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Autore: Martocchia    09/10/2017    1 recensioni
Ojos de Cielo è il racconto di un amore, di due ragazzi, ma anche la storia di una canzone e di quante sue simili essa possa contenere. Questo è il racconto di come la musica possa radicarsi così in profondità da diventare linguaggio e linfa vitale, legame di un amore fresco come le rose bagnate dalla rugiada.
I primi capitoli potrebbero lasciarvi un po' interdetti, ma vi invito a proseguire, ad andare oltre ciò che appare e ad immedesimarvi nei personaggi che ho creato, i quali non sono poi tanto lontani dalla realtà...
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Ciò che so di ciò che è successo dopo è dovuto a frammentari momenti di relativa lucidità. Non ho alcun ricordo dell’impatto, oltre al rumore, né della mia caduta. Ricordo a un certo punto di aver percepito la durezza dell’asfalto sulla mia pelle, la sensazione del sangue che scorre fuori dal mio corpo e si sparge sulla strada, i battiti del mio cuore rallentati, le sirene dell’ambulanza e della polizia, mentre qualcuno – penso e spero fosse Luca, perché vorrebbe dire che sta bene – è chino su di me e cerca di tenermi il più sveglia possibile, ma la mia coscienza già vola via. Il ricordo successivo riguarda l’ospedale: sono su una barella, dottori e infermieri chini su di me con espressioni gravi, mentre mi portano in sala operatoria. Ricordo chiaramente come quella è stata la prima volta in cui ho pensato: “Sto morendo”. Poi una mascherina mi viene messa sul volto e vengo rimandata nell’oblio, dove sono tutt’ora. Purtroppo non ci vuole una scienza per capire che sono in coma… Quindi è questo il posto dove è rimasta per tutto quel tempo mia nonna… Non è affatto consolante. È buio, freddo, mi sembra di essere in piedi sul bordo di un cornicione, in precario equilibrio, basterebbe una leggera spinta, un soffio di vento, da una parte o dall’altra per condannarmi al sonno eterno o a un risveglio. Ma io non posso fare niente, o almeno credo, mi sembra di non avere assolutamente in mano le fila della mia vita in questo momento, come se Qualcuno si stesse prendendo del tempo per decidere cosa farne.
Riesco a sentire, però, ciò che accade attorno a me e questa invece, ripensando a mia nonna, è una grande consolazione, perché ciò significa che lei ha udito tutto ciò che le ho detto.
Sono diverse le voci che sento nel mio oblio: i miei genitori, le mie amiche, anche Marco:
-Vedi di svegliarti in fretta. Per il musical abbiamo bisogno di te e la tua voce manca a tutti. – lo sento dire sottovoce e, dopo una breve pausa di silenzio, continua in tono sommesso, come se si stesse trattenendo dal piangere: - Ti prego, Clara, svegliati, non farmi scherzi. Se non ti svegliassi più mi renderesti ancora più complicato dimenticarti, il dolore mi accompagnerebbe sempre con il rimorso di averti perso e di non essere riuscito ad amarti come avrei dovuto. Mi manca il tuo sorriso, mi manca la tua voce… Non andartene prima di avermela fatta sentire di nuovo. – percepisco una carezza sulla guancia. – Che brutto scherzo che mi hai tirato facendomi innamorare di nuovo di te… Guarda adesso come sono ridotto! -.
Vorrei stringergli la mano, dire qualcosa, vorrei piangere anch’io, ma il mio corpo è immobile, non risponde agli ordini che mando rabbiosamente al cervello. Anch’esso non mi obbedisce più…
La persona che mi viene a trovare più spesso è il don, la sua voce è quella che sento maggiormente, come se fosse sempre qui con me, di giorno e di notte, anche se per me non esistono più entrambi… Non ho più cognizione del tempo, non dormo, sono sempre vigile e sento i rumori più lievi. È sfiancante, ma il don mi dà un po’ di sollievo, raccontandomi dell’oratorio, dei miei ragazzi del percorso Preado, dei miei amici del gruppo Giovani e ogni tanto mi racconta qualche aneddoto della sua vita prima di diventare prete…
-Clara, manchi molto a tutti i ragazzi di terza media, vorrebbero venire a trovarti, ti farebbe piacere? Qualcuno del gruppo Giovani so che è già venuto a tenerti un po’ compagnia. - .
Sì, è vero, sono venuti in tanti e mi ha fatto tanto piacere sentire le loro voci. Hanno rallegrato un poco il mio buio perenne.
-Manchi a tutti, Clara, ci manca la tua splendida voce… - per la prima volta il suo tono sembra riempirsi di tristezza. – Io non so dove tu sia, né come tu stia, ma sono sicuro che tu mi stai sentendo e puoi capire perfettamente ciò che sto per dirti. Anche se così non sembra la tua vita è nelle tue mani. Devi lottare e dare un motivo a Dio per farti svegliare, devi fargli capire che vuoi vivere, anche se solo per un poco, che vuoi vedere la luce e avere almeno l’opportunità di salutare i tuoi famigliari e i tuoi amici come si deve. Non devi arrenderti, non lasciarti morire, tu sei forte, lo so, Clara, anche se non lo credi, tu sei una delle persone più forti che conosca. Io continuerò a starti accanto per tutto il tempo che posso, non ti abbandono. Lo so che tu non vorresti che le persone a cui vuoi bene ti vedano in questo stato, ma hai bisogno del loro affetto e intendo fare proprio come hai fatto tu con tua nonna. Sono qui con te, non avere paura. – mi stringe forte una mano – Lotta ed escine vincitrice. Il Signore farà quello che è meglio per te, in qualunque caso, fidati di Lui, anche se è difficile. -.
Le parole del don mi danno la forza per la prima volta da quando sono in questo stato di rivolgermi a Lui:
“Mio Signore, non ho la più pallida idea delle condizioni del mio organismo, non ho idea di quanto tempo mi resterà da vivere se mi sveglierò… Penso decisamente poco visto quanto tempo ti stai prendendo per decidere della mia vita, ma non m’importa, qualunque cosa deciderai mi va bene. Ad una sola condizione, però: dimostrami che il mio gesto estremo è servito a qualcosa, fammi sentire la voce o il tocco dell’unica persona che ancora non è stata al mio capezzale. Io so che lui è vivo, lo sento, ma non capisco perché non sia qui con me. Portamelo, Signore, e poi fai di me quello che vuoi. Lo so che l’esito sarà lo stesso alla fine: che io mi svegli o meno fra poco morirò, ma fammi dare un compimento e un senso a tutto ciò che ho seminato quest’anno. È quasi tempo del raccolto, sarebbe un peccato perdermelo. Io mi fido di te, ma non posso fingere di non avere paura… Pensavo di avere molto più tempo… Non abbandonarmi, ti prego.”.
Percepisco sul mio volto il lento scivolare di una lacrima e me ne sorprendo: è la prima volta che il mio corpo risponde a un mio bisogno e questa volta è proprio quello di piangere. A quella prima lacrima ne segue un'altra e poi un’altra ancora, finché non scendono copiose, silenziosamente, senza alcun singhiozzo.
Sento una mano asciugarmele con un fazzoletto, mentre la voce commossa del don mi parla:
-Clara, stai tranquilla, sono qui. Piangi quanto vuoi, le raccoglierò io le tue lacrime. Non ti abbandono. -.
La sue rassicurazioni mi giungono alle orecchie come una risposta alla mia preghiera. Comprendo che Dio sta già provvedendo a soddisfare le mie richieste. Non mi resta che aspettare e avere fede che lui verrà.

Per ore non ho sentito nessun rumore, a parte quando le infermiere sono venute a controllarmi. Solo ora sento l’ospedale rianimarsi, probabilmente è mattino presto; ci sono le prime visite, vengono distribuite le colazioni e dopo essersi ripresi dal torpore del sonno si ritorna al solito tran tran quotidiano. Mi manca la sensazione di svegliarmi dopo una bella dormita, di riaprire gli occhi e vedere fili di luce filtrare attraverso la persiana della mia camera. Ora sono costretta a un sonno finto che non fa altro che stancarmi sempre di più, portandomi a desiderare quello vero.
Improvvisamente sento la porta aprirsi e richiudersi. Penso siano di nuovo le infermiere, ma mi rendo conto che il passo non è quello sicuro di chi deve fare il proprio lavoro o di chi in questa stanza è già stato varie volte. È lento e incerto, come se il suo proprietario non sapesse se rimanere fermo, avvicinarsi ancora o andarsene. Alla fine viene scelta la seconda opzione: sento che una sedia viene spostata vicino al letto e qualcuno mi si siede accanto, restando in silenzio.
Per la prima volta da molto tempo percepisco il mio cuore battere più velocemente, come se la sola presenza di questa persona bastasse a risvegliarlo e incomincio a sperare ardentemente che non si sbagli. Delle dita si intrecciano delicatamente alle mie e la mia mano viene sollevata. Essa viene solleticata da dei capelli e bagnata da quelle che posso solo immaginare siano lacrime. Percepisco poi che qualcuno si sta chinando sul mio viso, finché un lieve bacio non viene posato sulle mie labbra.
“È lui! Non può essere che lui!”.
L’effetto del bacio è devastante: sento immediatamente il mio corpo riacquistare energie e divento sempre più consapevole di ciò che mi sta intorno e del mio stesso corpo, sento che sto tornando padrona di me stessa. Il bacio ha avuto lo stesso effetto di quello del principe alla bella addormentata. Mi sto svegliando.
Molto lentamente riesco a riaprire gli occhi. Sbatto un paio di volte le palpebre, accecata dalla luce, alla quale i miei poveri occhi non sono più abituati. Pian piano riesco a mettere a fuoco ciò che mi sta intorno e mi rendo conto che lui non si è ancora reso conto di nulla, con la testa bassa, piangente. Mi si stringe il cuore a vederlo così e gli stringo lievemente la mano, per renderlo consapevole del mio risveglio.
Alza immediatamente la testa e mi guarda pieno di stupore, non credendo ai propri occhi.
-Luca… - sussurro, sorridendo stancamente e dolorosamente. Ora che sono sveglia si fanno sentire forti scariche di dolore per tutto il corpo, ma soprattutto in corrispondenza del cuore.

-Amore mio, ti sei svegliata! – esclama lui, stringendomi ulteriormente le mani e piangendo ancora, ora di gioia.

-Mi hai svegliata tu. Stavo aspettando solo te… Avevo così tanta paura che ti fosse successo qualcosa… Invece stai bene, come sono felice! – mormoro con le poche forze che ho, accarezzandogli una guancia.

-Certo che sto bene, mi hai salvato tu! Se tu non mi avessi spinto via…  - incomincia in tono serio, ma lo interrompo immediatamente, mettendo un dito sulle sue labbra.

-Non ha senso parlare di cosa sarebbe successo. Siamo vivi entrambi. -.

-Ma tu sei rimasta in coma per più di una settimana, siamo quasi a metà maggio… - cerca di dirmi Luca.

-Non ha importanza. Mi sono svegliata, sono viva, no? Piuttosto, perché ci hai messo così tanto a venire da me. Sentivo le voci di tutti attorno a me, tranne la tua e morivo dentro pensando che tu non ce l’avessi fatta. Nessuno ha mai accennato a te e non potevo pensare di averti perso in questo modo. – la mia voce si incrina, mentre cerco di trattenere le lacrime.

-Hai ragione, sarei dovuto venire prima, subito in realtà, ma mi sentivo così in colpa. Ti ho vista lì, sull’asfalto, insanguinata, e non sapevo cosa fare, mi sentivo così impotente… Sono rimasto per giorni chiuso in casa, senza voler vedere nessuno, terrorizzato dalla possibilità che qualcuno mi dicesse che tu non ce l’avessi fatta. E anche quando ho saputo che eri in coma ho avuto paura che non avrei retto il colpo di vederti così… Ma oggi non ce l’ho fatta più: mi mancavi troppo, amore mio, non avrei resistito un giorno di più senza vedere il tuo volto. Quando sono entrato sarei voluto fuggire via… Qua, così, immobile… -.
Lo interrompo un’altra volta, notando che sta per crollare di nuovo:
-Shh… Va bene, non fartene una colpa, lo capisco. L’importante è che sia viva e che mi sia svegliata. -.
Mi sorride più tranquillo, poi guarda l’orologio e sospira seccato:
-Devo andare a scuola… -.

-Non ti preoccupare, puoi venire più tardi. Tanto di qui è difficile che mi sposti. – dico, cercando di alleggerire la situazione. – Uscendo magari dì a qualcuno che mi sono svegliata. Non ripasseranno a controllarmi prima di un’oretta. -.

-D’accordo. Allora passo dopo la scuola. – si china su di me e mi dà un altro bacio, indugiando di più ad allontanarsi questa volta. – Ti amo. – mi sussurra prima di avviarsi alla porta.

-Ti amo anch’io. – rispondo e, sorridendomi dolcemente e pieno di sollievo, se ne va.

Per gran parte della mattina non mi viene lasciato un attimo di respiro.
Pochi minuti dopo che Luca è uscito dalla stanza, questa si è riempita di infermiere e medici, i quali mi hanno sommerso di domande, ribaltata come un calzino, aumentando i dolori già di per sé quasi insopportabili; ho fatto non so quanti esami e senza che qualcuno mi dicesse i risultati… Mi sono sentita una cavia da laboratorio e non è stato affatto divertente. Poi sono arrivati i miei genitori, per cui altre domande e abbracci dolorosi. Non voglio sembrare un’ingrata, sono felicissima di poterli rivedere, soprattutto dopo aver sentito per molto tempo solo le loro voci e aver creduto che sarei morta senza poterli salutare, ma sono esausta e il mio unico desiderio è quello di dormire, sul serio. E così, a metà mattina, con un antidolorifico in vena, riesco finalmente ad addormentarmi.

Quando mi sveglio è passata da un po’ l’ora di pranzo. Seduta vicino a me c’è mia madre, la quale appena apro gli occhi, mi accoglie con un sorriso e una carezza. In piedi dall’altra parte della stanza c’è invece il don, il quale mi si avvicina subito, con un grande sorriso stampato sul viso.

-Buongiorno, dormigliona! – mi saluta scherzosamente – Cos’hai fatto per aver bisogno di una settimana di riposo così profondo? -.

-Ciao, Don! Probabilmente i miei Preado mi hanno succhiato via tutte le energie, oppure, cosa più probabile, mi è venuta addosso un’auto… - rispondo, richiamando per un attimo alla mente quei terribili secondi prima dell’impatto, di cui fortunatamente non ricordo nulla. Il dolore deve essere stato lacerante, considerando che dopo una settimana è ancora così forte.

-Hai fatto prendere a tutti un gran bello spavento… - sospira mia mamma, continuando ad accarezzarmi i capelli, come per accertarsi che sia qui, viva e vegeta.

-Immagino… Però vorrei sapere quali sono le mie reali condizioni ora… - chiedo in tono serio. Gli sguardi sia di mia madre che del don si rabbuiano e io incomincio a preoccuparmi sul serio: avevo immaginato che i miei dolori non fossero un buon segno…

-Sono qui proprio per spiegartelo, Clara. – afferma una voce maschile, che mi suona familiare, ma che non riesco a collegare a nessuna persona. Mi volto verso la porta della camera e vedo un medico che si sta accingendo ad entrare, chiudendo la porta alle proprie spalle. Appena ho l’opportunità di guardarlo in viso, trasalisco: quegli occhi di ghiaccio sono gli stessi che sbucavano sopra la mascherina del medico che ci ha comunicato il coma di mia nonna.
Con difficoltà mi metto a sedere sul letto più compostamente e attendo che il dottore mi dica cos’ha ora il mio organismo che non va, ma lui osserva incerto il don, in piedi vicino al letto, con una mano sulla mia spalla. Mia mamma, notandolo, interviene subitaneamente:

-Può restare. Lo abbiamo già informato. – poi si rivolge a me – Era qui tutti i giorni e ci è sembrato giusto che sapesse. -.
Annuisco.
-Va bene, ma, per favore, spiegatemi. – chiedo confusa, spostando lo sguardo dall’uno all’altro.

-Clara – incomincia il medico, prendendo in mano la situazione. – Quando sei arrivata qui in ospedale le tue condizioni erano davvero critiche, per non dire disperate, e ti abbiamo portato subito in sala operatoria. Avevi perso molto sangue e i danni erano ancora più gravi di quanto immaginassimo. Abbiamo fatto quanto è stato possibile per tenerti in vita, ma sei finita in coma. Onestamente è un miracolo che tu ti sia svegliata, nelle condizioni in cui ti trovi… -.

-Pensavate che sarei morta proprio come mia nonna. – concludo il suo pensiero – Non è andata così. Arrivi al punto per piacere. –

-Il punto è – riprende lui in tono grave – che il tuo cuore è rimasto irrimediabilmente e molto gravemente danneggiato. -.

Incasso il colpo meglio di quanto pensassi: in fondo già avevo intuito che comunque le cose fossero andate non avrei vissuto a lungo. Mi ero già preparata a questa notizia.
-Quindi ora quali sono le possibilità materiali che ho per vivere? – chiedo, con un sangue freddo che sorprende me stessa e anche le altre persone nella stanza, che mi guardano interdette.

-L’unica speranza è trovare un cuore compatibile e procedere al trapianto, ma non è così semplice… Per evitare rischi, dovresti rimanere tutto il tempo in ospedale, sotto controllo, con la possibilità di sopravvivere qualche giorno o settimana in più se le tue condizioni dovessero aggravarsi. -.

-Non se ne parla. –. Esprimo la mia opinione in tono calmo, ma risoluto, facendo trasalire nuovamente le tre persone che mi stanno davanti.

-Clara, ma sei impazzita?! – esclama mia mamma, sull’orlo delle lacrime.

-Mamma, non sto rifiutando il trapianto. Solo non voglio passare in un letto d’ospedale le mie ultime settimane di vita. – dico fermamente, poi mi rivolgo nuovamente al medico: - Il mio cuore quanto è messo male? -.

-Considerando i precedenti nella tua famiglia di problemi cardiaci e la sua fragilità odierna, direi che è in condizioni precarie… - risponde seriamente.

-Per cui potrebbe smettere di battere da un momento all’altro, giusto? – chiedo ancora.

-Esatto. -. Sia lui che mia madre mi guardano straniti, come se non capissero dove voglia arrivare, mentre il don continua a stringermi la spalla, come a dirmi che qualunque decisione prenda lui sarà accanto a me. La sua presenza e il suo sostegno mi danno la forza di continuare con le domande:

-Quante sono le possibilità che io sopravviva abbastanza a lungo perché arrivi un donatore compatibile, pur restando qui in ospedale? Quante possibilità ho di sopravvivere all’intervento in caso? – lo incalzo.

-Pochissime, in ogni caso. – il dottore abbassa lo sguardo frustrato, non potendo sottrarsi dal rispondere alle mie domande.

-Allora quando prima le ho chiesto di arrivare al punto, sarebbe stato più giusto dirmi che sono una morta ambulante, che sta aspettando di esalare l’ultimo respiro. -.

-Clara, non è affatto detto che tu non riesca a superare tutto questo… - tenta di convincermi mia madre, ma il suo tono è incerto, non ne sembra convinta neppure lei.
Le prendo una mano e la stringo forte.

-Mamma, dovrei essere già morta. Hai sentito il dottore: è stato un miracolo che mi sia svegliata e se Lui ha voluto così non è certo per vedermi passare i miei ultimi giorni immobile, in un letto d’ospedale, attaccata a delle macchine, aspettando di morire. Lui vuole che raccolga i frutti che quest’anno ho seminato, che sia felice per quel poco tempo che mi rimane. – cerco di spiegarle con un groppo in gola.

-Ma non ti rendi conto che questo è un suicidio? – mi chiede, scoppiando in lacrime. L’abbraccio fortemente, cercando di trattenermi dal crollare anch’io.

-No, mamma, al contrario. Nel tempo che mi rimane voglio vivere appieno, non sopravvivere. – finalmente sembra incominciare a capire e si calma un poco. Continuo a parlarle: - Voglio uscire il prima possibile di qua. Non mi strapazzerò troppo, starò tranquilla, ma sarò fra le persone a cui voglio bene. Vi permetterò di riportarmi in ospedale solo dopo il musical… Voglio fare per un’ultima volta ciò che amo di più. Ovviamente se in queste due settimane arriverà un cuore compatibile mi farò ricoverare immediatamente. Se c’è anche solo la più piccola possibilità di cavarmela voglio sfruttarla, ma non posso stare qui ad aspettare. -.

-Sei sicura della tua decisione? – mi chiede serenamente il don. La sua non è una critica velata, ma vuole semplicemente accertarsi che ci abbia pensato bene e che sia davvero ciò che voglio.
Annuisco, sorridendogli.

-Come tuo medico non posso che oppormi a questa scelta. – afferma risolutamente il dottore. Lo fisso negli occhi per un attimo: ha fatto e sta facendo tutto il possibile per darmi del tempo in più, ma ragiona solo con il cervello, con la mentalità dello scienziato, non con il cuore. Non ha ancora compreso che ciò che mi sta tenendo in vita anche in questo momento non è sicuramente il mio cuore… Quello sospetto sia fermo già da tempo.

-Posso rimanere un attimo sola con il dottore? – chiedo a mia mamma e al don. Annuiscono con riluttanza ed escono dalla stanza in silenzio. Appena la porta si chiude, non perdo tempo e mi rivolgo all’uomo davanti a me:

-Lei mi ha vista qui tutti i giorni da mia nonna, vero? – chiedo.

-Sì. – risponde, prendendo una sedia e accomodandosi per ascoltarmi meglio.

-Penso possa immaginare quanto sia stato terribile vederla morire lentamente… Io che ho la possibilità di scegliere, non voglio assolutamente che qualcun altro debba sopportare lo stesso dolore per me. -.

-Anche se questa potrebbe essere la via per sopravvivere? – mi chiede con curiosità.

-Dottore, sappiamo benissimo entrambi che io morirò. Ne ero pienamente consapevole anche mentre ero in coma. Non cerchi di darmi false speranze, non mi servono. – gli sorrido amaramente, mentre lui abbassa lo sguardo mortificato.

- È anche questo il mio lavoro a volte… - mormora.

-Lo so e posso solo immaginare quanto sia difficile, soprattutto vedere una vita sfuggire dalle proprie dita… - commento tristemente – Io non so se lei sia credente, ma le dico che se adesso sono qui che le parlo è perché ho fatto un patto con Dio: gli ho chiesto di darmi il tempo di dire addio e di fare per un’ultima volta ciò che mi fa sentire viva. Lei, nelle mie condizioni, se avesse l’opportunità, l’ultima, di realizzare un proprio sogno la coglierebbe, o rimarrebbe inerte a guardarla sfumare? -.

-Probabilmente la coglierei. – mi risponde sinceramente.

-Allora penso che possa capirmi. Non mi neghi questa possibilità. – lo imploro.

-Sei una ragazza molto risoluta, Clara. – sospira lui – D’accordo, faremo come vuoi tu. Ti prescriverò dei farmaci che dovrai prendere tutti i giorni e devi promettermi di non fare sforzi inutili. Se il donatore giusto dovesse arrivare, la condizione del tuo cuore non si dovrà essere aggravata o sarà tutto inutile. Non sei morta finché non le abbiamo provate tutte e finché non lo dico io. – mi ammonisce.

-La ringrazio di cuore. Non ha idea di quanto ciò significhi per me. – gli sorrido commossa. Dopodiché il medico se ne va e rientrano mia mamma e il don.

-A quanto pare hai convinto anche lui. Sei testarda come un mulo quando vuoi. – commenta con un sospiro il prete.

-Ha solo capito le mie ragioni. – replico. –A proposito delle mie condizioni… Chi lo sa? – chiedo a mia mamma.

-Lo sappiamo io, papà, tuo fratello e il don. Dobbiamo dirlo a qualcun altro? – mi chiede con apprensione.

-No, non ditelo a nessun altro. Non voglio trascorrere questi giorni trattata con i guanti di velluto, come la povera moribonda. Voglio che tutti si ricordino di me semplicemente per come sono, come Clara. -.

-E Luca? Hai intenzione di tenere all’oscuro anche lui? – mi chiede lei stupita.
Impallidisco. Non avevo considerato Luca nel mio discorso… Nella mia mente appare fulminea la mia immagine, mentre guardo sconvolta mia nonna, sul letto, morta, e con un stretta al cuore prendo la mia decisione.
Proprio in questo esatto istante una voce allegra invade la stanza:

-Tesoro, come stai? –. Luca entra in camera, illuminandola con il suo sorriso, mentre io non riesco a trovare le parole per rispondergli, impegnata nel cercarne altre dolorose.

-Vi lasciamo soli. – dice con un sorriso tirato mia mamma, avviandosi alla porta insieme al don.

-Mamma. – si bloccano entrambi al mio richiamo. – Riguardo la domanda di poco fa… Sì. -.
L’espressione della donna che mi ha dato la vita e mi ha cresciuta si riempie di preoccupazione, ma non mi contraddice ed esce dalla stanza con lo sguardo basso. Il don, invece, rimane un attimo di più a fissarmi, come cercando di capire cosa intendo fare. Un lampo di comprensione gli attraversa il volto, che si tramuta in una maschera di tristezza e contrarietà. Sapevo che non avrebbe approvato il mio modo d’agire, ma cos’altro posso fare per evitare l’inevitabile?
Appena rimaniamo soli, Luca mi stringe una mano, guardandomi con dolcezza. Il suo sguardo è per me peggio di una coltellata… Ciò che sto per fare è tremendamente ingiusto nei suoi confronti, mi rende una persona orribile, ma è solo per lui che lo faccio.

-Luca, dobbiamo parlare. – incomincio, parlando con difficoltà, perché quelle che sto per dire non sono parole che ho mai pensato di rivolgere a lui. La mia stessa bocca si rifiuta di articolarle.

-Ha a che fare con le tue condizioni? Ci sono state delle conseguenze? – Non le immagini neanche quali siano le conseguenze… Quanto sarebbe facile ora dirti tutta la verità, ma non ce la faccio, tu crolleresti e non me lo perdonerei mai. Soffrirò io per entrambi.

-Luca, io…Io ti sto lasciando. – dico tutto d’un fiato. Il suo viso si fa terreo e gli occhi si riempiono di stupore. Abbasso gli occhi, incapace di sopportare la sua reazione.

-C-come? Se questo è uno scherzo, non è affatto divertente… - dice balbettando.

-Non è uno scherzo. Non voglio più stare con te. -. Sputare queste parole è la cosa più dolorosa che abbia provato. È come quando devi vomitare, continui ad avere terribili conati, ma non ci riesci e senti il malessere percorrerti tutto il corpo. La menzogna mi sta avvelenando, è così evidente che devo voltare la testa per evitare che anche lui la veda e scopra la verità. Il dolore si sta tramutando in pianto, ma non posso permettermi di piangere ora, non davanti a lui e quindi cerco di ingoiare il magone che mi invade, senza però riuscirci.
Sento la mano di Luca tremare sulla mia.

-Cosa ho fatto? – si dà immediatamente la colpa, senza esitare e questa è un’altra coltellata, ancora più profonda e il coltello continua a girare nella ferita, distruggendo il tessuto e facendomi gridare dal dolore, però non posso manifestare apertamente le mie urla, così al loro posto scendono le lacrime.

-Tu non centri niente, Luca, non hai fatto assolutamente nulla. Sono io il problema ed è meglio che tu mi stia lontano. Non voglio vederti. – la mia voce soffocata e singhiozzante tradisce il pianto torrenziale che mi sta bagnando il volto.

-Clara, guardami. – mi dice, cercando di rimanere calmo. Scuoto la testa. – Voltati! – esclama, ora con più rabbia. Rimango immobile, tremando. Alla fine mi prende il volto fra le mani e mi obbliga a guardarlo. Lui vede il mio volto totalmente sconvolto e io il suo, uguale al mio: altra pugnalata.

-Tu non vuoi lasciarmi. Non piangeresti in questo modo. Che cosa è successo? Perché sei arrivata a tanto? – mi chiede disperato.

-Lo sto facendo per il tuo bene, lo vuoi capire?! Lasciami in pace e vattene! Non ti voglio vedere, devi andartene! – urlo, cercando di allontanarlo da me, ma lui mi tiene più stretta.

-Io non me ne vado, non finché non mi dici che cosa è successo. -.

-Se starai ancora con me soffrirai e basta. Se mi ami davvero allora fai quello che ti dico e lasciami andare, vattene e non farti più rivedere! – grido ancora fra i singhiozzi.
I suoi occhi si sgranano stupefatti:
-Non mi puoi chiedere questo… - sussurra sconvolto.

-Invece te lo sto chiedendo. – ribadisco.

Il suo sguardo si riempie di determinazione e lo fissa dritto nel mio, facendomi rabbrividire. Non so per quanto tempo ancora riuscirò a respingerlo e a mentirgli in questo modo.
-Lo farò solo se tu ora, guardandomi dritto negli occhi, mi dici che non mi ami più. -.
Cerco di sfuggire alla sua presa inorridita: come posso dire parole simili?
Luca non mi lascia andare e io piango ancora più disperatamente:
-No… No… No…. – continuo a dire.

-Dillo! – mi ordina.

-Io… Non ti amo più… - dico con labbra tremanti e il corpo scosso da violenti spasmi di dolore.
Luca finalmente mi lascia andare e si prende la testa fra le mani. Non mi guarda più, mentre io ora non ce la faccio a voltare di nuovo la testa. Vorrei abbracciarlo, dirgli che va tutto bene e che tutto ciò che ho detto non era vero, ma, come ho già detto, lo sto facendo solo per il suo bene.
All’improvviso Luca si alza in piedi ed esce dalla stanza come una furia, senza guardarmi, senza dirmi una parola.
Ormai sola, mi lascio andare completamente al pianto e urlo con tutto il fiato che ho in corpo, sperando che mi possa far sentire meglio, ma il dolore è sempre più forte.
Il don e mia mamma accorrono, richiamati dalle mia grida e la seconda mi abbraccia, cercando di calmare i miei spasmi.
-Che cosa hai fatto, piccola mia? – mi chiede.
Il don mi guarda con gli occhi pieni di dolore e compassione.
Chiudo gli occhi e non riesco a rispondere a mia madre, il dolore è troppo acuto. Il mio cuore è stretto in una morsa d’acciaio, viene lacerato, dilaniato, e so che non è colpa dell’incidente: sono io che ne ho strappato un pezzo con le mie stesse mani…

Angolo dell'Autrice

Non uccidetemi, vi prego! Per me è stato davvero difficile scrivere questo capitolo :(
Ho pianto tanto!!!

Marta

   
 
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