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Autore: Shari Deschain    24/06/2009    2 recensioni
Dopo essersi sistemato alla meglio, l’uomo appoggia il violino sulla sua spalla, incastrandolo contro il collo, poi chiude gli occhi. Molti musicisti lo fanno per scena, lui lo fa essenzialmente per ricordare.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Tutta roba mia! è__é
Note: Scritta per il claim di Temporal-mente, @ Criticoni


Il violinista

"I keep closing my eyes but I can't block you out."
(All the things she said – T.A.T.U.)


 

L’uomo cammina lentamente, zoppicando appena sul piede storto.
Tiene gli occhi fissi a terra e trascina in malo modo una valigia logorata dal tempo, senza prestare reale attenzione a ciò che gli sta intorno.
Una signora con la pelliccia ed un nauseabondo profumo alla fragola lo urta con la borsa, gira di poco la testa per scusarsi, ma dopo averlo guardato ci ripensa e tira dritto per la sua strada.
L’uomo non se ne cura, limitandosi a stringere più forte la custodia del violino.
Intorno a lui la gente si muove veloce, quasi correndo, ferocemente lanciata nella propria gara quotidiana contro il tempo. È il popolo dei treni, e la loro obbedienza va all’imperatore orologio.
Quando arriva alle scale, l’uomo è costretto a stringere con forza il corrimano per riuscire a scendere gli scalini. Dietro di sé sente un ragazzo borbottare, ma non può fare nulla per andare più veloce e, anche potendo, probabilmente non lo farebbe: dopotutto i treni passano ogni tre minuti. Un intervallo di tempo così breve non può certo modificare la vita di qualcuno.
Giù nella metropolitana i sedili di plastica che costeggiano i muri sono tutti occupati, ma c’è comunque molta meno gente del solito. La maggioranza è composta da uomini in giacca e cravatta, intenti a controllare l’orologio o l’agenda personale, ma ci sono anche donne con borse grandi come valige, vecchiette con a seguito il trolley per la spesa, operai in tuta, studenti con in mano libri di scuola. Alcuni ragazzi dai vestiti troppo larghi, si fumano una sigaretta in barba al cartello “divieto di fumare” appeso proprio sopra le loro teste.
Volti diversi, ma sempre uguali agli occhi dell’uomo. Cambia la fisionomia forse, ma ognuna di quelle persone rappresenta perfettamente la sua specifica categoria.
Un minuto scorre in fretta, poi il treno arriva ed uno sciame di persone si riversa sul marciapiede. L’uomo si appiattisce come meglio può contro una delle porte, più per evitare che qualcuno prenda a calci il suo strumento che per proteggere sé stesso.
Quando infine riesce a salire, il suo piede zoppo inciampa nel gradino, ed è costretto ad aggrapparsi con entrambe le mani alla spalliera di un sedile per non cadere. La valigia gli scivola via, e l’uomo riesce a impedirne la caduta solo grazie ad un movimento dovuto più alla fortuna che alla sua prontezza di riflessi. Una ragazzina di fronte a lui tende la mano nella sua direzione, probabilmente per aiutarlo, ma l’uomo con un gesto istintivo, si ritrae.
Lei si morde un labbro, imbarazzata, e lui le rivolge un blando cenno di scuse.
Ormai, invece che la generosità, gli riesce molto più facile vedere la cattiveria nei gesti delle persone che lo circondano. Una volta non era così, ricorda l’uomo amaramente.
Vorrebbe dirglielo, a quella ragazzina dalla faccia simpatica, ma lei si è già voltata dall’altra parte, ed ora è impegnata a chiacchierare con un’amica della stessa età.
L’uomo si trascina per lo stretto passaggio, cercando un angolo meno affollato, e quando lo trova deve faticare parecchio per estrarre il violino senza andarlo a conficcare nelle costole di qualcuno. Molte persone, lì intorno, ruotano gli occhi e sbuffano infastidite, ma la maggioranza lo ignora cordialmente. Ormai, per la gente, le persone come lui fanno parte dell’arredamento urbano, non molto differenti da un palo della luce o un idrante.
Dopo essersi sistemato alla meglio, l’uomo appoggia il violino sulla sua spalla, incastrandolo contro il collo, poi chiude gli occhi.
Molti musicisti lo fanno per scena, lui lo fa essenzialmente per ricordare. Così, mentre l’archetto comincia a scivolare lentamente sulle corde, e le prime note si diffondono nell’aria, dietro le palpebre chiuse l’uomo inizia il suo viaggio nel tempo.

 

E dopo pochi istanti, le sue narici si riempiono dell’odore salmastro e pungente dell’oceano, e le sue orecchie colgono le grida gioiose dei gabbiani. Adesso l’uomo ha molti capelli grigi in meno, e se ne sta tranquillamente in piedi tra le merlature dei muri della Kasba. Perfino attraverso la suola dei sandali riesce a sentire il calore di quelle vecchie pietre bruciate dal sole.
Essaouira si stende sotto di lui, rumorosa e viva proprio come l’ha lasciata: anche se non può vederla, l’avverte con tutti gli altri sensi.
L’uomo ascolta con grande attenzione quel miscuglio di suoni. Nella sua testa la musica del violino si fonde con i rumori del porto, con le grida dei commercianti, con le risate dei bambini che corrono nelle strade, con stralci indefinibili di conversazioni portate via dal vento.
È bello risentire la propria lingua, così come tentare di riconoscere le voci di quelli che un tempo erano suoi amici.
Intanto, il caldo sole di mezzogiorno lo stringe in un lungo abbraccio, baciandogli il volto e le mani, scivolando con grazia sulle sue palpebre serrate.
L’uomo sorride a quel calore così come sorriderebbe ad un caro amico che è stato lontano per troppo tempo. Forse il sole è davvero lo stesso per tutti, ma lui, fuori dalla sua città, ha sempre avuto freddo. A quella considerazione fin troppo estranea al momento, le dita quasi gli scivolano sulle corde e l’uomo aggrotta la fronte.
Niente pensieri sul ‘dopo’ si rimprovera. Non ora. Non qui.
Così continua a suonare, ed intanto annusa, ascolta, sogna. La tentazione di aprire gli occhi per gettare un solo, unico sguardo ai suoi ricordi diventa sempre più forte, ma l’uomo sa di non poterlo fare. Distruggerebbe tutto.
No, lui deve—

 

Il treno si ferma bruscamente, l’uomo sussulta e il violino quasi gli scivola via dalle mani.
Essaouira è sparita, e la realtà torna a prendere possesso di tutti i suoi sensi. I profumi della sua terra sono spariti, rimpiazzati dalla puzza di fumo e sudore, il freddo e l’umidità gli fanno dolere le ossa e, sotto le suole rotte delle scarpe, c’è solo un pavimento di plastica appiccicoso e ben poco pulito. Davanti a lui ci sono solo facce grigie, sguardi assonnati o irritati, persone che hanno sentito la sua musica, ma che di sicuro non l’hanno ascoltata.
Sospirando appena, l’uomo si china ad afferrare un bicchiere di plastica, e comincia il suo giro.
I più guardano dall’altra parte, altri gli rivolgono uno sguardo semidisgustato, solo una o due persone portano la mano alle tasche per tirarne fuori un paio di monete.
Quando però arriva di fronte alla ragazzina che pochi minuti prima aveva tentato di aiutarlo, si trova davanti il primo sorriso della giornata.
La ragazza inclina la testa e dice qualcosa che l’uomo non capisce. Si limita a ricambiare il sorriso, scuotendo appena la testa per farle capire che non parla la sua lingua.
Lei si fa un attimo pensierosa, poi prova di nuovo.
“You are good” dice stavolta, ma le parole escono incerte: la ragazza sembra non fidarsi poi molto delle sue capacità linguistiche. L’uomo, comunque, capisce abbastanza bene l’inglese, e nonostante il buffo accento, riconosce il complimento.
“Thank you, miss” risponde, senza nemmeno cercare di pensare ad una frase più elaborata.
Dalla risatina che la ragazza si lascia sfuggire, l’uomo intuisce che il suo accento non è poi molto migliore di quello di lei. Sorride.
La ragazza si fruga nelle tasche e poi fa cadere qualche moneta nel suo bicchiere.
“Sorry... I have only a few cents...” ancora una volta lei arrossisce, e stavolta non è solo per il suo inglese stentato. L’uomo guarda i trentacinque centesimi e annuisce piano. In verità non gli è andata nemmeno troppo male.
“Thank you, miss” ripete semplicemente, come un disco rotto.
La ragazza lo guarda esitante ancora per un attimo, poi gli volta le spalle e scende dal vagone, correndo dietro alla sua amica.
L’uomo rimane a guardarla, un po’ dispiaciuto. Aveva un sorriso molto dolce quella ragazza, e odorava di sandalo e fiori esotici.
Sua moglie usava un profumo molto simile, e l’uomo ancora ricorda quanto lo divertisse il fatto di poterla annusare prima ancora di riuscire a vederla.
Ma questo è stato tanti anni fa, quando ancora aveva una moglie, una casa, e una vita rispettabile. La sua realtà è molto diversa ormai, e per quante volte lui chiuda gli occhi, rifugiandosi nei ricordi, non cambierà.
Se la troverà sempre addosso, in un soffio d’aria calda che puzza di smog, nelle voci senza colore degli avvisi elettronici, nel grigio che ricopre cose e persone.
Nessuno può scappare dalla realtà. Nessuno. L’uomo lo ha capito molto tempo fa.
Eppure, mentre sale su un altro vagone, e sistema ancora una volta il violino sulla spalla, circondato sempre da persone — diverse, eppure uguali — che non hanno tempo nemmeno per ascoltare, l’uomo chiude di nuovo gli occhi, e di nuovo comincia a ricordare.
Dietro le palpebre lo aspetta una realtà che non esiste più, ma che comunque gli dà la forza di portare l’archetto sulle corde e ricominciare a suonare.
E dopotutto ormai suonare è l’unica cosa di cui veramente gl’importa.

   
 
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