Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: EffyLou    13/11/2017    1 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
- - - - - -
I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
18. Der Modedesigner aus Ostrava

 

Praga, Repubblica Ceca.
Rosa Vowe era la sorella maggiore di Agnes. Aveva quasi sessant’anni, e non aveva figli.
Era fidanzata con un pilota dell’aeronautica militare ma con lo scoppio della Grande Guerra lui non tornò da lei. Poco tempo dopo la fine, scoprì che era a Parigi a fare la bella vita con una donna dieci anni più giovane. Rosa, già provata dalla perdita della sorella nel 1917, se ne andò dalla Germania per ricominciare da capo. Si stabilì a Vienna, infine a Praga.
In pochi anni aprì una boutique prestigiosa in tutta la città. Vestiti esclusivi, all’ultima moda. Zia Rosa era una sarta e una stilista con una creatività strabiliante e le mani d’oro.
Era una donna con i capelli bianchi, folti e sempre acconciati in modo eccentrico, gli occhi castano scuro. Non dimostrava la sua età, era vivace e piena di cose da fare. Aveva polsi, mani, caviglie e piedi piccoli ma era paffuta come un bignè pieno di panna. Qualsiasi cosa dovesse fare, si vestiva elegante. Abbinamenti impeccabili, prestigiose pellicce. Aveva l’abitudine di fumare la sigaretta da un lungo bocchino nero.
Abitava in un enorme appartamento, sopra la sua boutique Lesk, nel centro di Praga. Era un appartamento così grande da avere anche un piano superiore.
Rosa Vowe era stata davvero felice di accogliere la sua cara nipotina. Erano quindici anni che non la vedeva. Ora aveva ventitré anni, l’ultima volta che l’aveva vista ne aveva otto.
Appena la vide dalla finestra che scendeva dal taxi che l’aveva accompagnata, le era balzato il cuore in gola. Sua nipote vestiva con abiti scialbi, ma li sfoggiava con un’eleganza innata che le avrebbero permesso di rendere aggraziata persino una busta dell’immondizia. Quando poi era salita, rivide nei suoi lineamenti la sua cara sorella Agnes.
Era bella come lei. Aggraziata e fine come lei. Anche il fisico atletico e minuto l’aveva ereditato dalla sorella. Era la sua fotocopia. Ma gli occhi di cielo e i capelli d’oro erano senza dubbio del buon vecchio Edmund.
Da quando era arrivata, l’aveva messa sotto a cucire abiti, occuparsi della boutique come commessa, sistemare gli abiti sui manichini, farle da modella per i suoi esperimenti di sartoria.
«Bisognerà mettere in risalto questo bel seno, signorinella, non durerà mica per sempre! E questo punto vita lo vuoi valorizzare oppure vuoi buttare tutte queste qualità nella pattumiera?» urlava continuamente, quando vedeva i vestiti di Frieda, oppure le faceva mettere addosso i modelli che cuciva. Era così bella che non c’era da stupirsi dei ragazzi che si voltavano in strada a guardarla, da quando indossava gli abiti giusti. Finalmente Rosa Vowe aveva portato un po’ di buongusto nel vestiario della nipote.
«Olga, tesoro. – le mormorò quel giorno, la ragazza era alla cassa della boutique. – Sono arrivate delle lettere per te.»
La ragazza si era avvicinata, le aveva prese tra le mani controllando il mittente. Suo padre, Hildi, Gilda. Johann.
La sua lettera fu semplicemente lasciata cadere a terra.
Rosa piazzò le mani sui fianchi. «Non la leggi neanche? E se ci fosse scritto qualcosa di importante?»
Sorrise, sardonica. «Ho dei dubbi»
«Chi era il mittente?»
«Nessuno. Un ragazzo che non è nessuno»
«Però ti provoca un certo effetto, anche se è un signor nessuno» la incalzò Rosa, recuperando la lettera.
Frieda strinse le dita sulle altre buste candide. «Era il mio fidanzato quando ero a Berlino»
Rosa si addolcì e la nipote le raccontò della loro storia. Nei suoi occhi, la zia vide l’emozione nel rivivere quei momenti. Sentiva la dolcezza dell’amore che la ragazza provava per quel pugile. La sofferenza che le stringeva il cuore in una morsa ogni volta che lo ricordava. La nostalgia di quei giorni con lui. Era passato un anno da quando si erano visti l’ultima volta.
Non c’era giorno in cui Frieda non lo pensasse, ma era troppo arrabbiata e orgogliosa per scrivergli.
In ospedale le aveva chiesto di dimenticarsi della Germania, di lui, di loro. Probabilmente era quello che anche Johann avrebbe voluto fare ma che non riusciva, per questo le aveva scritto.
La ragazza mostrò alla zia una foto di Johann, che teneva gelosamente nel portafogli. Era la foto stampata e ritagliata che gli avevano scattato a marzo del 1933, ad Anversa, prima dell’incontro con Roth. Lo trovava bellissimo. Un figlio della guerra e delle passioni violente.
La zia Rosa aveva strabuzzato gli occhi. «Tu eri la sua fidanzata?»
Frieda scoppiò a ridere, si morse il labbro guardando la stampa con affetto. «Mi è piaciuto da subito. – sussurrò. – Ci siamo divertiti tanto insieme, era giocherellone e spassoso. Ci siamo scambiati promesse e segreti. Ma nell’ultimo periodo… non lo conoscevo. Non sapevo più chi fosse. Non riuscivo più a sentirlo, era lontano. E io capisco come doveva sentirsi, ma volevo solo stargli accanto e mi ha mandata via come un cane»
«Non essere infantile, tesoro. Stava passando un momento difficile. Probabilmente anche lui avrebbe voluto averti accanto ma ha preferito mandarti via per proteggerti. Forse è il caso che tu metta da parte l’orgoglio. Lui lo sta facendo per te» alzò le sopracciglia, eloquente, mentre le porgeva la lettera di Johann.
La ragazza si adombrò, non prese la busta. Gli occhi indagarono sulla sua scrittura disordinata, ma lo ignorò.
«Devo finire di vestire dei manichini, zia. Ci vediamo a cena.»

 
* * *
 
 
25 giugno 1934. Hannover, Germania.
Ti ho scritto tante lettere durante il corso dell’ultimo anno, ma non ho avuto il coraggio di inviartene nemmeno una. Buffo, eh? Io che non ho coraggio. Ma stavolta è diverso, perché esiste la possibilità per me di raggiungerti a Praga, per alcuni giorni almeno. Se mi vorrai resterò, altrimenti accetterò la tua decisione e tornerò in Germania. Ma è una cosa che voglio fare, perché come dice un’anziana signora a me molto cara: “Non esistono amori impossibili ma solo amanti codardi”. E io sono stato un codardo troppo a lungo con te.



Rosa non si era trattenuta dal leggere la lettera che il ragazzo aveva mandato a quella disgraziata, tanto quanto adorata, nipote.
La lettera di Johann era stata breve, senza parole dolci. Ma le intenzioni e le emozioni che trasudavano da quella lettera erano più che chiare.
Rosa Vowe aveva le lacrime agli occhi. La sua nipotina non poteva desiderare di più, ed era sicura che non lo faceva.
Scrisse lei una risposta a quel ragazzo.
 
2 luglio 1934. Praga, Repubblica Ceca.
Caro Johann,
Mi chiamo Rosa. Sono la zia di Olga, lei alloggia da me, come forse sai.
Mia nipote è testarda come un mulo e più orgogliosa di Napoleone Bonaparte, ma ho visto i suoi occhi quando mi ha parlato di te e sono abbastanza vecchia da riconoscere l’amore.
Facciamo così. Ti lascio il numero di casa a cui rispondo solo io, e quando partirai mi chiamerai. Io preparerò ogni cosa per il tuo arrivo.
A presto, Johann Trollmann.
Zia Rosa.
 
Johann aveva ricevuto la lettera della signora una settimana più tardi, il giorno in cui sarebbe partito. Era il 9 luglio 1934.
Sorrise alle parole della donna, lo rincuoravano. C’era qualcuno che lo supportava.
Al telefono pubblico della stazione, compose il numero che c’era segnato sulla lettera.
Dopo qualche squillo, gli rispose una voce dolce.
«Pronto, signora Rosa?»
La donna, dall’altro capo del telefono, sentì questa voce calda e profonda.
«Johann? Stai partendo?»
«Sì. Tra dieci minuti arriva il mio treno» controllò sull’orologio da polso.
«Ottimo, sai tra quanto arriverai?»
Fece un rapido calcolo mentale. «Quasi otto ore. Dovrei arrivare per l’ora di cena»
«Ti farò avere un taxi fuori la stazione. Buon viaggio, ragazzo mio»
Era partito sul primo treno di mezzogiorno. Sarebbe stato un lungo viaggio.
Si era portato un bagaglio con un bel po’ di abiti e un paio di libri, giusto i suoi preferiti. La signora Berger era stata gentilissima e disponibile, con la sua aria frizzante. Gli aveva dato qualche soldo in più, per le spese extra.
Grazie alle conoscenze poco raccomandabili della signora Berger, era riuscito a procurarsi dei certificati medici che dichiaravano l’impossibilità di lavorare per circa venti giorni. Li aveva presentati alla centrale a carbone di Hainholz, all’aeroporto di Vahrenheide e alla bettola di Kreuzklappe. Non aveva fatto domande alla Berger, sul perché conoscesse certi individui, ma ormai si aspettava di tutto da lei.
Davanti a sé aveva venti giorni a Praga con Frieda. E se lei non l’avesse voluto, sarebbe tornato ad Hannover e si sarebbe goduto i giorni di riposo.
 

Quel giorno Frieda era alla boutique. C’era una ragazzina ceca che l’aiutava con i manichini e la sistemazione degli abiti, ma non parlava molto. Le chiacchiere che scambiavano erano essenziali.
Verso l’orario di chiusura, una cliente disposta a pagare fior di quattrini per un pezzo unico di zia Rosa si stava facendo prendere le misure dalla ragazza cosacca.
Con un laccio millimetrato e alcune spille da balia, cingeva il girovita della signora, la circonferenza del petto e dei fianchi per prendere le misure necessarie e apportare le dovute modifiche all’abito.
E la signora parlava e parlava, senza sosta. Era una cliente abituale. In un anno che Frieda era a Praga, l’aveva vista spessissimo alla boutique.
«Mia figlia si sposerà e devo prendere un abito adatto. Dimmi tesoro, secondo te questo mi valorizza?»
Frieda l’aveva squadrata con un sopracciglio alzato e diverse spille da balia tra le labbra. Annuì con un’alzata di spalle, come a voler dire che secondo lei sì ma non era un’esperta.
«Ahio!» esclamò, quando la ragazza la punse per sbaglio.
«Fcufi» rispose prontamente, con le labbra serrate per tenere le spille da balia.
Rosa fece il suo ingresso trionfale dal retro della boutique, dove c’erano le scale che conducevano all’appartamento. Aveva una pelliccia di volpe sulle spalle, un cappellino con una lunga piuma viola ed un fiore.
«Olga, mia cara. – cinguettò svolazzandole accanto. – Abbiamo un ospite a cena. Vai a darti una sistemata»
Frieda alzò un sopracciglio, la zia le tolse le spille dalle labbra. «Un ospite?»
«Ahio! Ma insomma!» esclamò la cliente, di nuovo.
Rosa la zittì con un cenno. «Viene da Ostrava. Ha fatto un lungo viaggio, arriverà per cena»
«Oh. Chi è?»
«Un collega stilista. Parleremo di lavoro. Tu faresti bene ad ascoltare, signorinella. Se un giorno vorrai, questa boutique sarà tua e dovrai ereditare il mio buon gusto e le mie conoscenze, tesoro»
Frieda aveva già pensato di svignarsela e cenare in camera sua. La zia sembrò leggerle nel pensiero, e lei fu costretta ad annuire. «Ho capito»
Lasciò il metro, gli spilli e le gli aghi vari alla zia, e lei si ritirò nel retro della boutique.
Salì le scale a chiocciola, di legno pitturato in verde pastello, fino a sbucare nello stanzino della cucina dell’appartamento. Era una sorta di passaggio segreto.
La cucina era spaziosa, i mobili di legno color avorio e un’isola col piano di marmo nero al centro. C’erano grandi finestre alle pareti che illuminavano l’ambiente. I fornelli e il forno erano in una rientranza del muro.
Una delle due domestiche, quella addetta alla preparazione dei pasti, volteggiava come una farfalla da una parte all’altra della cucina. Si avvicinava l’ora di cena e il loro ospite stava arrivando. Stava preparando una serie di delizie e squisitezze da leccarsi i baffi.
Frieda le passò dietro senza essere notata, arraffò una mela dal cesto di vimini sull’isola e si dileguò.
Passò dalla sala da pranzo. Anche in essa dominava l’avorio. Il pavimento in parquet, sotto il tavolo, era coperto da un tappeto azzurro. Il tavolo era in legno pregiato, le sedie intorno bianche e imbottite, con lo scheletro dello stesso legno liscio del tavolo. Sopra, c’era un mazzo di fiori coloratissimi. Grandi porte finestre illuminavano l’ambiente e si affacciavano su un lungo balcone. Le pareti decorate da quadri di paesaggi dai colori chiari.
La sala da pranzo era accessibile dall’ingresso attraverso una grande arcata. In fondo all’ingresso, c’erano le scale per il piano di sopra.
Frieda le salì due a due, ritrovandosi nel salottino del primo piano. Era come un altro micro appartamento, con solo camere e due bagni.
Qui l’attendeva Hedy, la domestica che si occupava di tutto ciò che non riguardava la cucina.
Faceva un lavoraccio, ma era ben retribuito ed era affezionata alla signora Rosa.
Praticamente, quella palazzina nel centro di Praga era abitata da tutto ciò che circondava Rosa Vowe. La boutique al piano terra, due appartamenti piccoli per le domestiche, e l’appartamento enorme della zia. Non si faceva mancare niente, solo un animale domestico o un giardino. E Rosa non aveva intenzione di avere nessuna delle due cose.
«Signorina Olga, è pronto il bagno caldo. Nella sua stanza ho già appeso l’abito che sua zia desidererebbe vederla indossare»
Frieda alzò gli occhi al cielo. «Grazie Hedy, ma ti ho già detto di chiamarmi solo Frieda, senza tutte queste formalità. Accidenti, siamo coetanee! E in ogni caso, ti prego, non chiamarmi Olga»
«Va bene, signorina Olga. Cioè, uhm… Frieda»
La camera da letto che Rosa aveva dato alla nipote, era piccola e spaziosa. Essenziale.
C’era un letto con le lenzuola blu e bianche e grandi cuscini rotondi, la struttura era in ferro battuto nero; una cassettiera di legno, una scrivania con uno specchio ovale, e una poltrona all’angolo della stanza. Sulla parete dietro il letto, c’erano diverse mensole piene di libri. L’intera parete opposta al letto era occupata da vetrate, ai cui lati c’erano morbide tende avorio.
Quella stanza le era piaciuta subito. E poi, da lì, Rosa non poteva sbirciare cosa facesse Frieda in camera sua quando aveva la porta aperta, e non vedeva il suo lato di corridoio. Non che avesse i segreti, ma a volte sgattaiolava fuori senza che la zia lo sapesse. E le cameriere erano brave a tenere i segreti.
C’erano altre due stanze degli ospiti. Ma in realtà si era ridotta ad una.
La prima era davanti alla camera di Frieda, ed era sempre chiusa a chiave perché tanto non ci doveva stare nessuno. Le domestiche l’aprivano solo per far prendere aria e pulire via la polvere. L’altra era davanti alla camera di Rosa, ed era stata svuotata per creare la fabbrica personale della sarta con macchine da cucire, manichini, tessuti, disegni di abiti appesi alle pareti. Lì faceva i suoi esperimenti.
Il primo bagno era diventato monopolio di Frieda, e infatti si trovava vicino alla sua camera. L’altro bagno era personale di Rosa, anch’esso vicino alla stanza della proprietaria di casa. Al piano terra c’era anche un altro bagno, ma era riservato a tutti.

La ragazza si spogliò, s’immerse nella vasca ovale affondando fino al naso.
Rimuginava sul restare a Praga o tornare a Berlino. In realtà, il suo cuore le stava dicendo di tornare in Germania. C’erano suo padre e suo cugino lì, i suoi amici, i suoi cavalli, Johann… tutta la sua vita. Ma la Germania stava diventando pericolosa per chi non era puro ariano. 
Forse sarebbe potuta tornare per salutare, uno di quei giorni. I soldi a zia Rosa non mancavano per un biglietto del treno Praga-Berlino.
Soffiò, producendo una serie di bollicine. La luce e il cielo cominciavano a tingersi di rosso e d’arancio. L’orologio appeso il muro ticchettava, segnando l’ora di cena.
Si alzò e si avvolse un asciugamano intorno al corpo, un altro sulla testa. Si asciugò alla bell’e meglio, spazzolando poi i capelli per renderli ordinati. Ma erano sempre la solita criniera di ondulati fili d’oro.
Si addentrò nella sua camera, profumata di vaniglia e lavanda. Sul letto, era posato un abito corto.
Era sbarazzino, lo scollo a barca e le maniche corte. Era stretto sul busto e la gonna svolazzante che arrivava alle ginocchia. Bianco, con un motivo nero simile all’ombra delle foglie. Sul girovita si stringeva un laccetto nero.
Era uno degli abiti che zia Rosa aveva cucito appositamente per Frieda. Il tessuto liscio al tatto.
Se non altro, non era troppo elegante.
«È solo una stupida cena» mormorò per infondersi coraggio.
Ripensò alle parole della zia riguardo l’ereditare la boutique. Il tipo da Ostrava poteva essere un buon alleato, per quando sarebbe arrivato il momento. Forse era meglio fare colpo. Un minimo, insomma. Doveva dimostrare di avere ereditato un minimo di buongusto dalla zia, anche se quell’abito l’aveva scelto Rosa.

Percepì il forte tonfo dell’entrata principale. L’ospite era arrivato, avrebbero cominciato a mangiare.
«Hedy! Ho urgente bisogno di te!»
Hedy fece irruzione nella camera pronta ai soccorsi. Trovò Frieda con il braccio incastrato, il viso contrariato.
Cercò di aiutarla senza strappare nulla. Alla fine riuscirono nel loro intento.
«L’ospite è arrivato. F-farebbe meglio a sbrigarsi a scendere, mentre la aspettano per la cena, la signora Rosa potrebbe finire il vino e…»
Hedy era su di giri. Frieda la studiò con un sopracciglio alzato, e la interruppe. «Sei in iperventilazione. È così bello questo stilista di Ostrava?»
«Oh, signorina, lo è davvero.»
«E mia zia, che fa?» indagò assottigliando lo sguardo.
«B-beh… ride alle sue battute, gli versa il vino… Cosa dovrebbe fare, signorina?»
Frieda sbuffò un sorriso divertito, arricciando il naso. «Quella vecchia marpiona, me l’aspettavo!»

 
Al piano di sotto, Rosa rideva di cuore alle battute di Johann.
Se fosse stata giovane come lui, come la sua Olga… Sarebbe entrata in competizione con la nipote per lui. Nemmeno Rosa, nella sua lunga e avventurosa vita, aveva mai conosciuto un uomo così.
C’erano molti uomini belli in giro per la Germania, a Vienna, e a Praga. Ma erano accumunati dalla solita bellezza nordica. Se avesse dovuto assegnargli un elemento, sarebbe stato senza dubbio il ghiaccio. Quel Johann, invece, gli ricordava il fuoco. L’incendio. Ogni dettaglio emanava calore, a partire dal colore della pelle fino agli occhi, quel nero così profondo sembrava cioccolato fondente fuso. Lo sguardo era caloroso e buono, solo da quello Rosa capì che era un bravo ragazzo.
Il corpo era fasciato da una camicia con le maniche arrotolate fin sopra i gomiti mostravano gli avambracci allenati, al polso un orologio rotondo, i pantaloni blu scuro, il colletto disordinato ad arte. All’attaccapanni aveva appeso una giacca nera, con i bottoni in pelle, e un cappello piatto.
Rosa pensò che con un viso del genere, era un peccato che non fosse diventato un attore o un modello. Ma d’altra parte, senza la boxe, quel fisico non sarebbe uscito fuori a dovere.
«Quanto vuoi stare?» gli chiese, servendogli del vino bianco.
Lui stava con un braccio poggiato al tavolo, tra le dita una sigaretta consumata a metà.
«Quanto posso stare, magari»
«Per me puoi stare quanto vuoi. Per Olga, invece… Non saprei. Non sa che sei qui. Le ho detto che sarebbe stata una cena di lavoro con uno stilista di Ostrava»
«Io ho venti giorni di malattia dal lavoro. Se Frieda mi vorrà, resterò. Altrimenti tornerò ad Hannover e mi riposerò con la mia famiglia»
Rosa gli chiese del lavoro, della famiglia, della carriera di pugile.
Johann le raccontò tutto in modo sbrigativo, senza dilungarsi troppo.
La zia rimase colpita dalla fatica del ragazzo a racimolare i soldi fino a Praga, dal momento che aveva uno stipendio misero ed era costretto a lavorare anche di notte. E aveva faticato tanto solo per vedere quella sua nipotina disgraziata, senza neppure sapere se sarebbe rimasto o meno.

Frieda fece capolino dall’arcata della sala da pranzo, avvolta nel suo abito sbarazzino. I capelli lunghi fino alle scapole ricadevano sulle spalle ed erano tenuti lontano dal viso da delicate mollette senza fronzoli. Alle orecchie portava due pendenti di perla. Una linea di eyeliner sulle palpebre la facevano sembrare un’attrice di Hollywood.
L’espressione di Johann mutò lentamente. Dalla sorpresa, alla gioia. Gli occhi spalancati e le labbra leggermente schiuse, a lasciar intravedere il bianco dei denti.
L’espressione di Frieda era pressoché la medesima. Era come uno specchio. Solo che lei, subito dopo, arrossì.
Il cuore le fece una capriola nel petto e schizzò fino alla gola, ingoiò un groppo. Le tremavano le gambe dall’emozione di rivederlo. Segretamente, aveva fantasticato molte volte sul loro possibile incontro. C’erano diverse versioni: quella in cui lei s’infuriava di nuovo, quella in cui lui si infuriava, oppure quella in cui si lasciavano andare ad un lungo e sofferto bacio. Ma quel momento era diverso da ogni versione che aveva immaginato.
Johann aveva lasciato cadere la sigaretta nel posacenere, era scattato in piedi come una molla e si era avvicinato con le mani in tasca.
«Non so il tuo nome» le disse con un’occhiata di sottecchi. In quegli occhi neri, la ragazza riconobbe una sfumatura di divertimento.
«Nemmeno io so il tuo» sussurrò, senza voce.
«Mi chiamo Johann»
Si schiarì la voce, cercando di darsi un contegno. «Io sono Frieda»
Come la prima volta che si erano conosciuti. Ricordavano quel momento come fosse il giorno prima. Si strinsero la mano.
Lui ebbe un fremito quando toccò di nuovo la pelle di Frieda. La sua mano piccola, delicata.
«È un piacere conoscerti. Non vedo l’ora di lavorare a nuove linee di moda con te» ammiccò strizzandole l’occhio, con il suo solito sorrisetto furbastro. La cicatrice al lato della bocca sembrava una fossetta, quando sorrideva.
Frieda si sciolse in un sorriso divertito, scuotendo appena la testa. «Oh, ma ti prego»
Lui chinò appena il capo per esibire un delicato baciamano, mentre la guardava da sotto le ciglia.
La ragazza si era incantata a guardare le sue labbra sfiorarle la pelle. Il respiro caldo, la bocca bollente. Il suo tocco gentile, la sua voce. I suoi occhi, lo sguardo profondo. Quanto gli era mancato.
«Mangiamo!» li riscosse Rosa.
Le era sembrato che nella stanza fosse divampato un incendio. Era fiera di sé. Aveva riunito quelle anime e la sua Olga non aveva sfuriato come pensava, ma anzi aveva accolto la novità di buon grado. Aveva persino sorriso.
La cena passò in silenzio. Frieda spiluccava il cibo con la forchetta, lo stomaco chiuso. Lanciava continui sguardi a Johann.
Era così strano rivederlo. Non aveva perso il suo tipico appetito, ma si manteneva in forma. Sembrava solo un po’ stanco.
Non si sarebbe mai aspettata di trovarlo lì. Certo, era arrabbiata con lui, ma in quel momento non riusciva a pensare ad altro se non alla gioia di rivederlo. Non era riuscita a dimenticarlo.
Sua zia doveva aver letto la lettera e si era organizzata con il ragazzo per farli rivedere. Doveva essere andata così.
Aveva sentito che Johann si sarebbe trattenuto venti giorni, se Frieda avesse voluto, e poi sarebbe tornato ad Hannover. Nemmeno per un attimo dubitò su cosa fare.
«Quindi ora Olga sa cucire, gestire un negozio, cucinare. Ha imparato persino il bon-ton» gli fece presente Rosa.
Johann sollevò lo sguardo per rivolgerle un’occhiata interrogativa. «Il bon-ton?»
«Sai, a rivolgersi ai clienti con garbo. Si spazientiva subito»
«Oh. Che terribile vizio» commentò, lanciandole una frecciatina riguardo al gancio destro mollato al maniaco del pub la sera che si erano conosciuti.
Frieda trattenne una risata, lui le fece un sorriso divertito mordendosi il labbro.
Rosa non poté cogliere il riferimento e non colse le occhiate divertite che si erano lanciati i due. «Assolutamente. Ma alla fine ha imparato. Ora ha anche un po’ di buongusto nel vestirsi»
«Qualità fondamentale se voglio stare al mondo, immagino» replicò la nipote.
«Non sottovalutare la potenza dell’abito, signorinella. Diffida da chi ti dice che l’abito non fa il monaco»
La ragazza roteò gli occhi.
«Insomma, Johann, caro. – tornò a rivolgersi a lui. – Vorresti rimanere?»
Frieda posò il mento sul palmo della mano, un lento sorriso si aprì sul viso angelico.
«Magari per sempre»








 
___________________________

Era ovvio che si sarebbero incontrati di nuovo. Nelle mie intenzioni non così "presto", anche se è passato un anno. Per per una serie di tempistiche, dovevano ritrovarsi a luglio 1934 circa. PER FORZA.

Ad ogni modo, come ho detto, tutta questa parte è romanzata. Johann non è mai stato a Praga.
La verità su questa parte è che lui si trovava a Hannover, Frieda a Berlino. Molto probabilmente si erano conosciuti da poco e lui nei weekend la andava a trovare con la moto. Lui aveva ventisei anni e lei diciotto.
E... non vi dico altro sennò spoilero hahaha

È un capitolo di passaggio, il prossimo sarà sentimentale ma ci sarà anche una parte con le battute alla Johann Trollmann. Diciamo che è già pronto perché sono stata a controllarlo fino a ieri sera, convintissima che dovevo postare quello anziché questo... ok.
Fatemi sapere che ne pensate, se volete! Come al solito, consigli, critiche, opinioni, domande... io sono qui!

Alla prossima ♥

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: EffyLou