Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: whitecoffee    15/10/2017    2 recensioni
❝«Ho sempre pensato che il cuore dell’uomo sia diviso in due metà esatte. Una felice, e l’altra triste. Come se fossero due porte, vicine. Le persone possono entrare e uscire da entrambe, non c’è un ordine prestabilito. Ovviamente, molto dipende dal carattere degli individui e dalle relazioni che vengono instaurate. Mi segui?» Domandò, e lei annuì. «Per TaeHyung, uno di questi usci è sprangato. Non si apre più. Costringendo chiunque a passare solo dalla parte riservata al dolore, non importa il tipo di rapporto che intercorra fra lui e gli altri. Perfino io, sono entrato da quell’unica porta. E mi sono rifiutato di uscirne, sebbene lui avesse più volte provato a sbattermi fuori»❞.
❝Tu devi sopravvivere❞.
- Dove TaeHyung impara che, rischiando, spesso si guadagni più di quanto si possa perdere.
assassin!TaeHyung | artist!JungKook | hitman/mafia!AU | boyxgirl
-
» Storia precedentemente pubblicata sul mio account Wattpad, "taewkward".
» Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=92wl42QGOBA&t=1s
Genere: Angst, Dark, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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XX.
REFLECTION, pt. II


Every man is more than just himself; he also represents the unique, the very special and always significant and remarkable point at which the world's phenomena intersect, only once in this way, and never again. That is why every man's story is important, eternal, sacred; that is why every man, as long as he lives and fulfills the will of nature, is wondrous, and worthy of consideration. In each individual the spirit has become flesh, in each man the creation suffers, within each one a redeemer is nailed to the cross.
 




The world is just another name for despair.
My height is just another diameter for the earth.


 
 
 
I am all of my joy and anxiety.
It repeats every day, the love and hate directed to me.

 
 

Il secondo luogo che visitò, venne raggiunto in maniera più consapevole, sebbene facesse anch’esso parte di una vecchia routine, ormai registratasi fin dentro le sue ossa. Si fermò qualche istante dinanzi all’imponente struttura ospedaliera, che si stagliava massiccia di fronte alla sua piccola figura. Erano le cinque del mattino. Orario che, di sicuro, non rientrasse in quello previsto per le visite. Eppure, non era la prima volta che giungeva in tempi tanto inusuali nemmeno lì. Camminò lentamente ed entrò nella sala d’aspetto del pronto soccorso. Il tipico odore di disinfettante chimico, mischiato all’aroma di altri prodotti farmacologici, gl’investì l’olfatto.
Era parecchio che non metteva piede in luoghi simili, pensò, non senza una punta di sollievo. Detestava mortalmente gli ospedali. Non che credesse che qualcuno, sulla faccia del pianeta, potesse amarli. Tuttavia, v’erano sicuramente delle persone in grado di tollerarli in maniera più solida, rispetto ad altre. E TaeHyung non era una di quelle. Strutture di un certo tipo, lo facevano sentire oppresso. Braccato, circondato senza via di fuga. Ovunque si voltasse, brutti ricordi gli assalivano la mente, proiettando evanescenti immagini di ricordi sepolti nello strato più profondo della sua memoria. La notte in cui aveva trascinato SeokJin lì, caricandoselo sulle spalle, rifiutandosi di credere che fosse troppo tardi. le mani e il tessuto della maglietta sporche di sangue, l’espressione sconvolta dipinta sul volto, quando i medici avevano dovuto separarlo dal suo amico. Le urla, i pianti. Le occhiate di pietà e compassione di coloro che attendevano pazientemente il turno di essere visitati. Avevano tutti pena di quel povero ragazzino con le ossa scosse dal tremito, lo sguardo perso ed il pallore cinereo. Dov’erano, i suoi genitori? Ce l’aveva, una famiglia? E perché era coperto di sangue? Forse, si trattava di un teppista. Oppure, poteva essere stato coinvolto in una rissa. In ogni caso, meglio osservarlo da lontano. Proprio come si guardavano gli animali allo zoo: dall’altro lato delle sbarre.
TaeHyung scosse brevemente la testa, scacciando le reminiscenze via dagli occhi della sua mente. Il pronto soccorso era popolato come al solito. La cacofonia di suoni, voci e rumori si riversò nel suo udito, assordandolo. Sapeva bene che quel luogo fosse sempre in sovrannumero, ad ogni ora del giorno. I casi della vita erano illimitati, e, per strane circostanze, parecchi perfetti estranei si ritrovavano a condividere un momento particolare della propria esistenza. Nello stesso modo in cui anche lui e Park JiMin si erano conosciuti. Buffo come un’amicizia potesse iniziare e finire proprio all’interno di un ospedale.
Il giovane sgusciò con facilità fino agli ascensori, infilandosi nel primo vano disponibile, e premendo il tasto 5. La macchina lo sollevò in silenzio, per qualche secondo. Attimi durante i quali, TaeHyung si appoggiò con le spalle alla parete d’acciaio, incrociando i piedi. Quanto tempo era che non passava a far visita al suo amico? Un anno? L’avrebbe trovato cambiato, in qualche modo? Aveva forse perso qualche avvenimento significativo, in quel lasso di mesi?
Le silenziose porte automatiche si dischiusero con un morbido suono metallico, strappando il ragazzo alle sue domande. Scivolò fuori, aspettandosi il reparto deserto. E così fu. Non un’anima percorreva quei corridoi illuminati dai neon azzurrati. Il cui pavimento era rivestito da piastrelle in finto marmo, e le pareti intonacate di una dubbia sfumatura di verde. Il giovane si era sempre domandato per quale ragione scegliessero sempre delle cromie tanto balorde. JungKook gli aveva spiegato che determinate sfumature erano utili all’occhio umano, affinché si rilassasse. Ed egli aveva allora provato ad immaginarsi degli ospedali interamente riverniciati di giallo, o blu elettrico. Ma dovette ammettere che, dopo un po’, ritrovarsi circondato da simili tinte potesse essere snervante. Come la continua presenza di urla all’interno del condotto uditivo. Fastidiose e laceranti.
Camminò silenziosamente lungo tutta la corsia, le cui pareti vetrate restituivano delle chiare immagini a diverse gradazioni di dolore. Pazienti addormentati, con i loro cari chini sul letto, addormentati con il volto fra le braccia, stringendo loro la mano. Oppure, degenti chiaramente svegli, intenti ad osservare l’alba, completamente soli. Molti di loro, però, sembravano rapiti dal sonno. Che si dipingeva in maniera più o meno pacifica sui visi di diverse età e genere. TaeHyung si sforzò di guardare fisso davanti a sé, alla ricerca della stanza 304. Raggiunse la parete vetrata, fermandosi silenziosamente.
Il suo amico era lì. Disteso. Park JiMin dormiva un sonno profondo da ben due anni, ormai. Pochi giorni dopo la morte di SeokJin, non si era più svegliato. Eppure, i suoi tratti vitali rientravano perfettamente nella norma. Come se si fosse semplicemente addormentato, decidendo di vivere nei sogni. Il ragazzo abbassò la maniglia della porta e s’introdusse nella stanza. L’unico rumore udibile, era il periodico “bip” del macchinario attivo alle sue spalle, il quale indicava pressione e battito cardiaco. L’aspetto del suo amico era rimasto invariato, in un anno intero. A dire il vero, egli sembrava essere fermo nel tempo, immobile nei suoi diciannove anni. Incarnato della stessa tinta del latte dopo avervi immerso una sola goccia di caffè, pelle liscia e aria tranquilla. I tratti del suo volto erano distesi in un’espressione pacifica. Le palpebre abbassate ed immobili, le piene labbra rosate appena dischiuse. I capelli, lisci e voluminosi, gli ricadevano sulla fronte, ormai ricoprendola completamente. Dovevano essere cresciuti, rimanendo lucenti e tornando del loro colore naturale. Un profondo ebano, scuro come il manto notturno privo di stelle. Il suo corpo, nascosto dagli abiti dimessi dell’ospedale, aveva mantenuto la propria forma e tonicità. Forse, grazie agli esercizi di fisioterapia che venivano eseguiti sui suoi arti ogni giorno. Era ancora piccolino e robusto, una miniatura pittorica dalle sembianze angeliche.
TaeHyung si avvicinò alla sua mano, stringendola nella propria. Le esili dita quasi bambinesche scomparvero, all’interno della stretta. Egli prestò attenzione a non spostargli il braccio, evitando d’intralciare la flebo. Quel contatto parve non alterare la quiete inumana del suo viso, che continuava a dormire beato.
«Hey, Chim» lo chiamò il giovane, usando lo stesso nomignolo di quando avevano sedici anni e correvano per le strade di Seoul. «Scusami per la lunga attesa». Il silenzio che quel corpo gli rivolse lo spronò ad andare avanti. D’altronde, aveva monologato con se stesso per molti mesi, le prime volte in cui era andato a trovarlo. All’inizio, gli era perfino sembrato strano ed inconcludente. Ma poi, ci aveva fatto l’abitudine. Convincendosi che il suo amico potesse realmente sentirlo. A volte, gli portava perfino le cuffiette, facendogli ascoltare la sua musica preferita. Oppure, cantava per lui. TaeHyung aveva una splendida voce dal tono profondo e il timbro vellutato. Un tappeto oceanico, in grado di adattarsi a vaste estensioni vocali. JiMin amava il suono della sua voce, chiedendogli sempre di cantare per lui, quando tutti trascorrevano le giornate nel suo appartamento. Tuttavia, dopo la dipartita di SeokJin e il suo sonno atavico, egli aveva perso ogni intenzione di farlo. Gli era semplicemente impossibile, così come per il suo amico svegliarsi. Non aveva mai più cantato in altre occasioni al di fuori di quelle.
«Sai, oggi ho visto Jin» riprese, conciliante. «Sono andato a trovarlo al cimitero, ma mi ha praticamente cacciato via a calci. Dicendomi che era ora di appartenere a qualcosa di vivo. A qualcuno. Che non avrebbe più voluto vedermi lì, per almeno qualche mese. Non è cambiato di una virgola, Chim. È esattamente uguale a prima. Proprio come te» e s’interruppe. Vedendo le palpebre del giovane avere un guizzo inaspettato. Sbarrò gli occhi, agitandosi lievemente. E allora continuò a parlare. Gli raccontò di Cyane, di JungKook, di come da quel momento in poi avesse potuto condurre una vita tranquilla. Come quella di qualsiasi altro ventunenne normale. Che non aveva più motivo di essere triste. Disse anche di aver pianto molto, negli ultimi tempi. Probabilmente dando fondo ad anni di riserve di lacrime. Si commosse anche lì, ma si rifiutò di crollare. Gli disse che NamJoon era ormai diventato il numero uno della sua facoltà di filosofia. Come c’era da aspettarsi. E che ancora impazziva per i lollipops. Proprio come anni prima. TaeHyung continuò a parlare, dicendo qualsiasi cosa gli passasse per la mente. Sentendosi improvvisamente lo stesso sedicenne che rideva forte nei cinema, permettendosi di fare delle battute, di ridere. Proprio come aveva lentamente imparato nuovamente in quei mesi di convivenza con Cyane e JungKook.
Quando l’alba fu ormai una chiara presenza e non un’intuizione sonnolenta, nel cielo sopra Seoul, decise di congedarsi. Prima che qualche capo reparto decidesse di fare un giro di ricognizione per le stanze e l’avesse trovato lì. Protese una mano verso la guancia di JiMin, sfiorandola gentilmente. La sua pelle era morbida e vellutata, come quella di qualsiasi giovane della sua età. Era difficile credere che dormisse tanto profondamente, senza esercitare alcuna attività.
«Ci vediamo, Chim. La prossima volta che verrò, tu sarai sveglio. Così potrò presentarti Cyane e anche JungKook. Potrai accoglierli con il tuo solito sorriso timido, e gli occhi a mezza luna» gli disse. «Quello che ha detto Jin vale anche per te. Il tuo mondo è qui, insieme a noi. Non è nei sogni. Ritorna a ciò che ti appartiene, JiMin» scandì. «Manchi tanto a tutti, sai. Sono anni che non riempio la testa di qualcuno con le piume» commentò, sorridendo amaramente. Le risate dei party notturni privati che loro davano nel vecchio appartamento, si riversarono nelle sue orecchie. Come se le sentisse chiare e forti per la prima volta, proprio lì davanti. Vedeva il ragazzo provare a difendersi dai loro attacchi alzando le braccia, ma inutilmente. I cuscini si disfacevano come burro, seminando la loro imbottitura in ogni dove, attaccandosi a qualsiasi superficie disponibile.



“Poi vi farò pulire con la lingua”.


 


“E dai, che ti stai divertendo anche tu”.


I sospiri di Jin, le urla di NamJoon, le sue risate. La musica, forte. I pavimenti disseminati di bicchieri rotti, piatti di plastica, residui di cibo e festoni semi-distrutti.  Gli parve tutto così vivido. Batté le palpebre, scuotendo il capo. Lanciò un’ultima occhiata al suo amico e si volse. Risoluto. Certo che, se fosse rimasto un istante di più, sarebbe nuovamente crollato in singhiozzi.

 

 


 


Hey you, who’s looking over the Han River… if we bump into each other while passing, would it be fate? Or maybe we bumped into each other in our past life. Maybe we bumped into each other countless times.

 
 

Quando uscì dall’ascensore, s’imbatté in una scena che non si sarebbe mai aspettato. Udì una ragazza urlare “HoSeok-ssi”, correndo ad abbracciare un giovane di qualche anno più grande di lui. Stretto in un completo giacca e cravatta dall’aria costosa ed elegante. Quel nome risuonò come un campanello d’allarme nella mente di TaeHyung. Il quale si appiattì al muro poco distante, rendendosi conto che i due avevano cominciato ad avanzare nella sua direzione. Tirò fuori il cellulare e finse di trafficarci, per non dare nell’occhio.
Come si era aspettato, entrambi non badarono a lui. “HoSeok-ssi” sembrò attraversare un serio momento di crisi. Tanto che dovette sedersi sulla panchina accanto al distributore automatico di bevande, proprio nei pressi degli ascensori. Il giovane si permise di sollevare lo sguardo, registrandone l’aspetto. Era un distinto ventiquattrenne, dal volto accartocciato in una smorfia di dolore. Al di là di quella chiara manifestazione di sofferenza, avrebbe potuto essere piuttosto avvenente. Zigomi alti, labbra finemente disegnate ed occhi scuri dal taglio felino. Incarnato latteo e fisico asciutto, evidenziato dal modo in cui il completo gli scivolava indosso adattandosi perfettamente alla sua complessione. L’unica nota caratteristica del suo aspetto, era la strana sfumatura aranciata dei suoi capelli. Che viravano verso lo stesso colore delle zucche, facendo saltare in mente a TaeHyung l’autunno. Con i suoi colori, odori e il fruscio delle foglie che cadevano.
Abbassò nuovamente lo sguardo, mimetizzandosi con l’ambiente circostante. La donna accanto ad HoSeok, aveva tutta l’aria di essere una segretaria. A giudicare dall’aspetto costoso del suo tailleur, dalle decolleté eleganti e la piega fresca di parrucchiere, doveva trattarsi della personale assistente di qualcuno d’importante.
«L’abbiamo perso, HyeJin-ssi» commentò il ragazzo, con tono grave. Ella trasalì.
«Ma… il signor Park sembrava essersi ripreso» ribatté, non comprendendo. Quel nome, associato all’immagine del ragazzo elegante, scattò come un dardo nella mente di TaeHyung.
«I medici hanno detto che la sua situazione si è aggravata all’improvviso. Che il proiettile era andato troppo a fondo» descrisse HoSeok, coprendosi il volto con le mani. «È stata tutta colpa mia. Non sono riuscito a proteggere lei, e nemmeno lui».
«HoSeok-ssi, non si colpevolizzi così» intervenne lei, posandogli gentilmente le dita sulla spalla, cercando di confortarlo senza invadere il suo spazio personale. Egli scosse il capo.
«Sono mesi che Cyane è sparita, e non c’è verso di riuscire a ritrovarla. Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere ovunque».
Il ragazzo si pietrificò sul posto. Lui era Jung HoSeok. La guardia del corpo del padre di Cyane. La persona a lei più cara. Lo scudo dietro quale egli stesso si fosse riparato, per non permetterle di scappare via. Era lui, lì dinanzi al suo viso. Un ventiquattrenne intento a commiserarsi per delle colpe che non aveva. Credeva che la sparizione della giovane fosse la diretta conseguenza di una sua distrazione, e anche la morte dell’uomo per cui lavorava. Non poteva certo sapere che Park Ferdinand fosse il bersaglio che almeno tre clan malavitosi si contendessero ferocemente, come cani attorno ad un succulento pezzo di carne. Lui era una semplice guardia del corpo. Probabilmente, non immaginava nemmeno un simile retroscena, dietro la figura del diplomatico a cui prestava i suoi servigi.
«HoSeok-ssi, sappiamo entrambi quanto lei tenesse a quella ragazza. Ma il suo lavoro era quello di seguire il presidente Park, non sua figlia. Cerchi di recuperare un briciolo di obiettività e realismo. Lei non ha a nulla a che vedere con l’incidente della giovane Park e le consiglierei di non dispiacersene in maniera così evidente. Un simile atteggiamento potrebbe costarle caro, all’occhio dell’opinione pubblica» lo redarguì la donna, il cui tono lasciava intuire parecchie interpretazioni sottintese, che TaeHyung poté solo provare ad indovinare. Dopo tutto, forse non era affetto fraterno, quello che lo legava alla ragazza. Lo vide passarsi una mano sul volto e annuire.
«Ha ragione, HyeJin-ssi. Devo… devo occuparmi di organizzare alcune cose» disse, e si alzò, sfilandosi un cellulare di tasca e portandoselo all’orecchio. I suoi passi non producevano alcun rumore. La donna lo guardò andar via e si lasciò sfuggire un sospiro. Allora, anche il giovane decise di allontanarsi dall’ospedale, metabolizzando quanto avesse appena visto. Ferdinand era morto. Ignorava per mano di chi, e francamente non volle neanche saperlo. HoSeok soffriva visibilmente per la mancanza di Cyane nella sua vita, ed intuì che non si sarebbe facilmente arreso finché non l’avrebbe ritrovata. Rimanere in Corea del Sud sembrava sempre meno allettante, come ipotesi.
TaeHyung lanciò un’occhiata al suo orologio da polso, arrestandosi ad un semaforo. Le sette del mattino. Era così presto, nonostante gli sembrasse essere trascorsa un’eternità, lungo tutta la nottata appena passata. Immaginò che i suoi coinquilini fossero ancora immersi fra le braccia di Morfeo. Ritornare prima del loro risveglio, avrebbe senza dubbio agevolato la situazione. Avrebbe potuto semplicemente dire loro di essere sceso a prendere la colazione. E non sarebbe stato costretto a mentire per coprire i viaggi che il suo corpo avesse affrontato quella notte.
Sbadigliò, mentre la luce rossa del semaforo si spegneva, e la verde segnalava ai pedoni che fosse possibile attraversare in sicurezza. Il suo primo giorno di libertà, si era presto trasformato in un faccia a faccia con le conseguenze delle sue azioni. Ma, da quel momento in poi, il mondo avrebbe cominciato a girare secondo le sue regole. Nessuno gliel’avrebbe più impedito, finalmente.

 
 
 
 


It’s not like I believe it, I’m just bearing it. Because this is all I can do. I want to stay. I want to dream more. But it’s time to leave. Yeah, it’s my truth. I will be full of scars. But it’s my fate. Still, I want to struggle. Maybe I can never fly. Just like those flowers, just as if I had wings. Maybe I never will. Maybe I can’t touch the sky. But I still want to outstretch my hand, I want to run just a little more.

 

 

 
Rientrò a casa nel momento esatto in cui JungKook e Cyane uscivano dalle loro camere, con gli occhi mezzi chiusi e l’andatura indolente, tipica di chi avesse ancora la morsa del torpore stretta attorno agli arti. Lo guardarono, incerti. Si chiesero perché avesse un’aria felice, genuina e le guance stranamente più colorite del solito. Stringeva al petto una confezione proveniente dalla Bakery non molto lontana dal loro appartamento, al cui interno giaceva probabilmente la loro colazione.
«Hyung, a che ora sei uscito…?» Chiese JungKook, la voce rauca ancora impastata dal sonno. Si strofinò un occhio, sbadigliando sonoramente. «Hai portato la colazione?» Domandò poi, occhieggiando la colorata busta piuttosto grande. TaeHyung sorrise, felice.
«Appena sarai in grado di poterlo fare, voglio che tu prenoti un volo per tre» gli disse, entusiasta. «Andiamo alle Hawaii».




   
 
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