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Autore: LunaMag    10/12/2017    0 recensioni
Tratto dal primo capitolo.
"Non sopportavo l’idea di trovarmi tantissime persone dinanzi. In realtà non sopportavo l’idea che mi guardassero o parlassero. Ero arrabbiata con il mondo per la morte di mio padre, ma con i ragazzi della mia età più di tutti perché mi avevano sempre messa in ridicolo per i miei gusti musicali e per il modo in cui mi sono sempre vestita. "Sei troppo punk", "Sei una sfigata metallara" mi dicevano. ".
Onice senz'altro non poteva nemmeno lontanamente immaginare quello che le sarebbe accaduto...
Adolescenza, amori, tradimenti, divertimento. Tutto racchiuso in una semplice fanfiction. Buona lettura! :3
Genere: Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lemon | Avvertimenti: PWP, Tematiche delicate
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"Onice".
Sentivo la sua voce, famigliare, molto distante.
"Onice, nana, svegliati! Sono le tre e mezza e sei ancora buttata nel parco."
Questa volta una mano mi scosse la spalla, portandomi violentemente via dal sonno privo di sogni che mi stava attanagliando.
"Henk..." Farfugliai in preda alla stanchezza e stropicciandomi un occhio.
"Lei è nel giro?" Questa volta non era Henk. Aprii meglio gli occhi, mettendo a fuoco una ragazza distrutta, magra, con i capelli scompigliati e secchi, di un colore simile al verde appassito ed il viso rovinato dalla droga.
"Si, da poco." Disse Henk arricciando il lato delle labbra, in segno di dissenso.
"Lei è Crystal. Crystal, lei è Onice." Mi fece un cenno della mano, io mi alzai, prendendo il mio zaino e spostando le foglie scricchiolanti dai miei vestiti.
Avevo già visto quella ragazza, la si trovava spesso in stazione, alla ricerca di soldi facili, sicuramente per le sue dosi. Può veramente ridursi così una persona?
"Henk, controllo che non ce ne siano altri così andiamo" Disse Crystal allontanandosi e non degnandoci di uno sguardo.
Ci fu qualche secondo di silenzio.
"Perchè pattugliate il parco?" Chiesi stranita. Henk rise, innervosendomi. 
"Certo che sei proprio ingenua. Se ci trovano dei tossici, chiamano la polizia, se dovesse essere chiamata la polizia,qualche tossico potrebbe fare il mio nome."
"Non sono ingenua, stronzo." Feci una breve pausa. "E lei che ti aiuta? Perchè lo fa?" 
Lui fece spallucce. "Beh perchè così mi muovo prima e in cambio le dò un quartino."
Ripensai alla droga. Ne avevo solo un'altra dose, che mi sarebbe servita per la mattina. Ed ero anche senza soldi.
"Henk..." lo guardai con occhi pietosi. 
"Che vuoi, nana?" Lo fissai dritto negli occhi. 
"Ho bisogno di altre due dosi." Lui arricciò le sopracciglia, guardandomi imbronciato.
"Non te le sei già sparate entrambe, vero?" Scossi la testa, mostrandogli un no secco. 
"Fammi vedere la dose allora." Disse lui. 
Perfetto, neanche mi credeva. Roteai gli occhi al cielo, sbuffai e presi il mio portafogli, uscendo il quartino che mi era rimasto con lentezza, come se avessi paura di perderlo nel nulla, o che uscendolo per non usarlo si sarebbe potuto dissorvere nel nulla. Quante paranoie da tossica del cazzo.
"E come pensi di pagarmela?" Mi guardò con un altro mezzo sorrisino, facendomi notare la sua spavalderia.
"Dammene due e te li pago domani a scuola, te lo giuro. Ci vediamo mezz'ora prima della mensa vicino al ripostiglio del primo piano." 
Lui sospirò, uscendo i miei preziosi quartini.
"Non faccio mai così con nessuno, e non abituartici, voglio che tu lo sappia e te lo ficchi in quella testa da tossica. E sappi che se dovesse ricapitare sceglierò io come essere ripagato." Aveva un tono di voce schifato e sicuro di sè.
"Henk. Smettila. Non sono una cazzo di tossica, non sono come Crystal." Lo guardai fucilandolo con gli occhi.
"Poco mi importa. Oltre le due dosi al giorno non avrai altro da me." Disse tranquillo continuando a tenere stretti i suoi quartini, che continuavo a guardare desiderosa di averli con me.
Tuttavia, le sue parole iniziali mi imbrattarono il cervello, e la paura di rimanere con la voglia di farmi, e senza roba, mi pervase. Me la presi con Henk.
"Cazzo Henk. Non ti dovrebbe importare solo il guadagno? Che ti frega della mia vita, o di quanti quartini mi sparo? Neanche ci conosciamo, neanche abbiamo mai parlato seriamente. Dammi la mia cazzo di droga quando te lo dico e basta, cazzo."
Mi passò i quartini, che nascosi subito e gelosamente nel portafogli. 
"Onice, con te, dei soldi mi importa poco. Quindi farò ciò che dico io. Non rompere." Quelle parole mi stranirono. Cosa intendeva dire? 
Crystal ci raggiunse, indicando che potevamo andare via tranquilli.
Henk le passò un quartino, staccandosi da lei e aumentando il passo per rimanere accanto a me.
Silenzio.
Si sentivano solo il rumore delle foglie che si spezzavano sotto di noi.
"Dove abiti nana? Ti accompagno. Da sola a quest'ora di notte... qualcuno potrebbe far male al tuo bel faccino".
"Potrei far male io al tuo di faccino, se non la smetti. Lasciami in pace Henk, ci becchiamo domani a scuola, per i soldi." Infilai le mani nella felpa, per scaldarle.
"Mmh" Lui sorrise "Che bel caratterino che hai piccolina...mi piace, mi piace". Mi sorrise maliziosamente,mi fece un occhiolino e poi si allontanò, dirigendosi da un'altra parte.
Camminai, raggiungendo il vialetto di casa mia.
Erano le quattro e mezza del mattino e la stessa paura di poche ore prima mi stava riempiendo il cervello. -E se mi picchiasse? E se avesse bevuto ancora?- E se, e se. quante domande. Respirai profondamente l'aria fredda del primo mattino, notando le luci spente. -Probabilmente dorme, e se faccio piano non si sveglia-
Presi le chiavi dallo zaino, cercando di fare meno rumore possibile. Ma non servì a nulla...mia madre...beh, lei era stesa sul pavimento, inerme, ancora.
Corsi subito da lei, che era fredda come il pavimento di marmo. Fortunatamente respirava ancora.
-Devo chiamare l'ambulanza. Cazzo- 
Fu allora che ricordai l'assistente sociale, che già al primo rischio di coma etilico si era intrufolata nelle nostre vite.
Sarebbe potuto andare tutto a puttane, tutto per colpa sua, che si rifugia nell'alcool. Tutto per colpa delle sue debolezze. Ma non potevo lasciarla lì, rischiava di morire.
Presi il telefono tremando, avvertendo un'ambulanza per soccorrere mia madre. Doveva essere successo da molto tempo.
Lei puzzava in una maniera incredibile di alcool.
Mi dovevo fare di nuovo, lo sentivo dentro. Sentivo il mio sangue pulsare e richiedere la dose, facendo parlare il mio corpo.
Guardai mia madre, e con un'indifferenza che non mi era mai appartenuta mi preparai la dose,che sparai nelle vene il più in fretta possibile, sudando freddo per l'inizio della rota, e per l'ansia dell'arrivo dell'ambulanza.
La dose iniziò ad riavvelenare il mio sangue, una tranquillità assurda mi pervase. Sentii le sirene, mi alzai a fatica.
I paramedici parlavano, mi chiedevano informazioni. Ma le loro voci sembravano provenire da un altro mondo. 
"Deve essere in shock". Riferì un ragazzo ad un altro.
Mi fecero salire con mia madre in ambulanza.
"H-ha bevuto." Farfugliai con l'unico filo di voce che la droga non era riuscito a trattenere nel mondo in cui trasportava il mio organismo e la mia anima spezzata. Il paramedico di prima, mi rivolse la parola.
"Cosa ha detto? Lo ripeta, la prego." Io cercai di concetrarmi, ma delle lacrime iniziarono a rigarmi il volto. Riuscivo a guardare solo un punto vuoto, ed i paramedici che si muovevano avanti e dietro come topi, erano lentissimi ai miei occhi.
"Ha bevuto. Credo." Questa volta riuscii a dirlo più forte.
Il paramedico iniziò a dire delle cose in codice in una radio per preparare l'ospedale all'arrivo di mia madre. Furono allertate le forze dell'ordine, che come l'ultima volta avrebbero mandato un'assistente sociale in ospedale. 
Mi andava bene così, con la mia droga in corpo ero pronta a riaffrontare tutto.
Una volta arrivata in ospedale, rimasi immobile nella sala attesa, con le mie vene sporche a farmi compagnia.







Dopo un pò di tempo, un uomo arrivò correndo, con l'ansia nel petto visibile a chilometri di distanza. Avevo visto di sfuggita quel viso, una volta. Ma poco mi importava,al momento non lo ricordai nemmeno e rimasi ipnotizzata nei miei pensieri.
"Onice." Si fermò accanto a me, sembrava volesse abbracciarmi, ma io non ne avevo nè l'intenzione, nè la voglia.
"Onice." Disse con più calma, posando una delle sue possenti mani sulla mia spalla. La presi e la tolsi, lo guardai con lentezza. 
"Cosa vuole da me?" -E come fa a sapere il mio cazzo di nome quel vecchio pervertito?!- Pensai.
"Sono il ragazzo di tua madre." A quelle parole successe qualcosa. Sembrava come se il mio stesso sangue, stesse combattendo contro la droga per farmi riprendere la piena coscienza di me e dei miei pensieri. E fu esattamente così, mi ripresi da quell'inifinito torpore in pochissimo tempo.
Squadrai dalla testa ai piedi quella persona che avrei odiato a prescindere e che aveva osato persino toccarmi la spalla.
Aveva un viso famigliare, ricordai quel giorno che lo vidi di sfuggita, ma c'era qualcos'altro che non riuscivo a capire. All'improvviso sentii il peso di tutto quello che era successo gravarmi sulla schiena, come se un lottatore di sumo avesse appena deciso di buttarsi sul mio corpo esile.
Scoppiai in un pianto disperato. L'uomo mi guardò, allargò le sue grandi braccia e mi abbracciaò mostrandomi uno strano sorriso amorevole.
Io cercai di stringermi in me stessa il più possibile, sentendomi stupida, anche per la potenza dei miei singhiozzi. 




Erano ormai le sei di mattina, e nessuno aveva notizie di mia madre.
Iniziai a sbraitare.
"Possibile che qui nessuno possa dirmi che cazzo sta succedendo a mia madre!" Feci un respiro profondo. "Medici del cazzo". Le mie gambe cedettero, non dormivo da ore, e l'eroina, che in quei giorni mi saziava, lasciandomi lontana dal cibo, mi aveva indebolita talmente tanto da farmi cedere.
Le mie gambe, mi lasciarono inginocchiata inerme su quel pavimento freddo.
L'uomo di mia madre, mi prese in braccio e mi fece sedere su una sedia. -Se si azzarda ancora a toccarmi gli spacco la faccia appena ne avrò le forze- Pensai con tutta me stessa.
Improvvisamente, un dottore dal camice candido ci raggiunse.
"La signora starà meglio, la stiamo monitorando. Tuttavia, c'è un'assistente sociale che necessita di parlare con la signorina Onice."
Dalle spalle del medico spuntò una signora bassa ed esile, con i capelli corti e la faccia che mi ricordava il piccolo orsacchiotto che mi aveva regalato mio padre per il mio terzo compleanno.
"Sono l'assistente sociale Barbra, chi è l'uomo qui presente?" Il ragazzo di mia madre si schiarì la voce, sistemandosi la cravatta che precedentemente aveva allargato.
"Sono il ragazzo della madre". 
"Mmmh" Barbra guardò entrambi, facendoci cenno di seguirla.
Si sedete con le gambe incociate, mantenendo una posizione elegante come il suo vestito. "Io qui ho dei precedenti sulla signora, e questa volta, non sarà tutto rose e fiori. La scorsa volta avevamo fatto un'eccezione, ma ora bisogna capire, ci sono già dei precedenti." Fece un secondo di pausa, guardandomi dritta negli occhi. "Regolarmente la ragazza dovrebbe essere portata in una casa famiglia temporanea per il tempo che la madre passerà in una comunità da cui non potrà uscire fino a che non sarà totalmente sobria da almeno 365 giorni".
Avevo perso mio padre, ed ora anche mia madre. Potevamo cambiare città, potevo farmi degli amici, ma la sfiga nella mia vita non avrebbe mai avuto fine. MAI.
"Mi scusi se la interrompo." Irruppe il ragazzo di mia madre di cui ancora non conoscevo il nome. "Potrei fare da tutore alla ragazza. In fondo, è come se fossi il suo patrigno." -Ma chi cazzo si crede di essere questo, ma chi lo conosce.- Sbottai nella mia mente.
La signora Barbra si portò la penna sulle labbra, pensierosa.
"Beh, si, non è una cattiva idea. Mi procurerò i documenti per rendere la cosa ufficiale." 
Un anno con un completo sconosciuto. E senza che nessuno mi avesse chiesto cosa ne pensassi. Ed in maniera così veloce. Lui potrebbe essere uno strupratore, un drogatom un alcolizzato o non so cosa. Belle le leggi del cazzo.
I due si scambiarono i numeri di telefono, dicendo che sarebbero rimasti in contatto.
Poco dopo, ci permisero finalmente di vedere mia madre.
Era tutto esattamente come la prima volta.
Varcai la soglia della sua camera, le mie narici furono disgustate dall'odore tremendo di spirito, e i miei occhi piansero quasi sangue nel vedere mia madre su quel letto, pallidissima, con tutte quelle flebo, per la seconda volta.
Si sarebbe ripresa in una settimana circa, il che significava che sarei stata 372 giorni con il suo cazzo di ragazzo, di cui io, fino a qualche giorno prima, non sapevo nemmeno l'esistenza.
Era ancora svenuta, sembrava morta.
Il suo ragazzo le lasciò un bacio dolcissimo sulla fronte, accarezzandole poi la mano.
"Vieni con me ragazzina, è già tardi, dobbiamo fare molte cose." 
"Io non vengo da nessuna parte, io rimango con mia madre." Incrociai le braccia al petto.
"Hai bisogno di fare colazione, hai bisogno di dormire. Baderò io a tua madre, te lo prometto." Sembrava sincero, ed anche molto dolce. Sotto alcuni aspetti mi ricordava mio padre. Il che non migliorò affatto la voragine che mi si era formata nel petto. 
"Va bene, va bene". Cedetti.
Mi accompagnò a casa, io uscii dalla macchina e lo vidi uscire con me e seguirmi fin sul vialotto. Corrugai la fronte.
"Vuole entrare in casa con me?" Lui rise, quasi divertito.
"Ma non hai capito, credo" Sorrise. "Prendi le prime cose che ti servono per riposare, mettile in uno zaino, mentre mangi qualcosa io ti preparo il resto delle robe, verrai a vivere da me".
Lo guardai incerto. 
"Io non la conosco, non penso sia il caso di vivere con lei". Lui roteò gli occhi al cielo.
"Va bene, ma non lascio da sola la figlia di una delle persone a cui più tengo al mondo. E non ti lascerò finire in una casa famiglia. E a quanto pare l'assistente sociale è anche d'accordo, temo tu non abbia molta scelta."
Rimasi in silenzio. Poi ripresi. "Si, ma lei la mia roba non la tocca. Lei prepari qualcosa per colazione, io vado a preparare tutto." 
Avevo le mani legate.
Salii con lentezza nella mia stanza ed iniziai ad uscire le valigie che pochi mesi fa avevo utilizzato per trasferirmi in questa stupida città in cui pensavo che le cose sarebbero cambiate, ed invece no. Il mondo non cambia, non vuol cambiare.
Sentivo il sangue ed il mio corpo inziare a reclamare il veleno di cui mi nutrivo: erano circa le nove, e sarebbe stata già la mia seconda dose. Ne avevo solo altre due per tutto il giorno, avrei dovuto resistere, ed era molto più facile dirlo, piuttosto che farlo.
Il peso di quella notte si impossessava sempre più di me, come una piccola perla nera che si nutriva dei miei problemi, delle mie paure, crescendo sempre più. Quasi riuscivo a localizzarla nel mio petto, quasi riuscivo a sentirne la freddezza e la scurezza.
Il mio cellulare vibrò. 


"Come mai non sei venuta al bar? E a scuola?"
Era Syn. Ignorai il messaggio, posando il telefono accanto alle valigie quasi pronte.



Il telefono vibrò di nuovo dopo pochi minuti.
"Perchè visualizzi e non rispondi? Devo preoccuparmi?"
Non sapevo che fare.
Risposi. "Te ne parlerò più tardi, ci vediamo stasera".
Mandai il messaggio e lanciai il cellulare dall'altro lato del letto. 


La pelle iniziò ad infastidirmi. Sentivo prurito ovunque. Sentivo la stessa sensazione che si prova ad indossare un irritante e pungente maglione di lana. 
Volevo staccarmi la pelle in qualche modo. Cercai di passare un getto di acqua fresca sulle braccia e le gambe, che migliorò per pochi secondi quella straziante sensazione.
Entrai in bagno, per prendere il mio penultimo quartino e spararmelo nelle vene. 
Estasi.
Piacere.
Prurito svanito.
La grande perla nera nel mio petto svanita.
Mi sentivo così leggera da poter volare.
Presi tutta la mia roba, la avvicinai pian piano all'inizio delle scale, e con tanti viaggi portai il tutto davanti alla porta.
Quel signore stranamente premuroso aveva preparato del latte caldo, aveva uscito i cereali, e si era preparato un caffè bollente.
Mangiai poco, dato che le mie palpebre divennero improvvisamente pesanti, rendendomi così conto che erano circa 24 ore che non riposavo. 
Dopo aver sistemato tutto, entrai di nuovo nella macchina di quel signore, guardando la mia casa scomparire in lontananza.
Arrivammo alla sua abitazione, che mi sembrava di aver già visto. -La stanchezza mi sta dando al cervello-. Pensai.
Entrai nella sua casa, rimanendo immobile nell'ingresso.
"Può mostrarmi la mia stanza? Sono estremamente stanca." 
Mi fece salire al piano di sopra, aiutandomi a portare la mia roba.
Mi mostrò una stanza molto anonima, con un bagno che portava ad un'altra stanza.
"Quella è la stanza di mio figlio, i bagni sono comunicanti, e questa in cui sei tu è la stanza degli ospiti." Rimase in silenzio per un paio di secondi. "Io adesso devo andare a lavoro, tornerò per cena."
Lo ringraziai, lui chiuse la porta e sentii i suoi passi allontanarsi pesanti nel corridoio.
Mi buttai sul letto, mi ricordai dell'appuntamento con Henk, ed impostai una sveglia per uscire al momento giusto.
Stava succedendo tutto così in fretta, ed io stessa non stavo ancora realizzando che quello sarebbe stato solo un ulteriore passo verso la mia autodistruzione.

  
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