Ed è
la sua resa.
Sono passati quattro
anni
dall'ultimo giorno di scuola. Marco studia ed è anche un
ottimo studente. Gli
piacciono tutte quelle cose che hanno a che fare con la chimica, la
biologia,
la scienza in generale. Lo entusiasmano sinceramente. Ma la cosa che
adora di
più, è senza dubbio il professore di anatomia
patologica.
Alto, moro,
spalle larghe, vita stretta e quel camice pornografico che si porta
sempre appresso. Quando lui spiega, mezza classe è in
adorante contemplazione
di come si muove, di come parla, e quando sorride. Dio quando sorride.
Con il tempo,
Marco ha pienamente accettato di essere completamente,
radicalmente e sostanzialmente gay. Era qualcosa di semplicemente
inevitabile.
Proprio come Saffo, lei lo sapeva, ma se lo teneva nel cuore,
perché tutto
si può sopportare.
E a Marco sta
bene così. Alla sua piccola vuole bene, adora quando la
notte si
accoccola sul suo petto e lo fissa con quei grandi occhioni scuri,
adora
sentire il suo calore sul petto mentre fanno l'amore, ed adora quei
lunghissimi
capelli scuri che non ha mai tagliato dal liceo. Le scendono sulla
schiena nuda
come filamenti di una luna nera, sembrano quasi luccicare al buio.
Sono emozioni
tenui, tiepide, nate dalla semplice constatazione di qualcosa di
bello.
A volte se lo
concede di essere un po' gay. Si infila nei locali più
assurdi,
per mettersi in un angolino a guardare, quelli che se lo possono
permettere di
vivere quella natura, e naturalmente rifiuta tutte le avance.
Una sera
però, accetta il drink che gli offre un tipo,
si
sente particolarmente depresso. Deve andare a casa dei genitori di
Giulietta
nel fine settimana. E lui odia i genitori della sua ragazza. Li odia
perché
sono sofisticati, snob e con la puzza sotto il naso. E nonostante sia
un
fidanzato fedele e premuroso, lo trattano sempre come il più
infimo dei
randagi.
Da un sorso
al Martini e concentra
la sua attenzione su una
coppia poco più in là.
Uno
è alto, bello, piuttosto muscoloso, e indossa una camiciola
sottile sottile
che lascia intravedere i bei dorsali definiti. Marco si lascia scappare
un
mezzo sorrisetto sulla soglia del bordo del bicchiere. Pivello.
L'altro
è piuttosto gracilino e si ritrae costantemente
all'invadenza del
compagno.
Quell'immagine
gli fa lampeggiare nella mente il ricordo di una mattina di
primavera. Un ragazzo, un sorriso e delle mani nelle tasche. Lo
incalzava anche
lui con un'impazienza nello sguardo, che Marco all'epoca non era stato
in grado
di capire.
Da un altro
sorso al drink e si lascia andare
contro la
poltroncina di velluto scuro. Gli gira la testa. E nemmeno poco. Lui di
solito
non beve, no, perché in ospedale hanno sempre bisogno di lui
per i turni in
pronto soccorso e deve sempre essere pronto. Quindi non è
abituato.
Vede
confusamente qualcuno avvicinarsi e si accorge che si sta sporgendo
verso
di lui. Non ci fa caso, o forse non gli importa. Non sente niente,
è tutto
attutito. Percepisce piuttosto chiaramente che qualcuno lo sta
toccando, lo ha
afferrato per i fianchi e trascinato in pista. Ma non gli importa,
ancora. Si
abbandona all'alcol di quella cattiva serata, di quella cattiva
settimana.
Poi un altro
qualcuno, uno diverso da prima, si china su di lui e lo bacia,
stringendogli saldamente il sedere tra le dita. Tanto non ci fa caso.
Ha già
baciato degli uomini, tanto per capire, tanto per vedere, ma non
è stata altro
che una conferma scontata e dolorosa di quanto effettivamente
già sapeva.
Si sente
infilare la lingua in gola e lo lascia fare, tanto è come
sentire
diecimila volte la stessa musica, la stessa sensazione. Gli fa schifo,
si fa
schifo. Poi, d'un tratto, sente due braccia afferrargli le spalle e
tirarlo via
da quella presa insidiosa. Disgustosa.
Vede il tipo
innanzi a sé protestare: si sente offeso dal vedersi
sottrarre la
sua preda. Ma poi quello dietro di lui sembra dire qualcosa di
convincente,
perché l'altro impallidisce e si volatilizza.
Si accorge che
stanno uscendo dal locale e che lo stanno facendo entrare in un
taxi. Ma ha una presa fuggevole e inconsistente con la
realtà.
“Ma
che diavolo fai, Marco?”
Mormora la
persona accanto a lui, ma Marco non la vuole guardare, non gliene
importa niente nemmeno di dove sta andando. L'indomani si
sveglierà, magari un
po' dolorante e filerà a casa sua in un baleno, dimenticando
ancora,
dimenticando di nuovo. Perché tanto quel suo essere lui
vuole semplicemente
dimenticarlo.
Il taxi si
ferma e la presa sul suo braccio si serra. L'uomo lo tira fuori
dalla macchina e lui si dà uno sguardo intorno. Sono in un
bel quartiere di
Milano. Le case sono aristocratiche e sofisticate, proprio come i
genitori di
Giulietta. Gli viene un conato di vomito e poi quasi contemporaneamente
ridacchia, pensando a cosa farebbero se lo vedessero ora.
“Smettila”
Fa l'uomo di
fronte a lui. Gli dà le spalle. Sono larghe, inguainate in
una
giacca blu. Sembra un uomo benestante. Ha i capelli scuri, leggermente
mossi, e
da dietro le orecchie si intravedono le stanghette degli occhiali.
D'improvviso
diventa attento ad ogni particolare.
Gli ricorda
qualcuno, e poi, ha un odore familiare. Muschio. Marco sgrana gli
occhi e si sente tirato dentro casa.
Matteo si
volta verso di lui, rivelandogli finalmente e chiaramente il suo
volto. Era esattamente come lo ricordava, a parte la giacca e la
cravatta, e una
piccola smorfia di disgusto sulle labbra. Labbra su cui aveva
fantasticato
centinaia di volte. Trattiene un conato, e si piega leggermente su se
stesso.
“Vatti
a sedere sul divano”
Gli dice poi
Matteo, sparendo nel corridoio.
Ormai del
tutto incapace di reggersi su due gambe, Marco gli ubbidisce e si
lascia cadere su una poltroncina verde marcio, proprio come il muschio.
Poi si passa
una mano fra i capelli e cerca di non farsi prendere dal panico.
Matteo
Malaspina, il suo incubo ricorrente per cinque anni di fila. Proprio
lui
doveva beccarlo in locale gay a farsi slinguazzare da un perfetto
sconosciuto.
Dei passi, gli
stessi passi di allora, solo che stavolta sono sul parquet. Non
fanno un suono così diverso dopo tutto.
Lo vede
chinarsi e mettere gli occhi alla sua stessa altezza. Occhi blu come il
mare, il suo mare. Lo guardano con apprensione adesso.
“Bevi”
Dice,
porgendogli un bicchiere d'acqua.
Marco lo fa,
se non altro per togliersi quel saporaccio dalla bocca. Ma non
lascia il suo viso al di là dell'orlo del bicchiere.
È magnetico, assolutamente
coinvolgente, come il miele per le api. Naturale.
“Se
proprio dovevi buttarti via così, avresti potuto farmi un
fischio…”
Sorride Matteo
e solleva la mano destra per accarezzare con la punta delle
dita, l'attaccatura dei suoi capelli sulla fronte.
Marco sente lo
stomaco ingarbugliarsi tutto, un po' per l'alcol, un po' per
quel contatto sottile, appena accennato, ma intensissimo. Sente gli
occhi farsi
lucidi dall'emozione e istintivamente solleva mano, per stringere fra
le sue quelle
dita che tante volte si è trovato ad immaginare su di sé.
Poi fa la cosa
più stupida nella lista di quelle possibili. Si sporge verso
di
lui e lo bacia. Percependo sotto le sue labbra, la tenera consistenza
di quelle
del compagno.
Sente il petto
esplodere e ogni parte di sé fremere.
Matteo sta
fermo, sta fermo anche quando Marco gli avvolge il viso con le mani
e scivola in ginocchio di fronte a lui, per averlo più
vicino.
Per quasi
dieci anni non ha avuto il coraggio di farlo, ed ora misero come un
randagio,
se l'è fatto dare dall'alcol.
Sente una
lacrima scivolargli lungo la guancia. Si stacca leggermente
dall'altro e solleva gli occhi scuri in quelli chiari e limpidi di
Matteo.
“Sono
patetico lo so... ma io... io non posso. Non posso. Ho Giulietta, e poi
la mia famiglia...”
Si morde le
labbra per fermare la disperazione. Poi china il capo. Misero,
patetico Marco.
Deve andare,
deve andare via subito e in fretta.
Si alza, un
poco barcollante, e si dirige a grandi falcate verso la porta. Ma
poi qualcosa lo blocca, stringendosi intorno al suo braccio. Si volta
ed il
viso di Matteo è ad un centimetro. Sgrana gli occhi e fa per
parlare, ma poi è
costretto a tacere. Perché lui lo bacia. E non in maniera
normale, lo bacia con
anni e anni di frustrazione alle spalle. Marco si ritrova stretto
contro il
muro del salottino. Sente le sue mani sulla schiena, sulla pancia,
sulle
spalle, mentre gli fa tenere la testa reclinata all'indietro contro la
parete,
mentre lo bacia. E Marco lo ha contro di sé, dentro di
sé, e non gli fa schifo,
non lo sporca, non lo contamina; è una rabbia, una forza che
non nasce dal
semplice desiderio sessuale. Lo sente dalla scia di baci, umidi, dolci,
dolcissimi che corrono lungo la sua mascella e poi sul collo. E da come
le sue
mani lo stringono, lo saggiano, lo cercano ad ogni carezza. Sorride
quando
finalmente si ferma, abbandonando la testa sulla sua spalla con un
lieve
sospiro. Matteo ha le braccia ancora intorno a lui, ma non lo stringono
ora, lo
avvolgono e basta.
“Mi
sei mancato da impazzire. E vederti appiccicato a quel pitone
travestito da
uomo mi ha tolto dieci anni di vita”
Dice quasi per
giustificarsi. Poi chiude lo abbraccia e sospira, ancora.
“Scusa...”
Mormora poi, e
lo stringe, appena, e Marco si sente invadere da un calore
immenso, da un affetto immenso, mentre si rilassa, muscolo dopo
muscolo, e
china a sua volta la testa sulla spalla del compagno. Ed è
la sua resa.
“Mi
sei mancato anche tu”.