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Autore: Kim WinterNight    27/11/2017    3 recensioni
Scappare non è sempre simbolo di codardia. Ognuno di noi ha un motivo valido per cui vorrebbe scappare da qualcuno o qualcosa: chi per dimenticare, chi per liberare la mente, chi per accompagnare qualcun altro nella fuga, chi per uscire di casa, chi per volere di un'entità superiore...
Ma tutti, forse, lo facciamo per cercare un po' di libertà e per rendere noi stessi più forti e capaci di ricominciare a lottare.
DAL TESTO:
Una vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. [...]
Notai una figura rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.
«Non vuole uscire di lì... non so più cosa fare» sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte. [...]
«Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a invitarti personalmente al mio matrimonio.»
Digrignai i denti e osservai, senza neanche vederli, gli automobilisti a bordo dei loro veicoli che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare contro di me e schiacciare sul clacson con fare contrariato. [...]
«Avresti potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia sul petto.
«Avresti rifiutato» si giustificò.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daron Malakian, John Dolmayan, Nuovo personaggio, Serj Tankian, Shavo Odadjian
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ReggaeFamily

Anyone

[Daron]




Notte.

Uno dei momenti in cui chiunque trova riposo, si rasserena e si abbandona a un rassicurante abbraccio.

Ma io non ero chiunque.


Era buffo rendersi conto che, da quando ero partito per la Giamaica, non avevo dormito bene neanche per una notte; era sempre successo qualcosa, qualcuno aveva intralciato il mio cammino, oppure la mia stessa mente mi aveva giocato brutti scherzi. Come in quell'istante.

La cosa più sorprendente, però, fu notare che la mia non era stata l'unica anima inquieta nell'hotel: mentre mi affacciavo sulla terrazza panoramica, mi resi conto che due figure familiari erano sedute accanto al parapetto e fissavano l'oceano oltre la balaustra. Riconobbi John e Lakyta, il che mi fece aggrottare le sopracciglia. Non capivo perché due persone così diverse si stessero tenendo compagnia, ma decisi che non mi importava. Se non potevo stare da solo lassù, avrei trovato un altro luogo in cui rifugiarmi.

Per evitare di fare rumore, ridiscesi a piedi, evitando per la prima volta di prendere l'ascensore; ero inquieto e non mi andava di rinchiudermi in quel box che, in quel momento, mi sembrava angusto e claustrofobico.

Mi ritrovai al piano terra e lanciai un'occhiata nella hall, notando che lo stagista si intratteneva come al solito dietro il computer. Non avevo voglia di averci a che fare, anche se dubitavo fortemente che avremmo parlato.

Uscii dalla porta laterale che mi avrebbe condotto, attraverso un sentiero, direttamente al Buts; ero certo che la spiaggia fosse deserta, rimaneva abbastanza isolata dal resto dell'albergo e risultava piuttosto inquietante di notte, quasi del tutto priva di illuminazione e con l'imponente profilo della scogliere che si stagliava, nero pece, nel cielo dello stesso colore. Il contrasto era quasi impercettibile, ma dopo un po' gli occhi si abituavano a quella condizione e allora l'atmosfera si creava da sé. A me piaceva, non potevo negarlo, ma forse gli ospiti ricchi e altezzosi dello Skye Sun Hotel la pensavano diversamente.

Rimasi in piedi sulla sabbia, assaporando il profumo salmastro che una leggera brezza trasportava dal mare; quest'ultimo produceva uno sciabordio rassicurante, mi faceva stare subito meglio al solo udirlo.

Avevo voglia di tuffarmi, non faceva freddo. Avevo voglia di abbandonarmi alle onde leggere e schiumose, senza più lasciar spazio al turbinio dei miei cupi pensieri.

Perché, nonostante avessi tutto, mi sentivo insoddisfatto e incompleto; chiunque avrebbe apertamente riso se avesse solo sbirciato tra i miei pensieri, sicuramente sarei stato deriso per il male insensato che sentivo dentro. Ma non potevo farci nulla, semplicemente non ero abbastanza forte per stare davvero bene.

Mi mancavano cose futili, forse, mi mancava qualcosa di simile all'affetto, all'amore; o forse mi sentivo uno stupido fallito perché nei rapporti umani ero una frana e non riuscivo a portar fuori il meglio di me, se questo meglio esisteva davvero.

Sì, volevo tuffarmi. Un'occhiata in giro mi confermò che ero solo. Una condizione a cui ero abituato, in effetti.

Cominciai a spogliarmi con calma, ma poi avvertii una certa urgenza farsi largo dentro me, così finii per strapparmi letteralmente gli abiti di dosso, maldestramente.

Abbandonai i vestiti in mezzo alla spiaggia e mi avviai quasi di corsa verso la riva, completamente nudo, completamente libero.

L'acqua era insolitamente tiepida, cullata dal silenzio avvolgente della notte. Inizialmente fui scosso da profondi brividi, ma decisi di non badarci troppo e mi tuffai senza riguardo nell'oceano, lasciandomi risucchiare da quella distesa infinita. Riemersi e scossi il capo, scrollandomi di dosso l'acqua in eccesso. Una profonda sensazione di calma si impossessò di me, tutti i nodi che stringevano il mio stomaco si sciolsero in un baleno e io mi sentii leggero, quasi potessi fluttuare per sempre su quelle gocce salate, salate come le lacrime che stavano pian piano abbandonando i miei occhi.

Solo in quel momento potevo sfogarmi davvero, me ne resi conto, perché nessuno poteva vedermi, nessuno poteva rendersi conto di ciò che mi stava succedendo. Nuotai in fretta e furia verso la riva, mi inginocchiai sul bagnasciuga e gridai a pieni polmoni, dando fondo a tutto il fiato che avevo in gola. Mi presi la testa tra le mani, mentre il mio lamento si faceva più basso e regolare. Non sapevo cosa mi stesse prendendo, però era bello, era liberatorio, era stupefacente.

Mi sollevai di botto e corsi nuovamente incontro alle onde, lasciando che ancora una volta mi stringessero tra le loro sinuose braccia. E gridai ancora e ancora, ogni volta che riemergevo dovevo farlo, ne sentivo la necessità anche se la gola bruciava e gli occhi con lei, a causa delle lacrime e dell'acqua.

Il sale mi bagnava da fuori e fuoriusciva da me, era una sensazione purificante, un dolore necessario e colmo di aspettative, di momenti migliori.

Mi voltai verso la scogliera e fu allora che la vidi: una figura se ne stava seduta sulla piattaforma che Leah ci aveva mostrato giorni prima, i piedi che penzolavano nel vuoto e l'attenzione rivolta nella mia direzione.

Mi sentii a disagio, vulnerabile, improvvisamente avrei voluto scappare, andarmene, non sapevo chi potesse aver sentito e visto il mio sfogo; forse avrei dovuto controllare meglio, fare un giro, ispezionare ogni angolo della piccola spiaggia.

Le lacrime appannavano i miei occhi e mi impedivano di comprendere di chi si trattasse o se fosse qualcuno di mia conoscenza. Forse avrei potuto uscire dall'acqua, ma ero completamente nudo, non mi andava di mostrarmi in quello stato a uno sconosciuto.

Poco dopo la figura sollevò una mano in cenno di saluto e una voce arrivò alle mie orecchie, nonostante fosse lontana e sopraffatta dal fruscio delle onde: «Daron?».

Riconobbi subito quell'inflessione, quel tono un po' ironico e divertito che ormai avevo imparato a conoscere.

Sospirai. «Leah?! Che fai lì?»

«Raggiungimi e te lo dico!» mi incoraggiò.

Feci una smorfia contrariata. «Ho lasciato i vestiti in spiaggia!» gridai di rimando.

«Non ti guarderò, giuro! Mi tappo gli occhi!» mi assicurò; la vidi sollevare le braccia e posarsi le mani sul viso.

Sorrisi appena e nuotai verso la riva, rapido; corsi verso i miei vestiti e indossai i boxer e la t-shirt, poi mi accorsi che probabilmente avrei dovuto aspettare per mettere il resto, ero fradicio e non avevo con me un telo da mare per assorbire l'acqua in eccesso.

Infilai le mie fidate infradito rosse ai piedi e mi avviai in direzione della scogliera per raggiungere Leah, cercando di non vergognarmi troppo di essere senza pantaloni. La brezza era tiepida e avrebbe impiegato poco ad asciugare le mie mutande.

Risalii lungo lo stretto e tortuoso sentiero che conduceva alla piattaforma, facendo attenzione a non scivolare a causa delle ciabatte e dei piedi ancora umidi.

Leah mi aspettava seduta laddove l'avevo intravista poco prima, non sembrava essersi mossa di un millimetro: teneva lo sguardo fisso sull'oceano e non osò lanciare nessuna occhiata al mio blando abbigliamento.

«Ehi, ma quello è...» commentai a voce bassa, accorgendomi solo in quel momento, dopo essermi accostato di più a lei, che in grembo teneva un gatto. Era piuttosto grande e peloso, nero come la pece, e pareva davvero tranquillo e in pace sulle sue ginocchia. Lei lo accarezzava distrattamente e lui faceva le fusa.

«Si tratta di un essere vivente, Daron, un felino per la precisione. Mai sentito nominare?» scherzò Leah.

Mi sedetti accanto a lei e tossicchiai. La gola ancora mi doleva per le grida che avevo lanciato poco prima, gesto per il quale ora mi sentivo tremendamente stupido. Me ne vergognavo perché probabilmente la ragazza vi aveva assistito e non sarebbe mai dovuto succedere.

Mi schiarii ancora una volta la gola, poi attaccai: «Mi dispiace per quello che hai visto. E sentito. È stato un errore, sono desolato».

Lei ridacchiò e si strinse nelle spalle. «Scherzi, vero? Come potevi sapere che ero quassù? Prima ero sdraiata.» Indicò alle sue spalle e io intravidi qualcosa di simile a un telo da mare o a una coperta. «Poi ho sentito le tue grida e... mi sono spaventata. Così mi sono alzata e ho controllato cosa stesse succedendo.» S'interruppe per un istante e la vidi rabbrividire leggermente. «Ho avuto paura, sembrava... c'era tanta sofferenza, Daron, nella tua voce.»

Lo sapevo, me ne rendevo conto e mi sarei sorpreso del contrario. Ma questo sarebbe dovuto rimanere un fatto tra me e me, nessuno avrebbe dovuto entrare in merito alla questione.

«Ordinaria amministrazione» bofonchiai.

«Chitarrista, che ti prende? Ehi, ascolta... mi rendo conto che io e te siamo un po' come un cane e un gatto, o qualcosa del genere, hai capito. Abbiamo cominciato fin da subito a battibeccare per qualsiasi cosa, però siamo anche in grado di andare d'accordo, non è vero? Siamo un po' simili, per certi versi ci somigliamo fin troppo.» Sorrise tra sé. «Shavarsh a volte mi dice che gli sembra di star frequentando te.»

«Inquietante» osservai perplesso. «Spero tu sia una persona migliore, altrimenti povero Shavo!» A quel punto mi venne in mente una cosa e le domandai: «Non dovresti essere con lui ora? Cosa fai qui fuori? Accarezzi un gatto anziché prenderti cura del tuo uomo».

«Il mio uomo» ripeté Leah assorta, poi aggrottò le sopracciglia e sollevò delicatamente l'animale dalle sue gambe. Con noncuranza lo posò al suo fianco, nel piccolo spazio che era rimasto tra noi due, e prese a spazzolarsi i pantaloni della tuta con entrambe le mani.

«Non è così?» insistetti.

«Non lo so. So solo che tra poche ore devo tornare in quella fogna di Las Vegas e non ho idea di quanto rivedrò Shavarsh. E, se vuoi sapere come mi sento, la risposta è: incazzata.»

«Incazzata?» Ero confuso.

«Sì, incazzata.» Sospirò brevemente e prese a frugare in borsa, per poi portare fuori un flacone di disinfettante. Se ne versò una generosa dose sulle mani e cominciò a pulirle con cura, per poi fare lo stesso con le braccia e con i pantaloni. «Daron, sai cosa penso?»

«No» ammisi sempre più interdetto.

«Penso di essermi innamorata.»

«Cazzo.»

«Appunto. Pensa te in che casino mi sono cacciata. E adesso?»

Leah sollevò per la prima volta gli occhi su di me e i nostri sguardi si incrociarono. Rimanemmo a fissarci per un po'. Notai che nel suo sguardo c'era una leggera nota di disperazione, ma nel complesso sembrava essere molto più felice, completa e soddisfatta di me.

Mi schiarii nuovamente la gola. «Non credo si tratti di un casino, Leah.»

Inclinò la testa di lato. «Ah no? E cosa sarebbe?»

«È bello, soprattutto se è Shavo l'oggetto dei tuoi sentimenti. Lui è davvero un ragazzo d'oro, te lo posso assicurare. Se ti fossi innamorata di me, be', avrei cominciato seriamente a preoccuparmi e probabilmente ti avrei spinto al suicidio.» Sorrisi con amarezza, rendendomi conto ancora una volta di quanto la mia vita sociale facesse schifo.

«Perché mai?» domandò semplicemente.

«Sono un disastro, è risaputo. Non so come i ragazzi possano ancora sopportarmi. Hai visto anche tu che riesco a combinare solo casini, a provarci con le donne sbagliate... e alla fine chiunque riesce a raggirarmi, anche se non sembra. La mia ex mi dà il tormento, insiste perché io sia presente al suo matrimonio con il suo nuovo tipo. Hai presente la coppia rock dell'anno? Lars Ulrich e Jessica Miller...»

Leah sbuffò. «Certo che ho presente, e... ma che razza di gente frequenti, Malakian? Quella è... non voglio essere cattiva, però...»

Sollevai una mano per arrestare le sue giustificazioni. «Qualunque cosa tu stessi per dire, hai ragione e non devi scusarti. Mi sono reso conto anch'io di che razza di donna fosse Jessica. Peccato che io abbia sprecato sette anni della mia vita per stare con lei.»

«Andiamo, non essere così duro con te stesso. Dagli errori che hai commesso non puoi che trarre giovamento.»

«Io sono diabolico, perché continuo a sbagliare all'infinito e non capisco mai un cazzo. Leah, sono una cattiva persona, e ora capisco perché sono l'unico con cui non hai stretto amicizia. Non ci somigliamo così tanto, vedi? Tu sei solare, allegra, simpatica, riesci a farti amare da tutti... io sono il tuo opposto.»

Lei a quel punto mi posò una mano sulla spalla. «Non dire cazzate e smettila di fare la vittima. Se sei così, sei così, okay. Ma non è detto che questa condizione debba durare per sempre, chiaro? Puoi sempre cambiare, migliorare te stesso, se davvero lo vuoi. Daron, tutti sono delle cattive persone se decidono di esserlo. È più difficile essere buoni. Le persone come Shavarsh sono da ammirare, oppure quelle come John... loro riescono a essere buoni, si impegnano per riuscirci al meglio. Io e te, invece, combiniamo sempre un sacco di guai e siamo esuberanti, disturbanti per il prossimo, spesso facciamo solo danni. Ma non per questo meritiamo di essere odiati, perché se vogliamo possiamo sempre darci un taglio, possimo far forza su noi stessi e tirare il freno a mano. E questo lo dico perché ho conosciuto Shavarsh e lui me lo sta insegnando, lo sta facendo davvero.» Fece una pausa e sospirò. «Forse è anche per questo che sto perdendo la testa per lui.»

«Sei una ragazza stupenda, lui non potrebbe meritare di meglio» dissi sincero, stringendole la mano.

«Vedi? Chi l'ha detto che io e te non siamo amici? Sei così testardo e sciocco, Daron... se non fossi arrivato qui, se tu non avessi gridato in quel modo... io sarei rimasta da sola con il gatto tra le braccia e la mente occupata dalla malinconia. Invece ho parlato con te e ora mi sento meglio.»

«Sul serio?»

Leah annuì. «Puoi contarci. Ma tu? Perché soffri tanto?»

«Tante cose.» Sospirai e, dopo aver constatato che i miei boxer erano ormai asciutti, mi infilai in fretta i bermuda. Cominciavo a sentire un po' di fresco.

«Per esempio?»

«I rapporti interpersonali vanno male, così come quelli con mio padre. Non andiamo molto d'accordo ultimamente, forse non è mai corso buon sangue tra di noi.»

Leah mi guardò sorpresa. «Io pensavo che tra voi ci fosse un buon affiatamento. So che ha creato anche le copertine di due album dei System. Sbaglio?»

«Non sbagli. Ma quello era un buon momento, uno dei pochi. Non so, siamo sempre in contrasto, lui dice che sono uno scapestrato e che a trentotto anni non ho ancora messo la testa a posto. Io non so cosa dirgli, so che ha ragione ma allo stesso tempo mi sento smarrito.» Feci spallucce. «È tutto un disastro, come ti dicevo.»

La ragazza scosse il capo e sbuffò contrariata. «Ah, i padri, che bella categoria! Sai che ti dico? Ho trovato un altro punto su cui ci somigliamo.»

Ripensai alla reazione di Leah quando aveva scoperto che la compagna di suo padre l'aveva tradito con me, e mi ricordai anche dei quei momenti in cui lei aveva accennato ai loro problemi, al fatto che lo considerasse un essere a lei quasi estraneo, un uomo d'affari senza nessun riguardo nei suoi confronti.

«Merda» osservai. «Hai ragione!»

Leah rise brevemente, una risata amara e priva di gioia. «Due casi persi, eh?»

«Ma tu hai trovato l'amore. Hai trovato Shavo. Sono certo che con lui potrai costruire qualcosa di buono, Leah.»

«Ho trovato l'amore, ma anche l'amicizia. Perché lui è un amico, prima di tutto; e poi ci siete voi: tu con le tue controversie e il tuo carattere scostante, John con la sua timidezza quasi morbosa e la sua razionalità al limite della patologia, Bryah con la sua fragilità e voglia di vivere... e poi c'è Dayanara. Forse stavolta gli darò il mio numero» concluse con dolcezza.

Compresi che forse non ero l'unico a essermi sempre sentito solo, anche Leah aveva sofferto per cose non troppo diverse dalle mie; alla fine ci eravamo incontrati e avevamo messo a confronto le nostre storie, trovandoci a provare le stesse sensazioni.

Lei aveva trovato degli amici e un uomo che la faceva stare bene, forse anche per me sarebbe giunto quel momento prima o poi. Dovevo, forse, solo aprire il mio cuore e piantarla di essere così burbero e asociale.

«Miriam è carina. Com'è che non ci hai ancora provato? Dico sul serio.»

Scrollai il capo. «Non è qui che devo cercare la pace. Fuggire dalla mia solita vita non mi servirà a risolvere i miei problemi.»

Leah tacque per qualche istante, poi concordò: «Penso tu abbia ragione».

Ci scambiammo un'ultima occhiata eloquente, consapevoli di aver appena instaurato un legame forte, strano, ma che già era in grado di scaldare una piccola parte del mio cuore.

«Torno dal mio uomo, tu che fai?» disse infine Leah, richiudendo la sua borsa. Si mise in piedi e mi osservò dall'alto in basso.

«Rimango ancora un po' qui. Guarda» mormorai, indicandole le mie ginocchia.

Leah notò il batuffolo di pelo che si era accoccolato su di esse e rimase sinceramente sorpresa. «Gli sei simpatico» commentò.

«Come si chiama?» volli sapere.

«Non ha un nome» ammise lei leggermente dispiaciuta. «Puoi sceglierlo tu, se vuoi.»

«Grazie» sussurrai, prendendo ad accarezzare delicatamente la piccola creatura.

«Grazie a te, chitarrista. A domani.»

Sorrisi. «A domani.»

Leah se ne andò silenziosamente e io rimasi immobile a cullare il gatto, il quale aveva cominciato a fare le fusa.

«Il tuo nome sarà Night» decisi, rivolgendomi al mio nuovo amico. Lui si sistemò meglio sulle mie ginocchia e io dedussi che probabilmente doveva aver apprezzato il suo stupendo appellativo.


Notte.

Uno dei momenti in cui chiunque trova riposo, si rasserena e si abbandona a un rassicurante abbraccio.

Anche io, ora, potevo essere chiunque.

  
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