Prologo.
And
I give it all away
Just
to have somewhere to go to
Give it all away to have someone
To
come home to
L’euforia
che Harry provava con l’avvicinarsi del primo di settembre non era paragonabile
a nessun altro avvenimento. Il pensiero di poter trascorrere dieci mesi ad
Hogwarts, lontano da Privet Drive e dai Dursley, rendeva anche più sopportabili
le angherie che era costretto a subire da parte di Dudley durante tutta
l’estate.
Anche
se quella era stata un’estate piuttosto diversa dalle precedenti.
Voldemort
era tornato e, finalmente, il Ministero lo aveva riconosciuto. Harry si chiese
cosa aveva fatto l’Oscuro Signore durante quei mesi che lui aveva trascorso al
numero quattro di Privet Drive; Sirius gli aveva mandato sporadici gufi in cui
non l’informava affatto sulla situazione.
Sospirò;
era strano, ma la rabbia bruciante provata l’anno prima si era attenuata. Forse
il sapere Sirius al sicuro e finalmente fuori da ogni accusa gli dava una
preoccupazione in meno e, certo, il fatto che la Gazzetta del Profeta avesse
smesso di coprirlo di ingiurie non poteva che migliorare la situazione.
Tuttavia non sapeva dire se la situazione fosse migliorata o meno, non era più
entrato in contatto con l’Ordine dal giugno scorso e l’unica fonte di informazione
sul mondo magico era la Gazzetta del Profeta, che, come Harry ben sapeva, era
facilmente influenzabile dall’aria che tirava al Ministero.
Harry
si chiese se sarebbe stato quell’anno a concludere la profezia della
professoressa Cooman. Avrebbe ucciso o sarebbe stato vittima di Voldemort? Era
un pensiero che di tanto in tanto gli riaffiorava alla mente, e quella mattina
né quel chiodo fisso né la cicatrice gli davano tregua.
Si era
svegliato prima dell’alba e non era più riuscito ad addormentarsi, così aveva
preso a rifare il baule nella paura di aver dimenticato qualcosa. Mentre
rimetteva tutti i suoi effetti personali nel bagaglio gli capitò tra le mani il
grande album di foto magiche che Hagrid gli aveva regalato cinque anni prima.
Gettando
uno sguardo distratto alla piccola sveglia appoggiata sul comodino, Harry
decise che poteva ritagliarsi un po’ di tempo per darci un’occhiata. Oltre alle
foto dei suoi genitori, che lo salutavano e gli sorridevano, Harry aveva
aggiunto anche alcune foto di lui, Ron e Hermione ed alcune che ritraevano i
quattro malandrini ai tempi della scuola: gliele aveva regalate Sirius l’anno
prima. Guardarle gli provocava sempre uno strano senso, che non riusciva a
classificare né come tristezza, né come felicità; ma non riusciva a distogliere
gli occhi verdi da quelle foto che gli sorridevano. Guardarle era un po’ come
conoscere uno spaccato della vita dei suoi genitori.
Girò
una pagina e gli parve che qualcosa scivolasse fuori dalle pagine, appoggiò il
libro sul letto e si chinò, gli pareva si fosse infilata sotto di esso. Era una
foto.
La foto
raffigurava suo padre, sua madre, Codaliscia, Sirius, Lupin e un’altra ragazza
che Harry non conosceva, ai tempi della scuola; sorridevano e lo salutavano
reggendo in mano quelli che ad Harry sembrarono dei rotoli di pergamena,
riportanti lo stemma di Hogwarts.
Harry
stava per rimetterla al suo posto quando si accorse che sul suo retro era
scarabocchiata una data seguita da una didascalia, che sembrava inserita a
postumi. Harry riconobbe la scritta per una frase di un libro babbano che
aveva, una volta, letto in classe quando ancora frequentava la stessa classe di
Dudley.
La
scritta riportava:
E il gabbiano Jonathan Livingston visse il resto dei suoi giorni esule e solo. Volò oltre le Scogliere Remote. Il suo maggior dolore non era la solitudine, era che gli altri gabbiani si rifiutassero di credere e aspirare alla gloria del volo. Si rifiutavano di aprire gli occhi per vedere.