Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    21/01/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Bartolomeo D'Alviano non riusciva a mandar giù più niente. Aveva ceduto alle insistenze di Gian Giordano, il figlio di Virginio, che lo aveva voluto con sé per Natale, ma era già profondamente pentito di aver accettato quell'apparentemente innocuo invito a cena.

Il nipote, trentenne, l'aveva convinto a trascorrere al castello di Bracciano quella santa festa ed era stato molto contento di vedere che anche Marco, finalmente, si era unito a loro.

Bartolomeo aveva fatto tornare a casa il suo unico figlio solo per poter partire più agilmente una volta iniziato l'anno nuovo. I Baglioni già lo aspettavano e la data del suo matrimonio con Pantasilea era fissata in febbraio, dunque il tempo stringeva.

Quella sera a cavallo tra la vigilia e il Natale, trovarsi a quella tavolata faceva attorcigliare lo stomaco di Bartolomeo come nient'altro mai era riuscito a fare.

Gli pareva di essere in mezzo a tanti sconosciuti. Sapendo quello che lo aspettava, aveva tacitamente detto addio a tutti gli Orsini già da tempo. Perfino suo figlio Marco, malgrado gli ricordasse molto Bartolomea nel taglio del mento e nella forma del naso, gli sembrava un estraneo.

Non era solo perché l'avevano fatto istruire lontano da Bracciano. Bartolomeo sapeva che, se anche avesse vissuto al castello, per lui sarebbe sempre stato un mezzo sconosciuto.

La vita del condottiero era fatta di lunghe assenze. Anche il suo matrimonio ne aveva sofferto molto e non era mai andato in crisi solo grazie al legame molto profondo che lui e sua moglie avevano saputo creare.

“Volete altro vino?” chiese Gian Giordano, risvegliando Bartolomeo dai suoi pensieri.

L'uomo fece segno di no e così il nuovo padrone di Bracciano fece cenno al servo di allontanarsi pure.

Forse in imitazione del padre, anche Marco d'Alviano rifiutò un nuovo calice e, rigido come l'istruzione di stampo militare che aveva ricevuto imponeva, restò composto sulla sua sedia, sforzandosi di seguire i discorsi di tutti quei parenti che conosceva a malapena.

Le chiacchiere della tavolata erano così caotiche e forti che permettevano al vedovo della signora di Bracciano di isolarsi completamente da tutto e tutti.

Solo Carlo sapeva quello che avrebbe fatto appena iniziato l'anno nuovo. Era stato lo stesso Bartolomeo a confessarglielo, prima che il figlio illegittimo di Virgilio partisse per la Francia per curare le nuove alleanze degli Orsini.

“Devo sposare Pantasilea Baglioni.” aveva detto, una volta che si erano trovati soli nella cappella di famiglia, davanti alle tombe dei loro cari.

“La sorella di quel maiale di Giampaolo?” aveva domandato Carlo, sconcertato.

L'altro aveva annuito con gravità, in imbarazzo, chiedendosi, come faceva sempre quando gli capitava di pensare a quella sventurata evenienza, come accidenti avrebbe fatto a convivere con una donna simile e a generare perfino dei figli con lei. Perché anche quello gli era stato detto di fare, come se prendere una nuova moglie non fosse già abbastanza difficile, per lui.

Carlo era rimasto in silenzio, corrucciato, e poi aveva chiesto: “E perchè?”

“Perché è stata lei a dirmi di farlo.” aveva risposto lo zio, indicando la tomba di Bartolomea con la mano.

“Capisco.” aveva solo sussurrato Carlo, prima di sollevare le labbra in un breve sorriso: “Ce la vedo, mia zia, a ordinare al suo amato marito di sposare un'altra.”

“Lei pensava che gli Orsini fossero finiti, ormai.” aveva spiegato Bartolomeo, sentendosi un verme nell'esporre quella teoria che gli pareva così egoista.

“Aveva ragione.” aveva concordato il nipote, gli occhi fissi sulla tomba della zia e le mani allacciate dietro la schiena: “Siamo una barca alla deriva. Aveva ragione a volere che l'uomo più importante della sua vita scappasse, prima della catastrofe.”

“Io preferirei restare con voi e combattere per gli Orsini.” aveva allora ammesso a malincuore Bartolomeo.

Carlo gli aveva lasciato un attimo e poi, accarezzando appena la fredda pietra che celava i resti di sua zia, e poi quella che proteggeva il corpo di suo padre Virginio, aveva guardato di nuovo Bartolomeo e gli aveva detto, con franchezza: “Ti parlo contro il mio interesse: fai quello che ti ha detto tua moglie. Almeno tu che puoi.”

Dopo un momento in cui i due uomini, quasi coetanei, si erano guardati l'un l'altro, entrambi avevano colto tra loro una comprensione profonda e, con un ruvido abbraccio, si erano dati simbolicamente un addio davanti alle tombe delle uniche persone a cui era mai importato di loro.

“Ma non mangiate nulla?” chiese Gian Giordano, occhieggiando il piatto ancora pieno di Bartolomeo.

L'uomo guardò il nipote, valoroso e orgoglioso, indubbiamente, ma solo la pallida immagine di quello che era stato suo padre Virginio, e costrinse le sue labbra asimmetriche a sollevarsi in un'espressione cordiale: “Non mi sento troppo bene – mentì – è un problema se mi ritiro in anticipo?” chiese, già alzandosi.

Gian Giordano non si oppose e lo lasciò andare. Bartolomeo era diventato ancor più laconico di prima, da quando gli era morta la moglie, ma quella sera non aveva proprio spiccicato parola, se non per rifiutare il cibo o il vino. Era probabile che non stesse bene davvero.

Una volta lasciata la sala dei banchetti, il condottiero si allargò il colletto del giubbone imbottito, sentendosi mancare il fiato.

Attraversò le stanze, le scale e tutti gli ambienti di quel castello che gli era così familiare e poi arrivò nella stanza che occupava da quando era rimasto solo.

Si buttò sul letto ancora vestito e, appoggiandosi le mani sul petto, si mise a fissare il buio sopra di sé, cercando senza troppi risultati di placare il panico che lo attanagliava. Nemmeno in battaglia, a un passo dalla morte, si era mai sentito tanto perso.

 

“Il libro che mi avete regalato è veramente molto interessante.” ringraziò Bianca, mentre i servi portavano in tavola lo stufato di cervo e quello di cinghiale che la Contessa aveva deciso di servire a quel banchetto natalizio.

La sala era preda di un'allegra confusione. Aver allargato l'invito a molta più gente del solito aveva fatto sì che i tavolini fossero stipatissimi e che fosse molto difficile riuscire a sentirsi, sopra al vociare continuo dei commensali.

Giovanni, probabilmente memore delle feste a cui aveva assistito da piccolo a palazzo Medici, sembrava del tutto a suo agio, mentre la Tigre, inselvatichita dagli anni passati nella sua piccola e rustica corte, pareva molto più a disagio. Forse anche per via del suo ventre sempre più ingombrante, che aveva attirato fin dai primi momenti gli sguardi di molti forlivesi.

“Ne sono felice. So che siete interessata anche alla storia antica. Sono convinto che le opere di Cicerone, per quanto un po' pesanti, potranno piacervi.” sorrise il Medici.

Dopo il breve colloquio privato che aveva avuto con la figlia della moglie, era tornato subito al 'voi', nel rivolgersi a lei. Era convinto che fosse meglio così. Forse, a quel modo, Bianca avrebbe dato più valore al loro discorso faccia a faccia.

“Deve esserti costato non poco.” notò Caterina, servendosi una generosa porzione di carne.

Il marito sollevò una spalla e, avvicinandosi alle labbra un pezzetto di stufato, ribatté: “Non più di quanto possa permettermi, anche se mio fratello mi ha permesso di avere solo metà del mio vitalizio annuo.”

Al tavolo d'onore assieme a loro c'erano tutti i figli della Tigre. Quella sera il castellano e altri personaggi di spicco che a volte avevano il permesso di sedere con la famiglia, erano stati mescolati agli altri invitati.

Benché si trattasse di un'occasione dalla valenza religiosa – come Cesare aveva ribadito alla nausea, mentre dalla chiesa tornavano alla rocca – Caterina ne voleva sfruttare al massimo il risvolto mondano e politico.

Voleva che per i suoi sudditi il messaggio fosse chiaro. Loro erano al comando. Loro erano la famiglia che governava. Lei, i suoi figli, e suo marito. Nessuno in più e nessuno in meno.

Nell'unione della famiglia stava la forza di chi governava. Anche Bona glielo aveva detto, molti anni prima, l'ultima volta che si erano viste. Per la Leonessa non era un concetto facile da mettere in pratica, ma sapeva che la tempesta di una nuova guerra si sarebbe abbattuta presto su di loro, e non voleva essere impreparata.

Il banchetto proseguì senza intoppi fino all'arrivo del dolce. In uno slancio di galanteria, Giovanni aveva espressamente chiesto alle cucine di preparare la spongata, un dolce che sapeva molto caro alla moglie, in quanto si trattava quasi di un pezzo della Storia della sua famiglia.

In effetti Caterina apprezzò molto, tanto che il sapore familiare le rese più semplice sopportare anche i commenti sprezzanti di suo figlio Cesare che, in aperta diatriba con Sforzino, che invece aveva gradito moltissimo il pasto, stava criticando l'eccessiva opulenza delle portate servite in una notte santa quale quella di Natale.

Spostare i tavoli per far spazio nel centro della sala in vista delle danze fu più laborioso del solito, ma nel giro di un quarto d'ora, i musici stavano già intonando le prime ballate.

Ottaviano, rimasto quasi del tutto in silenzio per tutta la cena, venne praticamente trascinato via dal tavolo dalla sorella, che lo costrinse a unirsi a quelli che ballavano. Aveva deciso di partecipare alle danze di gruppo in libertà, ma di farsi far da cavaliere al fratello, nelle danze a coppie, in modo da ridurre le voci sul suo conto.

Il suo gesto era stato implicitamente un ringraziamento al Medici. Gli aveva tolto di torno un impiccio, così come lui le aveva dato consigli preziosi.

Giovanni, in effetti, fu abbastanza sollevato nel vedere il primogenito della moglie allontanarsi. Se era nei paraggi, aveva sempre paura di urtarlo nel dire qualche cose di troppo.

Benché fosse abbastanza certo di non essergli inviso, la statua bronzea di Giacomo Feo, morto per suo volere, era ben visibile a tutti e quindi era meglio non inimicarsi Ottaviano, soprattutto non in modo involontario.

Anche Cesare aveva lasciato la tavolata e pure la sala. Galeazzo, dopo una breve esitazione, malgrado la sua giovanissima età, aveva seguito i fratelli più grandi nelle danze e Sforzino aveva cercato le balie, già abbastanza infastidito dal fatto di non poterle avere vicino durante la cena.

Solo Bernardino era ancora al suo posto e fissava di sottecchi la madre e il fiorentino.

Fu quest'ultimo ad accorgersene per primo e così gli chiese, alzando molto la voce per superare il fracasso della musica unito a quello delle risate e delle chiacchiere dei presenti: “Va tutto bene?”

Il bambino, i cuoi occhi grandi e caldi facevano sempre pungere il cuore della madre, come se tra un battito e l'altro vi si fosse piantato uno stiletto di ghiaccio, un po' incerto si alzò dalla sua sedia e andò a mettersi in piedi tra quelle della Contessa e del Popolano.

I suoi sette anni lo rendevano impacciato, ma anche abbastanza franco. Dopo un paio di respiri a vuoto, infatti, il bambino prese coraggio e fece la sua domanda.

“Come chiamerete il mio nuovo fratellino?” chiese, guardando prima la madre e poi il Medici.

I due, che, seppur con due tipi di timore diversi, si erano aspettati qualche domanda più spinosa, scoppiarono a ridere a tempo.

Anche Bernardino sorrise, in risposta alla loro reazione, ma rimase ritto al suo posto, in attesa. Da quando passava molto tempo assieme a Galeazzo, il piccolo aveva cominciato ad assumere spesso atteggiamenti che erano propri del fratello. Uno per tutti, cercare di mantenere un contegno militaresco quando parlava di certe cose.

Giovanni cercò la mano di Caterina e poi i suoi occhi e ammise: “Non ci abbiamo ancora pensato...”

“Vorrei saperlo, quando l'avrete deciso.” disse, con incredibile serietà, il piccolo.

Quel modo di fare compito e in un certo senso elegante, suscitò di nuovo una vaga ilarità nella madre e nel patrigno, ma questa volta nessuno dei due rise.

Il Medici, sforzandosi di ricambiare la serietà del bambino, gli assicurò: “Nessun altro lo saprà prima.”

Soddisfatto da quella promessa, Bernardino fece loro un grande sorriso a cui mancava un incisivo, e poi corse via, per raggiungere alcuni bambini della servitù che, sgusciati nella sala, erano andati a cercarlo per giocare.

“Come lo chiamiamo?” chiese Giovanni, tornando a guardare la moglie e posandole una mano sul ventre.

La donna sfiorò le dita del marito con le sue e sussurrò: “Non lo so... Al momento non...”

“Abbiamo tempo, per pensarci.” convenne l'uomo, e non sollevò più la questione.

Marito e moglie restarono per un po' a guardare i loro invitati danzare. Di quando in quando qualche capofamiglia e qualche rappresentante di questo o quel quartiere andava al loro tavolo per ringraziare formalmente la Contessa per l'invito a quell'evento, e lei rispondeva a tutti dicendo che si augurava che quella gentilezza sarebbe stata ripagata, al momento opportuno.

“Cos'hai regalato agli altri miei figli? Non me l'hanno detto...” fece a un certo punto Caterina, gli occhi fissi su Bianca che, non proprio entusiasta, stava ballando assieme al fratello Ottaviano su una musica abbastanza vivace.

Da un lato le faceva piacere notare come stesse cercando di non attirare troppo l'attenzione su di sé intrattenendosi con questo o quel giovane, ma dall'altro avrebbe voluto correre da lei e imporle di divertirsi e basta.

“A Galeazzo ho preso un pugnale.” spiegò Giovanni, che invece teneva d'occhio proprio quest'ultimo che, abbandonata la pista, stava parlando tutto serio assieme ai Capitani Rossetti e Golfarelli in un angolo: “Simile a quello che porti tu sotto le gonne. Ho pensato che potrebbe far comodo anche a lui avere un'arma personale da portarsi appresso. Magari potresti insegnargli tu come usarlo al meglio.”

La Sforza fece un breve cenno con il capo, ma non assicurò apertamente la sua disponibilità.

Giovanni sospirò e proseguì: “A Sforzino dell'ottima lana pesante. So che è freddoloso, perciò...”

La Tigre lo guardò di soppiatto. Era incredibile, per lei, accorgersi come suo marito, pur conoscendoli da molto meno tempo di lei, paresse sapere molte più cose di loro di quante non ne conoscesse lei.

Le faceva piacere, perché significava che il fiorentino non teneva solo a lei, ma anche al resto della famiglia, tuttavia quel fatto la pungeva un po' sull'orgoglio, perché era l'ennesima dimostrazione della sua pochezza come madre.

“A Cesare, non me ne volere, ho preso un crocifisso. Me l'ha fatto avere un mercante che conosce la mia famiglia. Non è sfarzoso, ma dicono che sia molto antico.” sospirò il Medici, bevendo un sorso d'acqua: “A Bernardino ho preso un cinturone di cuoi che ho fatto portare da una conceria di vicino a Firenze. È grande, quindi potrà tenerlo anche da adulto, se non si rovinerà prima, ed è adatto per agganciarci uno spadone. A Ottaviano avrei voluto regalare dei soldi, ma poi ho pensato che li avrebbe spesi tutti nel primo postribolo.”

Nel dire ciò, le labbra del Popolano si incrinarono appena e poi concluse: “Così gli ho preso della seta. Che si faccia fare qualche abito, visto che li apprezza.”

“Libri, stoffe, armi... Sono tutti regali molto costosi. Io non ti ho preso nulla.” sussurrò Caterina, che di fatto non aveva nemmeno pensato all'idea di comprare un dono per il marito.

Giovanni si voltò verso di lei e la trovò intenta a sfiorare la collana che portava – una di quelle che lui le aveva riscattato l'anno addietro – e capì che la donna probabilmente stava facendo qualche calcolo che la vedeva come in forte debito nei suoi confronti.

“A me basti tu.” assicurò, poi, con un sorriso, propose: “Ti va di ballare?”

“Te la senti?” chiese la Contessa.

Giovanni annuì: “Una danza tranquilla e basta. Non mi ucciderà di certo.”

Quando la Tigre e il Popolano si alzarono, scendendo dal gradino e dirigendosi mano nella mano verso il centro della sala, tutti i presenti, come se avessero ricevuto un ordine ben preciso, si fecero da parte.

La Sforza chiese ai musici una melodia ben precisa, una di quelle lente, ma non per questo tristi o malinconiche.

Perdendosi l'uno negli occhi dell'altra, apparentemente incuranti della quantità di gente che li osservava, ma in realtà ben coscienti che anche quella danza aveva un peso, soprattutto visto il piccolo rigonfiamento del ventre della Tigre, ancor più visibile, ora che si muoveva a ritmo di musica, i due arrivarono alla fine della ballata senza che nessuno osasse provare a condividere con loro la pista.

Quando i musici strimpellarono le ultime note, Giovanni abbracciò con determinazione la moglie e, stando ben attento che tutti quanti vedessero chiaramente, le diede un lungo bacio.

Un applauso, all'inizio molto stentato, accolse quell'iniziativa e, prima che i suonatori ricominciassero, La Contessa e l'ambasciatore lasciarono il centro della sala.

“Vieni, voglio farti vedere il tuo regalo.” bisbigliò il Medici all'orecchio della moglie, appena furono in disparte.

Caterina, che non credeva che il marito le avesse preso qualcosa, si accigliò e lo seguì fuori dalla sala senza obiettare.

Attraversarono parte della rocca. Sembrava disabitata. Tutti i suoi abitanti, o quasi, erano concentrati nella sala dei banchetti assieme agli ospiti.

Nel passare così lungo i corridoi deserti, la Leonessa si trovò a pensare che, se avessero per assurdo subito un attacco proprio quella notte, una volta passato il fossato, per il nemico sarebbe stato un gioco da ragazzi avere ragione di loro.

Arrivarono al porticato interno del cortile d'addestramento. La Contessa non capiva dove il marito la volesse portare, ma la cosa non la impensieriva più di tanto.

La neve continuava a cadere copiosa e il cielo era livido. In quelle notti era straordinario vedere quanto la coltre bianca e ghiacciata al suolo e sui tetti rendesse luminosa l'atmosfera.

A un certo punto, folgorata da un ricordo ben preciso, Caterina si fermò di colpo e Giovanni, che ancora la teneva per mano, si fermò di rimando.

“Che c'è?” le chiese.

La donna, sentendo il freddo solletico di qualche fiocco sul collo e sulle spalle lasciate parzialmente scoperte dal suo abito, sorrise e disse: “Esattamente un anno fa. Proprio qui, in questo cortile, sotto la neve. Te lo ricordi?”

Il Medici, che in realtà ci aveva pensato molto spesso anche nei giorni addietro, ricambiò il sorriso e chiese: “Credi che potrei dimenticare la prima volta che ti ho baciata?”

Avvicinandosi un po' di più alle colonne, in modo da sentire meglio l'odore secco della neve e il suo alito gelido, la Tigre prese il volto del fiorentino tra le mani e gli diede un bacio così profondo che per poco Giovanni si dimenticò di quello che doveva ancora fare.

Appena la donna si allontanò, lui le disse: “Avanti, è nella sala delle armi...”

Caterina lo seguì e, appena furono al riparo dal venticello in cui turbinavano i fiocchi di neve, il Popolano cominciò a trafficare in uno degli armari in cui di solito tenevano i pezzi da far aggiustare: “L'ho fatta mettere qui perché non volevo che la vedessi prima...”

Nell'attesa, la Contessa si appoggiò al tavolone su cui erano ancora in bella mostra un paio di elmi e di scudi. L'armeria era avvolta dal buio quasi perfetto. Le uniche due fonti di luce erano la porta, da cui entrava il grigio spettrale della notte nevosa, e una torcia a muro poco lontana dal tavolo.

“Ecco qui.” dichiarò infine il Medici, tirando fuori dall'armario una lunga lancia e portandola alla moglie.

Caterina prese l'arma tra le mani e la studiò accuratamente sotto la luce della torcia. Era una lancia da cinghiale molto bella e robusta, di legno scuro, con la riparata a una ventina di centimetri dalla punta, punta che era di una foggia decisamente particolare.

“Viene dalle mie parti. In Toscana s'usa così.” spiegò Giovanni, notando come lo sguardo della moglie fosse rapito dal finale aguzzo ed estremamente perforante della lancia: “Certo, là ormai tutti vanno a caccia al cinghiale con almeno una muta di cani. Ormai ci sarai solo tu, in Italia, a sfidare certe bestie da sola. Però penso che questa ti potrà essere utile.”

La Sforza passò lentamente una mano sul legno solido e dritto. Doveva essere lunga quasi due metri e mezzo. Con cautela la sistemò in uno degli appoggi a muro e la rimirò ancora per un po'.

“Ti piace?” chiese il Medici, in attesa di sapere il responso della sua donna.

“Tu mi conosci.” sussurrò Caterina, non riuscendo a formulare un ringraziamento migliore: “Tu mi conosci davvero.”

Il Popolano si prese molto volentieri l'abbraccio e baci di riconoscenza che la moglie gli elargì, ma poi si sentì in dovere di aggiungere: “Magari, però, aspetta qualche mese, a provarla...”

La Tigre gli dedicò un'occhiataccia, ma si rabbonì subito, lasciandolo sulle spine: “Vedremo...”

Il silenzio che li circondava era pressoché totale. Si sentiva, molto lontana, l'eco della festa, ma a farla da padrone era il muto cadere della neve, che impattava su un terreno già coperto di bianco.

Con uno sguardo all'ingresso della sala delle armi, che dava sul cortile niveo e solitario, Caterina tirò a sé il marito. Gli mise la mani sui fianchi e gli fece capire molto chiaramente cos'aveva in mente.

“Non hai paura che possa arrivare qualcuno?” chiese il Medici, mentre però già la spingeva verso il grande tavolo che avevano accanto.

“Sono tutti alla festa, chi vuoi che si presenti in un'armeria a quest'ora di notte?” ribatté lei, impaziente, cominciando a svestirlo.

Ben lungi dal voler rinunciare a quell'occasione, Giovanni la issò sulla superficie di legno e le sollevò le gonne, concordando: “Hai ragione... Quest'armeria, questa notte, è solo nostra.”

 

Ludovico Sforza sospirò, il grasso mento appoggiato al palmo della grossa mano, gli occhi che cercavano di scrutare oltre la nebbia che si vedeva al di là della finestra.

Lucrezia Crivelli, quarantacinquenne come il suo amante, lo vedeva tremendamente invecchiato, tanto da non percepirlo nemmeno più come un coetaneo. Anche se i suoi capelli erano ancora scuri e i suoi tratti floridi, la sua costante insonnia e i suoi malumori improvviso avevano tutte le caratteristiche dell'anzianità.

“È tardi...” disse la donna, avvicinandosi al Duca e passandogli una mano sopra il braccio drappeggiato dalla larga manica del vestaglione da camera: “Perché non vieni a letto?”

“Tu coricati. Non badare a me.” la liquidò lui.

Lucrezia sospirò e, invece di tornare sotto le coperte, raggomitolandosi per contrastare il freddo pungente che in quelle notti entrava fin nelle ossa, si sedette con lui nell'alcova della finestra e gli prese una mano nelle sue: “Stai ancora pensando a...” la donna avrebbe voluto dire 'a Beatrice', ma si morse la lingua appena in tempo, quando intercetto gli occhi scuri dell'amante che stavano già saettando verso di lei con aggressività: “Alla questione di Anna Maria?” aggiustò il tiro.

Il Moro sporse in fuori le labbra sottili e rispose: “Gli Este mi ignorano. E i Gonzaga faranno presto altrettanto. Ferrara e Mantova ci servono... Adesso che Francesco Gonzaga è caduto in disgrazia presso Venezia, devo far sì che passi ai miei servizi, ma le ruggini che si stanno creando tra me e gli Este...”

“Che c'entra Gonzaga con gli Este?” chiese la Crivelli, distrattamente.

Non le interessava la politica estera. Voleva sollevare lo spirito del Duca, ma non era abbastanza addentro agli affari per star dietro alle sue frasi dette per metà e piene di sottintesi.

“La moglie del Gonzaga è un'Este.” le ricordò Ludovico, ritraendo la mano che lei teneva ancora tra le sue: “E tutti sanno che a Mantova è Isabella a portare le brache, non Francesco.”

Lucrezia non commentò, lasciando che lo Sforza sbollisse un po' da solo.

“Il papa ha preso le distanza da noi. Adesso lo sta facendo anche Ferrara. Mantova. Perfino Bologna, malgrado un figlio del Bentivoglio abbia sposato la figlia di mio nipote e abbia così guadagnato Casteggio.” riassunse il Moro, scuotendo il capo contrariato: “Napoli non mi risponde nemmeno alle lettere, anche se ho liberato l'Aragona e i suoi stupidi figli. L'Imperatore finge che io non esista, anche se ha sposato una mia nipote! I francesi mi propongono solo patti insensati e se la prendono pure se li rimando ad Asti senza aver firmato il loro maledetto trattato!”

Man mano che parlava, la voce del Duca si faceva sempre più alta.

“Se ci fosse ancora Beatrice...” sussurrò alla fine, sull'orlo delle lacrime: “Lei saprebbe che consigliarmi.”

Punta nel vivo per quell'involontario paragone tra la moglie e lei, che era solo un'amante, la Crivelli raddrizzò la schiena e chiese: “Perché non proviamo a ragionarci? Possiamo cercare una soluzione insieme. Cominciamo partendo da quello che par più semplice. Non hai qualche parente tuo che possa unirsi in modo indolore in matrimonio a un Gonzaga o a un Este?”

Il signore di Milano e la bella Lucrezia passarono quasi tutta la notte a elencare possibile pretendenti per altrettanti possibili partiti e alla fine, abbastanza sconfortato e sfiduciato, Ludovico concluse: “Sì, è l'unica cosa che possiamo provare a proporre, ma mia nipote Caterina difficilmente accetterà.”

“E tu minacciala.” disse la Crivelli che, in quelle ore, era passata da una linea di pensiero abbastanza pacifica a un'agguerrita mentalità da freddo statista: “Dille che disapproverai pubblicamente il suo matrimonio segreto con quel Medici, se lei non accetterà di far sposare suo figlio a quella ragazza.”

Il Duca si fece pensieroso: “Così avrei contro anche Firenze...”

“Tu comincia a minacciarla. Se poi non dovesse accettare, se ne parlerà.” tagliò corto la donna.

Ludovico guardò di nuovo fuori. Tra la nebbia filtravano i primi raggi di sole.

“Adesso vieni a letto..?” provò a chiedere Lucrezia, che era davvero stanca e desiderosa di non pensare più a quegli annosi problemi che, con lei, avevano poco a che fare.

“Devo andare da Calco. Voglio sapere da lui se possiamo provare ad avanzare questo suggerimento matrimoniale senza causare un incidente diplomatico coi Gonzaga.” rifiutò seccamente il Duca, alzandosi di scatto: “Tu va' pure a dormire. Tanto non hai nulla da fare, stamattina. Come sempre, dopo tutto...”

La Crivelli lo guardò uscire a passo svelto, scalciando il lungo vestaglione di raso. Umiliata da quell'ultima stoccata, decise comunque di fare come il suo amante aveva detto.

Chiudendo di scatto le cortine e facendo ripiombare nel buio totale la stanza, la donna si andò a coricare e, stringendo a sé il cuscino, borbottò: “All'inferno tu e tutti gli Sforza...”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas