faccenda da risolvere contro me stesso.
E la risolsi con l’unico modo che conoscevo: annientandomi. Ingoiavo ogni pasticca, sniffavo ogni sostanza che mi capitava a tiro, mi bucai addirittura. Provavo un piacere innaturale nel farmi del
male. Sapevo che prima o poi sarei morto e l’idea non mi dispiaceva. Non cercavo intenzionalmente la morte, intendiamoci, ma non davo il minimo peso all’eventualità che accadesse.
Non so dirti per quanti giorni continuò questa cosa, faccio fatica a ricordare l’effettivo scorrere del tempo di quel periodo. Mi ero
trasformato in un’altra persona che non sapevo controllare.
Accadde che però un giorno Marcello Pasqui salì le scale di casa mia. Gli avevo dato le chiavi tempo prima, perché all’occorrenza potesse passare a prendere il materiale di propaganda che conservavo nello studio. Entrò nella mia camera senza farsi alcun scrupolo. Mi tirò su da terra e mi appoggiò sul letto, coprendomi. Voleva salvarmi, ma io non volevo essere salvato, e nessuno avrebbe potuto farlo. Quel giorno Marcello Pasqui scoprì ciò che per anni gli avevo nascosto, vedendomi per terra in uno stato pietoso con attorno qualunque tipo di sostanza.
Cercò di parlarmi, ma gli risposi freddamente. Mi aspettavo che da un momento all’altro uscisse, trascinandosi dentro casa il resto del partito, invece no. Era venuto a salvarmi da solo.
E non ce l’avrebbe mai fatta, se io non avessi commesso l’errore di guardarlo negli occhi.
Hai mai visto Marcello Pasqui soffrire per qualcosa, Michele? Ho qualche dubbio. Anche noi che lo conosciamo da tanti anni non lo abbiamo mai visto in momenti di debolezza. Beh, quel giorno la sofferenza si vedeva chiaramente nei suoi occhi. E non vi ero abituato, non ero pronto a vedere il dolore sopra quel viso che normalmente non mostrava mai nessuna emozione.
Mi disse che c’era un taxi fuori che ci aspettava. Che saremmo andati lontano. Io non gli risposi e lui non cercò di trascinarmi fuori.
Semplicemente uscì dalla stanza e mi aspettò giù.
E io, inaspettatamente, lo seguii. Perché la sofferenza di Marcello gridava vendetta al mondo, e io sentivo l’orribile peso della responsabilità. La morte di Francesco non riguardava solo me stesso, finalmente ne avevo una prova tangibile.
Partii perché sapevo che lui aveva bisogno di me. Che da solo non si sarebbe salvato neanche lui e quindi, se anche di me non mi importava, non potevo ignorare la sua vita che minacciava di spegnersi.
La nostra partenza coincise con il giorno del funerale, al quale non andammo. Passammo invece due mesi a girare il mondo, in parte anche con i soldi del partito. Quel viaggio ci cambiò completamente, ma non fu semplice. Passammo giorni interi senza parlarci. Ciascuno aveva i suoi momenti di crisi e di sconforto, e a fatica Marcello riuscì a tenermi lontano da droghe e alcool.
Ma, nonostante ciò, il miracolo riuscì. In mezzo a silenzi, pianti e pochi momenti di spensieratezza, riuscimmo a trovare un valido motivo per tornare a casa e riprendere il mondo sulle spalle.
Dopo due mesi, tra i nostri compagni il dolore per la morte di Francesco si era trasformato in una rabbia totale. Ma non solo tra di loro: la società si era risvegliata e si era mobilitata. Tutti avevano visto il suo volto deturpato sui giornali e quella violenza li aveva indignati.
Le organizzazioni neofasciste furono di lì a poco private di ogni consenso popolare. Ma gli assassini non si trovavano. E questo frustrava particolarmente me e Pasqui, che desideravamo più di ogni altra cosa la vendetta. Te lo dico chiaramente, se mai si fossero trovati gli assassini per me l’ergastolo non sarebbe stato sufficiente. Non avrei risposto delle mie azioni nei loro confronti.
Gli anni passarono. Chi, come noi, aveva combattuto in prima linea contro i fascisti, divenne dirigente di primo piano. Eravamo il vero volto del partito, gli eroi del nuovo secolo.
Intanto, però, il partito restava all’opposizione, mentre fuori a gran voce si chiedeva di andare al governo. Fu in quel periodo che organizzammo un grande convegno per scrivere la Carta Antifascista. Non c’erano solo quelle leggi che avrebbero previsto misure speciali per riconoscere e sciogliere le organizzazioni antidemocratiche, ma anche un vero e proprio riassetto costituzionale, che potenziava le misure di controllo, con nuove autorità indipendenti per sorvegliare i partiti.
Quella Carta fu il mio biglietto da visita per il congresso. Mi ero stufato di stare a guardare mentre gli assassini erano ancora a piede libero. Volevo fare qualcosa per Francesco, e per Francesco vinsi il congresso. Senza il tuo voto, senza il voto di Arturo e senza anche quello di Thomas, che si stava smarcando dalle nostre idee di rivalsa. Certamente vinsi anche con l’aiuto di Goffredo, perché ero pur sempre il suo figlio politico.
Ora che avevo io la situazione in mano, non restava che andare al governo. Quella Carta era la mia vendetta, avrebbe dato un senso al mio essere ancora in vita. Sarei riuscito a immaginare Francesco sorridermi da lassù perché noi, ragazzi di un tempo, stavamo rendendo l’Italia migliore, anche per lui che non c’era più.
Ed è qui che entri in gioco tu.
Sei libero di giudicarmi dopo aver letto questa lettera. Sarai libero di odiarmi quanto vorrai, e ne avresti il diritto. Potrei anche scriverti che sono pentito di ciò che ho fatto, ma spero che tu non sarai così ingenuo da farti bastare delle scuse tardive.
Venni a sapere che il figlio di un certo Nello Martino ha deciso di candidarsi per SD. E si dice in giro che tale Nello Martino sia capace di portare migliaia e migliaia di voti in Calabria e non solo, certo con il dovuto compenso.
Lo incontrai assieme a Marcello Pasqui, mentre Goffredo lo venne a sapere solo a cose fatte. Volevo così tanto vincere che quella volta non mi posi alcun problema di coscienza. Parlai tranquillamente a tuo padre dei voti che mi servivano, e lui decise il prezzo e le condizioni per accettare. Primo, ovviamente far passare alcune leggi per favorire i suoi affari, che dovevano restare sotto silenzio. Secondo, che una parte dei voti sarebbero serviti a portare in Parlamento suo figlio.
La cosa non ci dispiacque. Sapevamo che eri della schiera di Arturo, ma avevi solo ventisette anni ed eri apprezzato da tutti in Calabria. Se anche fossi stato un mafioso, lo avresti sicuramente ben nascosto.
Beh, come ben sai arrivammo secondi e non primi. Perché quell’infame di tuo padre aveva offerto molti voti anche al Nuovo Partito Popolare. Ma poco male, perché vinto o non vinto era il momento di andare al governo.
Accettammo qualsiasi condizione in fase di contrattazione con i popolari pur di trasformare la Carta Antifascista in leggi dello Stato. In quel periodo che io e te ci incontrammo la prima volta. Goffredo era ossessivo, convinto com’era che tu fossi solo un mezzo di rivalsa di Costa. Pesava che quell’uomo si volesse vendicare della sconfitta passata, che volesse riprendersi il partito e farlo tornare agli ideali radicali del PCI. Io, invece, capii in fretta che tu non solo eri finito dentro un mondo che non ti apparteneva, ma anche che non avevi niente a che vedere con la tua famiglia. Eri onesto, pulito, diverso da tutti gli altri. Non ne ero abituato. Più ti conoscevo, più mi sembrava strano pensare di chi fossi figlio.
Decisi di convincere tuo padre a restare fuori dalla tua vita, dicendogli che per qualsiasi favore poteva chiedere direttamente a me. Non volevo che tu ti trovassi in quelle spiacevoli situazioni. Io mi potevo anche sporcare, ma tu no. E il risultato fu quella legge- finanziamento che poi fu bloccata da voi e dal Fronte.
In quel periodo ero ritornato a farmi spesso, nonostante avessi promesso a Marcello, alla fine di quel famoso viaggio, che non avrei più toccato droghe finché non avremmo vendicato Francesco. Ma come potevo rispettare la promessa? Ogni giorno dovevo accettare cose indicibili da parte dei popolari e della tua famiglia, e convincere anche gli altri a farlo o, in casi estremi, farle passare sotto silenzio.
Le mie idee e i miei valori erano morti.
Intanto, Marcello e Goffredo iniziavano ad avere dubbi su di te. Pensavano che essendo il figlio politico di Arturo saresti stato il naturale futuro candidato alla segreteria, e che niente ti importava delle Leggi Antifasciste, a differenza di Thomas, che anche se era della tua stessa area aveva vissuto con noi quegli anni bui.
Però, tu avevi altro a cui pensare, tipo quello schiaffo. Seguivo a distanza la strana evoluzione del rapporto tra te e
Andreani, finché non spuntò la vostra prima foto sul giornale. Sia l’ala cattolica del nostro partito sia il fronte popolare si arrabbiarono tantissimo. Matrimoni gay? Non stava né in cielo né in terra! Tra l’altro, il nostro partito non avrebbe dovuto proporre leggi, se non quelle antifasciste: così erano i patti.
Forse ti sarai chiesto chi c’era dietro alle famose foto sui giornali. Il responsabile è Giulio Romano, un vecchio amico dell’associazione che agiva su mandato di Goffredo.
Ho promesso di dirti tutta la verità, quindi non ti nego che ero al corrente di questa cosa e, pur non essendone direttamente responsabile, non ho mai fatto nulla per impedirla. Mi dispiaceva per te, ma non mi importava così tanto. Volevo solo che voi due smetteste di dare fastidio, perché eravate un ostacolo ai miei obiettivi. Sono persino arrivato a persuadere Andreani con i miei metodi pur di farlo smettere di fare il buffone nelle interviste.
Poi ci fu la questione della bustina di coca. Fu sempre Giulio a mettertela in tasca, grazie anche all’insospettabile contributo di Augusto Chiarelli, a cui ugualmente davi fastidio.
Goffredo era passato alla tecnica del fango, perché stavi diventando troppo popolare sui media. Lo nascosero anche a me, e venni a saperlo solo tramite altre fonti, ma quella volta decisi di difenderti e mandai Pasqui a fare quella conferenza stampa congiunta. Andreani però sospettava di me, e il solo fatto che lui potesse metterti in testa cattiverie sul mio conto un po’ mi feriva. Non so perché, ma vedevo in te un pezzo del ragazzo che ero stato, quello che aveva trovato rifugio nella politica da un mondo che lo aveva rifiutato.
Fu ancora più difficile quando saltarono fuori quelle famose intercettazioni. Io e Marcello le avevamo in tasca dal giorno prima, e c’era una bella parte che riguardava i finanziatori di quelle valanghe di voti per Sinistra Democratica. Abbiamo dovuto ricorrere a svariati mezzi per impedire che uscissero le parti che ci infangavano, ma noi siamo riusciti a coprirci le spalle e l’unico a rimetterci sei stato tu.
Quando mi trovai davanti la tua lettera di dimissioni, per poco non piansi per la seconda volta nella mia vita. Eri finito in mezzo quando non c’entravi niente e non potevi difenderti. Iniziai a sentire il peso del senso di colpa da quel giorno, le azioni fatte in una vita intera mi rimbalzarono addosso tutte insieme. Nei sogni che facevo la notte Francesco mi rimproverava e mi detestava per ciò che stavo facendo, e io sapevo che era la verità, che se fosse stato vivo lo avrebbe pensato veramente.
Decisi di aiutarti, nonostante Marcello e Goffredo fossero contrari. Era controproducente, perché tu in quel momento eri indifendibile e tanto valeva lasciarti cadere e liberarsi di te. Dal punto di vista pratico era così, ma io come avrei potuto dormirci la notte? Ti affidai il mio staff di comunicazione e convinsi un grande pezzo del partito a fare interviste a tuo favore. Non ti avrei lasciato cadere, per niente al mondo.
La sera che ti aggredirono mi sembrava di essere tornato indietro di anni e anni, quando qualche compagno veniva picchiato dai fascisti e noi correvamo in ospedale preoccupati. L’unica differenza era che stavolta la causa ero io.
Cercai di starti più vicino possibile, eppure fui così stupido che non riuscii a impedire ciò che successe dopo. Giulio si era infiltrato nel tuo staff senza dire niente a nessuno, approfittando del subbuglio di quei giorni. Lui ormai non rispondeva neanche più a Goffredo, ma direttamente ai tuoi nuovi nemici.
Ancora una volta, mi ritrovai catapultato nel passato, con tu che rischiavi di morire e Andreani disperato. In quei giorni pensai molto a lui, a come avrebbe vissuto se tu saresti davvero morto. Non ero pronto a questo, a vedere addosso a lui il dolore che io avevo vissuto per tutto quel tempo, amplificato anche dal suo stupido senso di colpa, quando invece la colpa era mia e basta.
Ma poi, tu ti sei svegliato. E nel frattempo i risultati della tua testimonianza ci avevano sommerso, ed era impossibile impedire che anche a me arrivasse il simpatico avviso di garanzia.
E ora eccola qui, Michele. Prima che le indagini impieghino anni a risalire a quell’incontro tra me e tuo padre, hai in mano l’arma che può distruggere sia me che Marcello che Goffredo.
Ed è giusto che ce l’abbia tu e tu soltanto. Sei l’unico che ha il diritto di decidere, sei tu quello che ha sofferto per le scelte sbagliate di altri. Ora sai la storia per intero, ed è qui pronta per finire sui giornali. Il partito probabilmente ne subirà un colpo, ma tu, Arturo e Thomas potrete ripulirlo da tutto il male che abbiamo causato per la nostra sete di vendetta. È questo che ha sempre voluto Arturo per te e, se potessi, anche io ti voterei come prossimo segretario.
Ora, forse ti starai chiedendo che prove hai che questa storia sia vera e che non ti stia ingannando. Ecco, Michele, non ho i mezzi per provarti tutto ciò che ho scritto. Devi solo sapere che non ho motivo di mentirti, perché nel momento in cui starai leggendo questa lettera io sarò già morto.
Esatto, hai letto bene. Ma ti prego, non pensare che lo faccio per fuggire dall’indagine. Volendo avrei potuto superarla pulito, modestamente posso permettermi i migliori avvocati del Paese. Il fatto è che non posso più sopportare il mio senso di colpa. Dovevo portare avanti le leggi antifasciste per migliorare l’Italia, e invece ho rinnegato tutti i miei valori e ho messo in pericolo una persona innocente. Ogni notte in cui mi drogo vedo Francesco che me lo ricorda e io non ce la faccio più, perché so che se fosse qui mi prenderebbe a sberle per tutto ciò che ho fatto indegnamente nel suo nome.
Alla fine, se ci pensi, avrei dovuto essere già morto due volte. Francesco mi salvò dalla droga e Marcello dal dolore. Ho avuto due possibilità, ora non ne ho più una terza ed è giusto così. Sono rimasto in vita per portare avanti un progetto, ma ho fallito completamente.
Mi dispiace, credimi. In un’altra vita, in un’altra storia, io e te avremmo potuto essere amici. Ci saremmo scontrati sulle idee, com’è giusto che sia, e magari prima o poi mi avresti battuto lealmente ad un congresso. Avremmo potuto passare le sere nella nostra sede, ridendo, suonando e chiacchierando dei tempi passati, con la giusta leggerezza di chi sa che quei piccoli momenti sereni sono, in fondo, il vero motivo per cui si vive.
Eppure è dovuta finire così, e non ci si può fare niente. Me ne andrò dove tutto è iniziato, nel mio vecchio ufficio a Piazza del Gesù, ingoiando pillole finché avrò la forza di farlo.
L’unico rimorso che ho è di causare a Marcello l’ennesimo, grande dolore. Se posso, vorrei chiederti di stargli vicino, anche nel caso in cui deciderai di metterlo nei guai con questa lettera. Di tutto il resto non mi importa.
L’orologio che ho consegnato ad Andreani per te è il mio regalo di addio. Fu il regalo di Francesco e Marcello per la mia laurea, e vorrei tanto che tu lo indossassi quando sarai segretario del partito che ho guidato io in questi anni. Alla fine andrà così, ne sono certo. So che sarai in grado di essere un buon segretario, non rifare i miei errori e non seguire la strada di altri, ma solo i tuoi valori.
Avrai sulle spalle una grande storia, la storia di tante vite, di tante lotte, di manifestazioni felici sotto il sole pomeridiano e di notti di compromessi. Ricorda, ricorda sempre tutto questo e sarai davvero libero.
Addio, Ric”
   
 
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