Secret
Halloween
«Cos’è
questo posto?»
Erano
tornati indietro velocemente e avevano oltrepassato il ponte in pochi minuti,
nonostante Harry si fosse fermato spesso a guardarsi intorno arrancando poi per
mantenere il passo.
Cos’era
quel posto? Non lo sapeva neppure lui con esattezza.
Era
un po’ la fortezza della sua anima, un invalicabile scudo in cui sciogliere il
proprio cuore, mura e piante dove poter essere semplicemente se stesso.
«È
il mio posto.»
«Scusa.
Non volevo invadere i tuoi spazi.»
«Ma
lo hai fatto. Come al solito fai solo quello che ti passa per la testa credendo
che sia tutto giusto.»
«Beh,
ma questo mi ha comunque portato al Ministero della Magia.» Quanta nostalgia
aveva avuto della sua risata. Quelle labbra che si schiudevano scoprendo appena
i denti e quel suono che sapeva acquietargli lo spirito come nessun altro, gli
erano mancate come pioggia nel deserto, e quante volte aveva spezzato quel
suono con le proprie labbra, afferrandogli il respiro con il proprio.
E
lo desiderava anche in quel momento, desiderava quella bocca e ogni sua parola
e cellula, ma cercò di trattenersi, di portare il pensiero altrove mentre con
violenza stringeva i pugni conficcandosi le unghie nella carne.
«Non
ci trovo nulla di divertente, è risaputo che al Ministero è passata gente
dall’intelligenza non proprio spiccata.»
Harry
smise di ridere e lo fissò – falsamente – irritato, piegando le labbra in
quello strano modo che lo aveva sempre fatto diventare matto, soprattutto
quando si perdevano sulla propria pelle, facendo scemare quell’irritazione in
respiri sul collo.
Era
dannatamente difficile averlo così vicino e non pensare di stringerlo di nuovo
a sé, togliersi ogni desiderio di dosso come pioggia dai capelli.
E
per un attimo gli tornò alla mente quello stesso giorno di un anno prima.
Ricordando
ogni singola parola che era stata detta su quella dannata Torre, e ricordando
ogni gesto, ogni immorale gesto che avevano compiuto su quella pietra intrisa
di sangue e umori e, forse, persino d’amore.
*
La
pioggia cadeva furente sopra Hogwarts infrangendosi
con tutta la sua rabbia sulle finestre, il vento soffiava altrettanto forte e
sferzava i grossi alberi come se fossero stati dei fragili ramoscelli.
I
rumori della natura ovattavano persino la musica e le voci, ma sembravano
donare maggiore allegria ad ogni presente, come se fossero stati semplice
abbellimento per Halloween, un’atmosfera cupa e minacciosa creata appositamente
per la festa.
Ma
fuori il cielo continuava a fare come voleva e dentro anche lui si sentiva come
pioggia cadente destinata ad evaporare, e più guardava Harry insieme a Ginny e più il vento distruggeva la sua anima come una lama
affilata che si abbatteva più e più volte su di una mela abbandonata.
E
scappò.
Un
codardo qualunque che non reggeva più quella vista, e corse via da lì, come un
animale ferito. Un amante distrutto.
Come
il nulla che si sentiva di essere sempre stato e che sempre gli sarebbe
appartenuto.
Lui
non avrebbe mai potuto avere niente. Lo sapeva.
E
allora aveva continuato a correre con gli occhi fissi ai suoi piedi senza
sapere davvero dove sarebbe andato, e corse per poi fermarsi e camminare,
lento, e correre di nuovo, con il sorriso del giovane mago che non riusciva a
cancellare.
Si
fermò di nuovo e per un istante tra i battiti del proprio cuore sentì ancora
una volta il desiderio improvviso di tornare nella Sala e scostare tutti fino
ad arrivare da lui e dalla sua bocca, per afferrarla con la propria davanti a
tutti e risucchiare dentro di sé tutto l’amore che aveva dentro.
Ma
era scappato.
Aveva
stretto i pugni con rabbia – e con dolore – ed era corso via per ritrovarsi in
quel luogo dannato che ogni volta sembrava chiudersi intorno a lui come una
gabbia e via via sempre più stretta fino a disintegrarlo tra le sue mura e il
suo vuoto, e persino guardarlo da lontano gli aveva sempre procurato quella
sensazione, ma d’altronde non poteva aspirare a nulla di diverso.
Né
lo meritava.
Lì
era stato ancora una volta un assassino.
Lì
aveva mantenuto la sua promessa, ma era morto insieme al vecchio Dumbledore, e ogni volta che tornava lassù, si sarebbe
sempre sentito meno vivo. Sempre un omicida.
«Sei
sparito.»
Rimase
in silenzio per un po’, non volendo parlargli né guardarlo, poi lo ruppe: «Volevo
prendere un po’ d’aria.»
«Qui
ce n’è un po’ troppa, mi sembra.» Il vento, lassù, sembrava essere più rabbioso
che altrove. «E moltissima acqua» aggiunse, mentre prendeva la bacchetta e
lanciava un incantesimo sopra di loro, e la pioggia cambiò direzione, come
deviata da un invisibile tetto.
Snape
sorrise, continuando a guardare la notte oltre la balaustra, quella pioggia che
continuava a cadere incessante persino sopra di lui, senza avere alcuna
intenzione di smettere, e si beò del suo profumo, facendosi penetrare da ogni
goccia di acqua e umidità che c’era nell’aria.
«Non
ti ho chiesto di seguirmi.»
«No»
e fece alcuni passi avanti finché non gli fu vicino. «Certo che no.»
Il
suo odore si confuse con quello della pioggia e per un attimo chiuse gli occhi,
immaginando di essere entrambi là sotto, con l’acqua che avrebbe lavato via
ogni sbaglio e ogni dolore.
«Non
ami molto questa festa, vero?»
«No.»
«Né
questo luogo. Eppure vieni qui spesso. E là.»
«Già.»
«Non
si era detto basta con il passato?»
«Sì.»
«E
allora?»
«E
allora niente. Non è il passato che mi preoccupa» e mi fa male, ma questo non lo disse. «Ma il presente.»
«E
il futuro?»
«Il
futuro non esiste.»
Harry
sospirò, non era in grado di ribattere a quell’affermazione, in cuor suo era
consapevole che non ci fosse nessuna risposta, lo sapevano entrambi.
«Allora
viviamo il presente.»
Snape
strinse con forza – e rabbia – le mani alla pietra, facendole diventare ancora
più bianche, si sporse un po’, oltre l’invisibile copertura, e l’acqua lo colpì
sul viso stanco e per un istante sembrò risvegliarlo, togliersi di dosso quel
torpore dall’anima, ma continuò a mantenere il controllo di sé e non si voltò a
guardarlo, neanche a sfiorarlo appena con gli occhi. Rimase immobile,
impassibile e imperscrutabile.
«Qui.
Adesso» Harry continuò a parlare incurante della sua freddezza, non facendosi
neppure scoraggiare dal suo ignorarlo.
«Viviamo
di momenti io e te. Siamo momenti.
Siamo degli angoli strappati di un libro che s’incontrano tra la spazzatura.»
«Io
non ci considero per nulla spazzatura!» sentì il malumore di Harry crescere
come una nube di densa ira che avrebbe scaricato grandine su un tappeto di
fiori delicati pronti a morire, ma fissò ancora il vuoto davanti a sé, uno due
tre secondi, poi cinque finché non si sentì strattonare con decisione. E si
ritrovò a fissare gli occhi verdi del giovane mago, scuri di speranze ormai del
tutto vane.
Lo
osservò con attenzione e rise. Rise forte.
«Cos’hai
da ridere?»
«È
meglio ridere che piangere, non trovi?»
«Trovo
che lei sia un emerito cretino, Severus Snape!» E rise ancora, con l’acqua che continuava a
gocciolare dai suoi capelli e dai vestiti.
«Puoi
cancellare dalla mia anima il dolore che provo ogni volta che vengo qui?
Estirparlo dai miei pensieri e bruciare il ricordo dalla mia mente come fosse
carta straccia? Puoi farlo, Harry?» e alzò gli occhi al cielo per guardare la
pioggia di fine ottobre scendere per accogliere l’inizio del nuovo mese,
sorridendo amaramente.
E
per un attimo gli parve che tutto si fermasse, le parole, i respiri, e persino
la pioggia sembrava immobile nell’aria come se un altro incantesimo l’avesse
colpita.
I
due uomini non si guardavano neppure, uno fisso al buio e l’altro al nulla.
Poi
tutto tornò a muoversi, ma i loro occhi rimasero distanti dall’altro anche se i
loro corpi si reclamavano iniziando ad urlare la necessità che avevano di
consumare quei pochi momenti di solitudine senza perdersi in voci e pensieri.
Per consumarsi a vicenda e ricordarsi quegli attimi quando sarebbero rimasti da
soli.
«Allora,
puoi farlo?» domandò di nuovo mentre per un attimo tornò a guardarlo.
«Non
voglio cancellare i tuoi dolori, così come non cancellerei mai i miei. Siamo
quello che siamo grazie a loro, e non ti vorrei diverso da quello che sei.»
Harry
gli sfiorò appena le dita con le sue, timorose, come se avesse avuto paura di
non sapeva bene cosa neppure lui, e lo fissava come se avesse potuto compiere
qualsiasi gesto, come se avesse voluto che lo facesse.
Il
volto di Harry rimase fisso ancora per qualche secondo ad esse, poi alzò il
mento ai suoi occhi neri e sorrise, quel sorriso che amava tanto, quello che
sapeva strappargliene uno anche a lui. Quello che spesso desiderava sul suo
petto.
«Posso
regalarti un ricordo nuovo» e lo baciò senza dire nient’altro, ma Snape si scostò, facendo un passo indietro. «Posso darti un
Halloween nuovo» e il giovane mago, invece, fece un passo avanti, verso di lui.
«Non…
non sarebbe giusto.»
«Cosa?
Sovrapporre l’amore all’odio? La felicità al dolore?»
«Qui
ho ucciso!»
«Vivi.
Ama.»
«Non
posso.»
«E
allora lascia che lo faccia io. Che seppellisca la morte con le mie mani e la
bocca e il mio respiro. Con la mia pelle sulla tua.»
«Harry…»
non erano molte le volte che lo chiamava per nome, lo faceva solo quando era
completamente se stesso, quando le emozioni più profonde prendevano il
sopravvento. «Non qui» ed era sincero. Desiderava il giovane mago anche in quel
momento, era vero, voleva stringerlo a sé più che poteva, ma quel posto
continuava ad essere un fantasma del suo passato, un dolore che sarebbe stato
sempre un ricordo dei suoi errori.
Harry,
però, si fece più vicino e poté sentire il calore del suo corpo sul proprio, ma
rabbrividì come un castello smosso dalle fondamenta; provò ad allontanarlo
ancora una volta da sé, chiuse gli occhi e si figurò le proprie mani che lo
spingevano via, ma quando lì riaprì le braccia erano immobili, così come le
gambe e ogni altro muscolo, e il giovane era sempre più vicino, stoffa contro
stoffa a disintegrare ogni autocontrollo.
E
poi, prima che aprisse la bocca per dire altro, Harry lo abbracciò, gli strinse
le braccia dietro la schiena e poggiò la fronte sulla sua spalla, ma Snape rimase ancora fermo, le mani tese – quasi rabbiose –
sui fianchi ed un senso d’impotenza opprimente, come se non fosse stato capace
di parlare o di muoversi, di scostarlo o di stringerlo a sé.
«Torniamo
in Sala Grande. Gli altri si staranno domandando che fine hai fatto,» ma provò
lo stesso con tutte le forze a distruggere quel momento.
A scappare anche da lì.
Il
ragazzo rimase muto, poi, semplicemente, si sollevò e rispose con un bacio, e
poi un altro e uno ancora sulle guance, sul mento, sul collo e poi sugli occhi
e sulle orecchie. Su ogni parte di sé.
«Harry…
no,» ma in realtà non desiderava altro.
«Shhh!»
Fu
quando il giovane mago intrecciò le mani con le sue che perse ogni ragione e
ogni controllo – e ogni ricordo di dolore
–, e poi lo strinse a sé, lo abbracciò con forza, con un bisogno quasi
primordiale.
E
gli Halloween passati cominciarono via via a nascondersi, a pesare sempre di
meno, e più Harry lo stringeva, più le sue braccia li seppellivano uno ad uno,
spostando dolori e tristezze nel buio più profondo.
Sarebbe
durata per sempre quella sensazione?
Soltanto
pochi giorni o per quegli attimi e basta?
Lì,
su quella torre, ognuno nella braccia dell’altro, non avrebbe saputo trovare
una risposta né gli interessava farlo, desiderava soltanto che il tempo
cementificasse quel momento rendendolo immortale, e si sarebbe trasformato egli
stesso in una statua se fosse servito a vivere per sempre quelle sensazioni.
E
Halloween andava avanti mentre loro rimanevano fermi in quell’abbraccio.
Poi
si mossero, le mani sull’altro, le bocche a toccarsi e a risucchiare l’anima, e
null’altro esisteva intorno a loro, né il loro passato né ciò che sarebbe
stato.
Harry
sorrise e gli slacciò uno dopo l’altro i bottoni della casacca, rapido e tremante,
per poi sfilarla senza dire una parola, e fece lo stesso con la camicia senza,
però, togliergli la sciarpa nera che portava sempre al collo, lasciò soltanto
che gli angoli gli pendessero sul petto, su quella porzione scoperta di pelle
che cominciò a baciare e toccare senza mai fermarsi.
E
le sentiva le sue labbra e la sua lingua su di sé, e ogni muscolo si fece più
teso e ogni nervo più sensibile.
«Mi
sento così sacrilego. Un peccatore di blasfemia nei confronti di questo luogo.»
«La
tua è solo una percezione di ciò che realmente è questo posto.»
Snape
sorrise. «Qui ho ucciso Albus Dumbledore.
Realmente. Nessuna proiezione di una
mia fantasia.»
«Per
me, qui, è dove hai fatto ciò che andava fatto. Lo è per tutti.»
«Non
la pensavi così quando mi hai visto farlo.»
«Non
conoscevo la verità. Puoi biasimarmi?»
«No.
Certo che no.»
Non
poteva biasimare nessuno per averlo creduto un traditore assassino, e non
riusciva a farlo neppure con chi ancora lo credeva, ormai era un’abitudine con
la quale conviveva e basta, come alzarsi la mattina o fare colazione.
Vide
il volto di Harry mutare e un velo di tristezza scendergli addosso. «Non essere
triste per me.»
«Non
ho mai capito niente di te, sempre a farci la guerra, ad odiarci.»
«È
stata una cosa reciproca. E… passata»
e per la prima volta parlò del passato come se non portasse con sé nessun peso
addosso, il suo tono di voce era calmo, libero,
e il giovane Potter in qualche modo se ne accorse e sorrise, uno dei sorrisi
più ampi che gli aveva visto fare.
E
allora Severus lo strinse al proprio corpo sentendone
il calore invadergli la pelle fredda per il vento che continuava a soffiare
forte sulla torre, lo strinse con tutte le sue forze e Harry fece altrettanto:
un abbraccio che aveva tutto il sapore della leggerezza, e rimasero di nuovo
immobili per lunghi minuti, interminabili, a confondere i loro odori e i loro
respiri sotto quell’acqua che cadeva senza neppure colpirli.
Un
istante dopo, però, l’incantesimo cessò e la pioggia comincio a scivolare su di
entrambi.
E
allora si baciarono nell’acqua per stringersi ancora e di nuovo baciarsi,
afferrarsi, sfiorarsi e toccarsi mentre dita andavano su altre dita e sulla
carne lasciata scoperta dagli abiti ormai gettati a terra come stracci inutili
e ingombranti.
«Potrebbe
salire qualcuno.»
«Che
vedano pure, così la finiamo con questa segretezza come due criminali.»
«Non
dire idiozie, sarebbe un disastro.»
«Un
disastro, professor Snape,
sarebbe sprecare ancora questo momento a parlare» e lo spinse con rabbia verso
la pietra ruvida che gli graffiava la pelle nuda, e Severus
sorrise, lasciandolo fare, lasciando che facesse ciò che voleva, riempiendo
quegli attimi in qualsiasi modo desiderasse come pioggia che s’infilava in ogni
crepa della torre e in ogni pezzo di terra intorno a loro.
Come
la sua bocca che riempiva ogni frammento di sé.
E
la sentiva dargli sollievo dove prima i denti si erano stretti sulla carne
umida di lui e di pioggia, e più scendeva a baciarlo e più tirava la sciarpa
ormai zuppa, ci si aggrappava come ad un’ancora di salvezza e in quel momento
anche lui desiderava aggrapparsi a qualcosa, alla ragione, al giusto, ma le sue
dita si strinsero malamente soltanto alla pietra dietro di lui; quella pietra
che in quegli attimi non si portava dietro alcun ricordo, soltanto le immagini
di quegli istanti, di Harry che lo toccava.
E
non c’era nient’altro che lui e tutto l’amore disperato che aveva attaccato
addosso come pioggia e come lacrime che sgorgavano senza che lui potesse fare
qualcosa per fermarle.
Quel
senso di nulla svanì tra i fulmini che cadevano lontani e vicini.
«Che
succede?» Harry si accorse del suo turbamento e si sollevò di scatto,
prendendogli il viso tra le mani, preoccupato. «Ho fatto qualcosa di
sbagliato?»
«Non
sei tu il problema.»
Harry
si alzò sulle punte, sorrise, e gli baciò gli occhi, uno ad uno, e in quel
gesto seppe che aveva capito ogni cosa senza il bisogno di dire altro, e in
quel momento non sarebbe riuscito a farlo, a pronunciare alcuna parola.
Nel
loro essere corrotti e a brandelli si conoscevano più di quanto davano a vedere,
anche negli anni dell’odio forse si erano conosciuti senza mai svelarsi l’un
l’altro, in fondo le loro vite erano state così legate da sembrare una sola,
con i dolori che attraversavano entrambi in una sorta di linea infinita che
apparteneva ad ognuno di loro.
E
più imparavano l’uno dell’altro, e più si capivano, senza neppure il bisogno di
parlare.
«Torniamo
giù» parlò Harry per entrambi, quelle parole che a lui non riuscivano ad
uscire.
Aveva
rovinato ogni cosa, lo sapeva. Salendo lassù era piombato nuovamente nella
morsa di quel passato che non gli faceva vivere a pieno il presente e gli
negava ogni futuro.
Futuro…
Che
futuro poteva mai esserci per lui? Per loro?
«Finalmente
vi ho trovati!»
Si
erano da poco rivestiti quando Ginny apparve sulla
torre, la bacchetta stretta alla mano per lanciare un incantesimo che la
riparasse dalla pioggia.
Entrambi
si voltarono cercando di sembrare solamente due vecchi amici – o nemici – che
conversavano, e sorrisero entrambi alla ragazza e lei ricambiò, con solarità.
«È
bello vedervi parlare, ma siete spariti da così tanto tempo che ci eravamo
preoccupati.»
«Ero
solo venuto a prendere un po’ d’aria e quello stupido di tuo marito ha voluto
seguirmi.»
«L’impulsività
non gli è mai mancata, professore» e sorrise di nuovo mentre puntava la
bacchetta verso i due uomini per asciugarli.
«Ma
siete comunque due idioti. Non mi sembra né il clima né il luogo adatto per
prendere una boccata d’aria e conversare.»
E
continuarono a parlare come se i vecchi amici fossero stati tre, ma il senso di
malessere continuò a crescere in Snape: per il luogo,
per il vederli così felici insieme – erano poi davvero felici? –, ma
soprattutto per se stesso, per quanto si sentiva veramente un idiota a stare in
mezzo a tutto quello.
Ma
cosa avrebbe potuto fare? Non era così facile come combattere con qualcuno
nascondere e seppellire i propri sentimenti, lo aveva fatto per lungo tempo ma
non era servito a nulla.
Ogni
volta si riprometteva di smettere e ogni volta gli bastava anche solo vederlo
per cedere completamente.
Era
uno stupido, aveva ragione Ginny.
Era
uno stupido con un cuore a pezzi.
Uno
stupido con un cuore che batteva forte.
Continuava
a guardarli mentre una stretta invisibile gli serrò la gola, una morsa che lo
distrusse pian piano, e desiderò soltanto sparire.
*
«Allora…»
Snape cambiò tono. Cambiò pensieri. E tornò al
presente, con quella stessa morsa alla gola, in quella casa persa in un
giardino che aveva raccontato di lui più di quanto aveva fatto egli stesso.
«Hai
detto che dovevamo parlare. Bene, parla» e lo invitò a sedersi, ad iniziare,
mentre lui accendeva il fuoco nel camino per riscaldare quelle mura da troppo
tempo fredde e solitarie. Non che lui si fosse concesso spesso un po’ di tepore
né che fosse stato un’ottima compagnia.
Harry,
però, non sembrava intenzionato a pronunciare alcuna parola, non sapeva per
quale motivo, se fosse soltanto timore o semplicemente non sapesse da dove
iniziare.
Per
un attimo tornò di nuovo indietro nel tempo, facendo scorrere nella sua mente
gli Halloween degli anni già trascorsi, uno ad uno come se fossero libri di un
archivio da consultare, un archivio fatto di molto dolore e persino paure, ma
cercò di trovare dei momenti felici in quella melma che era il suo passato,
anche uno soltanto, un frammento che spazzasse via il resto.
E
ne riportò alla mente uno di quando era piccolo e sua madre lo teneva per mano
mentre passeggiavano per alcune stradine nascoste di Londra.
Poi
prese una sigaretta e l’accese con un tizzone ardente nel camino, non volle
guardare Harry che continuava a rimanere in silenzio, ma fissò il fuoco
aspirando fumo e ricordò.
Ricordò
di quando era bambino, troppo ingenuo per capire fino in fondo cosa succedeva a
casa sua e troppo piccolo per lasciarsi ferire da un insulto che aveva iniziato
una bella giornata per lui e per la sua famiglia.
«Almeno
questa sera potete confondervi tra le altre maschere di mostri. Potremmo
persino sembrare una famiglia normale e felice.»
Rammentava
ancora con esattezza quelle parole, il preciso momento in cui suo padre le
aveva pronunciate proprio davanti al suo sorriso dopo che la madre era entrata
in camera sua e gli aveva afferrato le mani per farlo uscire dall’armadio, da
quelle vecchie assi di legno dove si rifugiava spesso per non sentire le urla e
i pianti.
«Andiamo,
tesoro mio, questa sera mamma ti compra un sacco di dolci!» gli aveva detto con
quella sua voce quasi sempre spezzata, in un sorriso che gli era sempre
sembrato forzato e fasullo, per far finta che tutto andasse bene, ma aveva
sorriso anche lui, felice perché per una volta avrebbe potuto trascorrere
quella festa come tutti gli altri bambini della sua età. Trascorrerla con la
sua famiglia.
E
avevano camminato per quelle stradine di Londra, insieme, e ogni tanto aveva
sentito persino suo padre ridere tra tutte quelle maschere e dolci e colori, e
cantare una qualche vecchia canzone che lui non conosceva.
Ricordava
di avergli chiesto di insegnargliela: «Ti prometto che una sera di queste lo
faccio» gli aveva risposto, lui, però, non aveva mai imparato quella canzone né
nessun’altra, aveva finito persino per odiarla ogni volta che sentiva qualcun
altro cantarla, e aveva odiato ancora di più suo padre che non aveva mantenuto
nessuna delle sue promesse.
E
lo aveva abbandonato pur rimanendogli accanto, donandogli una presenza che non
c’era, un’assenza nella loro stessa casa.
Non
sapeva perché avesse scelto proprio quel ricordo tra tanti, forse perché in
quei passi compiuti in mezzo ai suoi genitori c’era qualcosa di bello, un
momento che era stato felice, uno soltanto, un attimo in qui la sua vita
famigliare era stata normale. Un attimo come tanti che tante famiglie vivevano.
Si
voltò a guardare per pochi secondi il giovane mago e tornò di nuovo al fuoco, a
quelle fiamme che sembravano aver impresso in esse quelle immagini che cercava di
tenere nella memoria. E poi bruciare.
E
avrebbe voluto bruciare quei pezzi di passato di entrambi, ma lo fissò ancora
per un poco e sorrise, un po’ amaro un po’ soddisfatto, pensando che aveva
avuto ragione Harry su quella Torre, erano diventanti gli uomini che erano
anche grazie a ciò che avevano vissuto, trovando la forza in ogni difficoltà
che avevano incontrato lungo il loro cammino.
«Severus, per favore, non scappare da me. Sei un uomo forte.
Non scappare.»
Quelle
parole erano sempre lì, nella testa, e allora ricordò ancora.
Ricordò
quella notte in cui Albus lo aveva legato ancora una
volta alla promessa fatta e lui era fuggito, dalle stanze del preside, dal
vecchio mago e persino da se stesso e si era rifugiato lì, in quella stessa casa
dove stava ancora aspettando le parole di Harry.
Dove
attendeva la fine di tutto.
E
aveva corso per miglia e miglia per togliersi tutto dai pensieri, per far
evaporare ogni dolore come fiato che si spezzava ad ogni passo, e aveva
continuato ad avanzare per arrivare in quel dannato giardino e strappare tutto
con le mani fino a farle sanguinare, ma quando si era trovato davanti a quelle
piante e fiori, tutto era cambiato di nuovo.
Neppure
aveva memoria di quello che ci fosse stato prima, ma nel momento esatto in cui
aveva arrestato la corsa, con il fiato ancora corto, distese di fiori erano
mutati, trasformandosi in un manto di rose bianche che venivano sostituite da
quelle nere, come se le stessero inghiottendo una ad una, e sembravano urlare
tutto l’odio che poteva esistere nel mondo mentre quell’oscurità azzannava
famelica ogni traccia di purezza, di umile e remota purezza, e per istanti
interminabili, quasi infiniti, aveva riversato quel disprezzo negli occhi
azzurri di Dumbledore e poi nel proprio cuore.
E
aveva sentito l’odore della morte sprigionarsi dai loro petali, il profumo
dell’addio che fuoriusciva in fili sottili ed invisibili da ogni loro foglia, e
li aveva sentiti, li aveva percepiti come schiaffi sul viso e colpi allo
stomaco, e si era voltato per scappare anche da lì, ma piccoli fiori avevano
iniziato a sbocciare davanti ai suoi piedi, investendolo del loro aroma.
Un
aroma buono che lo attraversò di solitudine come mai si era sentito, e avrebbe
voluto piangere e bruciare ogni cosa, e più la rabbia era aumentata più il
dolore lo aveva cinto come una catena troppo stretta, e non sarebbe servito a
niente scappare, lo aveva saputo fin da subito. Aveva saputo che il suo destino
sarebbe stato nient’altro che quello.
E
allora si era allontanato di pochi passi e si era gettato a terra e aveva
iniziato a piangere.
«Severus…» quella voce dannata lo aveva raggiunto anche lì,
tra le lacrime e gli umori che gli ostruivano occhi e parole, e mentre il
vecchio preside si era piegato per sfiorargli il viso con la mano annerita,
papaveri avevano iniziato a sbocciare intorno ai due uomini.
Snape
li aveva osservati a lungo, continuando a piangere, e più li aveva guardati e
più le lacrime erano aumentate, perché niente, niente avrebbe potuto consolarlo
dalla mancanza di Albus e niente avrebbe potuto
riempire il buco di dolore che gli avrebbe causato la sua morte. Il doverlo
ammazzare come un nemico qualunque.
Ricordava
di aver pianto a lungo tra le braccia di Albus, come
un bambino tra le braccia del padre. Maledizione stretta ad un’altra maledizione.
Consolazione che non c’era.
L’ennesimo
abbandono nella sua disastrata vita.
E
ritornò in quella stanza, davanti a quel camino, in attesa di un altro
definitivo abbandono. Di un altro dolore.
«Sto
aspettando.» Cancellò tutto quello che aveva riportato alla mente fino a quel
momento e si voltò a guardarlo, a fissare i propri occhi nei suoi. «Devo
entrarti nella mente e facciamo prima?»
«No
no! Certo che no. Stavo solo cercando le parole giuste.»
C’erano
parole giuste per dire a qualcuno che era finita? Esisteva un modo peggiore o
migliore per chiudere dei sentimenti in una scatola e gettarli in un mondo
irraggiungibile?
Le
parole, lo sapeva, potevano essere onde alte che distruggevano ogni cosa
davanti a loro.
E
lui ne aveva dette di parole avvelenate che avevano avuto il potere di far
esplodere tutto.
Sanguesporco. Un altro
ricordo.
E
per un attimo la propria voce gli rimbombò di nuovo in testa riportandolo
davanti a quella porta come non gli capitava da tempo.
L’ennesimo
abbandono.
Si
guardò le mani pallide, pulite e curate, ma sotto la pelle vide tutto ciò che
nel tempo aveva avvelenato, allontanandolo per sempre da sé.
«Dillo
e basta.»
Si
è mai pronti al dolore della fine?