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Autore: PawsOfFire    12/12/2017    2 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Iniziai a pensare di essere nato sotto una indiscutibile buona stella.
Non capitava spesso di essere spediti a fare corsi di addestramento per nuovi mezzi.
In una bella caserma riscaldata, a Gennaio, con delle belle divise pulite, gabinetti e docce con temperatura regolabile!
Oltretutto ero uno dei gradi più alti, quindi potevo piegare le leggi alla mia volontà assoluta...ed era meraviglioso.
Ogni sera pensavo a quei poveri cani sepolti sotto la neve e striscianti in mezzo al fango e riuscivo a prendere splendidamente sonno, di quelli profondi e pacioni da bimbo, con russa strategiche che nessuno poteva fermare.
Chi avrebbe osato contraddirmi?
Insomma, mi sembrava quasi di essere tornato nel lontanissimo 1940 quando, giovane ed inesperto, mi accingevo a diventare il numero uno dei Panzer.
Il mio istruttore dell’epoca, un certo Herr Scheisskopf*, era un uomo che a stento superava il metro e sessanta. Veterano della grande guerra, portava un paio di baffoni a manubri come il compianto Guglielmo II e teneva la prominente pancia in dentro e la schiena dritta come il prussiano che era.
Non mangiava, non beveva, non dormiva. Le sue giornate erano meccanicamente scandite dalle urla aquiline che ci lanciava.
Non esisteva modo di fotterlo, né per scherzare. Se la sveglia era alle cinque lui si sarebbe alzato esattamente a quell’ora, rimbalzando dal letto come un orologio a cucù, cantandoci l’ora a suon di strilli ed imprecazioni.
Tutto aveva un orario preciso. Avevamo cinque minuti per alzarci e rifare il letto, trenta secondi per la pipì e quindici per la doccia, asciugatura inclusa.
Quando uscivamo dagli spogliatoi dovevamo essere perfetti come una cartolina di propaganda.
Al suo passaggio dovevamo salutarlo coreograficamente ed in perfetto sincrono.
Da lontano, Herr Scheisskopf era già riuscito ad individuare tutti i colletti storti ed i gomiti troppo bassi, che si andavano a sommare meticolosamente con gli angoli delle lenzuola leggermente stropicciate, sfociando inevitabilmente in un’amara punizione.
E che punizioni! La più comune prevedeva una corsetta serale nel fango della durata proporzionale alla gravità del problema.
Ricordo con una certa chiarezza di come il vecchio Fischer provò a fregarlo e di come lui, furibondo, gli assegnò tre ore di corsa ininterrotta dalle otto alle dieci di sera.
A quell’ora, però, Herr Scheisskopf lo lasciò per andare a letto come da regolamento, abbandonandolo fuori come un cane bastardo. Grazie al cielo era primavera.
Un giorno, prima della fine dell’addestramento, fui costretto a comunicargli del mio passaggio alla divisione corazzata, che mi sarebbe costata la bellezza di altre due settimane presso una nuova caserma.
A parte l’ora di corsa serale che dovetti scontare per il saluto impercettibilmente sbagliato, il vecchio sergente mi analizzò da capo a piedi, corrugando la sottilissima bocca in un riso amaro per esordire in: “un individuo deplorevole in meno per la nostra amata fanteria”
Quando mi salutai per congedarmi, cosa che mi costò una seconda punizione perché il gomito era troppo alto, mi rimbeccò alle spalle con:” ai miei tempi queste stronzate quasi non esistevano.
Quale cara, vecchia, dolce cavalleria!”

Dei miei vecchi camerata, invece, ricordo con una certa chiarezza quattro specialissimi individui: Jensen, Verbinsky, Eins e Zwei.
Procediamo per ordine.
Jensen era uno dei tanti mezzi danesi che vivono al nord. Esteticamente ve lo descriverei come il solito giovane dal colore latteo ed i capelli lisciati all’indietro ma, quello che ha reso Jensen memorabile, era il suo più totale e genuino rigetto verso quella che definiva “la piaga sociale del comunismo”
Lo rendeva cieco e furioso come un toro davanti ad un drappo...beh, rosso.
Riusciva a tirare fuori l’argomento da altri lontanamente impensabili, come lo sport o il meteo, suo nemico giurato.
“Guarda Mikkel! Stasera il cielo è stupendo! Ricordi il detto? Rosso di sera...”
“Rosso un cazzo. Mio padre si è preso una pallottola in gamba per colpa di quelli!” rispondeva, digrignando l’enorme mascella capace di masticare perfino le teste dei bulloni.
Lamentoso e rompiballe fin dal primo giorno in caserma, ricordo benissimo i suoi piagnistei nel confronti del letto, che riteneva immensamente scomodo.
Come se...ci fosse qualcosa, sotto. Un oggetto fastidioso che gli impediva di prendere sonno, lasciandolo in balia di feroci tormenti notturni.
In molti, me compreso, provarono a sedersi sull’oggetto del demonio ma nessuno riuscì a cogliere la differenza.
Un giorno, colto da aspro fervore, il danese decise di smontare il maledetto giaciglio ed, in effetti, trovò la causa dei suoi incubi notturni.
Una foto.
Una fottutissima foto di Trotsky** sotto il letto, nemmeno Jensen fosse la principessa sul pisello, si intende.
Il fatto suscitò un certo scalpore tra le nostre fila. Verbinsky, il mezzo polacco dalle idee politicamente confuse, si dichiarò interessato ad acquistare quel cimelio di scarso valore economico ma altamente affettivo, alzando il prezzo fino a sette marchi pur di avere la fotografia.
La discussione presto degenerò in una lite feroce di morsi e calci, che vide il suo culmine con un efficace condanna al rogo della suddetta e profana immagine con tanto di pira di fiammiferi che avrebbe fatto invidia a Torquemada.
Se Jensen desiderava vedere il comunismo bruciare, Verbinsky lo appoggiava con lieto fervore.
In uno strano caso del destino, entrambi i loro padri si trovavano a Berlino in un primo maggio*** di una decina di anni addietro. Hans Jensen, rispettabile poliziotto armato di randello e di buone intenzioni, aveva incontrato per pura casualità l’operaio Bruno Verbinsky, squattrinato ma colto abitante del famigerato quartiere di Wedding che, affascinato dalle proiezioni clandestine di Ejzenstejn****, aveva deciso di donare anima e cuore alla causa rossa a suon di pietrisco e rastrellate nel sanguinoso tentativo di trasformare Alexanderplatz in una nuova piazza rossa.
Nel fervore battagliero, il randello di Jensen aveva colpito il braccio del rivoluzionario Verbinsky, dando vita ad un leggendario duello medievale di armi bianche finito in un tragico pareggio, interrotto da cavallo imbizzarrito che, oramai senza fantino, galoppava confuso e violento, donando calci democraticamente a poliziotti e comunisti.
Ovviamente i due, che portavano nel sangue l’odio atavico dei padri, si erano riconosciuti nella penombra di furgone militare e, senza nemmeno rivolgersi la parola, avevano deciso che uno di loro avrebbe dovuto per forza morire entro la fine della guerra.

Dopo tre anni, miracolosamente, posso affermare di averli incontrati entrambi.
In ottima salute, per giunta.
Jensen era diventato un fantastico cecchino, maturando un’ossessione per il tiro al rosso paragonabile a quella di Maik.
Verbinsky invece venne catturato durante la battaglia di Stalingrado e messo al servizio della Russia in una fabbrica di proiettili. Prossimo alla morte, si salvò in extremis commuovendo un suo schiavista con un’analisi delicata e prosaica di una pellicola del Maestro, guadagnandosi la stima di compagno ad honorem e l’integrazione clandestina nell’esercito sovietico sotto il nome di Boris Ejzenstejn.
Ad oggi la sfida è ancora aperta tra il sergente Jensen ed il caporale Verbinsky.

Rimangono due soggetti di cui vorrei parlare.
Eins e Zwei. Non perché non avessero un vero nome ma perché, semplicemente, erano due gemelli che non parlavano altra lingua all’infuori del Bairisch. Essendo in caserma a Monaco, la maggioranza capiva perfettamente il bavarese, pensiero non condiviso da Jensen, Verbinsky e, soprattutto, da quel prussiano di Scheisskopf desideroso di impartire loro l’alto tedesco a suon di chilometri di corsa.
Al loro arrivo, almeno, ebbero la decenza di sistemarsi in maniera diversa, così riuscivamo a distinguere Eins da Zwei dalla riga dei capelli.Dopo aver scoperto con nostro immenso stupore che si chiamavano entrambi Friedrich in onore dei nonni, entrambi curiosamente omonimi, la nostra tattica divenne semplicemente indispensabile.
Peccato che un giorno Scheisskopf, esasperato dal taglio non regolamentare delle loro righe, decise che entrambi dovevano portare i capelli all’indietro, conditi con un bel barile di brillantina.
Da allora nessuno riuscì più a riconoscerli.
Anche i loro superiori, una volta giunti al fronte, fecero fatica a riconoscerli: Jensen, che continuava ad essere nella loro compagnia, disegnò sull’elmetto di Eins un numero per distinguerlo da Zwei.
Un gesto inutile, purtroppo. Durante una ritirata disordinata, così mi raccontò Jensen, i due gemelli si nascosero nella stessa buca per sfuggire all’avanzata russa.
Purtroppo, però, una granata esplose vicino al loro rifugio, ferendoli e facendoli perdere i rispettivi elmetti.
Vennero trovati tempo dopo da un battaglione di sassone che, sentendoli mugolare in un dialetto incomprensibile, temettero di essere caduti in una trappola di qualche pessima spia sovietica.
Solo grazie all’intervento di un caporale di Norimberga riuscirono ad accertare le loro identità e provvedere con le cure adeguate, ovvero l’amputazione del braccio sinistro che, ironicamente, venne eseguita su entrambi i gemelli ed eliminando anche l’unica possibilità di distinzione.

 

L’addestramento oggi è decisamente diverso.
Siamo tutti uomini avvezzi alla guerra ed i nostri istruttori non ci possono toccare, per quanto gradiscano comunque scaricarci insulti addosso.
Non credo ci tengano particolarmente a vivere l’esperienza del fronte, così provano ad essere esasperatamente severi per guadagnare una notte in più su un letto vero, senza il rischio di perdere il loro sporco lavoro.
I Jagdpanther, essendo cacciacarri, presentavano un profilo cubico ed incassato, come una tartaruga con il collo dentro il guscio.
Lo spazio, che continuava ad essere poco, era gestito però in maniera un po’ diversa: io, in quanto capocarro, dovevo stare dietro a tutti gli altri che, invece, si ammucchiavano in maniera più o meno ordinata davanti a me.
La cosa che apprezzai di più, indubbiamente, fu la distanza fisica da Volker Höfler, il nuovo arrivato.
Grazie al cielo scaricarono il gravoso elemento al centro di addestramento, così qualcun altro avrebbe dovuto accollarselo per insegnargli il brutto mestiere del marconista.
Per...non ripetere i miei stessi errori. Porto sulla coscienza quel ragazzo come un cappio al collo.
Nonostante tutto Volker non era un elemento così pessimo come inizialmente temevo.
Come mitragliere era piuttosto bravo ma, essendo un campagnolo disperato, non aveva mai avuto contatti con la tecnologia.
La sua vita, però, era fondata su una sola ragione: il cibo.
O, se vogliamo essere precisi, la sopravvivenza.
Per lui mangiare era ancora più indispensabile rispetto a tutti noi. La sera, quando si spegnevano le luci, lui usciva per cacciare e tornava sempre prima dell’alba, appendendo il trofeo di caccia alla testiera del letto, a testa in giù.
Dopo una settimana aveva raccolto almeno cinque pennuti tra anatre ed oche selvatiche. Purtroppo le bestie dopo un po’ di tempo iniziavano a puzzare, oltre a gocciolare liquidi disgustosi che nessuno osava ripulire. Quando il tanfo di morto divenne insopportabile, obbligammo Höfler a liberarsi delle sue oche.
Il furbacchione, però, le seppellì in una buca sicura, ben conservata sotto lo strato di spessa neve che si stava accumulando ai piedi della nostra caserma.
Inutile dirlo: il giorno della nostra partenza si presentò con una decina di animali legati per le zampe alla sua cintura. Nudi e rinsecchiti, gli uccelli cozzavano tra loro ad ogni passo producendo uno schiocco disgustoso e sputacchiando qualche goccia di liquido dai loro becchi spalancati grottescamente.
Grazie al cielo era inverno. Stipati sul furgoncino di ritorno, al freddo, sentivamo a malapena l’odore di marcio esalato dalle sue adorate carcasse, delle quali, testualmente “non dovevamo preoccuparci perché le avrebbe divise anche con noi”
Infatti, appena giungemmo con nostro rammarico al nostro fantastico accampamento di qualche centinaio di chilometri più lontano di quanto ricordassi, il buon campagnolo accese un fuoco, vi gettò dentro le frattaglie di pollo rinsecchite e mise a rosolare ben due anatre.
Il mio istinto ferino venne attratto dall’odore della brace ed, inevitabilmente, mi lanciai davanti a quel fuco scoppiettante di un lungo tramonto russo, che pareva accorciarsi sempre di più ogni volta che perdevamo terreno.
E’ per il capodanno!”
“Sono passati quasi due mesi, Höfler”
“Ah già. Non importa, Capitano. Però sento che quest’anno vinceremo la guerra e potrò tornare dalle mie vacche in montagna.
Lo pensa anche lei, Faust?”
Mi accomodai davanti a quel fuoco in silenzio, osservando i due pennuti rosolare sopra la fiamma viva del falò.
Eh? Cosa pensa?”
“ Lo penso anche io, Höfler”
Sospirai, abbassando lo sguardo.
“Lo penso anche io”


Note:

* Letteralmente "faccia di merda"
** Politico e rivoluzionario sovietico
*** Riferimento ai fatti accaduti durante il primo maggio 1929, quando la polizia di Berlino represse nell sangue una manifestazione del partito comunista tedesco.
**** Regista sovietico, produttore di numerose pellicole di stampo propagandistico.

   
 
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