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Autore: _Lady di inchiostro_    16/10/2017    6 recensioni
C’è chi dice che la nostra strada è già stata decisa, che è il destino che stabilisce quali difficoltà dobbiamo incontrare durante il cammino, o chi ci accompagnerà durante il percorso.
C’è chi dice che la nostra strada, invece, ce la costruiamo da soli, che siamo noi a decidere chi incontrare, siamo noi padroni delle nostre azioni.
Iwaizumi Hajime aveva sempre creduto nella seconda opzione. Finché non ha incontrato Oikawa Tooru. E allora si chiese se il destino non volesse farli incontrare per davvero, in qualsiasi modo possibile.
***
[Future Fic and What if?] [Tanto angst e cose belle ♥]
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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XII



~
 



[8 marzo 2017]



Era passato praticamente un mese dal funerale. Le cose, all’interno della famiglia di Oikawa, si stava stabilizzando, e suo padre aveva cominciato a vedere qualcuno per fare in modo che i sensi di colpa non lo rodessero del tutto.
Oikawa era tornato a giocare, e pareva più attivo che mai. Era l’unico modo che conosceva per svagare la mente, del resto; e poi, voleva che sua madre lo vedesse felice, ovunque ella fosse.
E in quel periodo, se da un lato soffriva per via di tutte le pratiche ancora da mettere in ordine e altre questioni che gli stringevano l’intestino in un nodo stretto, almeno sapeva che accanto a lui avrebbe avuto Iwa-chan.
Aveva mantenuto fede alla sua richiesta, erano partiti assieme da Miyagi. Iwaizumi era riuscito a farsi dare un altro paio di giorni, ed era rimasto con lui, aiutandolo anche a sistemare tutti gli oggetti che erano appartenuti a sua madre. Era ancora troppo presto per disfarsene, la ferita bruciava troppo, ma era giusto che venissero messe al loro posto, un po’ come se la donna fosse ancora in casa. Oikawa non ricordava come mai fosse venuto da lui e, di punto in bianco, avessero cominciato a ripiegare i vestiti e a parlare di lei. Hajime l’aveva lasciato fare, pensando che per lui fosse un modo per sfogarsi, e in effetti era così.
Parlare con Hajime lo faceva stare bene. In quel periodo aveva bisogno di parlare, parlare e parlare. E il fatto che Iwa-chan ci fosse, che fosse partito con lui, che venisse a trovarlo tutti i giorni, dopo gli allenamenti, per lui contava come tutto l’oro del mondo.
Quella zazzera rossa aveva ragione: alla fine, era stato Hajime ad avvicinarsi a lui, proprio quando ne aveva più bisogno. Gli aveva teso una mano proprio quando stava per affondare. Aveva abbassato la guardia durante l’ultimo set.
Durante il viaggio non successe nulla di particolare, fu sempre Tooru a parlare, e non solo di sua madre, ma anche del più e del meno, chiedendogli ogni tanto di Akane e del lavoro, e Hajime rispondeva sempre. Amava il fatto che l’ascoltasse, nonostante la maggior parte delle volte dicesse baggianate. Da quel momento, Iwaizumi si decise a non perderlo più di vista. I messaggi non bastavano, aveva capito che Oikawa aveva bisogno di un contatto reale, di vedere la persona in viso, e non di un contatto virtuale. Per questa ragione, si faceva trovare sempre fuori dal palazzetto, in attesa che il ragazzo uscisse, e percorrevano la strada a piedi, fino a raggiungere la casa del setter.
Era vero, Oikawa aveva bisogno di un contatto umano, ma non solo basato sulla comunicazione verbale. Aveva bisogno di toccarlo, di sentire il profumo di Iwa-chan dentro le narici, di abbracciarlo, di avvertire quelle mani che sfioravano i suoi capelli e che poi stringevano le sue. Era successo, durante le volte in cui stavano passeggiando, che le dita di Oikawa si fossero ritrovare a stringere quelle del giornalista, ma lui non parve ritrarsi, come avrebbe fatto poco tempo prima, né sembrò infastidito.
Che Iwa-chan avesse abbassato la guardia sino a quel punto…?
Che si fosse seriamente innamorato di lui?
Hajime questo non lo sapeva; o meglio, aveva capito che il sentimento che nutriva per Oikawa era decisamente più profondo di quello che, a suo tempo, aveva provato per Minori. E questa cosa, lo spaventava un po’.
Per quanto si sforzasse, non riusciva a chiamare quella cosa con il nome giusto. La sua mente si rifiutava, troppo radicata nelle sue convinzioni per provare a vedere le varie parti, i vari momenti vissuti con Tooru, in un tutto più completo.
Ancora, c’era la convinzione che lui fosse etero, che era stato sposato, che fosse padre, ed erano cose che non poteva accantonare e basta, avevano un suo peso. Significava cancellare per sempre le sue credenze, quelle di cui era sempre stato convinto. Anche per chi conduce una vita poco agiata o non ha avuto un’infanzia esattamente felice, ci sono delle convinzioni che si portano dentro, sulla propria persona, ed è tipico di tutti quanti gli esseri umani.
Era difficile, per Hajime, estirpare quelle convinzioni e gettarle via.
Si sentiva diviso tra la persona che aveva sempre creduto di essere, e un nuovo Hajime, quello che avrebbe voluto ricambiare il tocco delle dita di Oikawa, o che si imbarazzava a sistemare gli oggetti della madre del giovane, o che lo ascoltava parlare e basta. Delle partite, del fatto che Eiko fosse rimasta sua amica, del caffè orrendo che aveva preso quella mattina, di sua madre che non gli aveva mai fatto vedere il film di Bambi per intero… Di tutto. Dalle stupidaggini, ai ricordi, alle cose serie.
La prima volta, era stato un gesto spontaneo, gli aveva scritto un messaggio per avvertirlo e subito dopo era sceso per strada. Non aveva preso neanche la macchina, e quella volta fu il setter a dargli uno strappo a casa. Parlarono lì, dentro l’abitacolo, e per lui il tempo parve troppo breve, figurarsi per Oikawa. La seconda volta e quelle avvenire, fu una cosa sistematica, e Oikawa aveva smesso di prendere la macchina.
Hajime, ogni tanto, si riguardava allo specchio e non si riconosceva. Non si riconosceva in quello che stava facendo.
Lui non metteva mai se stesso al primo posto, faceva sempre quello che fosse giusto per sua figlia e, un tempo, per sua moglie. E soprattutto, lui non illudeva mai un amico.
Hajime stava illudendo Tomoko, facendole credere che la loro relazione potesse avere qualche speranza, mentre lui si vedeva ancora con Oikawa e faceva maturare quel sentimento senza nome – o che non poteva essere nominato. Aveva visto più spesso il setter di quanto non avesse visto lei, quasi come se quell’ora e mezza di camminata fosse diventata di vitale importanza, mentendole spudoratamente.
Tomoko ce la stava mettendo tutta, e sembrava anche parecchio felice.
E lui? Cosa stava facendo per renderla felice?
Nulla. Era più impegnato a preoccuparsi per Oikawa, per le sue condizioni, che non di quello che era giusto fare con Tomoko. Dovevano uscire fuori, doveva portala al cinema, a mangiare qualcosa assieme, e… e… ed erano tutte cose che aveva già fatto con Oikawa.
Tomoko aveva notato che c’era qualcosa che non andava in Hajime, che sembrava anche più distratto del solito, ma non accennò mai a nulla. E del resto, non sospettava minimamente che il ragazzo continuasse a vedersi con Tooru.
Tuttavia, per il momento, a lei andava bene così. Dovevano procedere per piccoli passi, continuando a parlarsi normalmente in ufficio e a vedersi quando potevano. Piccoli contatti fisici di poco conto, e ogni tanto qualche piccolo bacio.
Baci che facevano esplodere la ragazza dalla contentezza, ma che ad Hajime non lasciavano quasi nulla. E, per la prima volta, si chiese che cose avrebbe provato se avesse baciato Oikawa un’altra volta…
«Iwa-chan?» La vocetta stridula del setter lo riscosse dai suoi pensieri, accorgendosi solo allora che erano già arrivati davanti casa di Oikawa. «Tutto bene?» gli chiese.
Hajime guardò prima l’abitazione, come se fosse la prima volta che si recava lì, poi il castano e scosse la testa. «Sì, scusami. Stavo ragionando su una cosa.»
«Riguarda quello che ho detto?» Il giornalista alzò un sopracciglio, e Oikawa intuì che probabilmente si era perso un pezzo del suo discorso. «Sul fatto che ci abbiano invitato in Italia per disputare un paio di partite…»
«Avete ancora due mesi per prepararvi, se è questo il problema» disse.
Il ragazzo annuì: Iwa-chan aveva capito tutto senza bisogno che lui glielo rispiegasse, e soprattutto senza aver sentito metà della conversazione. A volte era impressionante. Loro erano impressionanti. Sembravano capirsi al volo, come se si conoscessero da una vita.
«Bene, allora ci vediamo domani alla stessa ora!» Hajime si voltò, ripercorrendo la lunga strada che avevano fatto, se non fosse che Oikawa lo richiamò poco dopo.
Si girò ancora, perplesso, il setter che si era avvicinato a lui. «Trasmettono una partita di pallavolo, stasera…» disse, titubante, e ci mise un po’ prima di formulare la successiva frase. «Ti andrebbe di… insomma, ti andrebbe di entrare?»
Gli occhi smeraldini di Iwaizumi, se fosse stato possibile, si fecero più grandi. Era a conoscenza che avrebbero trasmesso quella partita in televisione, ne aveva persino parlato con Tomoko, cedendole volentieri l’articolo e lasciando che fosse lei a parlarne. Gli aveva persino proposto di vederla assieme, ma Hajime si era rifiutato, inventando scuse su scuse che, probabilmente, la ragazza non si era neanche bevuta, ma non disse ugualmente nulla. Non si aspettava di certo che Oikawa gli chiedesse la stessa medesima cosa, d’altronde si trattava di una partita tra due università che erano sempre state rivali della sua, poteva benissimo non interessargli. Ma si parlava pur sempre di Oikawa Tooru, non si vergognava a dire che in realtà era un nerd fissato con la pallavolo. Se il mondo l’avesse conosciuto meglio, avrebbe detto tutto tranne che fosse uno stronzo di prima categoria dannatamente seducente – cioè, anche questo faceva parte della sua natura, ma non solo. Era ben altro.
Hajime stava per dirgli che per quella sera avrebbe rinunciato, magari avrebbero fatto un’altra volta – o forse mai –, decidendo di tornare a casa e riflettere su quanto era successo in quell’ultimo periodo. Era stato troppo impegnato, diviso tra due delle persone più importanti della sua vita – perché sì, anche Oikawa lo era –, e non aveva avuto modo di elaborare una strategia, di prendere una decisione, di capire che cosa avrebbe dovuto fare. Credeva che quella sera, in cui aveva detto a Tomoko che non si sarebbero visti, sarebbe stata perfetta, ma adesso…?
Mosse appena le labbra, e tutte le spiegazioni che aveva elaborato nella sua testa sparirono come la polvere con un colpo di scopa, lasciando la mente vuota. Senza che lo volesse veramente, mormorò una piccola parolina, in un flebile sussurro, tanto che entrambi credettero di aver sentito male. «Sì…»
Oikawa rimase un attimo interdetto. Era vero, aveva chiesto ad Iwa-chan di entrare in casa, ma non si aspettava una risposta affermativa, era quasi certo che gli avrebbe detto di no. Era stato puro istinto quello che l’aveva spinto a fargli quella proposta, e si rese conto che non aveva nulla da offrirgli per cena e che casa sua era nel caos più totale.
Complimenti, Tooru, bella mossa! 
«Okay…» mormorò, abbassando la testa, e cercando le chiavi di casa dentro la tasca della tuta. 
Aprì prima il portoncino, percorrendo poi il vialetto, e per la prima volta Iwaizumi ebbe modo di osservarlo meglio: c’era la macchina del ragazzo posteggiata sulla sinistra, mentre la restante parte delle casa era circondata da un giardino con un paio di alberi e cespugli fioriti. Si chiese se fosse lo stesso setter a occuparsene, o se chiamasse qualche giardiniere per farlo.
Mentre si trovava dietro le spalle del ragazzo, pensò di indietreggiare e darsela a gambe. Non doveva essere lì. Non doveva dare false speranze a Tooru. Non dovevano passare del tempo insieme in quel modo, lui lo stava facendo solo perché sapeva come ci si sentiva dopo la perdita di una persona cara, lo stava facendo perché Oikawa aveva bisogno di parlare con qualcuno. Non doveva fare questo. Non a lui, non a Tomoko…
Ma quando stava per dire al setter che si era ricordato di avere delle cose da fare a casa, e che poi avrebbe dovuto chiamare Akane, il ragazzo aveva già aperto la porta di casa, e a quel punto non ce l’aveva fatta a mentire al giovane.
Complimenti, Hajime, bella mossa!
Lo accolse il buio più totale, e quando il castano accese la luce, Hajime sbarrò appena gli occhi: non se la ricordava così incasinata, l’ultima volta splendeva più di uno specchio.
«Mi dispiace…» disse l’altro, mentre si toglieva le scarpe da ginnastica. «Di solito odio tenere le cose in disordine, ma in quest’ultimo periodo mi sono arrivati un sacco di pacchi per posta, e…»
In effetti, c’erano diversi scatoloni sparsi per il salotto, e probabilmente contenevano tutto quello che aveva lasciato nella precedente casa. Dopo essersi tolto le scarpe – e dopo che Oikawa gli aveva passato un paio di ciabatte inutilizzate, le stesse che aveva indossato l’ultima volta che era entrato lì –, si avvicinò ad uno degli scatoli, e si rese conto che non provenivano tutti da Miyagi: alcuni erano stati spediti dalle zone più disparate del Giappone, e contenevano pensierini di poco conto.
«Il mio fanclub» disse Oikawa, alle sue spalle, mentre richiudeva uno degli scatoli. «Nell’ultimo periodo mi hanno tartassato di regali e barrette di cioccolato, per farmi stare meglio.»
«Ah» esclamò Hajime, leggermente infastidito.
«Se vuoi puoi aiutarmi a magiare tutto questo cioccolato…» disse, sorridendo sotto i baffi.
Dapprima, il giornalista non rispose alla provocazione, poi si voltò verso di lui, quasi indignato. «Cosa?»
«Io non posso mangiarlo, seguo una dieta!»
«E quindi io sarei la tua pattumiera ambulante?»
Non rispose, ma la sua espressione diceva tutto, e Hajime lasciò la foto che rappresentava Oikawa con il suo fanclub ufficiale – e che forse gli aveva mandato la presidentessa –, per afferrare un cuscino lasciato lì per terra e lanciarglielo in faccia.
Il ragazzo riuscì a pararsi con le mani, e glielo rilanciò poco dopo, quando Hajime aveva già afferrato un altro cuscino e glielo stava rilanciando di rimando. Alla fine, iniziarono una piccola lotta, proprio come quella volta al parco, quando avevano cominciato a picchiarsi e Oikawa si era ritrovato sotto ad Iwaizumi.
Per un attimo, entrambi credettero che tutti i problemi che avevano, che parevano insormontabili e che li allontanavano sempre di più, non esistessero. Potevano comportarsi come due diciassettenni senza che affiorassero sensi di colpa o altro. Potevano ridere di gusto senza che nessuno li giudicasse. E se volevano, tutto questo poteva essere reale, potevano stare assieme, e Hajime si disse che forse era possibile, che forse avrebbe potuto lasciare da parte le sue preoccupazioni inutili. Che forse, ne sarebbe valsa la pena, se poteva bearsi di quella risata ogni volta che voleva.
Fu Oikawa a ruzzolare per terra, scivolando in una delle cartoline che aveva lasciato sparse sul parquet, finendo sopra ad Iwaizumi. Sulle prime, scoppiarono entrambi a ridere, talmente forte da riempiere la stanza, attraversando persino le pareti, la fronte del ragazzo premuta contro il petto del giornalista. E prima che riuscisse a fermarsi, la sua risata era scemata del tutto e le sue dita stavano percorrendo la linea dei muscoli che si intravedevano sotto la maglietta. La pelle di Iwaizumi tremò, come percossa da una scarica elettrica, e gli occhi color cioccolato di Tooru incontrarono quelli verdi di Hajime. Il respiro gli si mozzò quando il giornalista scostò la sua frangia con un movimento delicato della mano, in modo da poterlo vedere meglio in viso.
Le sue preoccupazioni urlavano da lontano, ma per una volta Hajime non voleva dargli ascolto.
Non ce la faceva più. Non ce la faceva più a vedere Oikawa in quel modo. E sapeva che si sarebbe pentito quasi subito di quello che avrebbe fatto, ma in quei pochi secondi non aveva più importanza.
Le loro bocche stavano per incontrarsi, ma si fermarono a metà strada, poiché un telefono aveva cominciato a vibrare improvvisamente. Si guardarono dritti negli occhi, per poi scostare lo sguardo immediatamente, Iwaizumi che tentò di ripescare il suo cellulare dalla tasca dei jeans, mentre Oikawa si rimetteva in piedi.
Quasi trasalì quando vide chi era il mittente della chiamata. «Akane! Scusami, stavo per chiamarti io…»
Disteso ancora per terra, piegò appena la testa all’indietro, intravedendo un Oikawa che sistemava gli altri scatoli, il viso velato di malinconia. Iwaizumi si passò una mano sul volto, mentre sua figlia aveva cominciato a parlottare della sua giornata, e si chiese se il destino non gli stesse ricordando che c’erano delle cose che doveva risolvere prima di lasciarsi andare del tutto. E, in effetti, era proprio quello che stava facendo.






La chiamata con Akane durò poco, giusto il tempo di raccontare la loro giornata – anche se Hajime non aveva molto da raccontare – e darsi la buonanotte. Aveva detto alla bambina che, per quella sera, non si sarebbero visti, e quando la sua risposta monosillabe arrivò moscia dall’altra parte del telefono, qualcosa lo attanagliò alla bocca dello stomaco, sentendosi tremendamente in colpa. Non solo per averla fatta intristire, ma anche per quello che stava per accadere un attimo prima.
Era come se quella chiamata fosse stato un campanello d’allarme. Insomma, lui stava per…
Alla fine, però, Akane lo rassicurò, dicendogli che non era arrabbiata con lui e che comunque gli voleva bene. Si sarebbero visti l’indomani. Hajime non poté fare a meno di sorridere, la tempia appoggiata al vetro della finestra. Anche Akane gli era sembrata distante negli ultimi giorni, sarà che l’anno scolastico stava per terminare, ma aveva l’impressione che sospettasse qualcosa. Non era stupida, sapeva che c’era un motivo se Tomoko si trovava quasi tutte le sere a casa sua.
Il sentirle dire che gli voleva ancora bene, che per lei era importante, il sentirla ridere, lo rendeva più sollevato, come se si fosse tolto un peso dal cuore.
Tuttavia, i suoi occhi non potevano fare a meno di spostarsi di lato, ad osservare la figura di Oikawa che, finalmente, si era deciso a sistemare quello che c’era nelle scatole.
Conclusa la chiamata, il giornalista si avvicinò, titubante, mentre il ragazzo posava le varie fotografie e premi sul tavolo, ancora indeciso su come distribuirli sull’enorme libreria laccata di bianco. Quasi trasalì quando si trovò Hajime accanto, i nervi a fior di pelle, probabilmente per via di quello che stava per succedere prima. Nessuno dei due sembrò voler toccare l’argomento, comunque, e nessuno dei due era intenzionato a guardare l’altro negli occhi.
Rimasero in silenzio per un po’, poi fu Oikawa a parlare, tenendo ugualmente la testa bassa. «Cosa ti andrebbe per cena?»
Hajime fu colto alla sprovvista. «Non so… Qualsiasi cosa va bene…»
«Non è che abbia molto in casa…»
«Ah…» Calò nuovamente il silenzio. «Cibo cinese?»
«Ottima idea!» E questa volta il castano alzò lo sguardo, incontrando gli occhi di Iwaizumi, che nonostante tutto non avevano smesso di fissarlo, sentendo il cuore salirgli in gola, per poi tornare al suo posto. «Offro io!»
L’altro alzò un sopracciglio. «Non dovrei essere io a farlo…?»
Gli occhi color cioccolato di Oikawa si posarono su quelli del giornalista, e per un attimo il respiro mancò ad entrambi.
Tooru avrebbe potuto baciarlo proprio in quel momento, senza che avesse detto o fatto alcunché, ma era come se l’aria fosse ancora satura di elettricità, come se i rimasugli di un esperimento chimico aleggiassero ancora intorno a loro.
Si impose di rimanere lucido, e stirò le labbra in un piccolo sorriso – forzato, e Hajime lo vide immediatamente. «Hai saldato il tuo debito.»
«Cosa?»
«Ma sì, mi hai offerto ben due cene, senza contare quella a casa tua!» esclamò, contando sulle punte delle dita. «Poi, hai pagato il mio biglietto del cinema per ben due volte, e l’altro ieri mi hai offerto un ghiacciolo! Penso che sì… hai ufficialmente saldato il tuo debito!»
Hajime non sapeva come sentirsi in merito a questa notizia. Tutto era iniziato per via di uno stupidissimo pranzo in uno dei locali più costosissimi e in voga di Tokyo, e adesso, dopo che erano passati diversi mesi, si ritrovavano a parlarne faccia a faccia, in estremo imbarazzo. Ne erano successe di tutte i colori, in quel periodo, e nessuno dei due avrebbe mai potuto immaginare che il loro rapporto potesse evolversi in una tale maniera.
Di certo, Tooru non pensava di potersi prendere una cotta per Hajime, come quest’ultimo non credeva di ritrovarsi a vacillare, a ricredersi sulla sua stessa persona.
In una frazione di secondo, l’immagine di Oikawa che scoppiava a ridere, seduto al tavolo, gli occhiali fasulli sul naso, gli apparve davanti, e dovette scostare lo sguardo dal volto che aveva di fronte per poter ricominciare a respirare, ingoiando fiotti di saliva.
«Beh… buono a sapersi» disse, incespicando nelle sue stesse parole, e in un’altra occasione si sarebbe dato una botta in testa.
In seguito, il setter chiamò il ristorante cinese più vicino, ordinando assieme al ragazzo – che, in ogni caso, non si era messo a fare lo schizzinoso, dicendogli che gli andava bene tutto. Avevano ancora un po’ di tempo prima che la partita iniziasse, perciò Hajime si offrì di aiutarlo a sistemare gli ultimi oggetti, e Oikawa prese la scala, in modo che potesse posizionare le fotografie dove era rimasto qualche spazio vuoto.
Fu in quel momento che, piano piano, la tensione di prima svanì di colpo. Bastò una semplice fotografia con tanto di cornice, rappresentate un Oikawa di appena quindici anni con un paio di altri ragazzi, tutti della sua età, che indicavano il numero che portavano sulla divisa del club di pallavolo. Da lì, cominciarono a parlare delle partite che avevano disputato, dei loro anni al liceo, e Oikawa non faceva altro che vantarsi dei vari premi che aveva ricevuto nella sua vita, facendo alzare gli occhi al giornalista.
Risero parecchio, ed entrambi sembrarono dimenticare quello che era avvenuto nemmeno mezz’ora prima. Si guardavano e sorridevano, quelle espressioni che dicevano tutto e non dicevano niente. Oikawa e Iwaizumi avrebbero voluto parlare, avrebbero voluto dire tutto quello che tenevano nascosto, ma non ci riuscivano; o meglio, il giornalista non ci riusciva, e il castano poteva leggere perfettamente il suo rammarico nei lineamenti del volto.
Se fosse stato per lui, gli avrebbe detto che l’amava ogni volta che bastava.
L’ultima fotografia rimasta fu Hajime a riporla. Oikawa gli aveva semplicemente detto di metterla sul cassettone che si trovava nella sua stanza da letto, mentre lui sistemava la scala al suo posto. Ebbe quasi timore a rientrare in quella stanza, quasi come se temesse di rivedersi seduto su letto e con il viso di Oikawa a pochi centimetri dal suo. Quella volta l’aveva scostato bruscamente, ma adesso non sapeva se avrebbe avuto la stessa reazione…
Scosse la testa, cercando scacciare via quel pensiero, mentre si limitava ad entrare e a posare la fotografia in un battibaleno, senza neanche guardarsi attorno. Eppure, qualcosa catturò ugualmente la sua attenzione. 
Il cassettone era pieno zeppo di fotografie, l’ultima e unica volta in cui era stato dentro quella casa: ora, invece, erano decisamente diminuite, e questo gliela diceva lunga sul fatto che, molto probabilmente, erano tutte foto scattare con Eiko. Una era rimasta, e rappresentava loro due in un parco divertimenti, ma le altre erano state sicuramente conservate; non buttate, conservate. In fondo, erano rimasti in buoni rapporti.
Il suo sguardo si spostò sulla foto che aveva appena riposto, rappresentate tutti i ragazzi della squadra di pallavolo, l’ultima fotografia scattata dopo la cerimonia del diploma. Sorridevano tutti, ma si vedeva che molti di loro avevano pianto nel frattempo, tra cui Oikawa, che ostentava un sorriso a trentadue denti. Le altre foto, invece, rappresentavano il setter in giovane età, e in molte aveva già un pallone in mano; in una era persino in compagnia della sorella, e in un’altra vi era tutta quanta la famiglia al completo. Rimaneva solo una foto, messa in bella mostra rispetto alle altre, e Hajime capì immediatamente il motivo.
Era la foto che aveva visto quella sera al notiziario, quando avevano annunciato la morte della madre di Oikawa. La foto in cui madre e figlio si stringevano in un caldo abbraccio.
Senza volerlo, prese quella foto tra le mani, passando i pollici sulla cornice in legno, un sorriso dolceamaro sulle labbra, diverso da quello che aveva Oikawa nella foto. Era luminoso, felice di sapere che sua madre era fiera di lui nonostante tutto. E lei era felice di vederlo così, sorridente.
Un genitore non vuole mai che il sorriso di un figlio si spenga a causa sua, Hajime questo lo sapeva bene. Forse era per questo che gli aveva detto di essere felice. O forse perché aveva capito che c’era qualcosa che non andava in Tooru, e quel pensiero quasi gli bloccò il respiro in gola.
Per poco non lasciò cadere la foto per terra quando sentì il rumore del campanello che squillava incessantemente. Si palesò sull’uscio, incrociando un Oikawa che correva come un forsennato verso l’ingresso. «Vado io!» urlò, aprendo poi la porta.
Iwaizumi si avvicinò poco dopo, rendendosi conto che il setter non riusciva a tenere tutto quello che gli aveva dato il fattorino e, allo stesso tempo, a pagare, dandogli una mano.
«Giusto in tempo, la partita sta per iniziare!» disse, cantilenando, dopo aver chiuso la porta alle sue spalle e aver guardato l’orologio. «Ho un po’ di birra, ti va?» chiese poi.
Il giornalista alzò le spalle. «Perché no?»







La serata stava procedendo meglio di quanto avessero sperato entrambi. L’imbarazzo per quanto successo prima sembrava essere svanito come neve al sole, ed erano troppo concentrati sullo svolgimento del match per pensare ad altro, in quel momento. Era come se fossero riusciti, per la prima volta dopo tanto tempo, a svuotare la mente, a svagarsi, a lasciare da parte le loro preoccupazioni, come se non ci fosse una cortina di ferro che li separava.
Quella cortina, per quelle poche ore, era crollata, e non erano più due uomini adulti in preda agli assilli, ai sensi di colpa e a sentimenti che non avevano mai sentito per nessuno, ma erano due giovani adolescenti, che come tutti guardavano le partite in televisione.
«Per chi tifi?» domandò a un certo punto Iwaizumi, bevendo poi un po’ di birra.
Oikawa storse il naso. «Per nessuno, mi pare ovvio. Se potessi, vorrei che perdessero entrambe le squadre!»
Il ragazzo rimase a guardarlo per un attimo, prima di riprendere a sorseggiare la sua birra. «Sei proprio uno stronzo…»
«Ho solo detto quello che penso, Iwa-chaaan ~!»
«Rimani sempre uno stronzo!»
«La smetti di trattarmi così?» E nel dirlo tirò un pugnetto sulla spalla del giornalista che, senza che lo volesse veramente, si lasciò sfuggire una piccola risata.
Credeva che non l’avrebbe mai più sentito ridere in quel modo. Anche prima, quando erano finiti entrambi per terra, credeva di stare sognando, che non appena avrebbe alzato lo sguardo tutto sarebbe improvvisamente sparito. Tuttavia, Iwa-chan era lì, sotto di lui. Iwa-chan si era messo a ridere, con lui. Iwa-chan gli aveva scostato delicatamente i capelli con il pollice, e lo guardava come non aveva fatto mai in quei pochi mesi. Iwa-chan… lo stava…
«Oikawa?» Il setter ebbe un sussulto nel vedersi davanti al muso due dita che schioccavano: Iwaizumi aveva richiamato la sua attenzione su di sé, facendo scendere il ragazzo dal mondo delle nuvole.
Sbatté un paio di volte le palpebre, per poi grattarsi la nuca. «Scusami, non ti stavo ascoltando, dicevi?»
«Ti ho chiesto cosa ne pensi della partita…» ripeté, guardandolo con aria grave.
«Oh.» Spostò lo sguardo sul televisore, fissando per un po’ le figure che si muovevano in campo, corrucciando la fronte. «Per quanto mi scocci ammetterlo, non se la stanno cavando male. Ed entrambi hanno un’ottima difesa…»
Sbuffò, mentre lo diceva, prendendo poi un sorso di birra, e Hajime rimase ad osservarlo per un po’. Aveva già visto quell’espressione concentrata diverse volte, ma era la prima volta che l’aveva così vicina. Era magnetica, persistente, sembrava quella di un predatore che studiava per bene la sua prenda prima di attaccarla, cercando di individuare il suo punto debole.
Oikawa Tooru era un setter straordinario, questo lo pensava anche prima di conoscerlo di persona. La sua personalissima opinione sul fatto che meritasse qualche scappellotto sulla testa non cambiava, ma doveva ammette che quel ragazzo ci sapeva davvero fare. Forse non era un talento naturale, forse aveva dovuto allenarsi parecchio per diventare così bravo, ma aveva un senso del giudizio che era unico al mondo. Nella maggior parte dei casi, sapeva sempre che cosa fare per il bene della squadra, e quando sbagliava qualche previsione non mancava di scusarsi con tutti.
Forse era l’umore poco felice della squadra che non riusciva a farlo brillare come avrebbe dovuto. O forse, era solo il suo umore in generale…
«Non hai mai avuto la sensazione che qualcosa mancasse nella tua vita?»
La serata, in seguito, passò nella normalità più totale, con loro che si scambiavano qualche opinione sulle azioni di gioco attuate dalle due squadre, ma nulla che li lasciò particolarmente sorpresi, l’aria della stanza pregna di frittura e dell’odore della birra. Per un attimo, Oikawa si ritrovò ad immaginare cosa sarebbe successo se scene del genere si fossero ripetute tante e tante altre volte. A cosa avrebbe provato nell’aprire la porta di casa, e trovarsi Iwa-chan che… l’aspettava…
Scosse la testa, rendendosi conto non solo di essere diventato veramente ridicolo, ma che la partita era finita proprio in quel momento. Era durata più del previsto, fino all’ultimo set, e adesso il giornalista si era messo in piedi, scrollandosi i pantaloni senza un motivo apparente.
«Va bene… Sarà il caso che io torni a casa» disse tra sé e sé, ma facendosi ugualmente sentire dal ragazzo che gli stava accanto.
Non voleva. Non voleva che Iwa-chan se ne andasse. Non voleva che la sua casa tornasse ad essere vuota e silenziosa.
Lo voleva lì, con lui. Lo voleva intorno, sempre e comunque, e non solo per qualche ora. Non bastava mai, il tempo si accorciava sempre di più. E lo sapeva che doveva essere paziente, proprio come lo era sul campo, soppesando la prossima mossa, ma quella volta si lasciò guidare dall’istinto, e senza volerlo afferrò la manica della camicia di Iwa-chan, che si voltò di scatto.
L’espressione di Oikawa era stralunata, neanche lui si era capacitato di quello che aveva fatto. Trattennero il respiro per un attimo che parve uguale a un secolo.
«Perché non rimani qui, stasera…?» gli chiese in un soffio, e non appena vide gli occhi del ragazzo farsi più grandi per lo stupore, si affrettò ad aggiungere: «Ecco, è tardi, non è il caso che tu te ne vada in giro…»
Iwaizumi rimase un attimo interdetto, non sapendo bene come prendere l’affermazione del castano, se come un gesto dovuto alla sua preoccupazione, o come una richiesta di rimanere a casa sua perché si sentiva solo. E un po’ lo capiva: da ragazzi si sogna di poter andare a vivere per i fatti propri, ma non appena si diventa adulti e i problemi cominciano ad aumentare si capisce che forse era stata solo una mera illusione. Nessuno vuole stare da solo.
Hajime credeva che andasse bene rimanere da solo, eppure nell’ultimo periodo aveva cominciato a soffrire di quell’eterna solitudine.
Da quando aveva cominciato a desiderare di avere qualcuno affianco?
Da quando aveva cominciato a pensare di poter avere Oikawa come partner?
Devo smetterla di fare certi pensieri!
Si sedette nuovamente, credendo di sentire le gambe cedere da un momento all’altro, il setter che continuava a stringere il tessuto tra le dita. 
«Posso sempre chiamare un taxi» disse.
Oikawa aprì la bocca, per poi richiuderla subito dopo, lasciando la presa e pensando a come avrebbe potuto rispondere. «Beh – cominciò – ma non sei lucido! Hai bevuto un sacco di birra!»
«Veramente sono lucidissimo, Shittykawa.»
L’altro non l’ascoltò nemmeno. «E poi lo sanno tutti che i taxisti sono dei pervertiti, guarda che ti sto salvando la vita, Iwa-chan!»
E questa da dove saltava fuori? Che cosa gli avevano fatto di male i taxisti?
Nulla. Solo che non riusciva ad inventarsi delle scuse decenti…
Il giornalista si tenne il ponte del naso tra l’indice e il pollice. «Oikawa…»
Il ragazzo in questione continuò a non starlo a sentire, afferrando il telecomando in tutta fretta e cominciando a cambiare canale. «Potremmo guardare uno di quei film scadenti che danno a quest’ora!» disse, alzando la sua voce di qualche ottava. «Che ne so, magari qualche film sui degli squali assassini, oppure qualche film di Godzilla!»
«Perché, non ti piacciono i film di Godzilla?» chiese l’altro, aggrottando le sopracciglia. 
«Non sono tra i miei preferiti» disse, facendo spallucce, per poi voltarsi verso Iwa-chan. Quell’espressione aveva qualcosa di strano. «Perché, a te sì?»
Non rispose, ma la sua faccia diceva già tutto, e Oikawa balzò sul posto, afferrando un cuscino e stringendoselo al petto. «Mi hai mentito, avevi detto che Pulp Fiction era il tuo film preferito!» esclamò, offeso.
«Alt!» replicò l’altro. «Io ti ho detto che era il film che avevo visto più spesso!»
«Questo non significa niente!» rincalzò Tooru. «Avresti dovuto dirmelo subito!»
«Non li vedo da tanti anni» disse. «Ricordo che li guardavo quando ero piccolo con mio padre e che mi piacevano.»
Certo, avrebbe dovuto pensarci. Era logico che se Hajime non gli avesse detto niente, era perché forse riportava a galla dei ricordi che facevano male, troppo male. Per lui era troppo il dover ricordare suo padre, magari seduto accanto a lui sul divano, mentre guardavano un film, come per lui era ancora troppo doloroso rivedere sua madre in foto o in un qualche filmino di famiglia.
La ricordava quando gli medicava le ferite, quando gli preparava la colazione la mattina presto, quando era scoppiata in lacrime non appena l’aveva visto giocare con la maglia della nazionale. Piccole cose che Tooru avrebbe custodito come il più grande dei suoi tesori, che comunque condivideva con le persone a lui più care.
Si dice che una persona muore veramente non appena la si dimentica. Il corpo non c’è più, ma lo spirito e il ricordo rimangono tra i viventi. Lui ci credeva veramente, ma per Hajime era diverso, era stato un trauma troppo grande per lui. Probabilmente, certe cose voleva tenersele per sé.
Oikawa si sentì un completo stupido, e avvertì il cuore stretto in una morsa. Stava per scusarsi, ma il giornalista lo precedette. «A casa di mia zia dovrebbe esserci un giocattolo di Godzilla che mi hanno regalato per Natale…»
Sulle prime, Oikawa non seppe che cosa dire, le pupille dilatate; realizzò quello che aveva detto l’altro solo in un secondo momento, e dovette tapparsi la bocca con una mano per reprimere una risata. «Un giocattolo?»
«Sì, dovrebbe essere grande più o meno così» E lasciò uno spazio vuoto tra le due mani lungo una sessantina di centimetri. 
Il setter non riuscì più a trattenersi, scoppiando a ridere, cogliendo di sorpresa il ragazzo che – per quanto la discussione potesse sembrare ridicola – stava usando un tono serio. «Mi stai prendendo in giro?» chiese l’altro, quasi indignato.
«E io che credevo di essere l’unico infantile, qui!» Si asciugò una lacrima. «Io ho delle spade laser nascoste nella cabina armadio!»
Ci fu un attimo di silenzio, poi fu Iwaizumi a parlare, alzando gli occhi al cielo. «Perché la cosa non mi stupisce?»
«E ho anche il costume del Capitano Kirk!» continuò l’altro. «Ora lo metto e te lo faccio vedere!»
«Per carità, no!»
La risata del setter si fece più forte, e il ragazzo dovette reclinare la testa all’indietro per lasciarla fuoriuscire tutta, i capelli castani che gli solleticavano la nuca.
Iwaizumi non l’aveva mai sentito ridere così. Forse era per via dei fumi dell’alcool, tuttavia non si era divertito in tale maniera neanche quella volta in discoteca.
Era un risata genuina, melodica, a tratti fastidiosa, ma che scaldò in un attimo il cuore di Hajime. Era un suono così piacevole, che avrebbe potuto ascoltarlo a ripetizione, come se fosse la più bella canzone sulla faccia della Terra.
Da quanto Oikawa non era così felice? Forse non lo era mai stato veramente.
Era soddisfatto della sua vita, dei suoi risultati, ma non aveva tutto quello che voleva. La sensazione di vuoto c’era ancora, questo Iwaizumi l’aveva oramai capito.
E non era per via della perdita che aveva subito, no: era perché gli mancava qualcuno accanto, era perché gli mancava la persona giusta.
Per un attimo, si ritrovò a riflettere su come sarebbe stata la sua vita se avesse continuato a vivere a Miyagi, se lui e Oikawa avessero continuato a parlare dopo l’incidente della palla e fossero diventati migliori amici, inseparabili. Avrebbero vissuto per anni l’uno di fianco all’altro, raccogliendo milioni di ricordi, e poi forse avrebbero preso strade diverse.
Oikawa avrebbe avuto una cotta per lui, ugualmente? Questo non poteva saperlo con certezza.
L’unica cosa che sapeva era che non poteva essere lui la persona giusta, non poteva essere lui la persona capace di far scaturire quel sorriso. 
Lui amava il sorriso di Oikawa. Lui non se lo meritava.
E mentre gli passavano davanti tutte le immagini di Tooru che sorrideva al suo indirizzo, i muscoli tesissimi, Iwaizumi sapeva che quello che avrebbe fatto di lì a breve avrebbe solo peggiorato le cose, che avrebbe fatto male a entrambi. Il suo buon senso gli urlava contro di non farlo, perché poi se ne sarebbe pentito, mentre il suo cuore… dio, quanto martellava contro la cassa toracica! Aveva la gola arsa e la bocca secca, mentre osservava il setter che smetteva di ridere, gli occhi che brillavano allo stesso modo di due gemme preziose.
Accade tutto in un battito di ciglia, Oikawa ebbe solo il tempo di chiedergli se ci fosse qualcosa che non andava, e poi le sue labbra entrarono in contatto con quelle di Iwaizumi. Chiuse immediatamente gli occhi, assaporando quel dolce pizzicore che sentiva sulla lingua e lungo la spina dorsale.
Credeva di aver cancellato il sapore delle labbra di Hajime, e invece tutto tornò improvvisamente a galla, lui che si protraeva verso il ragazzo e suggellava quel micidiale contatto. Un po’ come aveva fatto il giornalista adesso, e Oikawa credeva di star vivendo un sogno troppo bello per essere vero.
Sogno che si infranse pochi secondi dopo, poiché Hajime si staccò velocemente, e adesso aveva quegli occhi smeraldini praticamente a pochi centimetri dai suoi. E quello che vide fu solo un gran senso di panico.
Il giornalista si passò una mano sulla bocca, come se cercasse disperatamente di cancellare il ricordo di quello che era successo; l’aveva fatto anche dopo che era stato Oikawa a baciarlo, ma questa volta aveva fatto tutto lui. Oikawa non ne aveva colpa. Poteva prendersela solo con se stesso.
Si alzò in piedi, passandosi una mano tra i capelli e raggiungendo la penisola della cucina, mentre Oikawa era ancora troppo frastornato, l’indice tenuto premuto sul labbro inferiore. Spostò poi lo sguardo verso il ragazzo, trovandolo di spalle.
«No no no…» continuava a mormorare, e adesso gli occhi di Oikawa pizzicavano da morire.
Non poteva fargli questo…
Stavano ridendo e scherzando…
Perché?
«Iwa-chan…» mormorò, la voce roca, alzandosi in piedi e raggiungendolo.
«Non ti avvicinare» gli intimò, dopo essersi girato, e Oikawa poté vedere che anche i suoi occhi si erano fatti lucidi. «Ti prego…»
Represse un singhiozzo. «Perché mi respingi?» gli chiese poi, non riuscendo più a contenere le lacrime. «Ti… ti disgusta tanto l’idea di essere innamorato di me?»
«Non è questo…»
«E allora cosa, Hajime? Cosa?» Aveva alzato la voce, le lacrime che gli solcavano le guance. «Non mettere in mezzo Akane, perché lei non c’entra!»
Iwaizumi lo guardò, sentendosi tremendamente colpevole. Avrebbe dovuto dirglielo, dirgli che c’erano persone che avrebbero potuto portagli via sua figlia solo schioccando le dita, ma questo non avrebbe migliorato la situazione…
Respirava a tentoni, l’aria di quella stanza che pareva quasi rarefatta.
«Sai che cosa mi ha detto Akane quando mi ha dato questo?» Fece vedere il nastro che aveva continuato a tenere al polso, trattandolo con cura. «Di starti vicino!»
Strinse il labbro tra i denti. No, di certo non si aspettava quella rivelazione. Akane era fatta così, si preoccupava sempre per lui, per gli altri. E Hajime, in fondo, non era poi tanto diverso… Lo dimostrava solo nei modi peggiori.
Voleva fare la cosa giusta, voleva seriamente che tutti ne uscissero sereni da quella faccenda, ma aveva solo finito per incasinare le cose. La colpa era solo sua.
«Io non ce la faccio più!» continuò Oikawa, asciugandosi il naso col dorso della mano. «Ho cercato di essere paziente, ma poi tu mi guardi in quel modo…»
Abbassò il capo, scuotendolo, in preda alle lacrime e ai singhiozzi, non riuscendo a continuare la frase come avrebbe voluto.
Voleva dirgli che lo vedeva, dannazione, il modo in cui era cambiato. Lo vedeva che lo guardava diversamente, che lo trattava diversamente, che nonostante tutto lui era lì. Eppure, tutto quello che riusciva a fare in quel momento era solo piangere.
Non ce l’aveva fatta, a tenere tutto dentro.
«Hajime, io ti amo!» disse poi, tra un singhiozzo e l’altro, alzando lo sguardo verso quello sconvolto del ragazzo.
Desiderava potergli rispondere allo stesso modo. Desiderava potergli dire che anche lui provava le stesse cose, ma non poteva.
Doveva mantenere una certa immagine. Doveva farlo per Akane, altrimenti l’avrebbe persa, e anche solo l’idea di una vita senza di lei gli lasciava addosso una sensazione di puro terrore.
Perdere Oikawa o perdere Akane?
Se avesse potuto, Hajime avrebbe scelto entrambi.
Credeva di stare per ricambiare le parole di Oikawa, e invece gli uscì l’ultima frase che avrebbe voluto dire in quel momento. «Io… sto con Tomoko, adesso.»
L’intonazione della sua voce era strana, quasi come se avesse voluto dire le stesse cose, ma invece era uscito tutt’altro dalle sue labbra, Oikawa se ne accorse subito.
E questa volta niente poteva fargli credere di aver sentito male. Una coltellata in pieno petto avrebbe fatto meno male. Comunque, il suo cuore sanguinava ugualmente.
Aveva appena ammesso ad alta voce i suoi sentimenti, e Hajime li aveva calpestati. Un’altra volta.
«Ci siamo messi assieme qualche mese fa…»
Basta, basta, basta!
Spostò lo sguardo di lato, mordendosi il labbro inferiore fino a spaccarlo. «Vattene…» sibilò.
Iwaizumi non replicò, si limitò a tirare su col naso e a raccattare le sue cose. Lanciò un’ultima occhiata alla figura di Oikawa, che era rimasto di schiena, incapace di guardare il ragazzo mentre andava via. Lasciò andare un respiro dal naso, solo quando sentì il rumore della porta che sbatteva, chiudendo le palpebre.
Si asciugò velocemente col dorso della mano, compiendo poi i successivi gesti con fare meccanico: spegnere la televisione, togliere i cartoni, aprire la spazzatura, buttare gli avanzi.
Neanche si accorse di aver aperto il rubinetto del lavello, rimanendo ipnotizzato a fissare l’acqua che soccorreva. Strinse la superfice in marmo bianco tra le dita.
Stava con Tomoko. 
Hajime si era messo con Tomoko.
Certo, era un ragazza carina, dolce, gentile… La moglie perfetta…
Si rese conto di aver lanciato un bicchiere di vetro contro la parete solo in un secondo momento, e questo non fece altro che aumentare la sua rabbia e la sua frustrazione.
Strinse i suoi capelli tra le dita, lasciandosi scivolare lungo il mobile della cucina, piangendo più forte di prima. 


 



~
 



[11 marzo 2017]






Sbloccò il suo smartphone, in modo da controllare l’orario: quella sera, gli allenamenti si erano protratti fino a tardi, per cui l’idea di andare in giro per locali era sfumata tutta d’un colpo. Sbuffò sonoramente, rimettendo il telefono dentro la tasca esterna del borsone e sistemandosi la tracolla sulla spalla.
Proprio quando stava prendendo in considerazione l’idea di tornarsene a casa e, magari, chiamare Kenma per dirgli di passare da lui e vedere un film assieme, gli si parò davanti Bokuto, anche lui pronto a uscire dallo spogliatoio dove erano rimasti solo loro due. Aveva la tracolla del borsone ben stretta al petto, che si muoveva su e giù a ritmi alternati.
«Hai visto Oikawa?» gli chiese l’ex capitano della Fukurodani.
Kuroo sbatté le palpebre. Credeva che il setter fosse entrato con loro in spogliatoio e si fosse fatto la doccia come tutti gli altri, ma ora che ci pensava bene non l’aveva proprio visto. Si girò alle sue spalle, intravedendo il borsone del ragazzo posato per terra, esattamente dove l’aveva lasciato quando era arrivato.
Alzò appena le spalle. «Forse si è offerto di sistemare la palestra… Sai, per scusarsi di non essere venuto negli ultimi giorni…»
In effetti, c’era qualcosa che non andava in Oikawa. Sembrava che si fosse ripreso alla grande dalla perdita della madre, eppure era mancato per due giorni di seguito dall’allenamento, presentandosi solo quel pomeriggio, chiedendo immediatamente scusa all’allenatore per non averlo avvertito. L’uomo non se la prese troppo, del resto sapeva quale fosse la situazione familiare di Oikawa in quel momento, anche se per motivi personali non era potuto venire al funerale. Gli aveva semplicemente dato una serie di esercizi in più da fare, ma quello non sembrò ritirarsi all’idea di doversi affaticare di più.
Era stato scostante, lontano, gli aveva rivolto solo un lieve saluto. Sembrava troppo concentrato sull’allenamento, nei movimenti che doveva compiere, e né i suoi compagni né il mister l’avevano mai visto così in forma, così determinato. Era come se non avesse mai perso il ritmo. Era come se fosse improvvisamente rinato. Era come se avesse liberato la mente da tutti i pensieri malevoli che aveva avuto in quell’ultimo periodo.
Tuttavia, non sorrise. Nemmeno una volta. Neanche quando gli fecero i complimenti per un’azione ben riuscita. Era come se non gli andasse bene nulla.
Era arrabbiato. Con se stesso? Con loro? Con qualcun altro?
Bokuto, le iridi che brillavano come due topazi, si recò a passo di marcia verso la porta che conduceva al campo da gioco, e suo malgrado Kuroo fu costretto a seguirlo, roteando gli occhi verso l’alto.
«Oikawa?» lo chiamò l’ace, non appena aprì la porta, e in risposta gli arrivò il rumore di un paio di scarpe da ginnastica che stridevano e di un pallone che veniva schiacciato per terra.
I due giocatori si avvicinarono ulteriormente, e quello che videro fu Oikawa sulla linea di battuta, che si preparava a compiere uno dei suoi servizi killer. Sollevò il pallone giallo e blu verso l’alto, schiacciando poi con violenza, e la palla finì esattamente dall’altro lato, atterrando sulla linea di bordo campo. Masticò un’imprecazione, come a evidenziare il suo disappunto.
Stava per riprendere un altro pallone, prima che Bokuto lo richiamasse ancora. «Oikawa…?» Il ragazzo si girò, i capelli castani appiccicati ai lati della fronte e il fiatone. Grondava sudore ed era pallido in viso, sembrava che la spossatezza stesse per sovrastarlo, eppure lui non lo dava a vedere. «Si può sapere che cosa stai facendo?»
«Non lo vedi, Boku-chan?» disse, pungente. «Mi sto allenando con le battute!»
«Questo l’avevo capito, ma gli allenamenti sono finiti.»
«Ho chiesto al mister se potevo rimanere un altro po’» disse, ripetendo gli stessi medesi gesti di prima, e questa volta la palla finì fuori dal campo. «Ah, maledizione!»
«Oikawa, non ti sembra il caso di tornare a casa?» Questa volta fu Kuroo a parlare, serio. «Hai lavorato abbastanza per oggi…»
«No, non era abbastanza!» affermò Oikawa, e la sua voce si era fatta leggermente più alta. «Devo rimediare, ho sprecato delle ore preziose in questi giorni!»
Non stava bene. Il suo colorito era bianco come la carta anche prima, quando si era presentato davanti ai suoi compagni di squadra, in ritardo di un paio di minuti. Gli angoli degli occhi sembravano segnati da rughe profonde, sembravano scavanti, come se avesse pianto ininterrottamente. E avevano anche il sospetto che non avesse mangiato in quel periodo, come se fosse rimasto a letto per tutto il giorno.
Ed era così. Oikawa era rimasto rannicchiato sotto le coperte, toccando quel lato vuoto del letto, con la speranza di svegliarsi e di trovarci accanto Iwa-chan. Non si sarebbe alzato nemmeno dal letto se non fosse stato per Eiko, che era venuta a trovarlo e gli aveva portato gli yakitori fatti da lei, giusto per fargli mangiare qualcosa. L’aveva chiamata nel cuore della notte – e probabilmente l’aveva disturbata, aveva sentito qualcun altro mugugnare accanto a lei – in lacrime, mentre le raccontava cosa era successo con Iwaizumi.
La ragazza era subito corsa da lui e gli aveva preparato un tè caldo per farlo stare meglio, e per la prima volta Oikawa la vide girare in tuta: di solito, era sempre vestita perfettamente, anche in casa. In quei due giorni, era sempre venuta a trovarlo quando poteva, gli portava da mangiare e lo faceva uscire dal letto, almeno per farsi una doccia, ma il più delle volte il ragazzo si limitava a lavarsi e poi a tornarsene nascosto sotto le coperte, a piangere senza un freno e senza neanche toccare cibo.
Si era deciso a uscire dalla sua tana solo quella mattina, quando aveva capito che non era più tempo di piangersi addosso e che, comunque, aveva pur sempre un orgoglio. E poi, non poteva abbandonare gli allenamenti così. Non poteva abbandonare tutto solo perché Iwa-chan si era fidanzato con…
Scosse la testa, alcune gocce di sudore che ricaddero sul pavimento lucido dalle punte dei suoi capelli.
Fece un’altra battuta, e ancora una volta la palla finì fuori. Strinse i denti, facendoli strisciare tra loro.
«Tooru, è successo qualcosa?» Non erano soliti chiamarsi per nome, e questo faceva intendere quanto la situazione, sia per Kuroo che aveva parlato, sia per Bokuto, fosse seria. «C’entra la tua famiglia?»
«La mia famiglia sta benissimo!» disse, prendendo un bel respiro e tenendo lo sguardo fisso sull’altro lato del campo.
Vedeva Iwa-chan. Lo vedeva, era dall’altro lato del campo, pronto a ricevere la sua battuta. Era buffo quanto la sua mente lo stesse prendendo in giro: lo vedeva con la divisa dell’Aoba Johsai. Vedeva se stesso con la divisa che indossava al liceo. Come se non si trovasse nel presente, ma in un passato alternativo, dove lui e Iwaizumi frequentavano lo stesso club sportivo e rimanevano oltre l’orario d’allenamento, poiché il setter aveva insistito per avere qualcuno pronto a ricevere le sue battute.
E ogni volta che sbagliava, ogni volta che la palla finiva fuori, era come se nella sua mente Iwa-chan l’avesse presa.
Lo vedeva ghignare. Si stava prendendo gioco di lui.
«Riguarda Eiko?» ritentò il centrale.
«Non è successo niente, sto benissimo ragazzi!» disse, senza guardarli negli occhi, mentre afferrava un pallone dal cesto.
«Riguarda Iwaizumi?»
Le spalle del setter ebbero un sussulto, ed entrambi i compagni di squadra capirono che avevano fatto centro. Ci sarebbero dovuti arrivare subito, ma con tutti i casini che erano successi in quell’ultimo periodo, credevano che il ragazzo si fosse dato una regolata e che avesse smesso di farlo soffrire. Inoltre, non erano neanche a conoscenza del fatto che i due continuassero a vedersi, l’avevano intuito quando se l’erano visti spuntare al funerale, e il modo con cui Oikawa l’aveva abbracciato aveva fatto capire ad entrambi che quel ragazzo aveva bisogno di lui.
Che poteva provarci in tutti i modi, ma Oikawa aveva bisogno di Iwaizumi, come se fosse diventato l’unica aria che fosse in grado di respirare.
L’avevano visto fuori dal palazzetto tutte le sere per circa un mese, e il ragazzo li salutava sempre da lontano; il setter sembrava sempre così allegro quando lo vedeva. Che cosa era successo?
Tooru si girò verso i suoi compagni, gli occhi adesso lucidi. «Coraggio, ditemelo!» I due parvero frastornati. «Ditemelo: “te l’avevamo detto”. Coraggio, che cosa aspettate?»
I due si scambiarono un’occhiata, prima di tornare sul giovane, lo sguardo fiammeggiante e le mani che tremavano.
Bokuto stava per aprire bocca, ma il setter riprese subito a parlare. «Mi ha baciato» disse, lasciando i due giocatori di sale. «Mi ha baciato, e solo dopo si è degnato di dirmi che è fidanzato, dopo che io gli confessato per l’ennesima volta quello che provo per lui!»
Guardò dall’altra parte del campo, e dovette sbattere le palpebre per smettere di vederlo lì, in mezzo al campo, a braccia conserte e con un sguardo accigliato, come se lo stesse aspettando. Si morse il labbro, tenendo il pallone stretto tra le dita. Avrebbe voluto lanciarglielo contro.
«Avevate ragione!» disse, scuotendo appena la testa. «È un grandissimo pezzo di merda. Un insensibile e un egoista.» Tornò con lo sguardo rivolto al campo da gioco, e Iwa-chan era sempre lì, sempre a braccia conserte, e continuava a guardarlo. «Mi ha sempre trattato come se fossi un moccioso, e ogni scusa era buona per criticarmi! E mi ha sempre giudicato, con quel suo dannatissimo sguardo che…»
Con quel suo dannatissimo sguardo che amo.
Produsse un verso frustrato, il labbro inferiore ancora tenuto tra i denti, prima di ritentare un’ennesima battuta, e questa volta la palla passò vicino al viso di quell’Iwaizumi immaginario che aveva davanti. Non si mosse. Era impassibile, anche quando la palla finì completamente fuori.
Se qualcuno si fosse trovato seriamente su quella traiettoria, ci sarebbe rimasto secco, costatarono sia Bokuto che Kuroo.
«Senti, Oikawa – cominciò il centrale, deglutendo un grumo di saliva – capisco che ce l’hai a morte con lui, ma questo non è un buon motivo per farti il fegato marcio, ti pare?»
«Kuroo, ha ragione!» intervenne Bokuto, a sostegno del compagno. «E poi sono sicuro che troverai qualcun altro…»
Non ebbe il tempo di continuare la frase, perché il setter si era girato verso di loro, la palla stretta dalle sue lunghe dita, e avrebbe potuto romperla se avesse avuto abbastanza forza in corpo.
«Ma io non voglio nessun altro!» gridò. «IO VOGLIO LUI!»
E a quel punto, i due giovani ragazzi non seppero veramente che cosa dire.
Avevano parlato spesso delle relazioni che avevano avuto in passato, e Oikawa aveva ammesso di essere stato lasciato diverse volte, poiché non era il fidanzato perfetto come tutte pensavano. Eiko sembrava che fosse l’eccezione alla regola, ma non era così, non era lei ad essere l’eccezione alla regola: era Hajime. Un uomo.
E non perché ci fosse qualcosa di strano, ma perché Oikawa non aveva mai versato una lacrima per le fidanzate che l’avevano lasciato, in fondo se lo sentiva che non sarebbe durata con nessuna di loro; con Eiko la faccenda era più complicata, quel loro bizzarro rapporto andava bene ad entrambi e nessuno dei due sembrava lamentarsene. Ma non era amore, era solo una solida amicizia, quella tra un ragazzo e una ragazza, che forse lascia la gente perplessa ma che esiste sul serio.
Adesso, però, Oikawa si ritrovava con le guance rigate da due lacrime che erano sfuggite al suo controllo e con il naso gocciolante, mentre distoglieva lo sguardo da Kuroo, Bokuto e da quella sagoma di Hajime che era solo il frutto della sua testa.
Stava piangendo.
Oikawa Tooru si era innamorato veramente, e l’oggetto del suo desiderio l’aveva gettato via come se fosse un giocattolo vecchio.
Nessuno poteva vantare di aver visto uno degli atleti più in voga dell’intero Giappone in quelle condizioni.
Neanche un suono fu emesso in quell’enorme palestra, mentre Oikawa si asciugava il naso e gli zigomi e riprendeva con il servizio. L’immagine di Iwaizumi era svanita, poiché adesso la sua mente era popolata da diverse immagini dello stesso giovane: lui che si alzava dal tavolo al bar, lui che si mordicchiava la zip fuori dal ristorante, lui che lo bloccava per terra, lui che gli urlava contro per strada…
«Ho vissuto più con mia moglie che con te!»
Lui che rideva con la figlia, lui che si non si scostava quando stava per baciarlo in aeroporto, lui che gli metteva la sciarpa al collo, lui che gli stringeva la mano, lui… che gli diceva che era…
La palla colpì il nastro, e questa volta Oikawa si lasciò andare ad un’espressione ben più colorita. «Merda!»
Stava per girarsi e prendere un altro pallone, se non fosse che qualcuno gli afferrò il polso sinistro, costringendolo a guardarlo in faccia.
«Capitano» mormorò Kuroo.
Oikawa e Ushijima erano a due centimetri di distanza, e se il setter lo fissava con l’intento di sbranarlo, l’altro aveva mantenuto la sua solita aria composta, stringendo con forza la presa. Probabilmente, aveva assistito all’intera conversazione, decidendo di intervenire solo in quel momento.
«Wakatoshi» sibilò, e gli fece uno strano effetto il chiamarlo per nome. Da quando si conoscevano, non era mai successo. «Lasciami.»
«Sei pallido» gli disse, mentre l’altro si dimenava. «Rischi di collassare per terra.»
Il castano afferrò il polso dell’altro, nella speranza di liberarsi da quella presa che – ne era quasi certo – sarebbe stata capace di rompergli le ossa, soprattutto nelle condizioni in cui si trovava. Strinse anche lui, e se prima era stata l’adrenalina, la rabbia, a tenerlo in piedi, adesso la sentiva fluire via velocemente.
Era stanco. Troppo stanco.
Iwa-chan l’aveva privato di tutte le energie.
Perché? Perché doveva sentirsi così?
Non poteva essere come tutte le altre volte?
Cosa aveva lui di speciale?
«Lasciami!» disse, stavolta aumentando il tono di voce, e riuscì finalmente a liberare il polso dalla presa di Ushijima. Doleva, e dovette massaggiarlo diverse volte per permettere al sangue di ricominciare a circolare. Le ossa scricchiavano.
Fissò con astio il capitano della squadra da oltre la cortina di capelli che aveva davanti al viso, il fiato che si faceva mano a mano più corto. Poi, i suoi occhi ricaddero su un particolare che, in quei giorni, aveva quasi scordato di avere al polso.
Il nastro giallo e blu di Akane. Quel nastro che quella bambina gli aveva dato – o meglio, prestato –, con la speranza che un giorno si sarebbero rivisti e che lui avrebbe potuto restituirglielo. Era rimasto immacolato: qualche volta l’aveva tolto dal polso per dargli una pulita, ma lo teneva sempre allacciato.
Da quando l’aveva messo, tutti, nessuno escluso, gli avevano chiesto che cosa fosse  e perché lo portasse in quel modo, e lui aveva spiegato che era un portafortuna che gli aveva regalato una fan.
La più bella tra le sue fan, e lo pensava veramente.
Anche se Hajime continuava a usarla come scusa, lei non c’entrava nulla in quella storia. 
Sentì nuovamente il tocco di quelle braccine attorno a lui, e si pentì di non aver ricambiato l’abbraccio, quella volta in aeroporto, mentre adesso lacrime più copiose bagnavano il suo viso e il nastro in questione. Erano fredde a contatto con la sua pelle bollente.
«Stai un po’ col mio papà, magari porti fortuna anche a lui e ritorna ad essere felice!»
Cercò di non far fuoriuscire  i crescenti singhiozzi mettendo l’altra mano davanti alla bocca, e non c’era più la palestra attorno a lui, c’era solo… vuoto.
Il niente. Tutto era bianco, riempito solo dalle immagini del visino sorridente di Akane e di quello di Iwa-chan.
Aveva fallito. Non era riuscito a mantenere fede alla promessa.
Il fischio che segnava la fine della partita era arrivato ai suoi timpani da un pezzo, oramai. Aveva perso anche il secondo set. Aveva vinto Iwa-chan, dopotutto.
Sentì le ginocchia cedere, la stanchezza che prese definitivamente il sopravvento, e in un attimo si ritrovò per terra, la fronte premuta contro il pavimento e i pugni chiusi. La tenera carne dei palmi premeva contro le unghia, mentre alcuni ciuffi di capelli si erano sparsi attorno a lui.
Piangeva, in preda ai singhiozzi.
«Sono un fallito» biascicava, la bocca impastata di saliva. «Sono un fallito e un miserabile, sono… sono patetico, ecco perché Iwa-chan non…»
Non riusciva a parlare, i singhiozzi crescenti glielo impedivano. Il suo pianto si fece più forte, ed era grato che non ci fosse nessuno in quel momento e che, soprattutto, i suoi tre compagni avessero deciso di rimanere in silenzio.
Si limitarono solo a sedersi accanto a lui, le schiene appoggiate contro il suo corpo fragile e tremante. Bokuto e Kuroo erano alla sua destra, mentre Ushijima alla sua sinistra, e tutti e tre avevano i respiri pesanti.
Solo in un secondo momento avvertì la mano di Bokuto che gli carezzava la schiena; e poi, sentì quelle di Kuroo e Ushijima a reggergli il capo.
E rimasero così fino a quando il pianto di Oikawa non cominciò a scemare.






Il filo rosso aveva finito per annodarsi su stesso. Era teso come la corda di un violino, e per questa ragione rischiava di rompersi da un momento all’altro.
Il destino credeva che sarebbe stato interessante osservare i due protagonisti del gioco a due passi di distanza l’uno dall’altro, senza mai incontrarsi. Adesso, però, vedeva come stessero appassendo, come il polso su cui era stretto quel filo sanguinasse.
Poteva rimediare. Doveva rimediare.
E avrebbe usato la sua bella bambola riccioluta per farlo.



 
[I gave you all of me
My blood, my sweat, my heart, and my tears
Why don't you care, why don't you care?]


 



Delucidazioni:
Okay, potete picchiarmi. Avete tutto il diritto di farlo. Considerate che la mia beta ha detto frasi del tipo: “Io quella cosa non la leggo!” (in riferimento alla frase che dice Hajime) e “QUESTO CAPITOLO E’ IL MALE!”.
Non dovevo farlo, sto già facendo soffrire troppo Tooru, ma questa è un’altra delle tante cose che avevo in mente sin dall’inizio della storia. E lo so, Hajime è un autentico idiota, e questa volta non ha giustificanti. Per il resto, che dire, vi lascio il beneficio del dubbio su quanto accadrà nei prossimi capitoli… Perché, in fondo al mio cuore, sono una persona molto cattiva e crudele, lo ammetto. Ma se parlo troppo, poi non vi godete i capitoli finali! *la imbavagliano*
Allora, le partite in Italia di cui parla Tooru si sono svolte veramente, a maggio, e ho avuto la fortuna di beccarle in stream su YouTube, per cui ho deciso di inserirle; gli anni scolastici, in Giappone, finiscono a marzo, con uno stacco di qualche settimana, e ricominciano i primi di aprile, poi per il resto hanno anche loro le vacanze invernali ed estive (tutto qui); no, non ho alcun tipo di discriminazione contro i taxisti, mi serviva solo un espediente per impedire a Iwa-chan di andarsene subito; la madre di Tooru non ha mai fatto vedere il film di Bambi per intero al figlio, come mia madre fece con me... Immaginate lo shock quando ho scoperto cosa succedeva, non appena sono cresciuta; il giocattolo di Godzilla alto sessanta centimetri esiste davvero, l’ho trovato su Amazon, come anche le spade laser; la canzone, per questo capitolo è Questions di Camilla Cabello.
Che dire, spero che non abbiate deciso di droppare tutto dopo questo capitolo. Si parla di una bambola riccioluta alla fine, eh ;)
Ora, fuggo, prima che una folla inferocita mi assalga *vola a cavallo di una scopa*
_Lady di inchiostro_ 

l'uccellino cinguetta <3 
 
  
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