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Autore: L u c i n d a    04/11/2017    1 recensioni
"... «Emeline», cominciò la ragazza, non avendo smesso per un attimo di ponderare la scelta delle informazioni che adesso le sarebbe toccato rivelare. «Emeline Gangioku è il mio nome.»
Gaara si soffermò su quel cognome cercando di collegarlo a qualche rimembranza.
«Non puoi ricordartelo», fece lei, distogliendolo dalle sue riflessioni. «Per Suna è come se la nostra famiglia non fosse mai esistita».
«In che senso?», chiese il rosso, scettico.
«Fummo esiliati dal villaggio tre generazioni fa», rispose Emin, affatto colpita dall’espressione di stupore che scorse sul volto del proprio interlocutore. «Ingiustamente», aggiunse con rammarico.
«E’ per questo che volete vendicarvi?», domandò ancora una volta il giovane Kage, trovando conferma alla sua ipotesi nel cenno d’assenso della ragazza. «Per quale motivo vi fu dato l’esilio?»
«Non hai sentito Morgan?», disse lei. «Eravamo scomodi.» ..."
Rosa rossa e rosa nera. Due famiglie dilaniate da un'eredità velenosa ancorata al passato, un conflitto che si trascina da generazioni e una resa dei conti sempre più vicina. Riusciranno la razionalità e i sentimenti a fermare questa follia?
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kankuro, Nuovo Personaggio, Sabaku no Gaara, Shikamaru Nara, Temari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
Capitoli:
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#6

Choice

 

 

 

 

 

Morgan camminava in silenzio nelle vie rumorose di Sin, lo sguardo era cupo e fissava i piedi muoversi meccanicamente verso la periferia della città. Cercava di svuotare la mente e di ritrovare la calma, ma erano bastati pochi minuti per rendersi conto che non sarebbe riuscito a scacciare il vortice che incatenava i suoi pensieri agli episodi della settimana precedente; il tarlo scavava in profondità nella sua testa logorando tutto quello che rimaneva della sua serenità, costringendolo a isolarsi dalle altre persone. Sentiva che sarebbe bastata una flebile scintilla per abbattere lo scudo che nascondeva la sua rabbia e, purtroppo, non era quello che poteva permettersi di fare. Non aveva più rivisto Emin dopo quel pomeriggio e, più i giorni passavano, più la collera nei suoi confronti sembrava accecarlo da qualsiasi razionalità. Pensava continuamente a lei. Pensava al discorso che avevano fatto poco prima di doversi scontrare con l’imprevedibilità di quel sisma, pensava al suo viso insicuro, alla paura che aveva attraversato come un lampo i suoi occhi al pensiero della vendetta, all’angoscia che le aveva letto nei gesti per il futuro di quei villaggi.

Come aveva potuto pensare che la cugina desse la priorità a qualcos’altro se non al loro lavoro in quelle terre? La sua era stata una sconfitta in partenza. Sapeva perfettamente quanto Emin tenesse a quei villaggi e sapeva perfettamente che significato avesse per lei risollevare quelle persone. Come era potuto essere così cieco? Le azioni della cugina colmavano il suo cuore di quel disprezzo velenoso che serpeggiava nelle anime della loro casata sin da quando avevano perso il diritto di stabilirsi nella loro terra natia, senza contare che il fatto di aver avuto la possibilità di porre fine a quel tormento senza però essere riuscito nell’intento quasi lo distruggeva. Era colpa di Emin se lui adesso annegava nella rabbia, ed era colpa del se stesso impulsivo se era stato volutamente cieco a quanto l’anima di lei stava disperatamente cercando di fargli capire.

Stringeva i pugni dolorosamente a quel pensiero, indeciso se accusare la propria irruenza o l’egoismo della cugina per quanto era accaduto, conficcava le unghie nei palmi talmente forte da lacerare i tessuti; si era aperta una crepa nel suo cuore, lo sentiva, una crepa da cui era fuoriuscita una consapevolezza con un impeto tale da renderlo instabile: avrebbe dovuto scegliere.

Quello che provava per Emin non era minimamente comparabile a quanto aveva provato nei confronti di chiunque altro, era qualcosa di profondo e viscerale che andava a intricarsi coi rovi acuminati che ferivano la sua anima, formando un groviglio inscindibile e una catena da cui non avrebbe potuto liberarsi nemmeno riuscendo ad allentarne gli anelli. Era qualcosa senza la quale il senso di vivere sarebbe venuto meno, poiché, inconsapevolmente, era questo che Morgan aveva fatto in tutta la sua esistenza: aveva raccolto i cocci distrutti della vita di Emin e li aveva ricomposti lentamente, anno dopo anno, assicurandosi che lei si rialzasse più forte di prima. Era stato suo padre a chiedergli di badare alla cugina e, se all’inizio trovava deprimente trascorrere le sue giornate con quella bambina sempre triste, col passare del tempo aveva cominciato a desiderare di vederla sorridere sempre più spesso, fino a fare della sua felicità la propria ragion d’essere. Emin, tuttavia, era come il cristallo: un materiale bellissimo ma al tempo stesso fragile e bisognoso di continue attenzioni, aveva bisogno di protezione ma, soprattutto di una comprensione che nessun’altro all’infuori di lui sarebbe stato in grado di darle, poiché nessun’altro avrebbe capito appieno il suo dolore.

La amava, probabilmente, di un amore fraterno e incondizionato, una devozione assoluta radicata in quelle catene di cui non si sarebbe mai riuscito a liberare. Per lei, lo sapeva, avrebbe fatto qualsiasi cosa, ed era proprio questo pensiero a lograrlo. Le parole del suo bisnonno rimbombavano in testa come violente esplosioni, l’orgoglio della casata dilaniava la sua ragione rendendo invisibile tutto il resto, proprio come era successo quel giorno in cui aveva fallito nel portare a termine la vendetta.

Era solo un bambino allora, ma si ricordava perfettamente quel bisnonno dall’innaturale lunga vita; era l’ultimo rimasto della sua generazione ed era il patriarca assoluto di quella nuova faccia della casata Gangioku. Fu proprio lui, infatti, a sottoporsi all’esperimento che mutò il DNA della loro millenaria discendenza e fu questo cambiamento ad essere il presupposto della loro rovina.

«Ci hanno cacciati perché ci temevano», gli aveva detto un giorno. «Temevano che superandoli in abilità avremmo finito col tradirli e hanno preferito risolvere il problema alla radice, cercando di eliminarci per sempre dalla faccia della terra». A quel punto una ruga profonda aveva solcato la sua fronte, senza che Morgan fosse mai riuscito ad attribuirla alla rabbia, alla delusione o al rimorso. «Ma siamo ancora qui. Spetterà a voi la resa dei conti», aveva concluso, chiudendosi in un enigmatico silenzio.

Moroki Gangioku, il capostipite, nonché bisnonno di Morgan, era morto nemmeno un mese prima che Emin venisse loro affidata, non avendo potuto conoscere così l’unica nipote ad aver ereditato il suo DNA. L’ironia di quel destino spesso lo irritava, se solo la cugina fosse nata tra le mura della casata probabilmente gli eventi avrebbero preso una piega diversa, la stessa Emin sarebbe stata diversa, e forse in quel momento non sarebbe stato il direttore dei lavori in quei villaggi ricoperti di macerie e impregnati di disperazione.

Senza accorgersene era arrivato al cimitero. Ogni centro abitato, ormai, ne aveva uno.

Guardando le vie trafficate si poteva pensare che tutto stava lentamente tornando alla normalità dopo la ricostruzione: le attività erano rinate, le scuole avevano riaperto e le famiglie avevano una nuova casa sicura in cui poter ricominciare. La distruzione era lentamente scomparsa dalle strade, ma Morgan sapeva che quel tipo di distruzione era qualcosa che raramente si cancellava del tutto, rimaneva nei cuori e nell’anima di chi era sopravvissuto e aveva perso qualcuno, esattamente come era successo alla cugina dieci anni prima.

Guardando la gente piangere sulle tombe dei loro cari Morgan aveva la sensazione che delle tenaglie arroventate gli lacerassero il petto, poiché il Morgan Gangioku, architetto e direttore dei lavori nell’attuale ricostruzione del terzo centro strategico di Nakoto, ormai si sentiva parte di quella gente quanto un singolo mattone era corpo della sua muratura. Metaforicamente, più che un mattone qualunque sentiva che sulle proprie spalle, ormai, gravava un carico impossibile da alleggerire, sentiva di essere diventato il motore della vita di quelle persone, un pilastro portante, e a un pilastro portante non viene mai concesso di venir meno ai propri doveri, pena la distruzione dell’imponente muratura sovrastante. Era come essere incastrati, come se non ci fosse una via d’uscita: da un lato Emin, dall’altro la famiglia, e sulle spalle l’immensità di dolore che lo circondava e che aveva visto in lui uno degli elementi principali a cui appigliarsi.

Si appoggiò a uno dei muri che perimetravano quel luogo di riposo, lo sguardo incollato al terreno e la gola riarsa, era sul punto di unirsi a quella disperazione che aveva di fronte, costernato per la difficile scelta che tormentava il suo cuore e avvilito al solo pensiero di immaginarsi nella situazione di quelle persone la cui anima, di fonte a lui, si contorceva nel dolore.

Fu in quel momento che alzò lo sguardo e la vide.

La cugina era di fronte a lui, la sua figura lontana era poggiata sul muro perimetrale opposto al suo e lo sguardo era rivolto all’orizzonte di fuoco che tingeva la sera; era seduta per terra, la caviglia ancora convalescente e le stampelle abbandonate al suo fianco.

Si diede del vigliacco per averla abbandonata a se stessa quel giorno, tra le macerie instabili della città e in balia del loro peggior nemico. Era stato maledettamente irresponsabile, codardo e infantile, senza contare che si sentiva a dir poco patetico per aver pensato fino a un minuto prima di poter essere l’unico a comprendere e proteggere Emin. Per colpa sua lei aveva rischiato di morire e per colpa della propria irruenza non era riuscito nemmeno a compiere vendetta, aveva inconsapevolmente rischiato di perdere ogni cosa.

Non era riuscito a pensare ad altro mentre le si avvicinava e, mentre le gambe si muovevano come in una sorta di magnetica attrazione verso di lei, sentiva che il rancore che aveva provato nei suoi confronti era ormai volato lontano.

Dall’altro lato del cimitero, la ragazza aveva cominciato a lottare furiosamente con le proprie emozioni nel momento esatto in cui aveva scorto il cugino. In quei giorni di riposo forzato dal lavoro aveva spesso fatto tappa in quel luogo dove trovavano pace le anime dei defunti e la disperazione i cuori dei sopravvissuti. Quello era l’unico posto in cui i suoi sentimenti sembravano trovare comprensione, poiché anche lei aveva delle persone care da piangere, anche il suo cuore era pervaso da una disperazione da cui non si era mai più liberato e stare tra quelle persone era il solo modo per trovare un po’ di conforto, il vedere la forza e la determinazione con cui loro affrontavano le perdite le dava coraggio. Come erano bravi gli esseri umani a costruirsi le proprie armature, come erano bravi a nascondere il nero che lentamente li divorava in virtù di mostrarsi forti agli occhi degli altri e, mentre Emin osservava Morgan avanzare verso di lei, si chiedeva il motivo per cui non era ancora riuscita a costruire la corazza che le avrebbe permesso di ricominciare. Perché mai non era ancora riuscita a darsi pace?

Il suo cuore era in subbuglio e lei stessa non sapeva realmente definire i sentimenti che stava provando in quel preciso istante nei confronti del cugino: era sinceramente sconvolta da quello che era successo nel deserto, risucchiata da quel vortice di dolore che le si presentava ogni giorno davanti agli occhi, imprigionata nel passato e aggrappata a dei ricordi sempre più sbiaditi. La parte più pratica di lei probabilmente detestava la propria famiglia per aver trasformato Morgan in una persona instabile ed emotivamente fragile, e sapeva perfettamente che l’impulsività e l’irrazionalità con cui il cugino aveva agito quel giorno erano in gran parte frutto di quel secolare odio che stava corrodendo la loro casata. Emin conosceva Morgan meglio di chiunque altro e, se anche il petto prendeva a contorcersi al pensiero di come si era comportato, abbandonandola nel momento in cui più aveva bisogno, sapeva che non sarebbe mai riuscita a fare a meno di lui, la dipendenza nei suoi confronti era incontrollabile, una dipendenza senza la quale sentiva il terreno cedere sotto di lei, sbriciolarsi come si erano sbriciolati gli edifici di quei villaggi, aprendole la strada verso un vuoto che la terrorizzava. Più i lenti passi del cugino si avvicinavano più la gola si inaridiva e la mascella si serrava. Non aveva voglia di parlargli, non ancora, eppure non riusciva a fare a meno di desiderarlo, la sua parte razionale aveva da sempre avuto una misera voce in capitolo nei suoi sentimenti e adesso non riusciva a capire come realmente si stava sentendo in quel momento, se arrabbiata o contenta, serena o tormentata. Il petto le faceva ancora male per le parole che lui le aveva detto, erano state peggio di una ferita avvelenata ed era come se quel veleno si fosse diffuso in lei, paralizzandola alla mercé del senso di colpa. La decisione che aveva preso quel giorno era giusta e sbagliata al tempo stesso, dipendeva solo dal punto di vista che si adottava, ed Emin stava in quel limbo infernale che si trovava nel mezzo, colpevole e innocente al tempo stesso, inesorabilmente sola.

Morgan si era seduto accanto a lei, fissava anche lui l’orizzonte.  

La ragazza rimase immobile, lo sguardo concentrato sui profili lontani dei monti Dakagi e il corpo in tensione. Era la prima volta che stare vicino al cugino la faceva sentire così inadeguata, la prima volta che dalla sua presenza non traeva alcun genere di conforto, era come se si fosse alterato il loro equilibrio e avessero perso la loro armonia, come se stessero viaggiando su frequenze diverse. Sentì Morgan sospirare. Doveva essere lei a rompere il silenzio.

«Andrò avanti coi lavori», affermò Emin. Le parole erano uscite rapide dalla sua bocca, alla stregua di un conato, lo sguardo era ancora fisso sulle montagne. «Ho ottenuto una tregua fino al loro termine, sentiti libero di restare o meno».

Diretta, precisa. In una frase era riuscita a riassumere tutto quello che turbinava nella sua mente: l’angoscia per quei villaggi, il desiderio di portare a termine entrambe le missioni per cui si erano spinti nel Paese del Vento, fino al terrore più grande di perdere il cugino per sempre. Era tutto racchiuso in quella sapiente combinazione di parole che aveva appena pronunciato.

Morgan aveva smesso di fissare l’orizzonte, adesso guardava Emin senza sapere che cosa provare. Avrebbe voluto dirle troppe cose: avrebbe voluto confessarle di quello scontro che avveniva nel suo cuore quando pensava a lei, di come si sentisse tradito ma al tempo stesso inspiegabilmente perso senza la sua presenza, di come la propria vita non avrebbe avuto più uno scopo se l’avesse lasciata e di come non avrebbero avuto senso i suoi sforzi se solo avesse abbandonato la vendetta per votarsi interamente a lei, voleva dirle che la ammirava per il suo coraggio, che la invidiava per la sua forza e la sua coerenza, voleva che sapesse quanto era fiero di quello che aveva intrapreso per ricominciare a vivere e che quello che stava facendo per quelle persone non aveva eguali ma, al tempo stesso, voleva che prendesse sul serio tutte quelle questioni da portare a termine, senza più esitazioni, voleva dirle che l’aveva ferito mortalmente vedere che aveva messo qualcos’altro davanti all’urgenza della loro esule condizione, che il suo risentimento era grande nei confronti della decisione che aveva preso e che non riusciva più a sostenerla nonostante fosse la persona più cara che avesse.

Sospirò di nuovo, avendo la sensazione di annegare in quel vortice silenzioso. Emin si voltò finalmente a guardarlo. Fu uno sguardo rapido, uno sguardo triste. La ragazza afferrò le stampelle e fece per alzarsi.

«Come stai?», le chiese. Alla fine non ce l’aveva fatta a mostrarsi risentito, né a dirle tutto quello che teneva dentro, l’aveva trattenuta per un braccio e le aveva domandato l’unica cosa che realmente gli stava a cuore in quel momento, a discapito di tutto il resto.

 

 

*    *    *

 

 

«Non me la racconti giusta». Kankuro osservava di sottecchi Gaara mentre ultimava i preparativi per la partenza. «Che diavolo è successo a Nakoto

«Non intendo ripeterlo», rispose il rosso, stizzito.

«Non intendo crederci», incalzò il marionettista. C’erano molti aspetti di quella vicenda che non quadravano e, di certo, la versione del fratello non aveva saputo soddisfare quelle stranezze che lo impensierivano. Tanto per cominciare non comprendeva la ragione per cui Emin e Morgan avessero abbandonato improvvisamente il cantiere per recarsi a fare un sopralluogo. Gli architetti non erano tipi da sospendere il loro lavoro, tantomeno da abbandonare gli operai con le mani in mano, senza contare che un sopralluogo prevedeva un’organizzazione scrupolosa, adeguatamente studiata e attrezzata, di certo non paragonabile a quanto quei due avevano cercato di fare mettendosi in pericolo. Tuttavia, se anche quell’episodio fosse dovuto, in qualche modo, alla loro imprudenza, di certo Kankuro non riusciva a capacitarsi di quello che era accaduto in seguito, quando aveva visto Morgan fare ritorno da Nakoto da solo, con l’espressione sconvolta in viso e nessun desiderio di collaborare. Era stato solo l’arrivo del sisma a indurlo a rivelare le coordinate esatte del luogo dove aveva visto l’ultima volta gli altri due, chiudendosi poi in un ermetico silenzio. C’erano troppi elementi che non rientravano in quel puzzle intricato, troppe coincidenze, abbastanza da destare preoccupazioni non indifferenti, soprattutto perché ancora non riusciva a spiegarsi come avesse fatto il fratello a ritrovarsi improvvisamente a corto di chakra rimanendo vittima dell’irruenza del terremoto.

La calma glaciale di Gaara era tuttavia un’armatura invalicabile che, lo sapeva, non sarebbe mai crollata a meno che lui stesso non avesse deciso di parlare.

«È ora che vada», disse il rosso. L’espressione di Kankuro era ancora perplessa.

«Non costringermi a scoprire da solo quello che c’è dietro», affermò, ricevendo in risposta uno sguardo gelido.

«L’unica cosa che voglio tu faccia», decretò l’altro con fare autorevole, «è controllare lo stato dei lavori e aggiornarmi costantemente su cosa fanno gli architetti.»

«È quello che intendo fare», concluse il marionettista, alludendo all’improvvisa diffidenza che era subentrata in seguito a quell’avvenimento.

«Molto bene». Gaara si voltò verso l’ampia finestra della stanza, osservando il deserto estendersi a perdita d’occhio in direzione sud. Era convinto che meno il fratello avesse saputo su quella faccenda e più sarebbe stato al sicuro. Aveva parlato a lungo con Kankuro quella mattina, cercando di non rivelare troppe informazioni su quello che era accaduto con gli architetti il giorno precedente e cercando, tuttavia, di fargli capire quanto sarebbe stato indispensabile il lavoro di sentinella che avrebbe dovuto svolgere con il massimo zelo in quei villaggi. Naturalmente non poteva pensare che il marionettista non sospettasse di nulla in seguito a quanto accaduto, ma il solo sospetto era sufficiente a confermargli che da quel momento in avanti si sarebbe comportato in maniera più cauta, questo bastava a tranquillizzarlo sulla sua incolumità. D’altronde, non sembrava mentire Emin quando aveva proposto quella tregua; non conosceva la ragazza, ma aveva capito che il lavoro in quei villaggi aveva per lei un’importanza che superava persino la vendetta, si sarebbe esposta piuttosto, ma non avrebbe permesso che venisse fatto del male a Kankuro. Dunque, se le sue sensazioni erano corrette, poteva recarsi a Suna con l’animo leggermente più sereno di quanto aveva auspicato.

I due ninja della sabbia uscirono dalla stanza di quella locanda appena restaurata incrociando Shikamaru avanzare a passi rapidi lungo il corridoio; anche lui era pronto a partire.

«Siamo d’accordo», disse il Nara, trovando conferma nell’assenso del rosso. Lo shinobi di Konoha, informato anche lui parzialmente della faccenda, avrebbe portato personalmente un rapporto dettagliato all’Hokage, con lo scopo di ottenere dei rinforzi che comprendessero una forza lavoro capace e arguta al tempo stesso, così da poter aiutare nella ricostruzione e contemporaneamente investigare sui movimenti che si celavano dietro all’operato degli architetti, senza contare che gli archivi di Konoha sarebbero potuti diventare una risorsa vitale per la ricerca del jutsu che avrebbe potuto risolvere la disperata situazione ambientale dei villaggi satelliti.

Si sarebbero rivisti tra una settimana esatta.

Gaara era restio ad affidare una parte così importante della sua operazione agli alleati della Foglia, eppure non vedeva altre vie di uscita se non quella di mettere alla prova la fiducia reciproca dei due villaggi nascosti, essendo Suna tagliata attualmente fuori da ogni genere di comunicazione. Prima di dare precise indicazioni ai propri uomini stanziati nei centri strategici vicino a Dakagi, c’erano delle cose che avrebbe dovuto chiarire, facendo luce sulle ombre spinose di quella faccenda.

Gàngioku.

Cosa nascondeva quel cognome? E cosa era accaduto di talmente grave da far scaturire tanto odio?

Mentre sorvolava il grande deserto, Gaara si era a lungo interrogato sulle origini di quella famiglia, scavando il più possibile nella memoria con la speranza che affiorasse qualche remota reminiscenza del proprio passato, eppure aveva la sensazione di avere a che fare con un fantasma minaccioso.

Ad ogni modo, era da Suna che avrebbe dovuto cominciare le ricerche, sia riguardo a quella situazione insidiosa, sia per il motivo ufficiale che lo aveva spinto a tornare, ovvero la ricerca di un possibile jutsu che potesse domare il disastro ambientale che si stava abbattendo sui villaggi satelliti; per quanto riguardava la prima era sicuro che non avrebbe più ottenuto nulla da Emin, le informazioni che la ragazza aveva rivelato con titubanza erano poche ma, probabilmente, erano sufficienti per arrivare alla verità; per quanto riguardava la seconda, invece, il buio era ancora più denso della prima e la speranza era concentrata negli archivi privati tramandati dai Kazekage che lo avevano preceduto. Forse tra le tecniche antiche e proibite avrebbe trovato la soluzione che cercava, tuttavia, ammesso che ci fosse, la parte più difficile sarebbe stata impararla e, in seguito, metterla in pratica correttamente. Era una corsa contro il tempo.

 

 

*    *    *

 

 

Dopo la distruzione che si era presentata davanti ai suoi occhi nei villaggi satelliti, Gaara si sentiva sollevato nel trovare Suna così come l’aveva lasciata la settimana prima. Aveva raggiunto il villaggio senza difficoltà, infastidito soltanto da una lieve tempesta, e altrettanto facilmente aveva raggiunto l’edificio in cui avrebbe condotto una parte importante delle sue ricerche, mettendosi subito al lavoro.

Stava frugando da qualche minuto tra gli archivi ufficiali quando una voce familiare lo riscosse.

«Sei tornato.» Temari era appoggiata a uno scaffale e lo osservava di sottecchi.

«Poco fa», rispose il rosso, senza alzare gli occhi dai documenti.

La ragazza rimase in silenzio, interdetta dal comportamento distratto del fratello e irritata dalla sua mancanza di attenzione.

«Insomma», cominciò, cercando malamente di nascondere il proprio astio, «non hai niente da dire?»

Gaara si costrinse a interrompere la lettura, abbandonando le pile di fogli sulla piccola scrivania.

«È complicato», disse evasivamente, pur comprendendo perfettamente l’apprensione della sorella dopo i numerosi giorni di completo isolamento del villaggio. Si afflosciò sulla sedia osservando la città oltre la piccola finestra della stanza gremita di documenti, i vetri erano ormai torbidi a causa della sabbia depositata dalle tempeste e, anche in quel momento, la visuale era offuscata dalla prepotenza del vento.

«Hai scoperto qualcosa?», incalzò la kunoichi.

«Sì e no», rispose Gaara, riuscendo a irritarsi per le risposte ambigue che lui stesso aveva pronunciato. «Sono successe delle cose.»

Al contrario di quello che si sarebbe aspettato, la ragazza non si scompose, tuttavia il suo sguardo inquisitorio parlava chiaro: avrebbe dovuto metterla al corrente di ogni cosa, immediatamente.

 

Poco più tardi, dopo un’infruttuosa ricerca nell’ufficialità degli archivi di Suna, fratello e sorella sedevano in silenzio nell’ufficio del Kazekage, interrogandosi su quali sarebbero dovute essere le loro prossime mosse.

«Non che nutrissi molte speranze negli archivi ufficiali», affermò Gaara con un sospiro, «ma un tentativo andava comunque fatto.»

«Ancora non riesco a crederci». Temari era invece concentrata sulle venature del legno della scrivania, analizzando mentalmente ancora una volta le informazioni portate dal fratello dopo il viaggio a Dakagi, alla ricerca di una possibile spiegazione nei meandri del passato.

«Già», affermò il rosso, comprendendo appieno il suo stupore. Se aveva scelto di tenere all’oscuro Kankuro e Shikamaru sulla vera identità degli architetti, lo stesso non aveva potuto fare con Temari, la quale aveva incalzato fino a quando non era riuscita a ottenere il racconto completo, particolari compresi. In ogni caso, Gaara era contento che ci fosse almeno una persona al corrente dei fatti; quando due teste erano impegnate allo stesso modo nelle ricerche era probabile che, se gli archivi avessero realmente contenuto qualche informazione utile, insieme l’avrebbero trovata in tempi certamente più brevi di quanto non avrebbe fatto una testa sola.

«Cosa farai adesso?», domandò la kunoichi con un sospiro.

«Consulterò gli archivi del Terzo e del Quarto Kazekage», rispose Gaara. «Morgan ha parlato di predecessori ed Emin ha chiaramente fatto riferimento a un esilio avvenuto tre generazioni fa, dunque all’epoca del Terzo, desumo.»

«Credi che gli anziani del consiglio possano ricordare?»

«Meglio tenere il consiglio fuori da ogni congettura, sarà mia premura aggiornarlo dei fatti non appena avrò capito la reale entità di questa minaccia.» Il rosso sprofondò nella sedia sotto lo sguardo scettico della sorella.

«Hanno attentato alla tua vita, Gaara!», sbottò Temari, non riuscendo più a contenersi. «Non è sufficiente?»

«Ho dato la mia parola che non avrei preso provvedimenti fino al termine dei lavori», rispose lui.

«Quanto vale una tregua sancita a parole per qualcuno che ha cercato di ucciderti? Gli stai solo servendo su un piatto d’argento l’occasione per riprovarci».

«No invece», ribatté il giovane Kage, sperando vivamente di non sbagliarsi. «Senti, ho visto con i miei occhi le condizioni di quelle persone a Dakagi, ho visto la loro disperazione, ho visto la loro forza nel volersi rialzare e ho visto quanto questa forza dipenda dagli architetti. Non posso arrestarli prima che abbiano concluso i lavori, o sarei io stesso a mettere fine alle speranze di quella gente.»

Temari rifletté per un attimo prima di convincersi delle implicazioni non solo umane, ma anche politiche e strategiche, che sarebbero derivate dalla perdita dei villaggi satelliti. Questo però non bastava a rassicurarla sull’incolumità del fratello e dei propri concittadini; sapere a piede libero dei nemici ufficialmente dichiarati come tali l’avrebbe tenuta sveglia più notti di quelle che avrebbe voluto, assillata dalle preoccupazioni.  

«E che mi dici del problema più grande?», chiese la kunoichi, accantonando per un momento l’argomento precedente. «Come fermiamo questo disastro ambientale?»

«Se gli archivi di Suna e di Konoha non ci porteranno a nulla di buono allora mi rivolgerò agli altri paesi, nella speranza di una celere collaborazione».

«Celere collaborazione?», ridacchiò con sarcasmo la ragazza. «Da quando sei diventato così ottimista?»

«Ci sto lavorando».

 

 

 

 

*    *    *

 

 

 

L’alba aveva da poco fatto la sua apparizione oltre il perimetro orientale del Villaggio della Sabbia, i suoi colori erano tenui e sfumavano in leggere tonalità di rosso e dorato, riempiendo le vie di un’atmosfera mattutina e rilassata. I bagliori soffusi dei primi raggi solari facevano il loro timido ingresso nelle stanze, oltrepassando la trasparenza delle piccole finestre circolari di una modesta casa di periferia. Lì, nell’angusta camera nascosta grazie all’artificio di una finta libreria, il giorno e la notte si mescolavano tra loro ingannandosi a vicenda, confondendo i sensi e dilatando il tempo; le lisce pareti erano state interrogate dalla più antica e segreta tecnica di evocazione, rivelando i contenuti più ricchi e privati degli alti vertici di Suna, cosicché potessero mostrarsi per servire il loro attuale e autorevole padrone.

Tra le pile di documenti accatastati nel piccolo spazio, una figura umana giaceva supina e dormiente, sommersa da fogli, rotoli e contenitori disparati. L’odore della carta invecchiata impregnava le narici, alle quali risultava ormai difficoltoso procacciarsi ossigeno in quei pochi metri quadrati ciechi di luce naturale e di ricambio d’aria.

Gaara si svegliò di colpo, annaspando tra i fogli con un terribile cerchio alla testa. L’irritazione per quella disagevole situazione lo assalì di colpo, portandolo a liberarsi degli invadenti documenti con uno scatto rabbioso e tutt’altro che benevolo. Tra le tante notti trascorse insonni a causa del lavoro, quella era stata certamente la più infruttuosa, e non c’era situazione peggiore di essere a corto di tempo e di soluzioni contro problemi intricati e di massima urgenza.

Il rosso si affrettò a uscire dalla stanza, rimanendo accecato dalla luce di un prepotente sole mattutino. Dopo essersi imposto la calma con un profondo respiro, afferrò la teiera per preparare il the, riflettendo nel mentre su quanto i suoi predecessori gli avessero tramandato nelle ore precedenti.

“Ben poco”, pensò, grattandosi il capo con stizza.

Sembrava quasi che un mistero sempre più fitto aleggiasse intorno ai Gangioku, dei quali nessuna traccia era materialmente rimasta nelle memorie del Villaggio della Sabbia, esattamente come Emin aveva predetto.

Aveva infine spulciato ogni documento consultando fino agli atti di fondazione di Suna, risalenti all’operato Primo Kazekage, non trovando mai alcuna menzione sui Gangioku, tantomeno di una tecnica che risultasse utile ai suoi scopi ambientali. Si disse mentalmente che avrebbe dovuto inviare al più presto delle missive agli altri villaggi come aveva ipotizzato la sera precedente con la sorella, anche se la cosa lo indispettiva parecchio contando che fino all’ultimo aveva sperato di poter risolvere la questione internamente, così da non contrarre debiti in futuro.

Forse era stato decisamente troppo ottimista.

Mentre sorseggiava il the pensava a come sarebbe convenuto muoversi da quel momento in avanti. Sapeva perfettamente che gli archivi dei Kazekage erano stati infruttuosi in buona parte perché era lui stesso a non essere pienamente informato su quali potessero essere i fattori determinanti e capaci di influenzare quella natura che stava attualmente abbattendo tutta la sua ostilità sul grande deserto. Poteva forse essere il magnetismo, l’eredità secolare dei Kage della Sabbia, un elemento utile a quella causa? Che cosa avrebbe potuto materialmente fare con i mezzi che possedeva? Doveva arginare e regimentare delle eruzioni vulcaniche, un’impresa mai tentata nella storia del Paese del Vento e al tempo stesso un’impresa che non permetteva fallimento, pena la perdita dell’unico avamposto sul confine nord, contrassegnato da Takano, Usagi, Nakoto, Sin e Rakushi, i cinque villaggi satelliti di Suna. Perdere quei villaggi significava perdere di credibilità e di solidità, per non parlare delle crepe che si sarebbero venute a creare nelle relazioni politiche col Daimyo.

Gaara abbandonò il the per dirigersi nuovamente nella stanza nascosta e invasa dai documenti. Cominciò a riordinarli scrupolosamente, catalogandoli e sigillandoli esattamente come li aveva trovati, sfogliando ogni tanto qualche plico, nella speranza di imbattersi finalmente in qualcosa di utile.

Raccogliendo il materiale tramandatogli dal Terzo Kazekage si ritrovò a pensare a quanto il suo operato fosse stato rivoluzionario dal punto di vista dello studio del chakra, gli interessanti diari scritti di suo pugno avevano messo in luce un numero esorbitante di esperimenti e di ricerche a riguardo, studi che avevano infine portato al suo riconoscimento più grande e temuto, ovvero un nuovo volto del magnetismo con l’invenzione della sabbia ferrifera. Si ritrovò a sfogliare convulsamente le pagine di uno di quei preziosi quaderni, sperando come non mai di avere tralasciato qualcosa di indispensabile.

Niente.

Richiuse il diario con uno scatto, ritrovandosi subito dopo a gettarlo in archivio con rassegnazione. Nello schianto che ne seguì un rumore metallico attirò la sua attenzione sul pavimento: una chiave giaceva solitaria sulle fredde piastrelle della stanza.

Passò qualche secondo prima che il ragazzo riuscì a sintonizzarsi con la realtà: aveva appena scaraventato sullo scaffale un diario con quasi un secolo di storia, racchiudente le memorie del comandante più illustre di Suna, oltre che le sue pionieristiche scoperte in campo scientifico, e da quel diario era appena uscita una maledetta chiave.

Gaara si chinò finalmente a raccogliere l’oggetto dopo avere mentalmente chiesto perdono per l’improvviso maltrattamento della reliquia.

Era una semplice chiave in fin dei conti, con la testa tonda e piatta e le seghettature di una serratura moderna; era liscia in tutto e per tutto, eccezion fatta per delle piccole e ruvide protuberanze sensibili al solo tatto.

Coincidenze? O forse quella ruvidezza aveva un significato? I suoi polpastrelli sentivano delle linee e il suo cervello aveva già cominciato a elaborare una traduzione passando in rassegna tutto quello che sapeva sui codici utilizzati per i messaggi criptati. Non sapeva se quella chiave c’entrasse qualcosa con quello che stava cercando ma, non essendo riuscito a capire da quale punto del diario essa provenisse, poteva definirsi l’unico elemento privo di significato in quella ricerca infruttuosa e, forse, l’ignoto in quel momento assumeva una valenza maggiore dell’inutilità di tutto il resto.

Infilò la chiave in tasca finendo di riordinare i documenti con una fretta sempre maggiore. La prima cosa da fare era convocare il consiglio e aggiornarlo sui fatti di Dakagi, poi avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione per l’invio delle missive e attendere le risposte degli altri paesi, nonché del Daimyo. Nel frattempo si sarebbe dato da fare per scoprire quanto più possibile sul fantasma dei Gangioku e capire cosa nascondeva quella chiave gelosamente conservata negli archivi privati del Terzo Kazekage, nel profondo sperava che le due cose potessero essere collegate; il come, tuttavia, rimaneva un mistero sempre più oscuro.

In tutto questo, il tempo scorreva inesorabile.

 

 

 

 

 

 

 


L’autrice:

Maybe I’m back!!

A presto!

Luci

   
 
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