#6
Choice
Morgan
camminava in silenzio nelle vie rumorose di Sin, lo sguardo era cupo e fissava
i piedi muoversi meccanicamente verso la periferia della città. Cercava di
svuotare la mente e di ritrovare la calma, ma erano bastati pochi minuti per
rendersi conto che non sarebbe riuscito a scacciare il vortice che incatenava i
suoi pensieri agli episodi della settimana precedente; il tarlo scavava in
profondità nella sua testa logorando tutto quello che rimaneva della sua
serenità, costringendolo a isolarsi dalle altre persone. Sentiva che sarebbe
bastata una flebile scintilla per abbattere lo scudo che nascondeva la sua
rabbia e, purtroppo, non era quello che poteva permettersi di fare. Non aveva
più rivisto Emin dopo quel pomeriggio e, più i giorni
passavano, più la collera nei suoi confronti sembrava accecarlo da qualsiasi
razionalità. Pensava continuamente a lei. Pensava al discorso che avevano fatto
poco prima di doversi scontrare con l’imprevedibilità di quel sisma, pensava al
suo viso insicuro, alla paura che aveva attraversato come un lampo i suoi occhi
al pensiero della vendetta, all’angoscia che le aveva letto nei gesti per il
futuro di quei villaggi.
Come
aveva potuto pensare che la cugina desse la priorità a qualcos’altro se non al
loro lavoro in quelle terre? La sua era stata una sconfitta in partenza. Sapeva
perfettamente quanto Emin tenesse a quei villaggi e
sapeva perfettamente che significato avesse per lei risollevare quelle persone.
Come era potuto essere così cieco? Le azioni della cugina colmavano il suo
cuore di quel disprezzo velenoso che serpeggiava nelle anime della loro casata sin
da quando avevano perso il diritto di stabilirsi nella loro terra natia, senza
contare che il fatto di aver avuto la possibilità di porre fine a quel tormento
senza però essere riuscito nell’intento quasi lo distruggeva. Era colpa di Emin se lui adesso annegava nella rabbia, ed era colpa del
se stesso impulsivo se era stato volutamente cieco a quanto l’anima di lei
stava disperatamente cercando di fargli capire.
Stringeva
i pugni dolorosamente a quel pensiero, indeciso se accusare la propria irruenza
o l’egoismo della cugina per quanto era accaduto, conficcava le unghie nei
palmi talmente forte da lacerare i tessuti; si era aperta una crepa nel suo
cuore, lo sentiva, una crepa da cui era fuoriuscita una consapevolezza con un
impeto tale da renderlo instabile: avrebbe dovuto scegliere.
Quello
che provava per Emin non era minimamente comparabile
a quanto aveva provato nei confronti di chiunque altro, era qualcosa di
profondo e viscerale che andava a intricarsi coi rovi acuminati che ferivano la
sua anima, formando un groviglio inscindibile e una catena da cui non avrebbe
potuto liberarsi nemmeno riuscendo ad allentarne gli anelli. Era qualcosa senza
la quale il senso di vivere sarebbe venuto meno, poiché, inconsapevolmente, era
questo che Morgan aveva fatto in tutta la sua esistenza: aveva raccolto i cocci
distrutti della vita di Emin e li aveva ricomposti
lentamente, anno dopo anno, assicurandosi che lei si rialzasse più forte di
prima. Era stato suo padre a chiedergli di badare alla cugina e, se all’inizio
trovava deprimente trascorrere le sue giornate con quella bambina sempre
triste, col passare del tempo aveva cominciato a desiderare di vederla
sorridere sempre più spesso, fino a fare della sua felicità la propria ragion
d’essere. Emin, tuttavia, era come il cristallo: un
materiale bellissimo ma al tempo stesso fragile e bisognoso di continue
attenzioni, aveva bisogno di protezione ma, soprattutto di una comprensione che
nessun’altro all’infuori di lui sarebbe stato in grado di darle, poiché nessun’altro
avrebbe capito appieno il suo dolore.
La
amava, probabilmente, di un amore fraterno e incondizionato, una devozione
assoluta radicata in quelle catene di cui non si sarebbe mai riuscito a
liberare. Per lei, lo sapeva, avrebbe fatto qualsiasi cosa, ed era proprio
questo pensiero a lograrlo. Le parole del suo bisnonno rimbombavano in testa
come violente esplosioni, l’orgoglio della casata dilaniava la sua ragione
rendendo invisibile tutto il resto, proprio come era successo quel giorno in
cui aveva fallito nel portare a termine la vendetta.
Era
solo un bambino allora, ma si ricordava perfettamente quel bisnonno
dall’innaturale lunga vita; era l’ultimo rimasto della sua generazione ed era
il patriarca assoluto di quella nuova faccia della casata Gangioku.
Fu proprio lui, infatti, a sottoporsi all’esperimento che mutò il DNA della
loro millenaria discendenza e fu questo cambiamento ad essere il presupposto
della loro rovina.
«Ci hanno cacciati perché
ci temevano», gli aveva detto un giorno. «Temevano che superandoli in abilità avremmo
finito col tradirli e hanno preferito risolvere il problema alla radice,
cercando di eliminarci per sempre dalla faccia della terra». A quel punto
una ruga profonda aveva solcato la sua fronte, senza che Morgan fosse mai riuscito
ad attribuirla alla rabbia, alla delusione o al rimorso. «Ma siamo ancora qui. Spetterà a voi la resa dei conti», aveva
concluso, chiudendosi in un enigmatico silenzio.
Moroki Gangioku, il capostipite, nonché bisnonno di Morgan, era
morto nemmeno un mese prima che Emin venisse loro
affidata, non avendo potuto conoscere così l’unica nipote ad aver ereditato il
suo DNA. L’ironia di quel destino spesso lo irritava, se solo la cugina fosse
nata tra le mura della casata probabilmente gli eventi avrebbero preso una
piega diversa, la stessa Emin sarebbe stata diversa,
e forse in quel momento non sarebbe stato il direttore dei lavori in quei
villaggi ricoperti di macerie e impregnati di disperazione.
Senza
accorgersene era arrivato al cimitero. Ogni centro abitato, ormai, ne aveva
uno.
Guardando
le vie trafficate si poteva pensare che tutto stava lentamente tornando alla
normalità dopo la ricostruzione: le attività erano rinate, le scuole avevano
riaperto e le famiglie avevano una nuova casa sicura in cui poter ricominciare.
La distruzione era lentamente scomparsa dalle strade, ma Morgan sapeva che quel
tipo di distruzione era qualcosa che raramente si cancellava del tutto,
rimaneva nei cuori e nell’anima di chi era sopravvissuto e aveva perso
qualcuno, esattamente come era successo alla cugina dieci anni prima.
Guardando
la gente piangere sulle tombe dei loro cari Morgan aveva la sensazione che
delle tenaglie arroventate gli lacerassero il petto, poiché il Morgan Gangioku, architetto e direttore dei lavori nell’attuale
ricostruzione del terzo centro strategico di Nakoto,
ormai si sentiva parte di quella gente quanto un singolo mattone era corpo
della sua muratura. Metaforicamente, più che un mattone qualunque sentiva che
sulle proprie spalle, ormai, gravava un carico impossibile da alleggerire,
sentiva di essere diventato il motore della vita di quelle persone, un pilastro
portante, e a un pilastro portante non viene mai concesso di venir meno ai
propri doveri, pena la distruzione dell’imponente muratura sovrastante. Era
come essere incastrati, come se non ci fosse una via d’uscita: da un lato Emin, dall’altro la famiglia, e sulle spalle l’immensità di
dolore che lo circondava e che aveva visto in lui uno degli elementi principali
a cui appigliarsi.
Si
appoggiò a uno dei muri che perimetravano quel luogo di riposo, lo sguardo
incollato al terreno e la gola riarsa, era sul punto di unirsi a quella
disperazione che aveva di fronte, costernato per la difficile scelta che
tormentava il suo cuore e avvilito al solo pensiero di immaginarsi nella
situazione di quelle persone la cui anima, di fonte a lui, si contorceva nel
dolore.
Fu
in quel momento che alzò lo sguardo e la vide.
La
cugina era di fronte a lui, la sua figura lontana era poggiata sul muro
perimetrale opposto al suo e lo sguardo era rivolto all’orizzonte di fuoco che
tingeva la sera; era seduta per terra, la caviglia ancora convalescente e le
stampelle abbandonate al suo fianco.
Si
diede del vigliacco per averla abbandonata a se stessa quel giorno, tra le macerie
instabili della città e in balia del loro peggior nemico. Era stato
maledettamente irresponsabile, codardo e infantile, senza contare che si
sentiva a dir poco patetico per aver pensato fino a un minuto prima di poter
essere l’unico a comprendere e proteggere Emin. Per
colpa sua lei aveva rischiato di morire e per colpa della propria irruenza non
era riuscito nemmeno a compiere vendetta, aveva inconsapevolmente rischiato di
perdere ogni cosa.
Non era riuscito a
pensare ad altro mentre le si avvicinava e, mentre le gambe si muovevano come
in una sorta di magnetica attrazione verso di lei, sentiva che il rancore che
aveva provato nei suoi confronti era ormai volato lontano.
Dall’altro
lato del cimitero, la ragazza aveva cominciato a lottare furiosamente con le
proprie emozioni nel momento esatto in cui aveva scorto il cugino. In quei
giorni di riposo forzato dal lavoro aveva spesso fatto tappa in quel luogo dove
trovavano pace le anime dei defunti e la disperazione i cuori dei
sopravvissuti. Quello era l’unico posto in cui i suoi sentimenti sembravano
trovare comprensione, poiché anche lei aveva delle persone care da piangere,
anche il suo cuore era pervaso da una disperazione da cui non si era mai più
liberato e stare tra quelle persone era il solo modo per trovare un po’ di
conforto, il vedere la forza e la determinazione con cui loro affrontavano le
perdite le dava coraggio. Come erano bravi gli esseri umani a costruirsi le proprie
armature, come erano bravi a nascondere il nero che lentamente li divorava in
virtù di mostrarsi forti agli occhi degli altri e, mentre Emin
osservava Morgan avanzare verso di lei, si chiedeva il motivo per cui non era
ancora riuscita a costruire la corazza che le avrebbe permesso di ricominciare.
Perché mai non era ancora riuscita a darsi pace?
Il
suo cuore era in subbuglio e lei stessa non sapeva realmente definire i
sentimenti che stava provando in quel preciso istante nei confronti del cugino:
era sinceramente sconvolta da quello che era successo nel deserto, risucchiata
da quel vortice di dolore che le si presentava ogni giorno davanti agli occhi,
imprigionata nel passato e aggrappata a dei ricordi sempre più sbiaditi. La
parte più pratica di lei probabilmente detestava la propria famiglia per aver
trasformato Morgan in una persona instabile ed emotivamente fragile, e sapeva
perfettamente che l’impulsività e l’irrazionalità con cui il cugino aveva agito
quel giorno erano in gran parte frutto di quel secolare odio che stava
corrodendo la loro casata. Emin conosceva Morgan meglio
di chiunque altro e, se anche il petto prendeva a contorcersi al pensiero di
come si era comportato, abbandonandola nel momento in cui più aveva bisogno, sapeva
che non sarebbe mai riuscita a fare a meno di lui, la dipendenza nei suoi
confronti era incontrollabile, una dipendenza senza la quale sentiva il terreno
cedere sotto di lei, sbriciolarsi come si erano sbriciolati gli edifici di quei
villaggi, aprendole la strada verso un vuoto che la terrorizzava. Più i lenti
passi del cugino si avvicinavano più la gola si inaridiva e la mascella si
serrava. Non aveva voglia di parlargli, non ancora, eppure non riusciva a fare
a meno di desiderarlo, la sua parte razionale aveva da sempre avuto una misera
voce in capitolo nei suoi sentimenti e adesso non riusciva a capire come
realmente si stava sentendo in quel momento, se arrabbiata o contenta, serena o
tormentata. Il petto le faceva ancora male per le parole che lui le aveva detto,
erano state peggio di una ferita avvelenata ed era come se quel veleno si fosse
diffuso in lei, paralizzandola alla mercé del senso di colpa. La decisione che
aveva preso quel giorno era giusta e sbagliata al tempo stesso, dipendeva solo
dal punto di vista che si adottava, ed Emin stava in
quel limbo infernale che si trovava nel mezzo, colpevole e innocente al tempo
stesso, inesorabilmente sola.
Morgan
si era seduto accanto a lei, fissava anche lui l’orizzonte.
La
ragazza rimase immobile, lo sguardo concentrato sui profili lontani dei monti Dakagi e il corpo in tensione. Era la prima volta che stare
vicino al cugino la faceva sentire così inadeguata, la prima volta che dalla
sua presenza non traeva alcun genere di conforto, era come se si fosse alterato
il loro equilibrio e avessero perso la loro armonia, come se stessero
viaggiando su frequenze diverse. Sentì Morgan sospirare. Doveva essere lei a
rompere il silenzio.
«Andrò
avanti coi lavori», affermò Emin. Le parole erano
uscite rapide dalla sua bocca, alla stregua di un conato, lo sguardo era ancora
fisso sulle montagne. «Ho ottenuto una tregua fino al loro termine, sentiti
libero di restare o meno».
Diretta,
precisa. In una frase era riuscita a riassumere tutto quello che turbinava
nella sua mente: l’angoscia per quei villaggi, il desiderio di portare a
termine entrambe le missioni per cui si erano spinti nel Paese del Vento, fino
al terrore più grande di perdere il cugino per sempre. Era tutto racchiuso in
quella sapiente combinazione di parole che aveva appena pronunciato.
Morgan
aveva smesso di fissare l’orizzonte, adesso guardava Emin
senza sapere che cosa provare. Avrebbe voluto dirle troppe cose: avrebbe voluto
confessarle di quello scontro che avveniva nel suo cuore quando pensava a lei,
di come si sentisse tradito ma al tempo stesso inspiegabilmente perso senza la
sua presenza, di come la propria vita non avrebbe avuto più uno scopo se
l’avesse lasciata e di come non avrebbero avuto senso i suoi sforzi se solo avesse
abbandonato la vendetta per votarsi interamente a lei, voleva dirle che la
ammirava per il suo coraggio, che la invidiava per la sua forza e la sua
coerenza, voleva che sapesse quanto era fiero di quello che aveva intrapreso
per ricominciare a vivere e che quello che stava facendo per quelle persone non
aveva eguali ma, al tempo stesso, voleva che prendesse sul serio tutte quelle
questioni da portare a termine, senza più esitazioni, voleva dirle che l’aveva
ferito mortalmente vedere che aveva messo qualcos’altro davanti all’urgenza
della loro esule condizione, che il suo risentimento era grande nei confronti della
decisione che aveva preso e che non riusciva più a sostenerla nonostante fosse
la persona più cara che avesse.
Sospirò
di nuovo, avendo la sensazione di annegare in quel vortice silenzioso. Emin si voltò finalmente a guardarlo. Fu uno sguardo
rapido, uno sguardo triste. La ragazza afferrò le stampelle e fece per alzarsi.
«Come
stai?», le chiese. Alla fine non ce l’aveva fatta a mostrarsi risentito, né a
dirle tutto quello che teneva dentro, l’aveva trattenuta per un braccio e le
aveva domandato l’unica cosa che realmente gli stava a cuore in quel momento, a
discapito di tutto il resto.
* *
*
«Non
me la racconti giusta». Kankuro osservava di
sottecchi Gaara mentre ultimava i preparativi per la
partenza. «Che diavolo è successo a Nakoto?»
«Non
intendo ripeterlo», rispose il rosso, stizzito.
«Non
intendo crederci», incalzò il marionettista. C’erano molti aspetti di quella
vicenda che non quadravano e, di certo, la versione del fratello non aveva
saputo soddisfare quelle stranezze che lo impensierivano. Tanto per cominciare
non comprendeva la ragione per cui Emin e Morgan
avessero abbandonato improvvisamente il cantiere per recarsi a fare un
sopralluogo. Gli architetti non erano tipi da sospendere il loro lavoro,
tantomeno da abbandonare gli operai con le mani in mano, senza contare che un
sopralluogo prevedeva un’organizzazione scrupolosa, adeguatamente studiata e
attrezzata, di certo non paragonabile a quanto quei due avevano cercato di fare
mettendosi in pericolo. Tuttavia, se anche quell’episodio fosse dovuto, in
qualche modo, alla loro imprudenza, di certo Kankuro
non riusciva a capacitarsi di quello che era accaduto in seguito, quando aveva
visto Morgan fare ritorno da Nakoto da solo, con
l’espressione sconvolta in viso e nessun desiderio di collaborare. Era stato solo
l’arrivo del sisma a indurlo a rivelare le coordinate esatte del luogo dove
aveva visto l’ultima volta gli altri due, chiudendosi poi in un ermetico
silenzio. C’erano troppi elementi che non rientravano in quel puzzle intricato,
troppe coincidenze, abbastanza da destare preoccupazioni non indifferenti,
soprattutto perché ancora non riusciva a spiegarsi come avesse fatto il
fratello a ritrovarsi improvvisamente a corto di chakra rimanendo vittima
dell’irruenza del terremoto.
La
calma glaciale di Gaara era tuttavia un’armatura invalicabile
che, lo sapeva, non sarebbe mai crollata a meno che lui stesso non avesse
deciso di parlare.
«È
ora che vada», disse il rosso. L’espressione di Kankuro
era ancora perplessa.
«Non
costringermi a scoprire da solo quello che c’è dietro», affermò, ricevendo in
risposta uno sguardo gelido.
«L’unica
cosa che voglio tu faccia», decretò l’altro con fare autorevole, «è controllare
lo stato dei lavori e aggiornarmi costantemente su cosa fanno gli architetti.»
«È
quello che intendo fare», concluse il marionettista, alludendo all’improvvisa
diffidenza che era subentrata in seguito a quell’avvenimento.
«Molto
bene». Gaara si voltò verso l’ampia finestra della
stanza, osservando il deserto estendersi a perdita d’occhio in direzione sud.
Era convinto che meno il fratello avesse saputo su quella faccenda e più
sarebbe stato al sicuro. Aveva parlato a lungo con Kankuro
quella mattina, cercando di non rivelare troppe informazioni su quello che era
accaduto con gli architetti il giorno precedente e cercando, tuttavia, di
fargli capire quanto sarebbe stato indispensabile il lavoro di sentinella che
avrebbe dovuto svolgere con il massimo zelo in quei villaggi. Naturalmente non
poteva pensare che il marionettista non sospettasse di nulla in seguito a
quanto accaduto, ma il solo sospetto era sufficiente a confermargli che da quel
momento in avanti si sarebbe comportato in maniera più cauta, questo bastava a
tranquillizzarlo sulla sua incolumità. D’altronde, non sembrava mentire Emin quando aveva proposto quella tregua; non conosceva la
ragazza, ma aveva capito che il lavoro in quei villaggi aveva per lei un’importanza
che superava persino la vendetta, si sarebbe esposta piuttosto, ma non avrebbe
permesso che venisse fatto del male a Kankuro.
Dunque, se le sue sensazioni erano corrette, poteva recarsi a Suna con l’animo leggermente
più sereno di quanto aveva auspicato.
I
due ninja della sabbia uscirono dalla stanza di quella locanda appena
restaurata incrociando Shikamaru avanzare a passi
rapidi lungo il corridoio; anche lui era pronto a partire.
«Siamo
d’accordo», disse il Nara, trovando conferma nell’assenso del rosso. Lo shinobi di Konoha, informato
anche lui parzialmente della faccenda, avrebbe portato personalmente un
rapporto dettagliato all’Hokage, con lo scopo di
ottenere dei rinforzi che comprendessero una forza lavoro capace e arguta al
tempo stesso, così da poter aiutare nella ricostruzione e contemporaneamente
investigare sui movimenti che si celavano dietro all’operato degli architetti,
senza contare che gli archivi di Konoha sarebbero
potuti diventare una risorsa vitale per la ricerca del jutsu
che avrebbe potuto risolvere la disperata situazione ambientale dei villaggi
satelliti.
Si
sarebbero rivisti tra una settimana esatta.
Gaara era restio ad
affidare una parte così importante della sua operazione agli alleati della
Foglia, eppure non vedeva altre vie di uscita se non quella di mettere alla
prova la fiducia reciproca dei due villaggi nascosti, essendo Suna tagliata attualmente
fuori da ogni genere di comunicazione. Prima di dare precise indicazioni ai
propri uomini stanziati nei centri strategici vicino a Dakagi,
c’erano delle cose che avrebbe dovuto chiarire, facendo luce sulle ombre
spinose di quella faccenda.
Gàngioku.
Cosa
nascondeva quel cognome? E cosa era accaduto di talmente grave da far scaturire
tanto odio?
Mentre
sorvolava il grande deserto, Gaara si era a lungo
interrogato sulle origini di quella famiglia, scavando il più possibile nella
memoria con la speranza che affiorasse qualche remota reminiscenza del proprio passato,
eppure aveva la sensazione di avere a che fare con un fantasma minaccioso.
Ad
ogni modo, era da Suna che avrebbe dovuto cominciare le ricerche, sia riguardo
a quella situazione insidiosa, sia per il motivo ufficiale che lo aveva spinto
a tornare, ovvero la ricerca di un possibile jutsu che potesse domare il
disastro ambientale che si stava abbattendo sui villaggi satelliti; per quanto
riguardava la prima era sicuro che non avrebbe più ottenuto nulla da Emin, le informazioni che la ragazza aveva rivelato con
titubanza erano poche ma, probabilmente, erano sufficienti per arrivare alla
verità; per quanto riguardava la seconda, invece, il buio era ancora più denso
della prima e la speranza era concentrata negli archivi privati tramandati dai Kazekage che lo avevano preceduto. Forse tra le tecniche
antiche e proibite avrebbe trovato la soluzione che cercava, tuttavia, ammesso
che ci fosse, la parte più difficile sarebbe stata impararla e, in seguito,
metterla in pratica correttamente. Era una corsa contro il tempo.
* * *
Dopo
la distruzione che si era presentata davanti ai suoi occhi nei villaggi
satelliti, Gaara si sentiva sollevato nel trovare
Suna così come l’aveva lasciata la settimana prima. Aveva raggiunto il
villaggio senza difficoltà, infastidito soltanto da una lieve tempesta, e
altrettanto facilmente aveva raggiunto l’edificio in cui avrebbe condotto una
parte importante delle sue ricerche, mettendosi subito al lavoro.
Stava
frugando da qualche minuto tra gli archivi ufficiali quando una voce familiare
lo riscosse.
«Sei
tornato.» Temari era appoggiata a uno scaffale e lo
osservava di sottecchi.
«Poco
fa», rispose il rosso, senza alzare gli occhi dai documenti.
La
ragazza rimase in silenzio, interdetta dal comportamento distratto del fratello
e irritata dalla sua mancanza di attenzione.
«Insomma»,
cominciò, cercando malamente di nascondere il proprio astio, «non hai niente da
dire?»
Gaara si costrinse a
interrompere la lettura, abbandonando le pile di fogli sulla piccola scrivania.
«È
complicato», disse evasivamente, pur comprendendo perfettamente l’apprensione
della sorella dopo i numerosi giorni di completo isolamento del villaggio. Si
afflosciò sulla sedia osservando la città oltre la piccola finestra della
stanza gremita di documenti, i vetri erano ormai torbidi a causa della sabbia
depositata dalle tempeste e, anche in quel momento, la visuale era offuscata
dalla prepotenza del vento.
«Hai
scoperto qualcosa?», incalzò la kunoichi.
«Sì
e no», rispose Gaara, riuscendo a irritarsi per le risposte
ambigue che lui stesso aveva pronunciato. «Sono successe delle cose.»
Al
contrario di quello che si sarebbe aspettato, la ragazza non si scompose,
tuttavia il suo sguardo inquisitorio parlava chiaro: avrebbe dovuto metterla al
corrente di ogni cosa, immediatamente.
Poco
più tardi, dopo un’infruttuosa ricerca nell’ufficialità degli archivi di Suna,
fratello e sorella sedevano in silenzio nell’ufficio del Kazekage,
interrogandosi su quali sarebbero dovute essere le loro prossime mosse.
«Non
che nutrissi molte speranze negli archivi ufficiali», affermò Gaara con un sospiro, «ma un tentativo andava comunque
fatto.»
«Ancora
non riesco a crederci». Temari era invece concentrata
sulle venature del legno della scrivania, analizzando mentalmente ancora una
volta le informazioni portate dal fratello dopo il viaggio a Dakagi, alla ricerca di una possibile spiegazione nei
meandri del passato.
«Già»,
affermò il rosso, comprendendo appieno il suo stupore. Se aveva scelto di
tenere all’oscuro Kankuro e Shikamaru
sulla vera identità degli architetti, lo stesso non aveva potuto fare con Temari, la quale aveva incalzato fino a quando non era
riuscita a ottenere il racconto completo, particolari compresi. In ogni caso, Gaara era contento che ci fosse almeno una persona al
corrente dei fatti; quando due teste erano impegnate allo stesso modo nelle
ricerche era probabile che, se gli archivi avessero realmente contenuto qualche
informazione utile, insieme l’avrebbero trovata in tempi certamente più brevi
di quanto non avrebbe fatto una testa sola.
«Cosa
farai adesso?», domandò la kunoichi con un sospiro.
«Consulterò
gli archivi del Terzo e del Quarto Kazekage», rispose
Gaara. «Morgan ha parlato di predecessori ed Emin ha chiaramente fatto riferimento a un esilio avvenuto
tre generazioni fa, dunque all’epoca del Terzo, desumo.»
«Credi
che gli anziani del consiglio possano ricordare?»
«Meglio
tenere il consiglio fuori da ogni congettura, sarà mia premura aggiornarlo dei
fatti non appena avrò capito la reale entità di questa minaccia.» Il rosso
sprofondò nella sedia sotto lo sguardo scettico della sorella.
«Hanno
attentato alla tua vita, Gaara!», sbottò Temari, non riuscendo più a contenersi. «Non è
sufficiente?»
«Ho
dato la mia parola che non avrei preso provvedimenti fino al termine dei lavori»,
rispose lui.
«Quanto
vale una tregua sancita a parole per qualcuno che ha cercato di ucciderti? Gli
stai solo servendo su un piatto d’argento l’occasione per riprovarci».
«No
invece», ribatté il giovane Kage, sperando vivamente
di non sbagliarsi. «Senti, ho visto con i miei occhi le condizioni di quelle
persone a Dakagi, ho visto la loro disperazione, ho
visto la loro forza nel volersi rialzare e ho visto quanto questa forza dipenda
dagli architetti. Non posso arrestarli prima che abbiano concluso i lavori, o
sarei io stesso a mettere fine alle speranze di quella gente.»
Temari
rifletté per un attimo prima di convincersi delle implicazioni non solo umane,
ma anche politiche e strategiche, che sarebbero derivate dalla perdita dei
villaggi satelliti. Questo però non bastava a rassicurarla sull’incolumità del
fratello e dei propri concittadini; sapere a piede libero dei nemici ufficialmente
dichiarati come tali l’avrebbe tenuta sveglia più notti di quelle che avrebbe
voluto, assillata dalle preoccupazioni.
«E
che mi dici del problema più grande?», chiese la kunoichi,
accantonando per un momento l’argomento precedente. «Come fermiamo questo
disastro ambientale?»
«Se
gli archivi di Suna e di Konoha non ci porteranno a
nulla di buono allora mi rivolgerò agli altri paesi, nella speranza di una
celere collaborazione».
«Celere
collaborazione?», ridacchiò con sarcasmo la ragazza. «Da quando sei diventato
così ottimista?»
«Ci
sto lavorando».
* * *
L’alba aveva da poco
fatto la sua apparizione oltre il perimetro orientale del Villaggio della
Sabbia, i suoi colori erano tenui e sfumavano in leggere tonalità di rosso e
dorato, riempiendo le vie di un’atmosfera mattutina e rilassata. I bagliori
soffusi dei primi raggi solari facevano il loro timido ingresso nelle stanze,
oltrepassando la trasparenza delle piccole finestre circolari di una modesta
casa di periferia. Lì, nell’angusta camera nascosta grazie all’artificio di una
finta libreria, il giorno e la notte si mescolavano tra loro ingannandosi a
vicenda, confondendo i sensi e dilatando il tempo; le lisce pareti erano state
interrogate dalla più antica e segreta tecnica di evocazione, rivelando i
contenuti più ricchi e privati degli alti vertici di Suna, cosicché potessero
mostrarsi per servire il loro attuale e autorevole padrone.
Tra
le pile di documenti accatastati nel piccolo spazio, una figura umana giaceva
supina e dormiente, sommersa da fogli, rotoli e contenitori disparati. L’odore
della carta invecchiata impregnava le narici, alle quali risultava ormai
difficoltoso procacciarsi ossigeno in quei pochi metri quadrati ciechi di luce
naturale e di ricambio d’aria.
Gaara si svegliò di colpo,
annaspando tra i fogli con un terribile cerchio alla testa. L’irritazione per
quella disagevole situazione lo assalì di colpo, portandolo a liberarsi degli
invadenti documenti con uno scatto rabbioso e tutt’altro che benevolo. Tra le
tante notti trascorse insonni a causa del lavoro, quella era stata certamente
la più infruttuosa, e non c’era situazione peggiore di essere a corto di tempo
e di soluzioni contro problemi intricati e di massima urgenza.
Il
rosso si affrettò a uscire dalla stanza, rimanendo accecato dalla luce di un
prepotente sole mattutino. Dopo essersi imposto la calma con un profondo
respiro, afferrò la teiera per preparare il the, riflettendo nel mentre su
quanto i suoi predecessori gli avessero tramandato nelle ore precedenti.
“Ben poco”,
pensò, grattandosi il capo con stizza.
Sembrava
quasi che un mistero sempre più fitto aleggiasse intorno ai Gangioku,
dei quali nessuna traccia era materialmente rimasta nelle memorie del Villaggio
della Sabbia, esattamente come Emin aveva predetto.
Aveva
infine spulciato ogni documento consultando fino agli atti di fondazione di
Suna, risalenti all’operato Primo Kazekage, non
trovando mai alcuna menzione sui Gangioku, tantomeno
di una tecnica che risultasse utile ai suoi scopi ambientali. Si disse
mentalmente che avrebbe dovuto inviare al più presto delle missive agli altri
villaggi come aveva ipotizzato la sera precedente con la sorella, anche se la
cosa lo indispettiva parecchio contando che fino all’ultimo aveva sperato di poter
risolvere la questione internamente, così da non contrarre debiti in futuro.
Forse
era stato decisamente troppo
ottimista.
Mentre
sorseggiava il the pensava a come sarebbe convenuto muoversi da quel momento in
avanti. Sapeva perfettamente che gli archivi dei Kazekage
erano stati infruttuosi in buona parte perché era lui stesso a non essere
pienamente informato su quali potessero essere i fattori determinanti e capaci
di influenzare quella natura che stava attualmente abbattendo tutta la sua
ostilità sul grande deserto. Poteva forse essere il magnetismo, l’eredità
secolare dei Kage della Sabbia, un elemento utile a
quella causa? Che cosa avrebbe potuto materialmente fare con i mezzi che
possedeva? Doveva arginare e regimentare delle eruzioni vulcaniche, un’impresa
mai tentata nella storia del Paese del Vento e al tempo stesso un’impresa che
non permetteva fallimento, pena la perdita dell’unico avamposto sul confine
nord, contrassegnato da Takano, Usagi,
Nakoto, Sin e Rakushi, i
cinque villaggi satelliti di Suna. Perdere quei villaggi significava perdere di
credibilità e di solidità, per non parlare delle crepe che si sarebbero venute
a creare nelle relazioni politiche col Daimyo.
Gaara abbandonò il the
per dirigersi nuovamente nella stanza nascosta e invasa dai documenti. Cominciò
a riordinarli scrupolosamente, catalogandoli e sigillandoli esattamente come li
aveva trovati, sfogliando ogni tanto qualche plico, nella speranza di
imbattersi finalmente in qualcosa di utile.
Raccogliendo
il materiale tramandatogli dal Terzo Kazekage si
ritrovò a pensare a quanto il suo operato fosse stato rivoluzionario dal punto
di vista dello studio del chakra, gli interessanti diari scritti di suo pugno
avevano messo in luce un numero esorbitante di esperimenti e di ricerche a
riguardo, studi che avevano infine portato al suo riconoscimento più grande e
temuto, ovvero un nuovo volto del magnetismo con l’invenzione della sabbia
ferrifera. Si ritrovò a sfogliare convulsamente le pagine di uno di quei
preziosi quaderni, sperando come non mai di avere tralasciato qualcosa di
indispensabile.
Niente.
Richiuse
il diario con uno scatto, ritrovandosi subito dopo a gettarlo in archivio con
rassegnazione. Nello schianto che ne seguì un rumore metallico attirò la sua
attenzione sul pavimento: una chiave giaceva solitaria sulle fredde piastrelle della
stanza.
Passò
qualche secondo prima che il ragazzo riuscì a sintonizzarsi con la realtà:
aveva appena scaraventato sullo scaffale un diario con quasi un secolo di storia,
racchiudente le memorie del comandante più illustre di Suna, oltre che le sue
pionieristiche scoperte in campo scientifico, e da quel diario era appena uscita
una maledetta chiave.
Gaara si chinò
finalmente a raccogliere l’oggetto dopo avere mentalmente chiesto perdono per l’improvviso
maltrattamento della reliquia.
Era
una semplice chiave in fin dei conti, con la testa tonda e piatta e le
seghettature di una serratura moderna; era liscia in tutto e per tutto,
eccezion fatta per delle piccole e ruvide protuberanze sensibili al solo tatto.
Coincidenze?
O forse quella ruvidezza aveva un significato? I suoi polpastrelli sentivano
delle linee e il suo cervello aveva già cominciato a elaborare una traduzione
passando in rassegna tutto quello che sapeva sui codici utilizzati per i
messaggi criptati. Non sapeva se quella chiave c’entrasse qualcosa con quello
che stava cercando ma, non essendo riuscito a capire da quale punto del diario
essa provenisse, poteva definirsi l’unico elemento privo di significato in
quella ricerca infruttuosa e, forse, l’ignoto in quel momento assumeva una
valenza maggiore dell’inutilità di tutto il resto.
Infilò
la chiave in tasca finendo di riordinare i documenti con una fretta sempre
maggiore. La prima cosa da fare era convocare il consiglio e aggiornarlo sui
fatti di Dakagi, poi avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione
per l’invio delle missive e attendere le risposte degli altri paesi, nonché del
Daimyo. Nel frattempo si sarebbe dato da fare per
scoprire quanto più possibile sul fantasma dei Gangioku
e capire cosa nascondeva quella chiave gelosamente conservata negli archivi
privati del Terzo Kazekage, nel profondo sperava che
le due cose potessero essere collegate; il come,
tuttavia, rimaneva un mistero sempre più oscuro.
In tutto questo, il tempo
scorreva inesorabile.
L’autrice:
Maybe I’m back!!
A presto!
Luci