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Autore: ClaireOwen    05/11/2017    4 recensioni
[Bellarke - Modern.AU]
“Mi dispiace.”
Sussurra timidamente.
E sa che dovrebbe porgere le sue scuse ad ognuno di loro ma vuole essere sicura che sia proprio lui ad udirle per primo.
Ad ogni modo se c'è una cosa che Bellamy Blake sa fare è stupire e stavolta lo fa riservandole un sorriso docile, spiazzante; china leggermente il capo, prega che nessuno si sia reso conto di quella sua impercettibile reazione perché di certo non è riconosciuto dagli altri come una di quelle persone affabili e gioiose, effettivamente non è dispensando sorrisi che il maggiore dei fratelli Blake si è guadagnato il rispetto da quel branco di scapestrati.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Octavia Blake, Raven Reyes, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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XIII
 
 
Osserva le mani di Clarke strette al volante, le nocche quasi bianche come se la stretta fosse troppo forte, gli occhi glaciali sono fissi sulla strada ed una smorfia seria le inclina leggermente all’ingiù le labbra.
Non ha parlato.
Non ha fatto domande, ha semplicemente impostato il navigatore ed ha messo in moto.
Ed è proprio questo che le invidia e che la fa apparire così dannatamente lontana da lui, questa è la differenza abissale tra loro due.
Non è serena, lo può vedere da come si aggrappa ad ogni singola parte della vettura - dal volante al cambio - e da come le sue labbra sono strette e fine in un’espressione apparentemente imperturbabile che però in fondo cela in modo piuttosto marcato un velo di pura angoscia.
Eppure Clarke Griffin resta muta, inscalfibile, tiene con sé qualunque sensazione stia provando o perlomeno tenta di farlo, tiene per sé ogni interrogativo che naturalmente la sta tormentando, non potrebbe essere altrimenti.
Lui non è così, Bellamy Blake non sarebbe mai in grado di fare qualcosa del genere e se da un lato invidia il distacco della sua compagna di viaggio, dall’altro la compatisce.
Perché Bellamy è un vulcano perennemente attivo, inarrestabile e la sua sete di conoscenza, in qualsiasi situazione, non conosce limiti.
Ma soprattutto il maggiore dei Blake ha imparato a non avere paura dei propri sentimenti, o quantomeno prova costantemente a non rimanere ingurgitato dal terrore di rivelare sé stesso e lo fa perché sente uno stramaledetto bisogno di sentirsi libero, di aprire il suo cuore agli altri, è l’unica cosa che lo fa sentire realmente vivo e che riesce a salvarlo in momenti che, come questo, appaiono bui e indissolubili nel loro tragico andamento.
Non ha paura Bellamy tranne quando si tratta di lei.
Ma se Clarke non fa nulla per rendere sopportabile quell’istante che appare indistricabile e senza fine, lui sente il dovere pressante di renderlo meno oscuro, più chiaro e reale.
“Si tratta di Charlotte.”
Quindi sputa fuori quell’affermazione come se ne valesse la sua stessa vita.
“E’ stato Marcus a chiamarmi, ed è un bene che tu fossi qui con me perché… Ha chiesto esplicitamente di noi due, insieme.
Le labbra della ragazza allora si schiudono in un leggero sussulto eppure non lasciano fuoriuscire ancora alcuna parola e Bellamy sente un moto di frustrazione e rabbia montare nel suo petto, opprimere ogni suo organo.
Sa che dovrebbe rimanere lucido, che ha il compito di comportarsi da adulto eppure avrebbe bisogno d’aiuto, non è mai stato bravo a chiederlo ma lo ha sempre avvertito, da solo non può farcela, non ci è mai riuscito ed è anche per questo se per tutta la sua misera esistenza ha lavorato senza sosta per far sì che quel gruppo di ragazzini crescesse insieme e fosse pronto a qualsiasi cosa pur di salvarsi il culo l’un l’altro, è stato lui ad educarli a quell’amore così denso e primordiale che rende capaci di compiere sacrifici.
Proprio lui che da quell’unico sentimento in fin dei conti ha sempre provato a sfuggire perché terrorizzato dalle sue estreme conseguenze.
Di fronte a quel silenzio Bellamy vorrebbe solo urlare ma si rende conto di essere stanco, forse se Clarke non è più in grado di aprirsi con lui è anche colpa sua e degli atteggiamenti scostanti ed irriverenti che per troppo tempo le ha riservato, certo, alla fine è cambiato ma del resto lo  ha fatto con un imperdonabile ritardo, quando ormai mancavano poche ore alla sua dipartita.
Per cui lascia che la sua schiena smetta di rimanere rigida e si adegui alla forma comoda del sedile, poi volge il suo sguardo in direzione opposta, lontano, verso il mondo esterno che sfila velocemente dietro il vetro freddo del finestrino.
“Ti sei affezionato a lei, non è vero?”
La voce della giovane Griffin è calda ma estremamente incerta e sul viso del maggiore dei Blake appare una smorfia amara, è sempre così, proprio quando sta per arrendersi, per gettare la spugna definitivamente, Clarke rimescola le carte in tavola, manda avanti quel gioco infinito cambiando strategia e lasciandolo ogni volta di stucco.
Inspira mentre annuisce.
“Credo di si. Mi ha ricordato di noi alla sua età, soli contro tutto.”
“Forse non eravamo così soli però…”
“Già, non così ma ammettilo, ci sentivamo in quel modo anche noi, incompresi e chiusi in gabbia.”
La percepisce annuire, ha deciso di non voltarsi di nuovo verso di lei, parlarle in quel modo è più facile.
“Ti ho visto l’altro giorno, hai fatto un buon lavoro con lei, più di quanto non avrei saputo fare io.”
“Non ero sicuro e non lo sono tuttora, anzi… Spero di non aver detto nulla fuori posto, non vorrei aver contribuito in qualche modo a…”
Le parole si rifiutano di uscire, rimangano a grattare sul fondo della gola, non potrebbe reggere un peso simile, si è già sentito abbastanza in colpa quando è venuto a conoscenza della crisi di suo padre.
Poi però d’improvviso i pensieri smettono di esistere all’interno della sua mente, percepisce la mano calda di Clarke sul suo ginocchio ed il mondo intorno a lui sparisce per un millesimo di secondo.
“Non ci pensare nemmeno Bell. Non hai alcuna colpa tu, semmai sono io quella a cui è sfuggito qualcosa, sono io che avrei dovuto fare di più.”
Il maggiore dei Blake raggiunge la mano di Clarke con le proprie e la stringe avvolgendola con cura, se lui non è colpevole allora non si tratta nemmeno di lei, è strano pensarlo ma, nonostante i loro ruoli dentro quell’aula siano profondamente diversi, è insieme che affrontano quell’universo di drammi personali e visini affranti.
“Tu non c’entri principessa, sei un essere umano come tutti gli altri, non puoi fare l’impossibile in così poco tempo, sai meglio di me che per fare effetto il tuo corso ha bisogno di andare avanti ancora un po’.”
Ora la cerca, ha bisogno di trovare i suoi occhi acquamarina, solo guardandola in viso ha una chance di rassicurarla e non vuole assolutamente farsela sfuggire.
L’impatto è veloce, dura pochi secondi, il maggiore dei Blake si è voltato al momento giusto, non appena ha percepito sul proprio corpo la sua occhiata si è affrettato a non perderla del tutto e a ricambiarla.
Un flebile sorriso inclina la bocca di Clarke, è un grazie sordo e mesto e a Bellamy va bene così.
 
 
-
 
 
La sala d’aspetto è vuota e silenziosa, asettica.
Quell’ambiente le da il voltastomaco e la mancanza d’informazioni la lacera, per tutto il tragitto si è impedita di pensare a ciò che poteva essere successo a Charlotte, ha solo continuato a guidare tenendo saldo in mente il volto di quella ragazzina e spingendo il pedale dell’acceleratore più del dovuto.
Ma ora è impossibile proibire alla testa di generare ipotesi, sono troppo vicini alla sala in cui Charlotte è ricoverata, la prognosi è riservata e finora nessuno si è presentato a fornire uno straccio di spiegazione.
Sa che l’agitazione che lei riesce a tenersi stretta all’interno del suo petto non fa lo stesso nel corpo di Bellamy, infatti, sebbene non abbia più parlato, lo vede contorcersi accanto a lei, cambiare posizione ogni cinque minuti nella troppo stretta e scomoda sedia e muovere le gambe nervosamente su e giù.
Vorrebbe fare qualcosa per alleggerirlo da quel peso ma non riesce a pensare a nulla di davvero efficace, tutto le appare stupido e banale sapendo che la piccola Charlotte è a pochi metri da loro in chissà quale stato.
Si aspettavano di trovare Marcus e per tutto il tempo lo hanno cercato con lo sguardo, ogni porta che si apriva ha guadagnato la loro attenzione ma del loro datore di lavoro non c’era nemmeno l’ombra.
Bellamy ha provato a chiamarlo ma a rispondergli è stata solo la metallica voce della segreteria telefonica.
Medici ed infermieri li ignorano invece, solo l’assistente in segreteria li ha accolti freddamente facendoli “accomodare” nelle piccole sedie in plastica bianca.
Clarke non riesce a capacitarsi che siano i soli ad essere lì, non vi è ombra di parenti o genitori eppure nella cartella della ragazzina aveva letto chiaramente il nome della madre e del suo compagno, un certo Thelonious Jaha.
Le sue ponderazioni sono interrotte da uno scatto di Bellamy, improvvisamente il ragazzo abbandona la sua postazione e quando il suo sguardo lo segue, attirato dal movimento, trova all’entrata della sala d’aspetto Kane, accoglie il suo arrivo con un leggero sospiro di sollievo e segue istintivamente il maggiore dei Blake.
L’uomo sorride flebilmente e gli porge dei bicchieri di cartone fumanti.
“Non credevo di trovarvi qui così presto.”
Dice mentre gli porge i contenitori.
“Sono andato a prendere qualcosa di caldo alla caffetteria, scusate se non mi sono fatto trovare qui prima.”
“Appena ci hai chiamato siamo corsi qui.”
Dice Bellamy tagliando corto e lasciando intendere di essere pronto ad ascoltare qualsiasi cosa abbia da dire loro.
“La situazione è delicata.”
Clarke è stufa di aspettare e sente tutta l’agitazione repressa ribollire in lei, fagocitarla.
“Lei… Sta bene?”
Non le importa conoscere le cause, non ora, vuole prima accertarsi sul suo stato di salute, il resto può aspettare.
L’uomo dondola appena sulle ginocchia.
“Se la caverà, credo. E’ in coma indotto, la sveglieranno entro la mattinata. Il fatto è che io non posso rimanere, domani ho una lezione alle nove e…”
Kane vacilla, la sua espressione è corrugata e profondamente tesa.
“Vuoi sederti?”
Bellamy anticipa il pensiero di Clarke e l’uomo annuisce invitandoli a fare altrettanto.
“Stanotte è successo qualcosa di terribile…”
Clarke sente l’acido lattico avvolgerle ogni muscolo, non è sicura di essere pronta ad ascoltare ciò che Marcus sta per raccontare.
“Come sapete teniamo Charlotte nel programma di recupero già da un po’, la sua storia sembra simile a quelle di molte altre persone se si analizza in superficie ma non è affatto così. Sua madre, Teresa, è stata sposata a lungo con Angus quello che è stato il suo padre naturale ma purtroppo l’uomo è venuto a mancare quando la bambina era ancora piccola. La loro situazione economica non era delle migliori e, nonostante i sussidi, Teresa arrancava, faceva la bidella in una scuola media non molto lontano dal quartiere in cui siete nati… Così ha deciso di affiancarsi al fratello adottivo di Angus, Thelonious. Jaha è sempre stato un uomo equilibrato, è stato consigliere comunale qui a Washington per un larghissimo lasso di tempo, insomma si è sempre dato il suo da fare e possiamo dire che si è riscattato dopo aver passato un’infanzia infelice. E così è stato fin quando suo figlio, nato da una precedente relazione, è morto tragicamente in un incidente. Da quel momento l’uomo è mutato nel profondo, il lutto per il fratellastro sommato a quello per il giovanissimo figlio sono stati troppo per lui. Per un periodo ha cercato conforto nella terapia ma non soddisfatto ha interrotto tutto e il lato più oscuro del suo carattere ha prevalso. Si è immischiato in affari loschi, si è lasciato corrompere durante i suoi ultimi mandati ed è cambiato radicalmente, in sostanza è diventato un violento.”
Dopo quel lungo preambolo Clarke sa più o meno cosa aspettarsi eppure sente un brivido scuoterla, Charlotte è stata la vittima di situazioni e scelte più grandi di lei.
Il freddo la pervade, non si tratta di un fattore ambientale, lo sente dentro, nell’animo, ha sempre reagito così di fronte alla miseria eppure ha cercato di non darsi mai per vinta, ma adesso è diverso, è cresciuta, ne ha viste così tante e si sente colpevole, la speranza che ha sempre riservato in queste occasioni ora scivola via veloce.
Se solo avesse analizzato meglio la cartella di quella ragazzina forse adesso non sarebbe qui, non avrebbe rovinato la serata a Bellamy e Kane ma soprattutto avrebbe saputo come intervenire con Charlotte.
E’ anche colpa sua, ciò che il maggiore dei Blake le ha detto prima sbiadisce in modo semplice, perde significato in fretta, almeno lui, a suo modo, ci ha provato, lo ha capito che quella bimba aveva bisogno d’aiuto più di altri.
Lei cos’ha fatto invece? Si è lasciata travolgere dalla sua vita privata, dai suoi sentimenti contrastanti e si è dimenticata di quel lavoro per cui si era sempre sentita tagliata.
Evidentemente sbagliava di grosso.
Mentre le sue colpe prendono il sopravvento sente Marcus riprendere fiato, sa dove la porterà ascoltarlo fino in fondo, quel pugno nello stomaco sarà ancora più forte e la condurrà sul baratro, vorrebbe solo evadere da quel luogo, dall’odore nauseante di disinfettante ma non può farlo ormai.
Si sente in gabbia, esattamente come diceva Bellamy.
Ed è proprio lui a scuoterla da quel senso d’inadeguatezza, le afferra con veemenza la mano, le sembra quasi di essere strattonata
“Puoi scusarci un momento Marcus?”
Lo interrompe appena in tempo, un attimo prima che ricominci con lo straziante racconto.
Senza fornirle spiegazioni repentine la porta fuori da quella sala con forza, Clarke lo segue aggrappandosi alla presa della sua mano.
Tutto intorno a lei è sfocato: le mura bianche, immacolate; i camici verdi; i suoni, il vociare dismesso, i lamenti, i conati; le porte e i corridoi.
Poi la luce al neon si dissipa, sono fuori e c’è solo la notte, una leggera foschia e i lampioni aranciati.
Solo ora Clarke torna a respirare e lo fa in modo discontinuo quasi annaspando come quando si è stati troppo sott’acqua.
Percepisce l’aria umida entrarle pienamente nei polmoni e guardando gli occhi bui di Bellamy il freddo che finora l’ha invasa si ritira, lascia spazio ad un timido calore.
“So come ti senti.”
“No, non lo sai.”
E’ ancora agitata, solo ora si è resa conto del battito cardiaco accelerato e del tremolio che l’ha scossa per tutto quel tempo, proprio ora che il suo corpo si sta riprendendo.
“Smettila Clarke. Non sei colpevole, ok?”
“E’ facile per te. Tu ci hai provato, non sei rimasto con le mani in mano!”
Il suo tono è più alto del dovuto, lo sente rimbombare nel parcheggio semi vuoto dell’ospedale, rimbalza sulle mura lerce della struttura e torna da lei come un’eco al quale non si può sfuggire.
“Te l’ho già detto e non credo di volerlo ripetere ancora quindi vedi di ascoltarmi una volta per tutte: non sei sola Clarke, non sei mai stata sola e tutto ciò che posso fare è prometterti che non lo sarai mai.”
La sua voce è estremamente calma, persino rigida eppure c’è una vena di profonda dolcezza a dominarla, se non fosse così agitata avrebbe tempo per chiedersi come ci riesce in un momento simile ma le cose sono profondamente diverse.
Il suo cuore ricomincia a battere all’impazzata e la sua mente è di nuovo un mare di nebbia stavolta però manca quella sensazione atroce di solitudine, quella paura di cadere nel vuoto senza poter far affidamento su nessuno.
“Insieme?”
“Insieme.”
 
-
 
 
Ha annuito quando, calmandosi appena, Clarke le ha posto quella semplice domanda che non poteva trovare di certo un’altra risposta.
Ha ripreso la sua mano, stavolta lo ha fatto senza foga ma con infinita dolcezza, per sottolineare ulteriormente che per lui tutto ciò che conta è davvero affrontare quella dannata situazione in modo congiunto.
L’ha condotta dentro, ha sentito i tendini irrigidirsi contro i suoi quando l’aria angusta dell’ospedale li ha riabbracciati ma non ha esitato a stringere ulteriormente la sua presa.
Ha osservato Marcus riservargli un sorriso debole, un’occhiata di gratitudine, anche lui è solo, persino l’uomo che ha sempre ammirato ed invidiato ha bisogno di aiuto, del loro aiuto per giunta.
Eppure intenderlo non lo ha fatto stare meglio, non è stato felice di sentirsi utile, non come si sarebbe aspettato almeno, non in una nottata simile ma quel che è certo è che Bellamy Blake ha riconosciuto tutta la fragilità umana di quell’uomo e di Clarke e questo lo ha fatto sentire meno solo.
 
Si sono seduti più vicino di quanto non fossero prima, la giovane Griffin deve averlo preso alla lettera, separati non possono reggere ciò che manca alla conclusione della narrazione, ne sono ben consci entrambi.
Così la ragazza gli ha impedito di lasciare andare la sua mano e Bellamy non l’ha delusa, è rimasto saldamente attaccato alla sua carne senza batter ciglio.
E’ quando Kane ha ripreso il racconto che però Bellamy si è sentito mancare la terra sotto i piedi.
“Charlotte questa sera ha tentato il suicidio, mentre Jaha sbraitava e Dio sa solo cos’altro faceva alla madre, lei si è chiusa nella sua camera ed ha aperto la finestra. Tre piani possono sembrare pochi ma vi assicuro che la sua sopravvivenza è stata un vero e proprio miracolo.”
E’ l’unico brandello del discorso del professore che è riuscito a salvare, che per ore ha continuato a ronzargli in testa, tutto il resto è nebbia, nero più totale.
Deve aver aperto la bocca perché ha percepito il suo respiro mozzarsi, in un primo momento il suo cervello si è spento, è come andato in tilt, poi in pochi istanti troppi impulsi lo hanno invaso.
Rabbia in primo luogo, poi disperazione e ansia e inquietudine, orrore infine.
Non credeva di essere capace di riuscire a provare tanti sentimenti contrastanti contemporaneamente.
Il suo viso probabilmente più pallido che mai è scattato velocemente da Marcus a Clarke, nonostante tutto, ha sentito il compito di preoccuparsi per lei.
L’ha trovata immobile a digrignare i denti ma impassibile ed in quel momento ha capito.
Credeva di poter essere inscalfibile per lei, aveva realmente immaginato di poter divenire il suo sostegno ma a quanto pare stava accadendo il contrario.
Ora era lui a stringersi a lei, era lui a percepire l’aria troppo pesante.
Senza di lei sarebbe impazzito, avrebbe urlato forse con il poco fiato che ancora riusciva a sentire in petto, se la sarebbe data a gambe, invece era lì accanto a lei, incapace di far prevalere quel principio di codardia.
 
“So cosa significa avervi reso partecipi di questa tragedia ma non potevo fare altrimenti, Charlotte è sola, sua madre è in terapia intensiva e non sappiamo cosa le accadrà. I soccorsi hanno dato la priorità alla bambina ed io mi sono preoccupato in primo luogo di lei. So solo che Teresa non è in questo ospedale, domani cercherò di fare ulteriori ricerche. Sono consapevole di chiedervi molto ma non sapevo a chi altro rivolgermi, se riusciste a rimanere fino al suo risveglio sarebbe ottimale. Dal mio canto ho già dato disposizione di interrompere il corso fin quando questa situazione si risolverà perché fidatevi, andrà così, i nodi verranno al pettine, è nostro compito crederci, torneremo alle nostre vite, ognuno di noi, in particolare Charlotte, ve lo prometto.”
Ha detto l’ultima frase con una strana luce negli occhi, piegando appena le ginocchia per far in modo di guardarli dritti negli occhi.
Il maggiore dei Blake però non è stato in grado di sorreggere quello sguardo, non era sicuro di poter fare affidamento in quel moto di speranza e si è voltato di nuovo verso Clarke.
Ha ancorato le sue pupille agli occhi lucidi e arrossati di lei, l’ha osservata trattenersi, stringere i pugni, mordersi le labbra fino quasi ad infrangere la pelle rosea dal colorito più opaco del solito.
 
 
Marcus se n’è andato poco dopo, li ha stretti forte a sé ed ha sussurrato un grazie sincero alle loro orecchie.
Ma quella parola e quel gesto puro non sono stati sufficienti a donargli forza.
 
Sono in silenzio da chissà quanto tempo, non c’è alcun imbarazzo però, semplicemente non esistono parole adatte.
Clarke si è alzata un paio di volte per sgranchirsi e probabilmente anche per far defluire l’agitazione, ha camminato per il perimetro della sala d’aspetto lentamente e Bellamy non ha distolto da lei lo sguardo nemmeno per un attimo.
 
Ora è di nuovo lì però, accanto a lui e una domanda roca quanto improbabile fuoriesce dalla sua bocca secca.
“Che ore sono, Bell?”
Hanno perso il senso del tempo da quando sono in quella maledetta sala d’aspetto e solo in quel momento il maggiore dei Blake si rende conto di non avere alcuna idea di che ore segnino le lancette.
Fruga nella tasca del giaccone alla ricerca del cellulare, guarda lo schermo distrattamente, alla ricerca di un solo dato:
“Quasi le tre.”
Bisbiglia, la stanza è quasi vuota e le poche persone che la popolano, fatta eccezione per gli infermieri, è assopita in un sonno leggero e poco allettante.
Clarke annuisce.
 
“Merda.”
Esclama poco dopo, il tono non è più tanto contenuto e attento agli altri.
Ha notato solo ora i numerosi tentativi di Octavia e John di mettersi in contatto con lui.
Si alza di scatto.
“Scusami un attimo.”
Dice solo allontanandosi verso l’uscita.
 
Fuori fa freddo, l’inverno è quasi finito ma senza il sole in cielo è impossibile non far caso ai suoi strascichi.
“Dio mio Bell. Mi hai fatto davvero preoccupare.”
“Ci ha fatto preoccupare, vorrai dire.”
Riconosce la voce fuoricampo di Murphy.
“Dove sei?”
Octavia non le ha dato ancora il tempo di dire nulla.
“E’ successo un casino O’. Sono in ospedale.”
“Stai bene? E’ per caso papà?”
“Si, cioè no, voglio dire io e papà stiamo bene.”
“Chiedile se Clarke è con lui.”
Un’altra voce che arriva ovattata e in lontananza, non riesce subito a riconoscerla.
“Raven vorrebbe sapere se Clarke è con te.”
“Si, sta bene, è con me, si tratta di una bambina che seguiamo al corso, c’è stato un incidente.”
C’è un attimo di silenzio.
“Merda, mi dispiace. Senti, io sono con Raven e Murphy, ho visto la tua macchina nel parcheggio e credevo fossi alla festa, ti ho cercato in lungo e largo senza risultato e dato che non rispondevi si sono offerti di darmi un passaggio ma se le cose stanno così vi raggiungiamo.”
“Non c’è bisogno O’, davvero.”
“Dimmi il nome.”
“Il nome?”
“Dell’ospedale Bell, il nome dell’ospedale.”
“Siamo al Children’s National Medical Center.”
Sa che insistere con sua sorella è totalmente inutile ed in un certo senso è grato che di lì a poco vedrà dei volti amici.
“Arriviamo.”
 
Quando rientra, Clarke sta tartassando la cerniera del suo cappotto, è talmente assorta nell’agitazione di quel gesto che nemmeno si rende conto del suo ritorno.
Sebbene capisca perfettamente che ognuno ha il suo modo di sfogare l’ansia, decide d’interromperla.
“Stanno arrivando gli altri.”
Lei non si volta.
“Gli altri chi?”
“Murphy, Raven e… e Octavia.”
Per un millesimo di secondo ha temuto che Clarke potesse scomporsi al pensiero di rivedere sua sorella ma mentirle non avrebbe alcun senso.
Annuisce appena, poi lentamente decide di voltarsi verso di lui.
Bellamy ha finalmente accesso al suo volto che per tutto quel tempo la giovane Griffin ha deciso di rivolgere verso il pavimento.
E’ facile da leggere e del resto lui è abituato a farlo.
Sembra più tranquilla, l’arrivo degli altri deve averle fatto lo stesso effetto che ha avuto su di lui.
Eppure non può evitare di notare gli occhi gonfi, contornati da pesanti occhiaie violacee e il viso tirato, segnato dalla stanchezza e dalla tensione.
Vederla così fa male ma sa che non può fare nulla per alleggerirla da quel peso che stanno già sopportando insieme.
Si permette perciò di darle un semplice suggerimento.
“Perché non provi a riposare un po’? Ci sono io qui e gli altri arriveranno tra non molto.”
Si morde colpevolmente il labbro superiore dopo aver parlato, teme che Clarke possa prenderla male, non saprebbe nemmeno perché dovrebbe farlo eppure non riesce a scacciare quel sospetto.
Ma la ragazza è troppo provata per controbattere ad una proposta simile e si ritrova ancora una volta ad annuire.
“Sei sicuro che non ti dispiace?”
“Assolutamente.”
La osserva mentre poggia la schiena contro il muro e chiude le palpebre socchiudendo appena le labbra.
 
 
-
 
 
Le mura di quel luogo sono gelide, nonostante indossi il giaccone percepisce l’umidità contro la sua schiena e quella sedia che cigola ad ogni movimento, anche il più impercettibile, è quanto di più scomodo abbia mai provato.
Nonostante tutto Clarke tiene gli occhi serrati, prova a concentrarsi sul suo corpo ancora in completa tensione, vorrebbe solo trovare conforto tra le braccia di Morfeo ma dopo tutto quello che è successo, dopo il racconto di Marcus, cercare anche solo un briciolo di serenità a cui appigliarsi per raggiungere il sonno sembra impossibile.
E’ devastata dalla stanchezza eppure non riesce a spegnere la sua mente, le frasi di Kane rimbombano nella sua testa, dipingono spontaneamente immagini atroci, difficili da guardare ma impossibili da ignorare.
Si maledice per essere così portata all’immaginazione, del resto è parte della sua vita, non ha bisogno di modelli per disegnare le basta la sua fantasia, fissare le immagini nella sua mente è il suo mestiere, crearle, scomporle, analizzarle è ciò che fa ogni giorno quando si trova dinnanzi alla tela bianca.
Così le parole pronunciate da Marcus diventano pesanti e piene così tanto da generare nitide rappresentazioni che la scuotono e le rendono impossibile svuotare i suoi pensieri.
 
E’ sempre stata brava ad aggrapparsi a momenti felici prima di addormentarsi.
E’ stato suo padre a insegnarglielo.
 
Da piccola Clarke Griffin aveva un’immensa paura del buio, ‘una cosa normale’ diceva sempre sua madre con un certo distacco ‘ma devi imparare a conviverci’ continuava come se fosse una cosa semplice.
Più volte le era capitato di svegliarsi in piena notte e ritrovarsi come pietrificata sotto le coperte, allora si tirava il piumone fin sopra le orecchie, tratteneva il respiro e rimaneva immobile, fin quando il silenzio diveniva assordante e il buio troppo scuro da sostenere.
A quel punto tendeva la sua manina verso il comodino cercando affannosamente l’interruttore dell’abat-jour.
Solo quando finalmente la luce rischiarava l’ambiente il suo piccolo cuore tornava a battere ad un ritmo regolare ma il silenzio della notte era ancora incombente e l’oscurità avvolgeva il resto della sua abitazione, allora cercava di raccogliere tutta l’energia derivata da quella piccola lampadina per alzarsi e sgattaiolare nella camera dei suoi genitori.
Ricorda ancora che chiudeva gli occhi durante tutto il percorso perché più si allontanava dalla sua stanza, più il buio ritornava a dominare la scena, avanzava in velocità fin quando le sue mani tese in avanti non riconoscevano la maniglia della porta.
Conosceva ormai il percorso a memoria e salire sul letto dei suoi servendosi del solo tatto era facile, poi finalmente quando si trovava tra i due corpi assopiti si permetteva di spalancare gli occhioni azzurri.
Li teneva aperti senza paura fin quando, abituatisi al buio, riuscivano a riconoscere nella penombra i profili di ogni oggetto.
Solo allora richiudeva le palpebre in completa serenità e si stringeva tra le braccia dei suoi genitori.
Quasi sempre però al risveglio Abby la rimproverava, non le era mai sembrata arrabbiata ma delusa e un po’ stanca forse.
“Sei grande Clarke, lo dici sempre anche tu! Dovresti cominciare ad esserlo anche di notte, non trovi?”
Abigail Griffin poteva apparire estremamente rigida ma in fondo quel piccolo scricciolo biondo sapeva che parlava per il suo bene e del resto quello era il suo modo di stimolarla, per questo annuiva ogni volta che sua madre le faceva lo stesso rimprovero, cercando di promettersi che un giorno, prima o poi sarebbe riuscita a combattere quella stupida paura.
 
Alla fine fu la risolutezza di Jake Griffin a districare la situazione, una sera di Settembre come di consuetudine accompagnò la piccola Clarke in camera sua e le insegnò a sognare.
“Ricordi cosa hai promesso stamattina a tua mamma?”
La bimba aveva annuito con una notevole incertezza e Jake decise di esortarla
“Quindi?”
“Non sgattaiolerò più da voi…”
Suo padre le aveva passato una mano tra i capelli scompigliandoglieli con tenerezza.
“Ti va di spiegarmi cos’è che non ti fa riaddormentare?”
A quella domanda Clarke aveva incastonato il suo sguardo a quello del padre trovando in fretta la forza necessaria per aprirsi.
“E’ il buio. Aprire gli occhi e non vedere nulla non mi fa stare tranquilla e se li richiudo so che intorno a me è tutto scuro e… E poi c’è il silenzio che è così forte quindi appena sento un rumore sembra molto più grande e allora ho paura… Ho paura che possa succedere qualcosa di brutto.”
Jake aveva sorriso di fronte all’impaccio della figlioletta.
“Non succederà mai nulla di brutto Clarke, lo sai che io e la mamma siamo qui e se anche dovesse succedere qualcosa arriveremo in un secondo da te ma devi imparare ad affrontare le tue paure, ormai ti stai facendo grandicella.”
“Lo so. Ma non so se sono capace! Io ci provo, sai? Ma più rimango sveglia e più non riesco che a pensare al buio intorno a me e allora non riesco più a riaddormentarmi.”
“Va bene, allora ti insegno un trucco ma non devi dirlo a nessuno, me lo prometti?”
La bimba aveva annuito e spalancando le pupille si era avvicinata al padre, pronta ad ascoltarlo.
“Quando vuoi dormire devi fare una cosa semplice, vedi questo?”
Aveva afferrato un peluche, un cagnolino di stoffa che le avevano regalato i nonni quando ancora era troppo piccola per averne dei ricordi lucidi.
“Lo stringi forte a te e chiudi gli occhi, poi devi fare una cosa importantissima, all’iniziò sembrerà difficile ma pian piano sarà sempre più semplice e naturale. Devi immaginare, Clarke. Pensa a una storia, a qualcosa che ti piace, puoi essere tu la protagonista o inventarti i personaggi che la popolano, pensa che di notte puoi diventare tutto quello che vuoi, piccola: una principessa o una guerriera e puoi anche esplorare il mondo, conoscere nuovi amici, devi solo lasciarti andare alla fantasia, poi i pensieri faranno il resto, l’importante è immaginare solo cose belle.”
“E se arrivano le cose brutte? Se mi ricordo del buio?”
“Non succederà te lo prometto, il trucco è pensare a quello che vuoi sognare Clarke, ogni sera prima di dormire puoi immaginare i tuoi sogni e farli diventare reali, così niente potrà fermarti, nemmeno il buio.”
“E tu lo fai?”
“Sempre.”
La piccola aveva sorriso schioccando un bacio sulla guancia di Jake, poi si era rintanata sotto le coperte.
“Ora ci provo e appena ci riesco te lo dico, va bene?”
Jake Griffin aveva ridacchiato annuendo.
“Allora resto qui, così poi mi racconti…”
Dopo dieci minuti Clarke dormiva beatamente, ovviamente e come previsto non era riuscita nell’impresa di fuoriuscire dal mondo dei suoi sogni per avvertire il padre, così Jake aveva spento la luce, lasciandole una leggera carezza sulla guancia prima di andare via.
Da quel giorno la più giovane della famiglia Griffin non aveva mai smesso di immaginare i suoi sogni prima di addormentarsi, nemmeno nelle notti più buie in cui la luna nuova stentava a farsi vedere.
 
 
In quel momento però la sua abilità: il trucco di Jake diventa una condanna, il suo pensiero infatti è prigioniero di ciò che ha vissuto nelle ultime ore e non c’è alcun modo di liberarlo.
Non che ci siano poi chissà quali grandi elementi positivi a cui aggrapparsi nella sua vita, crescendo ha abbandonato i sogni fatti di favole e avventure concentrandosi sui volti delle persone amate ma molti di questi ora non sono più presenti e la loro assenza torna improvvisamente a farsi pesante.
“Clarke…”
La voce di Bellamy è vicinissima e poco dopo percepisce la sua mano calda sulla guancia, quel contatto inaspettato la costringe ad aprire gli occhi, li riscopre doloranti, si accorge adesso di trattenere a stento le lacrime.
Il viso del maggiore dei Blake è la prima cosa che vede e il suo sorriso, seppur debole, è in grado di farla sentire al sicuro, a casa, di farle dimenticare per un istante il mondo fuori.
Dura un attimo però, le luci al neon la riportano in fretta alla realtà e Bellamy si accorge di tutto perché comincia a parlarle.
“Stavi sussultando, sei sicura che vada tutto bene?”
Una linea obliqua si fa largo sulla sua bocca, se Clarke Griffin fosse in grado di mantenere la sua integrità al cospetto di quel ragazzo non esiterebbe a sbraitargli contro.
Che razza di domanda è quella?
Eppure c’è qualcosa nella sua voce: è una nota di dolcezza che in pochissimi le hanno mai riservato e poi ricorda che quello non è un momento come tutti gli altri, non c’è nulla di normale.
Dunque riesce solo a scuotere la testa, tiene gli occhi sbarrati, s’infrangono per poi perdersi nei meandri bui di quelli di Bellamy e realizza che sono fatti esattamente della stessa oscurità che tanto temeva da bambina.
In un attimo sente i suoi bruciare, prudere, è nuovamente in un maledetto vicolo cieco: le lacrime calde le riempiono in fretta le iridi per poi percorrere il profilo del suo volto stanco.
E’ un pianto muto e impossibile da controllare.
Sente la mano di Bellamy far presa sulla sua nuca, l’attira a sé avvolgendola con l’altro braccio e in pochi istanti Clarke Griffin affonda il suo viso nel petto del ragazzo.
Decide di perdersi in quel gesto spontaneo, per una volta nella sua vita non vuole porsi alcuna domanda, non pensa alle conseguenze di quella vicinanza, realizza solo che è tutto ciò di cui ha bisogno.
Così si lascia inebriare dal profumo fresco di lavanderia della sua camicia ormai sgualcita dall’imprevista frenesia di quella notte e si adagia nel calore del suo corpo.
E’ facendosi cullare dal battito cardiaco irregolare che si abbandona a lui; assomiglia fin troppo al suo e pulsa insistentemente nella sua mente tanto da far vibrare ogni fibra del suo corpo.
Le braccia di Bellamy Blake diventano un porto sicuro, il solo che sia in grado di immaginare in quel momento, sono le uniche in grado di sopportare con forza il suo crollo e le percepisce stringersi ancora attorno al suo corpo ingoffito dagli strati di stoffa, tenerlo saldamente intatto e ancorato a sé.
Il pianto silenzioso di poco prima si tramuta senza chiedere il permesso in sordi singhiozzi, è il segnale che la bufera sta passando, Clarke riesce finalmente a chiudere le sue palpebre stanche e pesanti e a spingere ulteriormente il suo viso contro il corpo dell’uomo che la sta salvando.
Solo rinnovando l’aderenza tra loro riesce ancora a sperare, a scacciare via dalla sua mente quelle immagini crude, solo rifugiandosi in lui ricomincia ad essere padrona dei propri sogni e così, senza che il tempo le permetta di realizzarlo, i rumori si fanno ovattati e la sua mente piomba in un riposo leggero ed incredibilmente sereno.


Angolo Autrice: 
Ancora una volta sono qui a non sapere bene come farmi perdonare, spero che il capitolo possa bastare ma non so spiegarvi quanto sia difficile per me chiedervi scusa ancora una volta!
So di avervi chiesto pazienza e spero che questo non vi faccia disamorare della storia, purtroppo l'ultimo anno di università si sta rivelando più pesante e denso del previsto e così la vita quotidiana pregna anche di tantissimi imprevisti mi lascia davvero poco spazio per dedicarmi alla scrittura.
Questo ovviamente non fa altro che dilatare i tempi e vi chiedo ancora una volta di capirmi e perdonarmi come solo voi sapete fare!
Per il resto spero solo di non avervi deluso e mi auguro di risentirvi presto tramite le vostre preziosissime e dolci recensioni che tanto mi sono mancate :)
Per il futuro stavo pensando che magari per pubblicare più spesso potrei diminuire l'ampiezza dei capitoli anche se questo comporterebbe aumentare considerevolmente il loro numero complessivo, non saprei, sono davvero combattuta quindi ogni consiglio è ben accetto 

Sappiate che scrivendo ho pensato tantissimo ad ognuno di voi, spero riusciate a percepirlo, come sempre vi abbraccio fortissimo.
Vostra C.

 
   
 
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