Louis
irruppe nell'atrio illuminato al neon della Sword & Cross School
dieci minuti
più tardi del dovuto. Un custode dall'ampio torace, guance rosse
e un blocco
per appunti stretto sotto un bicipite di ferro stava impartendo
ordini,
quindi Louis era già rimasto indietro.
«Allora
ricordate: pillole, letti e spie» abbaiò il custode a tre studenti di
cui Louis
non riusciva a vedere il viso, perché gli davano le spalle.
«Ricordatevi
le regole di base, e nessuno si farà male.»
Louis si
infilò rapido nel gruppetto. Stava ancora cercando di capire se
aveva
compilato nel modo giusto la gigantesca pila di documenti, se quella
guida dalla
testa rasata era un uomo o una donna, se qualcuno poteva aiutarlo
a portare
l'enorme sacca da viaggio, se i suoi genitori, dopo averlo mollato lì,
si sarebbero
disfatti della sua amata Plymouth Fury non appena tornati a
casa.
Avevano minacciato di vendere la macchina per tutta l'estate, e ora
avevano un
motivo che nemmeno Louis poteva contestare: nella nuova scuola
nessuno poteva
tenere un'auto. Nel nuovo istituto correzionale, per
l'esattezza.
Doveva
ancora abituarsi a quella formula.
«Potrebbe,
ehm, potrebbe ripetere?» domandò al custode. «Cos'era,
pillole...?»
«Guarda un
po' cosa ci porta il vento» ribatté la guida a voce alta. Poi
proseguì,
scandendo piano: «Pillole. Se sei uno studente in terapia, qui è
dove venire
a prendere quello che ti serve per drogarti, restare sano di
mente,
respirare o quant'altro.»
Donna, si
disse Louis, studiandola. Nessun uomo sarebbe stato tanto
malizioso da
usare un tono così dolciastro.
«Capito.» A
Louis venne la nausea. «Pillole.»
Non era più
sotto farmaci da anni. Dopo l'incidente di quell'estate il dottor
Sanford - il
suo analista a Hopkinton, nonché il motivo per cui i suoi genitori
l'avevano
spedito a scuola nel New Hampshire - aveva preso in
considerazione
di sottoporlo nuovamente alla terapia farmacologica.
Nonostante
alla fine lui l'avesse convinto di essere quasi stabile, c'era voluto
un mese in
più di analisi per liberarsi di quegli orrendi psicofarmaci.
Ed ecco
perché si era iscritto alla Sword & Cross con un mese di ritardo
rispetto
all'inizio dell'anno accademico. Essere quello nuovo era già
abbastanza
brutto, ma questa volta c'era stata anche l'ansia di piombare nel
bel mezzo di
corsi in cui tutti gli altri si erano già ambientati. A giudicare
dalla visita
guidata della scuola, però, Louis non doveva essere l'unico appena
arrivato.
Scoccò
un'occhiata furtiva agli altri tre, in semicerchio attorno a lui.
Nell'ultima
scuola, Dover Prep, aveva conosciuto così la sua migliore amica,
Pez. Tutti
gli altri studenti in pratica erano cresciuti insieme, e a loro era
bastato
essere gli unici a non avere genitori o fratelli che avessero studiato
lì. Ma poco
dopo avevano scoperto di condividere la stessa passione per gli
stessi
vecchi film, soprattutto quelli con Albert Finney. Quando poi, sempre
durante il
primo anno (mentre guardavano Due per la strada), avevano
scoperto che
nessuna dei due riusciva a preparare i popcorn senza far
scattare
l'allarme antincendio, Pez e Louis erano diventati inseparabili.
Finché...
finché non erano stati costretti a dividersi.
Accanto a
Louis quel giorno c'erano due ragazzi e una ragazza. La ragazza
sembrava
facile da inquadrare: bionda e carina come in una pubblicità della
Neutrogena,
con unghie rosa pastello in tinta con la cartellina di plastica.
«Mi chiamo
Taylor» disse strascicando le parole, abbagliandolo con un
gran sorriso
che svanì con la stessa rapidità con cui era apparso, prima
ancora che
Louis potesse presentarsi. Più che la ragazza tipo che si aspettava
di trovare
alla Sword & Cross, quell'interesse passeggero gli sembrò una
versione del
Sud delle ragazze di Dover. Louis non sapeva dire se fosse
consolante o
no, e nemmeno riuscì a immaginare che cosa ci facesse in un
correzionale
una ragazza del genere.
Alla destra
di Louis c'era un ragazzo con i capelli corti castani, occhi
marroni e
una spruzzata di lentiggini sul naso. Dal modo in cui evitava di
guardarlo,
limitandosi a tormentarsi una pellicina del pollice, Louis capì che
probabilmente
era stordito e imbarazzato quanto lui.
Il ragazzo
alla sua sinistra, invece, combaciava fin troppo bene con l'idea
che Louis si
era fatto di quel posto. Era alto e magro, con una borsa da DJ
appesa alla
spalla, capelli neri arruffati e occhi color miele, grandi ma affusolati.
Aveva le
labbra sottili ma al contempo piene, di un rosa per cui molte ragazze avrebbero
dato
qualsiasi
cosa. Dal bordo della maglietta nera, sulla nuca, spuntava il
tatuaggio di
un sole che sulla pelle chiara pareva quasi risplendere.
A differenza
degli altri due, quando si voltò a guardarlo, il ragazzo non
distolse gli
occhi. Il sorriso era forzato, ma lo sguardo era caldo e vivace. Lo
fissò,
immobile come una statua, e anche Louis si sentì inchiodato al suolo.
Trattenne il
respiro. Quegli occhi erano intensi, seducenti e be', disarmanti.
Schiarendosi
rumorosamente la gola, la custode strappò il ragazzo al suo
sguardo
trasognato. Louis arrossì e finse di essere molto occupato a grattarsi
la testa.
«Quelli di
voi che sanno già tutto sono liberi di andare dopo aver buttato
via gli
oggetti vietati.» La custode indicò una grossa scatola di cartone sotto
un cartello
che diceva a grandi lettere nere OGGETTI PROIBITI. «E
quando dico
liberi, Liam» calò una mano sulla spalla del ragazzo con le
lentiggini,
facendolo sussultare «intendo obbligati a incontrare le vostre
guide.»
Puntò il dito contro Louis. «Tu, via la roba vietata e rimani con me.»
I quattro si
avvicinarono alla scatola e Louis vide, sconcertato, che i
ragazzi
cominciavano a svuotarsi le tasche. La ragazza estrasse un coltellino
svizzero
rosa da dieci centimetri. Il tipo dagli occhi verdi si separò con una
certa
riluttanza da una bomboletta di vernice spray e un taglierino. Perfino il
povero Liam
lasciò cadere nello scatolone parecchie confezioni di
fiammiferi e
una piccola bomboletta di gas per accendini. Louis si sentì quasi
stupido a
non avere niente di pericoloso con sé, ma quando vide gli altri
frugare
nelle tasche e buttare i cellulari nella scatola, rimase a bocca aperta.
Chinandosi
in avanti per leggere più da vicino la scritta OGGETTI
PROIBITI,
notò che cellulari, cercapersone e ogni altro apparecchio di
trasmissione
e ricezione erano severamente proibiti. Come se non fosse già
abbastanza
brutto non avere un'auto! Louis strinse con la mano sudata il
telefono che
teneva in tasca, il suo unico collegamento con il mondo esterno.
La custode
colse il suo sguardo, e lo schiaffeggiò leggermente sulla guancia.
«Non
svenirmi addosso, piccolo, non mi pagano abbastanza per resuscitarti.
E poi, ti
spetta una telefonata alla settimana nell'atrio principale.» Una
telefonata...
alla settimana? Ma... Guardò il cellulare un'ultima volta e si
accorse che
gli erano arrivati due messaggi. Sembrava impossibile che
fossero gli
ultimi. Il primo era di Pez.
“Chiama subito! Ti aspetto vicino al
tel tutta la notte quindi preparati a
vuotare il sacco. E ricorda il mantra
che ti ho dato: Ce la farai! Cmq, per
quello che importa, mi sa che tutti
si sono dimenticati...”
Tipico di
Pez: il messaggio era così lungo che quello schifo di telefono
aveva
tagliato le ultime righe. In un certo senso, Louis ne fu quasi sollevato.
Non voleva
leggere che tutti alla sua vecchia scuola avevano già dimenticato
ciò che gli era
successo, ciò che aveva fatto per approdare in quel posto.
Sospirò e
passò al secondo sms. Era di sua madre, che aveva la mania dei
messaggi
solo da poche settimane, e di sicuro non era al corrente della
telefonata
settimanale, o non avrebbe mai abbandonato suo figlio lì. Giusto?
“Caro, ti pensiamo sempre. Fai il
bravo e cerca di mangiare abbastanza
proteine. Parleremo appena possibile.
Baci, mamma e papà”
Louis
sospirò. I suoi genitori lo sapevano. Come spiegare altrimenti le loro
facce tese
quando li aveva salutati fuori da scuola quella mattina, sacca da
viaggio in
mano? A colazione, aveva cercato di scherzare sul fatto che
avrebbe
finalmente perso quel tremendo accento del New England che aveva
preso alla
Dover, ma i suoi non gli avevano rivolto nemmeno l'accenno di un
sorriso. Louis
aveva pensato che fossero ancora arrabbiati. Non strillavano
mai, e
quando lui perdeva il controllo si limitavano a rispondere con un
muro di
silenzio. Ora capiva la ragione del loro comportamento: i suoi
stavano già
soffrendo della perdita di contatti con il loro unico figlio.
«Manca
ancora qualcuno...» cantilenò la custode. «Chissà chi è.» Louis
riportò di
scatto l'attenzione sulla scatola, ora piena fino all'orlo di oggetti
che non
riusciva nemmeno a riconoscere. Sentiva su di sé gli occhi verdi del
ragazzo dai
capelli scuri, ma poi si accorse che lo stavano fissando tutti.
Toccava a lui.
Chiuse gli occhi e aprì lentamente la mano: il cellulare cadde
sul mucchio
con un tonfo triste. Il rumore della solitudine.
Liam e la bambola
di plastica Taylor si avviarono verso la porta
riservando a
Louis appena un'occhiata, ma il terzo ragazzo si voltò verso la
custode.
«Posso
informarlo io» disse, indicando Louis con un cenno.
«Non fa
parte degli accordi» rispose automaticamente la donna, come se
si fosse
aspettata quello scambio di battute. «Sei uno nuovo, adesso: vuol
dire che hai
le stesse restrizioni dei nuovi. Sei tornato al via. Se non ti piace,
avresti
dovuto pensarci due volte prima di infrangere la tua promessa.»
Il ragazzo rimase
immobile, inespressivo, mentre la custode spingeva
Louis - che
si era irrigidito alla parola "promessa" - verso un atrio ingiallito.
«Muoversi»
aggiunse, come se nulla fosse. «Letti.» Indicò la finestra
esposta a
ovest di un edificio color cenere. Taylor e Liam iniziarono a
camminare
strascicando i piedi in quella direzione, e il terzo ragazzo li seguì
lentamente,
come se raggiungerli fosse l'ultima delle cose che aveva in
programma di
fare.
Il
dormitorio degli studenti era un edificio grigio imponente e squadrato,
con porte
massicce che non lasciavano trapelare all'esterno alcun segno di
vita. C'era
una grande targa di pietra in mezzo al prato: Louis l'aveva vista
sul sito web
della scuola, e ricordava che sopra c'era scritto PAULINE
DORMITORY.
Al pallido sole del mattino sembrava perfino più brutta di
quanto lo
fosse nella piatta fotografia in bianco e nero.
La facciata
era coperta di muffa nera, visibile perfino da quella distanza.
Tutte le
finestre erano chiuse da file di spesse sbarre d'acciaio. Louis strizzò
gli occhi.
Era filo spinato quello in cima al recinto che circondava l'edificio?
La custode
consultò una tabella, sfogliando la pratica di Louis. «Stanza 63.
Metti la
borsa nel mio ufficio insieme a quelle degli altri, per ora. Potrai
disfarla nel
pomeriggio.»
Louis
trascinò la sacca da viaggio rossa verso tre anonimi bauli neri, poi
d'istinto
cercò il telefono dove in genere si appuntava le cose da ricordare.
Ma dopo aver
frugato nella tasca vuota, sospirò e cercò di imparare a
memoria il
numero della stanza.
Continuava a
non capire perché non potesse semplicemente stare dai suoi;
la casa di
Thunderbolt era a meno di mezz'ora dalla Sword & Cross. Era
stato così
bello tornare a Savannah, dove, come diceva sempre sua madre,
perfino il
vento soffiava pigro. I ritmi dolci e lenti della Georgia gli erano
molto più
congeniali del New England.
La Sword
& Cross non somigliava affatto a Savannah, però. Non
somigliava a
niente, tranne che a un posto senza vita e senza colore dove era
stato
mandato per decisione del tribunale. Aveva ascoltato di nascosto suo
padre
parlare al telefono con il preside, annuendo in quel suo modo svanito
da
professore di biologia, per poi dire: "Sì, sì, forse la cosa migliore per
lui è
essere
costantemente sorvegliato. No, no, non intendiamo interferire con il
vostro
metodo."
Era chiaro
che suo padre non sapeva come sarebbe stato sorvegliato il suo
unico figlio.
Quel posto sembrava un carcere di massima sicurezza.
«E cosa
diceva di quelle... come le ha chiamate? Spie?» chiese Louis alla
custode, già
pronta a concludere il giro.
«Spie»
ripetè l'altra, indicando con un cenno un piccolo dispositivo
appeso al
soffitto: un obbiettivo con una lucina rossa intermittente.
All'inizio
Lou non l'aveva notato, ma non appena lo vide, si accorse che ce
n'erano
ovunque.
«Telecamere?»
«Molto bravo»
rispose la custode, con la voce piena di condiscendenza.
«Ve le
segnaliamo per avvertirvi. Vi tengono d'occhio sempre, dappertutto.
Quindi non
andare fuori di testa... se ci riesci.»
Ogni volta
che qualcuno gli parlava come se fosse uno psicopatico, Louis si
convinceva
sempre un po' di più di esserlo davvero.
I ricordi
l'avevano tormentato per tutta l'estate, in sogno e nei rari
momenti in
cui i suoi genitori lo lasciavano solo. Era successo qualcosa in
quel
bungalow, e tutti (lui compresa) morivano dalla voglia di sapere che
cosa. La
polizia, il giudice, l'assistente sociale... tutti avevano cercato di
cavargli
fuori la verità, ma Louis ne sapeva quanto loro. Lui e Trevor si erano
divertiti
per tutta la sera, inseguendosi fino alla fila di casette in riva al lago,
lontani
dagli altri invitati alla festa. Louis aveva cercato di spiegare che era
stata una
delle più belle serate della sua vita, finché non si era trasformata
nella
peggiore.
Aveva
rivissuto quella serata ancora e ancora - la risata di Trevor nelle
orecchie, le
sue mani che gli cingevano la vita - cercando di conciliare i
ricordi con
il fatto che il suo istinto gli diceva di essere innocente.
Ma ora,
tutte le regole della Sword & Cross parevano andare contro quella
convinzione,
sembravano suggerire che lui era davvero pericoloso e che
aveva davvero
bisogno di essere tenuto sotto controllo.
Louis sentì
una stretta salda sulla spalla.
«Ascolta»
disse la custode. «Se può farti sentire meglio, ci sono casi ben
peggiori,
qui.»
Era il primo
gesto di umanità che mostrava nei suoi confronti, e Louis era
Certo che
fosse dettato da buone intenzioni. Ma... l'avevano mandato laggiù a
causa della
morte sospetta del ragazzo di cui era innamorato e comunque
c'erano
"casi ben peggiori"? Louis si chiese con che cosa avessero a che fare
di preciso
alla Sword & Cross.
«Okay, fine
dell'orientamento» disse la custode. «Ora devi cavartela da
solo. Ecco
una mappa per trovare qualunque cosa ti serva.» Gli consegnò la
fotocopia di
una rozza cartina disegnata a mano, poi diede un'occhiata
all'orologio.
«Manca ancora un'ora alla tua prima lezione, ma ho già
abbastanza
gatte da pelare, quindi» agitò la mano «sparisci. E non
dimenticare»
aggiunse, indicando le telecamere un'ultima volta, «le spie ti
tengono
d'occhio.»
Prima che Louis
potesse ribattere, comparve una ragazza magra e bruna,
che le agitò
le lunghe dita davanti al viso.
«Ooooooh»
cantilenò cupa, danzando in cerchio intorno a Louis. «Le spie
ti tengono
d'ooooocchio!»
«Vattene,
Danielle, o ti faccio lobotomizzare» replicò la custode,
lasciandosi
però sfuggire un sorriso fugace ma sincero, dal quale si capiva
che per
quella ragazza nutriva una sorta di ruvido affetto.
E si capiva
anche che Danielle non lo ricambiava. Le fece un gesto osceno,
poi fissò
Louis con aria di sfida.
«E con
questo» ribatté la custode, scribacchiando furiosa sul suo taccuino,
«ti sei
appena guadagnata il compito di portare a spasso Mr Sorriso oggi.»
Indicò Louis
che, vestita di nero da capo a piedi, tutto sembrava tranne che
sorridente.
Nella sezione "Norme per l'abbigliamento" il sito della scuola
assicurava
che, fino a quando si fossero comportati bene, gli studenti erano
liberi di
vestirsi come volevano, con solo due piccole limitazioni: stile
sobrio e
colore nero. E la chiamavano libertà...
La maglia a
lupetto troppo grande che sua madre gli aveva imposto quella
mattina gli
copriva addirittura le mani, e perfino la sua cosa più bella era
scomparsa: i
scompigliati capelli castani, di solito lunghi fino alle spalle, erano stati
rasati.
L'incendio della casetta gli aveva bruciacchiato i capelli fino alla
radice in
alcuni punti, e dopo il lungo, silenzioso viaggio di ritorno a casa da
Dover, sua
madre l'aveva messo nella vasca da bagno, aveva preso il rasoio
elettrico
del marito e l'aveva rasato senza dire una parola. Durante l'estate i
capelli gli
erano ricresciuti un po', ma quelle che una volta erano onde
lucenti
spuntavano ora in bizzarri ciuffetti appena sotto le orecchie.
Danielle lo
esaminò, tamburellandosi con un dito le labbra pallide.
«Perfetto»
disse, prendendo Louis sottobraccio. «Avevo proprio bisogno di
uno schiavo
nuovo.»
La porta
dell'atrio si aprì, ed entrò il ragazzo dagli occhi verdi. Scosse il
capo e disse
a Louis: «Qui non si fanno problemi a perquisirti. Quindi, se hai
altra roba»
alzò un sopracciglio e buttò una manciata di oggetti disparati
nella
scatola, «risparmiati il fastidio.»
Alle spalle
di Louis, Danielle ridacchiò. Il ragazzo alzò la testa di scatto, e
quando vide
Danielle aprì la bocca, ma poi la richiuse, incerto.
«Danielle»
disse in tono neutro.
«Zayn»
replicò lei.
«Lo
conosci?» sussurrò Louis, chiedendosi se anche negli istituti
correzionali
si formassero lo stesso tipo di gruppetti che c'erano nelle prep
school come
Dover.
«Non
ricordarmelo» rispose Danielle trascinando Louis nel mattino grigio e
nebbioso.
Sul retro,
l'edificio principale dava su un marciapiede malmesso che
costeggiava
un campo incolto. L'erba era così alta da farlo sembrare più un
terreno in
vendita che uno spazio comune, ma un tabellone sbiadito e una
serie di
tribune di legno lasciavano intendere il contrario.
Oltre il
prato c'erano quattro edifici dall'aria severa: il palazzo color
cenere del
dormitorio all'estrema sinistra, un'enorme, brutta chiesa
all'estrema
destra e nel mezzo due costruzioni massicce che, si disse Louis,
dovevano
essere le aule.
Ecco tutto.
Il suo mondo era ridotto a quel triste panorama.
Danielle svoltò
subito a destra e guidò Louis verso il campo, facendolo
sedere su
uno degli spalti fradici.
A Dover
nello spazio comune c'erano sempre studenti della Ivy League
alle prese
con gli allenamenti, e Louis aveva sistematicamente evitato di
andarci. Ma
quel campo vuoto, con i pali delle mete arrugginiti e deformati,
raccontava
una storia molto diversa, che Louis faceva fatica a immaginare.
Tre avvoltoi
collorosso scesero in picchiata, e un vento triste agitò i rami
nudi delle
querce. Louis rabbrividì e infilò il mento nel collo del lupetto.
«Allooooora»
disse Danielle. «Hai conosciuto Randy.»
«Avevo
capito che si chiamasse Zayn.»
«Non stiamo parlando
di lui» ribatté Danielle, brusca. «Ma della cosa là
dentro.»
Danielle indicò con un cenno l'ufficio dove avevano lasciato la
custode,
davanti alla tivù. «Allora, maschio o femmina?»
«Ehm,
femmina?» azzardò Louis. «È un test?»
Danielle
sorrise. «Il primo di una lunga serie. E tu l'hai passato. Almeno
credo. Il
sesso della maggior parte del corpo insegnante è materia di
dibattito in
tutta la scuola. Non preoccuparti, entrerai anche tu nel giro.»
Louis pensò
che Danielle stesse scherzando... il che era fantastico. Ma lì era
tutto così
diverso dalla Dover. Nella sua vecchia scuola, i futuri senatori, con
le loro
cravatte verdi e i capelli lisciati con il gel, in pratica scivolavano
lungo i
corridoi in quel signorile silenzio con cui il denaro sembra
ammantare
ogni cosa.
Molto spesso
gli altri studenti di Dover gli scoccavano occhiate del tipo
"non
toccare le pareti con quelle mani". Cercò di immaginare Danielle nella
sua vecchia
scuola: a perdere tempo sugli spalti, facendo battute volgari con
la sua voce
acuta. Cercò di immaginare che cosa avrebbe pensato Pez di
lei. Non
c'era nessuno come Danielle alla Dover Prep.
«Okay, sputa
il rospo» ordinò Danielle. Si lasciò cadere sul sedile più alto,
fece cenno a
Louis di seguirlo e chiese: «Cos'hai fatto per finire qui?»
L'aveva detto
in tono scherzoso, ma Louis d'improvviso sentì che doveva
sedersi. Era
assurdo, ma aveva quasi sperato di superare il primo giorno di
scuola senza
che il passato l'aggredisse, strappandogli via il suo fragile strato
di calma.
Ovviamente, però, gli altri volevano sapere.
Sentiva il
sangue pulsare nelle tempie. Succedeva ogni volta che provava
a
ripensarci, a ripensare davvero a quella notte. Non aveva mai smesso di
sentirsi in
colpa per quello che era successo a Trevor, ma aveva anche
cercato con
tutte le forze di non farsi risucchiare dalle ombre, l'unica cosa
che per il
momento ricordava dell'incidente. Quelle sagome oscure e
indefinibili
di cui non avrebbe mai parlato con nessuno.
Aveva
cominciato a raccontare a Trevor della strana presenza che sentiva,
delle ombre
informi che incombevano su di loro, minacciando di rovinare la
loro serata
perfetta. Ma ormai a quel punto era troppo tardi. Trevor era
morto, il
suo corpo ustionato a tal punto da non essere più riconoscibile, e
Louis era...
era... colpevole?
Nessuno
sapeva delle sagome che vedeva a volte nelle tenebre. Venivano
sempre da lui.
Andavano e venivano da così tanto tempo che Luce non
riusciva più
a ricordarsi la prima volta in cui le aveva viste. Si ricordava
però di
quando aveva capito che le ombre non venivano per tutti, ma solo per
lui.
Aveva sette
anni, ed era andato in vacanza con i suoi a Hilton Head. Sua
madre e suo
padre l'avevano portato a fare una gita in barca. Era quasi il
tramonto
quando le ombre avevano cominciato a riversarsi sull'acqua; lui si
era voltato
verso suo padre e aveva detto: "Cosa fai quando arrivano, papà?
Come fai a
non aver paura dei mostri?"
Non c'era
nessun mostro, le avevano assicurato i genitori, ma Louis aveva
continuato a
insistere che sentiva una presenza oscura e indefinita,
guadagnandosi
così diverse visite dall'oculista e un paio di occhiali, a cui si
aggiunsero
alcuni appuntamenti dall'otorinolaringoiatra quando commise
l'errore di
descrivere il roco sibilo che a volte producevano le ombre, e
infine la
psicoterapia, ancora psicoterapia e gli psicofarmaci.
Ma niente
era mai riuscito a scacciarle.
Quando compì
quattordici anni, Louis si rifiutò di prendere le medicine. Fu
allora che
trovarono il dottor Sanford, e anche la Dover School. Volarono nel
New
Hampshire, e suo padre guidò l'auto a noleggio lungo una strada piena
di curve
fino a Shady Hollows, una tenuta in cima a una collina. Louis si
ritrovò
davanti a un uomo in camice da laboratorio e si sentì chiedere se
aveva ancora
le sue "visioni". I suoi gli tenevano la mano: avevano i palmi
sudati, e le
fronti corrucciate per la paura che il loro piccolo avesse qualcosa
che non
andava.
Nessuno gli aveva
spiegato che, se non diceva al dottor Sanford ciò che
tutti
volevano sentire, avrebbe rivisto Shady Hollows ancora molte volte.
Mentì e si
comportò normalmente; gli fu permesso di iscriversi alla Dover e
di vedere il
dottor Sanford solo due volte al mese.
Louis ebbe
il via libera a smettere di prendere quelle orribili pillole non
appena
cominciò a fingere di non vedere più le ombre. Ma non aveva il
potere di
non farle più apparire. Si limitò a evitare a tutti i costi i luoghi
dove in passato
erano venute per lui: fitte foreste, acque oscure. Sapeva che
il loro
arrivo era accompagnato da un freddo intenso sotto pelle, una
sensazione
nauseante che non somigliava a nessun'altra.
Louis si
mise a cavalcioni sugli spalti e si strinse le tempie con il pollice e
il medio. Se
voleva uscire indenne da quel primo giorno doveva relegare il
passato nei
recessi della sua mente. Lui per primo non sopportava di
scandagliare
i ricordi di quella notte, e quindi per niente al mondo avrebbe
spifferato i
particolari macabri a una sconosciuta stramba e fuori di testa.
Invece di rispondere
si volse verso Danielle, che se ne stava stesa sulla
gradinata,
con un enorme paio di occhiali scuri a coprirle buona parte del
viso. Louis
non poteva esserne certo, ma pensò che anche Danielle doveva
averlo
fissato, perché dopo un secondo si alzò di scatto e gli sorrise.
«Tagliami i
capelli come i tuoi» disse.
«Cosa?»
reagì Louis. «I tuoi capelli sono bellissimi!»
Era vero:
Danielle aveva le ciocche lunghe e folte di cui Louis sentiva
disperatamente
invidia. I suoi riccioli castani scintillavano al sole, appena
screziati di
un colore più scuro. Louis si sistemò i capelli dietro le orecchie, anche se
non
erano ancora
abbastanza lunghi e ricadevano sempre davanti.
«E chi se ne
frega» ribatté Louis. «I tuoi sono sexy, aggressivi. E li
voglio così
anch'io.»
«Oh, ehm,
okay» disse Louis. Era un complimento? Non sapeva se sentirsi
lusingato o
irritato da come Danielle sembrava dare per scontato di poter
avere tutto
ciò che voleva, anche se apparteneva a qualcun altro. «Dove
prendiamo...»
«Ta-da!» Danielle
cercò nella borsa e tirò fuori il coltello svizzero rosa che
Taylor aveva
buttato nella scatola degli Oggetti Proibiti. «Be'?» fece,
guardando Louis.
«Io metto sempre le mani sugli scarti dei nuovi studenti. È
l'unica cosa
che mi fa sopportare l'internamento... cioè... il campo estivo.»
«Tu hai
passato tutta l'estate... qui?» disse Louis con un sussulto.
«Ah! Un vero
novellino. Magari ti aspettavi anche qualche giorno di
vacanza in primavera.»
Tirò a Louis il coltello svizzero. «Non ce ne andiamo
da questo
inferno. Mai. Ora taglia.»
«E le spie?»
domandò Louis guardandosi intorno con il coltello in mano.
Probabilmente
c'erano telecamere anche lì fuori.
Danielle
scosse il capo. «Mi rifiuto di essere amica di una mammoletta. Ce
la fai o
no?»
Louis annuì.
«E non dirmi
che non hai mai tagliato i capelli a nessuno prima d'ora.»
Danielle
riprese il coltellino svizzero, estrasse le forbici e glielo porse di
nuovo. «E la
prossima cosa che voglio sentirti dire è: "Stai benissimo".»
Dopo averlo
fatto sedere nella vasca da bagno come se fosse il salone di
un
parrucchiere, la madre di Louis aveva raccolto ciò che restava dei suoi
bei capelli
in un codino disordinato, che poi aveva tagliato. Louis era certo
che dovesse
esserci un metodo migliore, ma avendo sempre evitato di
tagliarsi i
capelli conosceva solo il metodo della coda mozzata. Raccolse i
capelli di Danielle,
li legò con un elastico di quelli che portava al polso,
impugnò con
forza le forbici e cominciò.
La coda
cadde ai suoi piedi. Danielle trattenne il fiato e si voltò di scatto.
La raccolse
e la guardò contro sole. A Louis si strinse il cuore: soffriva
ancora al
pensiero dei capelli perduti, e di tutte le altre perdite che essi
rappresentavano.
Ma un lieve sorriso affiorò sulle labbra di Danielle. La
ragazza
passò le dita nella coda, una volta sola, poi la mise in borsa.
«Pazzesco»
disse. «Va' avanti.»
«Danielle»
sussurrò Louis, prima di riuscire a trattenersi. «Hai il collo
tutto...»
«... pieno
di cicatrici?» completò Danielle. «Puoi dirlo forte.»
La pelle del
collo di Danielle, dall'orecchio sinistro fino alla clavicola, era
segnata, a
chiazze, lucida. Louis ripensò a Trevor, e a quelle orribili
fotografie.
Perfino i suoi genitori avevano evitato il suo sguardo dopo averle
viste. E
adesso gli costava molta fatica guardare Danielle.
La ragazza
prese la mano di Louis e se la premette sul collo. Era caldo e
freddo allo
stesso tempo. Morbido e ruvido.
«Non mi fa
paura» disse. «A te sì?»
«No» rispose
Louis, anche se desiderava soltanto che Danielle togliesse la
mano per
poter allontanare la sua. Era stata così, la pelle di Trevor? Il
pensiero
bastò a fargli torcere lo stomaco.
«Hai paura
di chi sei veramente, Louis?»
«No» rispose
di nuovo lui, d'impulso. Doveva essere evidente che stava
mentendo.
Chiuse gli occhi. Louis voleva solo poter ricominciare da capo,
voleva un
posto dove la gente non lo guardasse come lo stava guardando
Danielle in
quel momento. Ai cancelli della scuola quella mattina, quando
suo padre
gli aveva sussurrato all'orecchio il motto della famiglia Tomlinson - "I
Tomlinson
non crollano mai" - gli era sembrato possibile, ma adesso si sentiva
abbattuto,
scoperto. Tolse la mano. «Com'è successo?» domandò, con lo
sguardo
rivolto verso il basso.
«Quando ti
sei chiuso a riccio sul perché ti trovi qui io non ti sono stato
addosso»
rispose Danielle, aggrottando le sopracciglia.
Louis annuì.
Danielle
indicò le forbici. «Aggiustali dietro, okay? Fammi bella. Fammi
uguale a
te.»
Anche con lo
stesso taglio Danielle somigliava comunque a una versione
denutrita di
Louis. Mentre lui cercava di sistemare la prima acconciatura che
avesse mai
fatto in vita sua, Danielle si immerse nelle complessità della vita
alla Sword
& Cross.
«Quel
palazzo laggiù è l'Augustine. È dove si tengono i cosiddetti Eventi
del
mercoledì sera. E le lezioni.» Indicò una costruzione color denti
ingialliti,
due edifici più a destra del dormitorio. Sembrava progettato dallo
stesso
sadico che aveva costruito il Pauline. Era tetro e squadrato, una specie
di fortezza,
protetto dallo stesso filo spinato e dalle stesse sbarre alle
finestre.
Una nebbia grigia innaturale avvolgeva le mura come muschio: era
impossibile
anche solo intuire se lì ci fosse qualcuno.
«Ti avverto»
proseguì Danielle. «Odierai le lezioni. Non saresti umano
altrimenti.»
«Perché?
Cos'hanno che non va?» domandò Louis. Forse Danielle non
amava la
scuola in generale. Con le unghie smaltate di nero, la matita nera
sugli occhi
e la borsa nera che sembrava grande abbastanza solo per il
coltellino
svizzero, non aveva proprio l'aria della secchiona.
«Sono
senz'anima» rispose Danielle. «Peggio, ti strappano via la tua. Degli
ottanta
ragazzi che sono qui, direi che sono rimaste solo tre anime.» Alzò gli
occhi al
cielo. «Ben nascoste, comunque...»
Non era una
bella prospettiva. Ma fu qualcos'altro a colpire Louis.
«Aspetta, ci
sono solo ottanta ragazzi in tutta la scuola?» L'estate prima di
andare a
Dover, Louis aveva studiato il voluminoso manuale per i nuovi
iscritti,
imparando a memoria le statistiche. Ma tutto quello che aveva
scoperto
finora sulla Sword & Cross dimostrava che lui era arrivato del tutto
impreparato
al primo incontro con l'istituto correzionale.
Danielle
annuì, e Louis tagliò per errore una ciocca di troppo. Per fortuna
Danielle non
se ne sarebbe accorta... o forse avrebbe pensato che faceva
tendenza.
«Otto
classi, dieci ragazzi per classe. Vieni subito a sapere il peggio di
tutti»
disse. «E viceversa.»
«Immagino»
commentò Louis mordendosi il labbro. Danielle scherzava, ma
Louis si
domandò se la sua nuova amica sarebbe rimasta lì seduta con quel
sorrisetto
compiaciuto se avesse conosciuto il suo passato. Più a lungo lo
teneva
nascosto, meglio era.
«E ti
consiglio di stare alla larga dai casi gravi.»
«Casi
gravi?»
«Quelli con
il braccialetto elettronico» rispose Danielle. «Più o meno un
terzo degli
studenti.»
«Sarebbero
quelli che...»
«Non ti ci
immischiare. Fidati.»
«Be', ma
cosa fanno?»
Louis voleva
tener segreto il suo passato, ma non gli piaceva che Danielle lo
trattasse
come un sempliciotto. In fondo, quello che aveva fatto, almeno a
sentire che
cosa raccontavano alla Dover, era senza dubbio peggio di
qualsiasi
cosa potevano aver combinato i ragazzi della Sword & Cross. Ma
se non fosse
stato così? Dopotutto, non sapeva quasi niente di quelle persone
e di quel
posto. La possibilità che ci fossero studenti con un passato più
oscuro del
suo gli smosse una paura fredda e grigia in fondo allo stomaco.
«Oh, le
solite cose» cantilenò Danielle. «Istigazione e complicità in atti di
terrorismo.
Genitori fatti a pezzi e cucinati allo spiedo.» Si voltò e gli strizzò
l'occhio.
«Piantala»
ribatté Louis.
«Non sto
scherzando. I fuori di testa vengono sottoposti a
restrizioni più
severe di
noi sfigati. Li chiamiamo gli ingabbiati.»
Louis
scoppiò a ridere per il tono teatrale che aveva usato Danielle.
«Finito»
disse, aggiustandole i capelli con le dita per dar loro più volume.
Le stavano
davvero bene.
«Caro»
ribatté Danielle. Si voltò verso Louis e quando si passò le dita fra i
capelli le
maniche del pullover ricaddero mostrando per un attimo una fascia
nera con
file di borchie argentate, e sull'altro polso un braccialetto dall'aria
più...
meccanica. Danielle si accorse che Louis l'aveva visto e alzò le
sopracciglia
con aria diabolica.
«Te l'avevo
detto» sibilò. «Pazzi maledetti.» Sorrise. «Dai, finiamo il
giro.»
Louis non
aveva molta scelta. Scese dagli spalti e seguì Danielle,
chinandosi
quando uno degli avvoltoi collorosso si abbassò pericolosamente.
Danielle
parve non accorgersene, e indicò una chiesa coperta da licheni sulla
destra del
prato.
«Da quella
parte, potete ammirare la nostra modernissima palestra» disse,
con voce
impostata da guida turistica. «Certo, a un occhio distratto può
sembrare una
chiesa. E infatti lo era. Qui alla Sword & Cross ci troviamo in
una specie
di Inferno architettonico di seconda mano. Qualche anno fa uno
strizzacervelli
malato di aerobica è venuto qui a pontificare su quanto i
giovani
ipermedicalizzati rovinino la società. Ha donato alla scuola una
montagna di
soldi perché trasformassero la chiesa in una palestra. Ora le
Potenze del
cielo ritengono che possiamo risolvere le nostre "frustrazioni" in
un
"modo più naturale e produttivo".»
Louis
grugnì. Aveva sempre detestato fare ginnastica.
«Oh, mio
compagno di sventura» lo compatì Danielle. «Diante, l'insegnante
di
educazione fisica, è il Male.»
Louis si
mise a correre per tenere il passo di Danielle, e intanto si diede
un'occhiata
intorno. A Dover il parco era tenuto in modo splendido, ben
curato e con
gli alberi potati alla perfezione. Quello della Sword & Cross
sembrava una
palude. C'erano salici piangenti con rami lunghi fino a terra,
tutti
aggrovigliati, il kudzu cresceva sulle mura, e ogni tre passi si finiva in
una
pozzanghera.
E non era
solo quello che si vedeva. L'umidità si attaccava ai polmoni a
ogni
respiro. Alla Sword & Cross respirare era come affondare nelle sabbie
mobili.
«Pare che
gli architetti non siano riusciti a mettersi d'accordo mentre
discutevano
su come attualizzare lo stile delle vecchie accademie militari. Il
risultato è
una scuola a metà tra un penitenziario e una sala delle torture
medioevale.
E senza giardiniere.» Danielle scrollò un po' di melma dagli
anfibi.
«Disgustoso. Ah, ecco il cimitero.»
Louis guardò
nella direzione che Danielle gli indicava, verso l'estrema
sinistra del
parco, subito dopo il dormitorio. Un manto di nebbia ancora più
spesso
incombeva su una zona cintata da mura. Era circondata su tre lati da
un fitto
bosco di querce. Non si riusciva a vedere oltre perché il cimitero
sembrava
quasi sprofondare nel terreno, ma c'era puzza di marcio e si
sentivano le
cicale frinire fra gli alberi. Per un attimo Louis credette di
vedere il
guizzo oscuro delle ombre... ma quando batté le palpebre, erano già
scomparse.
«Quello è un
cimitero?»
«Già. Ai
tempi della Guerra Civile questa era un'accademia militare, e là
seppellivano
i morti. Fa davvero venire i brividi. E Osannai» continuò
Danielle,
calcando in modo esagerato un finto accento del sud. «La puzza
arriva fino
all'alto dei Cieli.» Le strizzò l'occhio. «Ci passiamo un sacco di
tempo da
quelle parti.»
Louis la
guardò per capire se stava scherzando. Danielle si limitò a
scrollare le
spalle.
«Okay, è
successo un'unica volta. E solo dopo un festino a base di
pasticche.»
Festini a
base di pasticche... anche Louis poteva dire di averne visti un
paio.
«Ah! » Danielle scoppiò a ridere. «Ho visto una luce! Allora
c'è qualcuno
in casa.
Be', mio caro, sarai anche andato alle superfeste del liceo, ma non
hai mai
visto quelle dei ragazzi di un correzionale.»
«Che
differenza c'è?» domandò Louis sorvolando sul fatto che a Dover non
era mai
stato a una "superfesta".
«Vedrai.» Danielle
tacque e si voltò verso Louis. «Verrai da me stasera,
vero? Verrai
a trovarmi?» A sorpresa, prese la mano di Louis. «Promesso?»
«Ma non mi
avevi detto di stare lontana dai casi gravi?» scherzò lui.
«Regola
numero due: non starmi a sentire!» Danielle scoppiò a ridere
scuotendo la
testa. «Sono una pazza patentata!»
Ricominciò a
correre, con Louis alle calcagna.
«Aspetta, ma
qual era la regola numero uno?»
«Tieni il
passo!»
Girato
l'angolo dell'edificio color cenere, Danielle si fermò. «Sangue
freddo»
disse.
«Sangue
freddo» ripetè Louis.
Tutti gli
studenti erano assiepati attorno agli alberi divorati dal kudzu
fuori dal
padiglione Augustine. Nessuno pareva proprio felice di star lì fuori,
ma allo
stesso tempo nessuno sembrava pronto a entrare.
A Dover non
c'era un codice d'abbigliamento, quindi Louis non era
abituato
all'effetto uniforme. Eppure, sebbene tutti i ragazzi indossassero gli
stessi jeans
neri, lupetto nero e maglione nero sulle spalle o legato in vita,
ognuno li
indossava in modo diverso.
Un gruppetto
di ragazze tatuate stavano in circolo a braccia conserte.
Avevano
braccialetti fino al gomito e bandane nere che a Louis ricordarono
un film su
una banda di motocicliste che aveva visto una volta. L'aveva
affittato
perché si era chiesto: cosa c'è di meglio di una banda di
motocicliste?
Una delle ragazze la fissò a sua volta, e lo sguardo che gli
scoccò con
gli occhi da gatto truccati di nero bastò a Louis per distogliere
subito il
suo.
Un ragazzo e
una ragazza che si tenevano per mano avevano un teschio di
paillettes
con le ossa incrociate cucito sui maglioni neri. A ogni momento
uno dei due
attirava a sé l'altro per baciarlo sulla tempia, sull'orecchio,
sull'occhio.
Quando si abbracciarono Louis vide che avevano tutti e due al
polso il
braccialetto elettronico di sorveglianza. Avevano l'aria un po' rozza,
ma era
evidente che si amavano molto. Ogni volta che vedeva scintillare i
piercing
alla lingua, Louis si sentiva stringere il cuore di solitudine.
Dietro gli
innamorati, c'era un gruppo di ragazzi biondi, appoggiati contro
il muro.
Nonostante il caldo, indossavano tutti il pullover, con sotto candide
camicie
oxford con il colletto alzato. I pantaloni neri cadevano
perfettamente
sulle scarpe lucide. Di tutti gli studenti erano quelli che più
somigliavano
ai suoi ex compagni di Dover, ma a uno sguardo più attento si
capiva che
erano molto diversi dai ragazzi che lui aveva conosciuto, i
ragazzi come
Trevor.
Solo per il
fatto di essere in gruppo, trasmettevano una sorta di durezza,
che si
rifletteva nel loro sguardo. Era difficile da spiegare, ma d'un tratto
Louis si
rese conto che in quella scuola tutti avevano un passato, proprio
come lui.
Tutti avevano segreti che non volevano condividere. Non riusciva
a capire, però,
se questa consapevolezza lo faceva sentire più o meno isolato.
Danielle si
accorse che Louis stava osservando gli altri ragazzi.
«Facciamo
tutti quello che possiamo per arrivare alla fine della giornata»
disse
scrollando le spalle. «Ma in caso non ti fossi accorta degli avvoltoi che
volano in
circolo, questo posto puzza di morte.» Si sedette su una panchina
sotto un
salice e batté con la mano accanto a sé per invitare Louis a fare
altrettanto.
Louis spazzò
dalla panchina una manciata di foglie umide e marce, e si
sedette. Fu
allora che notò un'altra violazione al codice dell'abbigliamento.
Una violazione
molto attraente.
Portava una
sciarpa verde scuro. Fuori non faceva affatto freddo, eppure
indossava un
giubbotto nero di pelle da motociclista sul pullover nero. Forse
era perché
la sua era l'unica macchia di colore in tutto il parco, ma Louis non
riusciva a
distogliere lo sguardo. Al confronto tutto il resto impallidiva
talmente che
per un lungo istante Louis dimenticò dove si trovava.
Contemplò i
suoi capelli color castano intenso e l'abbronzatura leggera; gli zigomi
alti, gli
occhiali neri, le labbra morbide. In tutti i film che Louis aveva visto,
in tutti i
libri che aveva letto l'oggetto dell'amore era di una bellezza
sconvolgente...
tranne che per un piccolo difetto. Il dente spezzato, i capelli
ribelli, una
voglia sul collo. Lui sapeva il perché: se l'eroe
è troppo
perfetto, rischia di essere inavvicinabile. Avvicinabile o meno, Louis
aveva sempre
avuto un debole per il sublime. E il ragazzo davanti a lui lo era
al cento per
cento.
Si appoggiò
contro il muro, a braccia incrociate. E per un istante Louis
ebbe la
visione di se stesso avvolto da quelle braccia. Scosse
la testa, ma la
visione
rimase così chiara che per poco non si alzò per raggiungerlo.
No. Era
assurdo. Era un impulso folle perfino in una scuola di matti, si
disse Louis.
E poi, non lo conosceva nemmeno.
Stava
parlando con un ragazzo più basso con i dread e un sorriso a
trentadue
denti. Ridevano tutti e due tanto forte e di gusto che Louis provò
una strana
gelosia. Cercò di ricordarsi da quanto tempo non rideva così, da
quanto tempo
non rideva davvero.
«Quello è
Harry Styles» disse Danielle chinandosi verso di lui, come se
gli avesse
letto nel pensiero. «Mi sa che ha attirato l'attenzione di
qualcuno...»
«"Attirato
l'attenzione" è dire poco» convenne Louis, pensando con
imbarazzo
alla figura che doveva avere appena fatto con Danielle.
«Be', se ti
piace il genere.»
«E come
potrebbe non piacere?» ribatté Louis, senza riuscire a trattenersi.
«Il suo
amico si chiama Nick» continuò Arriane, indicando con un
cenno il
ragazzo con i dread. «È forte. È uno di quelli che sa procurarsi le
cose, mi
spiego?»
Mica tanto,
pensò Louis mordendosi il labbro. «Cose di che tipo?»
Danielle
scrollò le spalle, e tagliò via un filo che pendeva da uno strappo
nei jeans
con il coltellino svizzero. «Cose e basta. Del tipo chiedi-e-ti-sarà-
dato.»
«Ed Harry?»
domandò Louis. «Come è finito qui?»
«Oh, sei uno
che non molla, eh?» Danielle scoppiò a ridere, poi si schiarì la
voce.
«Nessuno la sa. Harry coltiva alla perfezione la sua immagine di
uomo del
mistero. Potrebbe essere il tipico stronzo da correzionale.»
«Ne so
qualcosa di stronzi» ribatté Louis, ma si pentì subito di averlo
detto. Dopo
quello che era capitato a Trevor - qualunque cosa fosse - lui era
l'ultima a
poter giudicare. Ma soprattutto, le rare volte in cui aveva anche
solo
accennato a quella notte, la coltre cangiante delle ombre era tornata da
lui quasi
come se fosse ancora in riva al lago.
Guardò di
nuovo Harry. Lui si tolse gli occhiali e li infilò nel giubbotto,
poi si voltò
verso di lui.
I loro
sguardi si incrociarono. Louis lo vide spalancare gli occhi e poi
socchiuderli,
come se fosse sorpreso. Ma no, era qualcosa di più della
semplice
sorpresa. Quando gli occhi di Harry catturarono i suoi, Louis
rimase senza
fiato. Era sicuro di averlo già visto da qualche parte, anche se
non sapeva
dire dove.
Eppure, era
impossibile. Era impossibile che si fosse dimenticato di aver
conosciuto
un ragazzo così. Era impossibile che si fosse dimenticato di
essersi
sentito tanto scosso quanto lo era adesso.
Harry gli
sorrise, e solo allora Louis si rese conto che non avevano mai
smesso di guardarsi.
Un fiotto di calore lo attraversò e dovette
aggrapparsi
alla panchina per sostenersi. Sentì le sue labbra scattare a loro
volta in un
sorriso, ma poi Harry alzò una mano.
E gli mostrò
il medio.
Louis rimase
senza fiato e abbassò lo sguardo.
«Che c'è?»
chiese Danielle, che evidentemente non si era accorta di niente.
«Non
importa, non c'è tempo. Ecco la campanella.»
La
campanella suonò come al suo comando, e tutti gli studenti si
avviarono
lenti verso l'edificio. Danielle lo trascinò per un braccio senza
smettere di
dargli indicazioni su dove incontrarsi, e quando. Ma Louis era
ancora sotto
shock per essere stato mandato a farsi fottere da un perfetto
sconosciuto.
Il suo delirio momentaneo su Harry era svanito e l'unica cosa
che voleva
sapere era: che problemi aveva quel tizio?
Appena prima
di immergersi nella sua prima lezione trovò il coraggio di
voltarsi. Il
viso di Harry non tradiva alcuna espressione, ma non c'erano
dubbi: lo
stava seguendo con lo sguardo.