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Autore: EffyLou    01/01/2018    0 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
- - - - - -
I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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Ein platz in der Welt

 
 
 
17 luglio 1935. New York, Stati Uniti d’America.
Ehilà, Gipsy! Come vanno le cose in Germania? La carriera? Ascolta, amico, io devo riprovarci perché un pugile come te ha il diritto di incantare un pubblico che lo merita, e purtroppo a Berlino, dalle voci che mi giungono, questa opportunità ti sarà sempre più preclusa. Perciò che ne dici di venire qui in America a ricominciare? Io, Machon, e Seeling ti aspettiamo a braccia aperte adesso e gli anni futuri. Fammi sapere. Stammi bene!
Max Schmeling
 
 
26 luglio 1935. Hannover, Germania.
Ciao, Max! Opportunità già preclusa. Nonostante ciò, sono costretto a rifiutare la tua offerta ancora una volta. Vedi, mi sono sposato ed ho una figlia molto piccola. Senza contare che non posso abbandonare mia madre, i miei fratelli e i miei nipoti. Non c’è un bel clima qui, questo no, ma non posso andarmene. Non adesso.
Se non dovessi più vedere la torre della chiesa al mercato di Hannover, mi ammalerò.
J.


 
 
Alla metà di giugno era finito il periodo lavorativo di Johann alla panetteria.
Ed alla metà di luglio, la signora Berger era morta dopo un periodo di malore, e aveva deciso di lasciare la casa a lui, nel testamento. Aveva fatto scrivere a Clara una lettera, poi, personale per quel giovanotto in cui gli parlava come una nonna, una mamma, e lui aveva scoperto quel lato del carattere della donna che non era mai trasparito con le parole. Al funerale, Johann la pianse come un bambino che perdeva la madre. Disperato all’idea che quell’anima preziosa non fosse più su quella Terra, a renderla un po’ più bella.
Avevano dunque presto lasciato il maneggio fuori Berlino e si erano trasferiti ad Hannover, nella vecchia casa della signora Berger. Clara per fortuna abitava di fronte a loro, aiutava quando era necessario. Per i primi mesi, che Rita era piccola, tenne lei il cane Ulma.
Johann riuscì a trovare lavoro al mercato Pötte, a un banco della frutta. La mattina all’alba, prima dell’apertura, andava ad aiutare il proprietario con la sistemazione. Era un brav’uomo, Heinrich. Faceva il professore di letteratura, ma era poi stato allontanato dal mestiere perché non seguiva più le regole imposte dal Reich. Aveva due figli piccoli e una moglie con l’aria pacata.
Gli dava sempre qualcosa da portare a casa, e riusciva a tirare avanti così. Era tornato a fare il cameriere nelle osterie della città vecchia, luoghi non frequentati dai nazisti o dai loro sostenitori.
A volte si ritrovava con Stabeli: il minore, un virtuoso di violino bello come un poeta maledetto, girovagava per le strade e per i vari ristoranti suonando melodie allegre e racimolando soldi.
Da quando scoprì che Johann lavorava nell’osteria Rote Garnelen andava a suonare solo lì.
Rita era ancora troppo piccola, Frieda non poteva lasciarla per cercare un lavoro. Il suo ruolo era diventato analogo a quello che i nazisti chiedevano alle donne: casa e bambini.
Questo un po’ la indispettiva, ma poi guardava la sua piccola Rita e capiva che non c’era altro che potesse fare.
La bambina cresceva sana e forte, era molto espressiva e il suo viso esprimeva facilmente ciò che provava e i suoi gusti. Era innamorata del suo papà.
Johann amava passare il tempo con lei: le parlava delle cose che aveva vissuto, delle persone che aveva conosciuto, dei luoghi che avrebbe voluto vedere, le raccontava storie che inventava al momento anche se non era sicuro che lei lo capisse. Quando gli si addormentava in braccio, la portava sul balcone e restavano insieme all’aria della sera, mostrandola al cielo notturno e pregando la luna che potesse farle vedere giorni migliori, in futuro.
Quando giocava con lei, sventolava un peluche a forma di elefantino e lei si allungava per prenderlo. «Te lo do solo se mi dai un bacio!» poi era lui che la riempiva di baci, giocando a fingere di mangiarla e facendole pernacchie sul pancino.
I contatti con la famiglia, Paul e Max, si fecero più intensi, mentre quelli con Kaspar e Gilda, Hildi e Bruno, erano diventati più sporadici. Ogni tanto si telefonavano, qualche volta gli amici da Berlino andavano ad Hannover per salutarli. A volte Leyendecker faceva una telefonata a Johann: era andato via dalla Germania. Ora si trovava a Londra, con Zirzow, e aveva incontrato di nuovo Hans, che aveva avuto un figlio, si era sposato, continuava gli allenamenti di boxe. Ma né l’allenatore e né il manager volevano più avere a che fare con quel mondo, dopo la disfatta di Gipsy.
Kaspar continuava con il pugilato, veniva allenato secondo le regole del Faustkampf. Stava emergendo, si stava facendo strada nel professionismo, portava più soldi a casa. Gilda era incinta di nuovo.
Hildi non riusciva, invece. I medici le avevano detto che forse era Bruno ad essere un po’ “debole”, e lei non rimaneva incinta pur desiderando un bambino. Continuava la sua carriera da modella, la sua faccia era su quasi tutte le riviste femminili. Bruno non riusciva più a trovare lavoro, in quanto ebreo.
Tuttavia, luglio fu un mese che portò guai. Da parte dell’ospedale, arrivò la prima richiesta di sterilizzazione.

 
Si era fatto settembre. La promulgazioni delle Leggi di Norimberga. La difesa del sangue e dell’onore dei tedeschi. Tutti i non-ariani dovevano astenersi dal rapportarsi con una donna o un uomo ariano. I colpevoli, da ambo le parti, sarebbero stati trasferiti in un campo da lavoro con l’accusa di Rassenschande, l’offesa alla razza.
Ciò compromise il rapporto tra Hildi e Bruno, costretti a vivere il loro amore in segreto anche più di prima.
Tuttavia non toccò Johann e Frieda. In quanto lei non veniva considerata ariana, per via delle origini slave. Dunque due non-ariani potevano stare tranquilli. Per il momento.
Arrivò il compleanno di Frieda alla fine di settembre. Venticinque anni.
Rita aveva cominciato a gattonare, poi a tirarsi in piedi aiutata da un sostegno e se tenuta per mano riusciva a fare qualche passo.
Poi Natale.
Poi il compleanno di Johann alla fine di dicembre. Ventotto anni.
Capodanno.
Era il gennaio 1936.
Ulma ora abitava con loro. Rita voleva sempre salire sulla sua schiena.
Con lei, Johann stava riacquistando un posto nel mondo. I muscoli che tornavano ad indurirsi quando sollevava la sua bambina. Quel piccolo corpo che gli restituiva importanza e dignità.
I pomeriggi che faceva bel tempo si coprivano molto per evitare l’aria fredda, e uscivano nei parchi.
Frieda si metteva sulle altalene con lei in braccio, Johann che la spingeva piano e Rita che rideva.
Poi il papà, che era più alto, la metteva sullo scivolo e la accompagnava piano con la discesa.
Quando aveva soldi in più le comprava un giocattolo nuovo.
Rita era vivace, era capace di fare diverse espressioni nel giro di pochi secondi.
Frieda le leggeva tante storie, la sera che erano da sole, le parlava lentamente e la bambina cercava di imitare alcuni suoni con il risultato che imparò presto qualche parola.
Quando disse “papà” la prima volta, ci fu un momento di confusione.
«Secondo me ha detto pappa» aveva detto Frieda.
«A me è sembrato che dicesse papà»
«Ho un buon udito, ha detto pappa, fidati»
«Sono sicuro che invece ha detto papà, fidati tu»
«Pappa»
«Papà»
«Papà!» aveva urlato Rita, dissipando ogni dubbio.
Johann aveva guardato Frieda con un sorriso sfacciato e trionfale, le braccia incrociate al petto.
Aveva dieci mesi ora.
Ripeteva le parole, gattonava senza sosta, si tirava continuamente in piedi e si metteva spesso a muovere qualche passo da sola. Quando le veniva detto di “no”, si imbronciava piegando le labbra verso il basso.
Imparò a bere da sola dal bicchiere, tentava anche di mangiare da sé ma non riusciva bene e si sporcava sempre il bavaglino.
A febbraio, Rita camminava da sola e senza problemi. Rifiutava categoricamente i passeggini.
Quando la portavano al parco correva, inciampava, si sbucciava le ginocchia e cercava il papà.
Johann la prendeva in braccio, le dava un bacio sulle sbucciature.
«Ora passa, papà ha dato il bacino magico».
Con Frieda facevano l’amore in silenzio, durante la notte: «Solo perché siamo genitori non significa che siamo vecchi e non possiamo spassarcela, no?».

A marzo Rita aveva compiuto un anno. Mauso aveva cucito per lei un peluche, Johann se l’era rigirato tra le mani: «Ma come si guarda? Da che angolo dovrei guardarlo?»
«Stronzo»
Rukeli scoppiò a ridere: «Dai, sul serio, che cos’è?»
«È un orsetto!»
«Ma ha le orecchie lunghe, Mauso…»
«Quanto sei pignolo. Sarà un coniglio, allora».
Rita correva per casa, faceva i dispetti alla povera Ulma, faceva anche i dispetti a Clara. Quando le parlavano, sembrava ascoltare con attenzione.
Gli occhi si erano rivelati color azzurro, come il cielo, il taglio famelico come quello dei lupi. I capelli neri, ricci. Le labbra carnose, la pelle rosea.
A seconda dell’espressione che assumeva, ricordava Frieda o Johann. Era una bambina alta e magra, per l’età che aveva, altri suoi coetanei erano paffuti.

Con l’arrivo dell’estate, Johann la portava a pesca con lui lungo il Leine.
Si bagnavano i piedi, tiravano piccoli sassi nell’acqua. Lui prendeva quelli piatti, li faceva rimbalzare con maestria. Insegnava a sua figlia e a sua moglie come fare. Era un gioco che faceva sempre quand’era piccolo. Altre volte, con Rita, costruivano piccole dighe con sassi e rametti, e poi restavano sulla riva a fissare l’acqua che la buttava giù.

Erano tornati un paio di volte a Berlino, a trovare Edmund ed Ivan. Erano andati al maneggio.
Frieda era montata su una delle giumente, più mansuete rispetto ad Alfie, e si era messa Rita tra le gambe. Erano andate insieme a fare una lunga passeggiata tra i cespugli di lavanda di Schönower Heide.
Johann era rimasto con i due uomini Bilda, a prendere un caffè. Ora abitavano nel casale.
«Le cose non si stanno mettendo bene per noi» disse Edmund.
«Avete bisogno di soldi?» domandò Johann.
«No, ragazzo mio, non è quello. Per i non-tedeschi. Ebrei, comunisti e slavi sono nel mirino nei nazisti. Gli zingari non ancora. – gli fece un sorriso cauto. – Pare che voi siete ancora una questione sociale, non razziale come noialtri. Noi slavi, in particolare noi ucraini, siamo considerati inferiori al pari degli ebrei. Le cose si stanno mettendo male»
Una morsa nel petto. «E Frieda?»
«Non lo so. È una questione a sé, quella ragazza. Dalla federazione equestre che le tolse il titolo era considerata una slava, anche da chi conosce le sue origini come i medici ad esempio. Ma è per metà ariana pura. È nata e cresciuta qui in Germania. Anche a vederla sembra appartenere alla “pura razza”»
«Non la toccheranno» si espresse Ivan, duro.
Il suo fidanzato, quel membro delle SS, gli aveva detto che la “questione” Olga Frieda Bilda sarebbe stata trattata in modo diverso. Era il frutto di un’unione anomala tra ariani e sub-umani slavi, era tedesca ed era apparentemente ariana. Non le avrebbero fatto del male fisico.
«Johann» lo richiamò Edmund. Rukeli alzò lo sguardo su di lui, incontrando gli occhi antichi e stanchi, quasi rassegnati, del suocero. Poteva sentire il dolore e la preoccupazione di quel padre sulla propria pelle. Non ci sarebbe stato per sempre, e un oscuro presentimento si era insinuato nel cuore dell’anziano cosacco. Ma la sua preoccupazione non era rivolta a sé stesso, ma a quella sua figliola senza arte né parte, con il destino ancora più incerto di quello di tutti loro.
«Ti prego… promettimelo, giuramelo, che quando sentirai che le cose potrebbero andare male, la proteggerai. Ti prego, ragazzo. Lei ha solo te, sei tutto ciò che ha e che le resta»
Johann inghiottì il groppo di terrore che gli bloccava la gola. «Non la metterei mai in pericolo, né lei né Rita. Puoi stare tranquillo, perché le proteggerò a qualsiasi prezzo. Preferirei di gran lunga soffrire io, che far soffrire loro».

 
Metà luglio 1936. Giochi Olimpici a Berlino. Gli zingari vennero rinchiusi nello Zigeunerlager nel quartiere di Marzhan, ad est di Berlino, per evitare di rovinare l’immagine della città in caso venissero visti.
Robert Ritter e la sua assistente Eva Justin cominciarono le ricerche sugli zingari. 
Con l’arrivo di settembre, Rita andò all’asilo nido. Frieda riuscì a trovare un lavoro come domestica e portare qualche altro soldo a casa, oltre a quelli di Johann.
Ad ottobre, Edmund e Ivan furono prelevati con la forza e caricati su un carro bestiame insieme a ebrei, slavi e qualche comunista. Di loro non si seppe più nulla. Frieda mise a ferro e fuoco le centrali di polizia, chiese uno straccio di spiegazioni per quell’arresto. Qualcuno disse a Frieda che erano stati rispediti in Ucraina, qualcun altro le disse che invece erano stati mandati in un campo, Dachau. A nord di Monaco.
La notte dormiva di fianco, dando la schiena a Johann. La sentiva singhiozzare sommessamente, nel tentativo di ricomporsi e non svegliarlo. Sentiva quei pianti nel cuore della notte. Allora lui si voltava verso di lei con tutto il corpo, la stringeva forte tra le braccia.
«Ssh… Ci sono io qui, andrà tutto bene» glielo sussurrava nell’orecchio quasi a fior di labbra. Frieda singhiozzava ancora un po’, poi il pianto andava a scemare e lei crollava in un sonno profondo.
Arrivò il Natale. Poi il compleanno di Johann, ventinove anni. Capodanno.

Anno 1937.
Alcuni zingari di Hannover vennero trasferiti nella brughiera di Altwarmbüchener. Nel lager vivevano cinquantacinque persone, in dodici case mobili, senza gabinetti né acqua potabile.
All’inizio, gli zingari catalogati come “puri” da Ritter venivano lasciati in pace, l’unico obbligo era girare con il passaporto marrone.

L’estate arrivò calda, quell’anno.
Johann, Frieda e Rita passavano i momenti di riposo insieme sul lungofiume di Hannover, portando con loro anche il cane.
Costruivano dighe con rami e sassi, pescavano, lanciavano sassi piatti, giocavano con la palla. Johann tirava un disco di plastica ad Ulma e lei lo andava a prendere e glielo riportava.
A volte si mettevano tutti e tre di buona lena a fare pane e biscotti. Le mani nell’impasto, Ulma che girava scodinzolando in cerca di qualcosa da mangiare. Oppure facevano la marmellata.
«Ma puzza, questa marmellata» le diceva Johann, annusando un cucchiaino pieno di quella crema colorata, l’espressione confusa e quasi schifata.
«Fa’ sentire».
Allora lui avvicinava il cucchiaio al viso, e quando lei inspirava per sentire l’odore, Johann le spalmava la marmellata sul naso. Frieda, d’istinto, gli mollava uno schiaffo sulla mano facendo volare il pezzo d’acciaio e insozzando il pavimento con quella crema variopinta. Lui boccheggiava sorridendo, le sopracciglia inarcate, e restava fermo così per interminabili attimi. Poi si soffermava sul naso sporco della moglie, e scoppiava a ridere con quella sua risata rumorosa e contagiosa, che coinvolgeva subito anche Frieda.

Johann aveva ritrovato un equilibrio. La sua bambina aveva due anni ora, era vispa e parlava. Male, certo, ma si faceva capire spesso e volentieri.
Era un peperino, sempre più dispettosa. Iperattiva, logorroica. Nessuno sapeva dire se somigliasse più a Johann o a Frieda, sotto questi punti di vista, ma tutti sapevano che in quella bambina erano concentrati gli aspetti più fanciulleschi dei loro genitori.
Rita sembrava dar retta solo al papà. Quello che lui diceva, per lei era legge. La rimproverava quando faceva la peste, e lei stava zitta.
«Non lanciare più le cose per terra, altrimenti papà si arrabbia, hai capito? Promettimelo, fammi la croce sul cuore».
E lei prometteva. La croce sul cuore. Un gesto che Johann faceva a sua madre quando prometteva, sin da bambino. Tante espressioni di Rita la rendevano somigliante al papà da bambino.
Avevano lo stesso sorriso, la stessa espressione incredula, lo stesso cipiglio stizzito quando venivano rimproverati; da lui aveva ereditato le labbra, e il sorriso, il taglio degli occhi, il naso e i capelli. Ma aveva gli stessi occhi innocenti di Frieda, lo stesso sguardo dispettoso, la stessa occhiata attenta quando non le tornava qualcosa; da lei aveva ereditato poco, in realtà, Rita somigliava molto di più al padre, i suoi lineamenti decisi erano stati ammorbiditi dall'eredità della madre, sul suo visetto.

Facevano la lotta, tutti e tre insieme, buttandosi sul letto matrimoniale. Madre e figlia che si alleavano contro di lui.
«Non fiatare, sei in minoranza numerica» gli disse Frieda, il sorriso da folletto.
Johann era sdraiato sul letto, le braccia aperte. La moglie a carponi su di lui che gli teneva le braccia bloccate. Le fece un sorriso con il labbro inferiore stretto tra i denti.
«Merda, hai ragione, pure il cane è femmina»
«Non si dice!» cinguettò Rita, in ginocchio sul materasso vicino a lui.
«Eh, papà, ma che parole dici?» lo incalzò sua moglie, spostandosi di lato.
«Papà è mio!»
«No, è mio»
«Allora mamma è mia» dichiarò Johann, sdraiato sul letto con le due in ginocchio vicino.
Rita lo guardò male. «Mamma è mia»
«No, mi spiace, non te la cedo. È mia e basta»
«E Rita? – fece Frieda. – Rita è mia»
Johann strabuzzò gli occhi, teatrale. «Come osi, mamma? Rita è mia!»
«Non ci provare»
E Rita rise, sdraiandosi sopra suo papà mentre con la manina stringeva la veste di sua mamma.
Frieda si sdraiò vicino a loro, di fianco. Johann le passò un braccio sulle spalle, stringendole entrambe a sé.
Si godette il loro profumo, lavanda e talco per bambini, per interminabili momenti.
Era convinto che senza la boxe sarebbe rimasto un guscio vuoto. Invece ora eccolo, con un tipo di felicità molto diversa da quella giovanile che aveva durante i tempi d’oro. Una serenità che lo appagava totalmente, una placida gioia molto diversa da quella esplosiva dei tempi da campione.
La boxe, in ogni caso, non sarebbe stata per sempre. Frieda e Rita sì.
Le donne della sua vita, gli avevano restituito dignità e importanza, un posto nel mondo, la gioia. La luce negli occhi di Rukeli che incantava le folle era rimasta spenta per diverso tempo, dopo l’incontro con Eder. Loro due gliel’avevano restituita con gli interessi.
Era un uomo adesso. Un padre, un marito. Era maturato, cresciuto, la vita familiare si era rivelata più divertente del previsto anche grazie al carattere frizzantino di Frieda.
Ovviamente, il suo essere un eterno bambino non l’aveva perso. L’anima di Johann era destinata a non invecchiare mai.
«Ulma è mia» mormorò, un ghigno sul viso.
«Oh, non ti permettere, è mia Ulma» replicò Frieda.
«È mia!» trillò Rita.
Ulma si sentì chiamata in causa. Si avvicinò al letto scodinzolando, le orecchie dritte, il capo inclinato. Leccò il piedino della bambina e lei scoppiò a ridere.
La sua risata è così simile a quella di sua madre. Vorrei poterla ascoltare per sempre. Il mio suono preferito.
 
Ma l’estate, insieme al caldo, portò con sé una nuova richiesta di sterilizzazione. Stavolta più insistente. A Johann Trollmann fu chiesto di presentarsi in ospedale per una preventiva visita medica alla fine di giugno, anno 1937.






 

BUON ANNO ♥

Capitolo di passaggio, riassuntivo e sbrigativo, ma c'è già puzza di tensioni e pericoli.
La frase a inizio capitolo: "Se non dovessi più vedere la torre della chiesa al mercato di Hannover, mi ammalerò" - è stata realmente scritta da Johann in una lettera in risposta a Schmeling in cui veniva, ancora, invitato a raggiungerlo in America. Questo fu l'ultimo invito che ricevette per raggiungere gli USA.
Se prima non voleva andarsene dalla Germania per via dell'orgoglio, ora non voleva per via della famiglia. Non aveva alcuna intenzione di abbandonare sua madre, i suoi fratelli e sorelle, e i suoi nipoti. Nel corso del 1937, anche volendo, non avrebbe più potuto andarsene poiché i Nazisti impedirono agli zingari di lasciare i confini della Germania convinti di frenare così il loro istinto migratorio.

A proposito di questo, vedremo che il "nomadismo" era considerato un gene malato e trasmissibile (come una malattia o, secondo i Nazisti, la pazzia) e per questo motivo gli zingari dovevano essere sterilizzati. Come se fossero pazzi. 
Non solo per questo, ma anche per altri motivi "genetici" che postarono i Nazisti a compiere sugli zingari i più tremendi esperimenti. 

A presto e ancora buon anno! ♥

 
   
 
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