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Autore: Yellow Canadair    24/01/2018    4 recensioni
Kaku cercò di incoraggiare Rob Lucci: « Andrà tutto bene, anche se ti hanno portato via le mani. Caro Vegapunk è dalla nostra parte, sta aiutando Hattori, ha aiutato me e Jabura, e aiuterà anche te. Ci deve la vita, e sta collaborando. Andrà tutto bene »
Al ritrovamento del One Piece, i poteri dei Frutti del Diavolo sono scomparsi e i possessori sono svenuti. Il Governo Mondiale è caduto, e i suoi membri sono stati usati per degli osceni esperimenti.
Il CP0, smantellato e separato, a fatica si riunisce, e trova riparo fra le montagne, dove nessuno può udire le grida di dolore di coloro ai quali gli esperimenti hanno portato via parti del proprio corpo.
[Futuro distopico] [Post-One Piece] [Arti che saltano] [Vegapunk... Caro Vegapunk]
Questa storia partecipa al contest “Humans + (prosthetic kink contest)” a cura di Fanwriter.it!
Genere: Angst, Science-fiction, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jabura, Kaku, Kumadori, Rob Lucci, Vegapunk
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Scusate, ma non avevo ancora finito!

 

Dal profondo dei tuoi occhi

 

Rob Lucci non si aspettava nulla di meno, né da se stesso né dai suoi colleghi: riuscirono tutti, in pochi mesi, a recuperare l’uso delle Sei Tecniche.

Un livello base, era ancora difficile scendere a patti con gli arti meccanici che aveva impiantato loro Caro Vegapunk, però era sufficiente per elevarsi, come meritavano, al di sopra dei comuni mortali, ben oltre lo status dei semplici Marine armati, nell’Olimpo di armi sovrumane che il Governo Mondiale, ora decaduto, aveva avuto tra le sue file.

Rob Lucci, Kaku e Jabura si erano allenati duramente, fra gli alberi, sui loro sacchi a pelo, di notte, nelle foreste gelate della Red Line, e alla fine ce l’avevano fatta: un poco alla volta, passo dopo passo, giorno dopo giorno, si erano ricostruiti i loro Doriki, quella dignità e quell’orgoglio da agenti segreti che il Nuovo Governo dei Giusti aveva creduto di strappar loro via assieme ai loro corpi.

Non avrebbe mai vinto.

Non contro il CP0.

Loro erano tre belve assetate di sangue, e non sarebbe bastato uno sgambetto misero come quello, a fermarli.

Lo sguardo vigile di Kumadori li aveva sostenuti e aiutati in quel recupero furioso, fatto di notti agitate per gli incubi e giornate in cui il sudore non aveva tempo per scendere che già ghiacciava, lì sul nevaio in cui si nascondevano. L’agente dai capelli rosa era stato saldo come una roccia (se non si contavano i momenti in cui, preso dalla disperazione per l’altrui sconforto, minacciava il suicidio) e li aveva a modo suo assistiti, suggerendo esercizi, dispensando consigli, avendo la cura di selezionare storie che parlassero sempre di eroi ed eroine positive, che dopo tribolazioni e sofferenze riuscivano ad arrivare ai propri traguardi contando solo sulle loro forze, e sull’aiuto degli amici. Solo ogni tanto si abbandonava in patetiche storie d’amore a lui tanto care, per dare sfogo alla sua vena più drammatica, ma sapeva che in quel momento era più importante cercare storie che sollevassero il morale ai compagni, piuttosto che il suo. E, al ritmo dello yoyoi, i tre agenti, i cui corpi erano stati sotto le mani sapienti di Caro Vegapunk, andavano su e giù in una serie infinita di addominali e piegamenti, per riuscire a tornare il prima possibile agli antichi splendori.

E, proprio quando anche l’ultimo di loro fu tornato a padroneggiare a un livello accettabile anche l’ultima delle Sei Tecniche, arrivò la lumacofonata che stavano aspettando da mesi: Fukuro aveva ritrovato Califa e Blueno, tenuti segregati molto lontano da lì e le cui condizioni erano del tutto ignote.

 

 

Caro Vegapunk, brillante figlia del futuristico genio, portava con onore il cognome di suo padre: le protesi di Lucci e di Kaku erano perfettamente calibrate sui loro nervi: resistenti come acciaio, fredde come marmo e leggere come l’aria, era tecnologia allo stato dell’arte. L’unico vezzo che Caro si era concessa era la sottile luce al neon che correva sugli avambracci di Lucci, e sulle tibie di Kaku.

In mano a quei due, delle semplici protesi erano diventate armi mortali: lo Shigan, dito a proiettile, era più veloce, andava più a fondo con meno fatica, e Lucci non aveva dubbi che, modificando e rendendo taglienti le falangi, sarebbe diventato ancora più efficace. Il Rankyaku di Kaku, dato con la lama delle sue gambe bioniche, ora era in grado di tagliare le montagne, tanto che gli allenamenti del ragazzo, più che volti al potenziamento, si erano diretti verso il controllo di tale capacità.

Jabura? Il nuovo impianto della spina dorsale, la sfida più ostica e più affascinante per Caro Vegapunk, aveva decuplicato il Tekkai già perfetto dell’uomo: riusciva ad applicarlo, tramite quel che rimaneva dei suoi nervi, alla struttura d’acciaio che lo reggeva -letteralmente- in piedi, e parando i colpi con la schiena avrebbe potuto resistere a un intero bombardamento senza un graffio, con il solito ghigno.

A volte, i tre agenti pensavano che non gli era andata del tutto male.

A volte.

Altre volte, invece, riuscivano persino a spaventarsi per quello che avevano passato, anche se certo non l’avrebbero detto a nessuno, sarebbe rimasto un segreto tra loro e la notte.

Nel caso di Rob Lucci, poi, tutti sapevano benissimo che, se avesse avuto la possibilità, avrebbe barattato le sue braccia di metallo con le ali, ormai perdute, del suo amato Hattori.

«Ehi! Tutto bene?»

La voce di Kaku riscosse Rob Lucci. «Certo» rispose, automaticamente.

Non esisteva l’ipotesi che si distraesse in missione. E gli avvenimenti degli ultimi drammatici mesi non erano una giustificazione.

«Siamo quasi arrivati»

Stavano avanzando in una prigione sotterranea da quasi un’ora, evitando per un soffio tutte le pattuglie di sorveglianza. Erano entrati da una porticina nascosta in un fienile abbandonato, un vecchio passaggio segreto in disuso -forse per scappare dal bunker, o per andarci- scoperto da Fukuro che era stato lì in avanscoperta per diverse settimane; poteva sembrare una cantina anonima per le conserve dei proprietari del fienile, e invece era una vecchia galleria che portava fin dentro alla prigione, sbucando in una porta murata in uno sgabuzzino che Fukuro, nei giorni passati, aveva provveduto a sbloccare piano piano, per non farsi scoprire.

Avrebbero potuto entrare e fare irruzione, uccidendo chiunque con le loro Tecniche. Erano in tutto tre agenti, non sarebbe stato un problema; un Rob Lucci tredicenne aveva tenuto testa a cinquecento uomini armati. Il problema era che non sapevano esattamente con quanti nemici avrebbero avuto a che fare, che tecnologie avessero e, soprattutto, il luogo era labirintico. Troppo pericoloso giocare a carte scoperte, meglio l’infiltrazione.

Più che una prigione, quel posto era concepito come un bunker, una struttura in cui rifugiarsi in caso di calamità; però molte stanze erano usate per tener prigioniere delle persone, Lucci e Kaku se ne accorgevano dai lamenti, dal rumore dei pianti, dal suono cadenzato di teste disperate che sbattevano sul muro. Guai, guai a farsi scoprire dagli altri prigionieri: sarebbero insorti, avrebbero creato una tale confusione che raggiungere Califa si sarebbe rivelato impossibile. Molto meglio tenersi quella possibilità solo in caso estremo, come diversivo se le cose sarebbero precipitate.

Chi erano i prigionieri? Kaku e Lucci non lo sapevano. Erano Ex Governativi come loro, forse, oppure Marine. Forse avevano tutti avuto i poteri dei Frutti del Diavolo, forse erano dei semplici dissidenti del nuovo Governo dei Giusti. Un nome che, per quanto ne avevano capito gli ex agenti, faceva ridere.

I due camminavano a passo felpato con estrema cautela, anzi, Kaku aveva avvolto le sue protesi nella gommapiuma per essere sicuro che il metallo non cozzasse rumorosamente sul pavimento in cemento battuto. Non poteva indossare scarpe perché Caro Vegapunk aveva concepito le sue gambe da gazzella perché, per usarle, non fosse necessario nient’altro che ciò con cui le aveva costruite. Quindi niente scarpe, calzini e orpelli: solo del funzionale acciaio, e gomma per renderlo antiscivolo. Un altro lato positivo delle gambe bioniche era che non sentivano freddo.

Kaku guardò di nuovo la mappa disegnata da Fukuro: stavano andando nella direzione giusta. Ancora pochi metri. Califa era tenuta prigioniera, da sola, in uno stanzino alla fine di un corridoio su quel piano.

 

La ritrovarono in una stanza minuscola e senza finestre, illuminata da una lampadina appesa a un filo che ronzava in maniera sinistra. La riconobbero solo per i lunghi capelli biondi, una cascata di sporcizia color grano che si riversava sul corpo magro e sulla camicia bianca che la copriva. Mani e piedi erano legati con delle corde di canapa spesse quanto gli arti della donna e aveva gli occhi bendati con una fascia lercia di sangue, stretta attorno alla sua testa. Dormiva su una coperta sporca e lisa direttamente sul pavimento, ed era immobile.

Kaku aveva sbirciato nella finestrella della porta per assicurarsi che la cella fosse quella giusta, l’aveva tagliata a metà con un colpo di Rankyaku e Lucci era immediatamente entrato, chiamando la collega per nome.

Ma Califa non dava cenno di vita; Lucci la prese per una spalla, la scosse, e la donna si svegliò di soprassalto.

«No! » sussurrò aggressiva, ma così flebilmente che sembrava una voce spettrale. Si alzò sulle gambe magre e ricadde in ginocchio. «Vattene» si appiattì contro il muro.

I due uomini si guardarono tra loro: era un comportamento insensato.

«Califa, siamo noi!» parlò Kaku, immaginando che lei non li vedesse per via della benda. Anche se lui e Lucci non ne avevano parlato, un sospetto ce l’avevano: non le avevano fatto qualcosa agli occhi, vero?

Rob Lucci decise che non poteva aspettare i suoi comodi, in due passi fu vicino a lei e la prese in braccio di forza, caricandosela al petto.

Ma la donna cominciò a divincolare e scalciare, e l’Ambizione dei due uomini captò un abisso di paura e di ira.

«Non va bene così» disse infine Kaku «Non ci riconosce, se grida è la fine.»

«Credi che abbia danni al cervello?» domandò Lucci rimettendola a terra.

«Ci mancherebbe solo questo» scosse la testa Kaku; era una possibilità terribile, alla quale non voleva pensare.

Gli agenti si allontanarono di un paio di passi, studiando la situazione mentre la loro collega, tremando, si rimetteva seduta in evidente stato di allerta, come prevedendo che qualcuno le stesse per fare del male e aspettasse il colpo. Lucci riconobbe un vago e debole tentativo di Tekkai, evidentemente l'ultima risorsa che la prigioniera aveva per difendersi, ma era così debilitata da non riuscire a mantenerlo per più di pochi attimi.

Kaku all’improvviso ebbe un guizzo; con il Soru si portò vicino alla donna e batté le mani accanto alla sua testa, con un movimento rapidissimo. Il colpo tra i palmi risuonò sulle pareti metalliche, Califa non si mosse.

Lucci capì e strinse i denti.

Era sorda. Non li sentiva. E probabilmente sotto quella benda c’era un altro orrore.

Ecco perché era terrorizzata, ecco perché aveva reagito così: non aveva riconosciuto due amici, ma due uomini sconosciuti che la volevano portare via, verso chissà che altri esperimenti.

A quel punto, persino slegarla sarebbe stato pericoloso: Califa si sarebbe difesa, e avrebbe utilizzato le Tecniche contro di loro, costringendoli a usarle a loro volta per fermarla.

«Fatti riconoscere» ordinò Lucci a Kaku.

«Come? Non mi sente, e non mi vede.»

«Fatti toccare la faccia»

Kaku rimase per qualche secondo a elaborare l’ordine, mentre già si inginocchiava per metterlo in atto. Ma certo: Califa conosceva benissimo le loro fisionomie, poteva riuscire a risalire alla loro identità a partire da quelle… e il suo naso, lungo e squadrato, era un elemento troppo particolare per non essere associato subito a lui.

Prese le mani della donna, che tremava e stringeva i denti, e se le portò al volto mentre Lucci faceva la guardia alla porta: avevano solo tre minuti prima che la ronda tornasse da quella parte.

Le dita gelate di Califa vennero guidate sugli zigomi del ragazzo, sugli occhi, perché capisse subito che stava toccando un volto; poi Kaku le spostò, non senza un filo di imbarazzo, sul proprio naso. Non che avesse problemi con quella forma così atipica, però non gli piaceva che le persone lo toccassero, infatti non accadeva mai; ma quella era una situazione di forza maggiore. Una mano sfiorava il naso, l’altra lambì la visiera del cappellino.

Percepì la donna smettere di tremare. «…Kaku?» sussurrò finalmente.

«Lucci, fatti riconoscere anche tu» e gli diede il cambio alla porta.

Anche il boss prese le mani di Califa, e le guidò sul proprio viso. Lei toccò la barba, la forma del pizzetto, le guance lisce, e poi salì sulle sopracciglia arcuate e toccò i capelli legati. «Lucci… sono desolata, non sono riuscita a…»

Ma a Lucci non interessava cosa non fosse riuscita a fare, se la caricò in braccio come aveva tentato di fare prima, e stavolta Califa non oppose resistenza, e uscì con Kaku nel corridoio prima che passasse la ronda.

 

 

Jabura e Kumadori invece si erano preoccupati del salvataggio di Blueno: anche lui molto provato, dimagrito da far spavento, però era in piedi e non sembrava gli mancassero arti.  I capelli, notarono i due agenti accorsi a salvarlo, stavano su come al solito formando i due consueti corni; un po’ spettinati, un po’ malconci, ma era proprio la solita acconciatura di Blueno. La barba invece era lunga, incolta, con qualche filo riccio e bianco.

«Va tutto bene? Dobbiamo uscire di qui, ce la fai?» si sincerò Jabura, senza ottenere altra risposta che uno sguardo triste.

«Yoyoi» disse Kumadori, per una volta nella sua vita a bassa voce «Il tempo non è nostro alleato, e il silenzio per quanto prezioso, a volte val la pena esser infranto: Blueno, quale pena ti hanno fatto patire i carcerieri?»

Gli occhi dell’uomo rifuggirono lo sguardo inquisitorio degli amici, e si abbassarono.

Jabura divenne pallido. «Ti hanno tagliato…» boccheggiò. Era una parte talmente importante nella vita di un uomo, che non riusciva quasi a formulare la frase.

Ma Blueno scosse tristemente la testa e aprì invece la bocca.

Kumadori e Jabura stettero muti, come era stato condannato a essere Blueno.

«Andiamocene. Svelti» prese l’iniziativa l’agente più anziano.

Avevano recuperato tutti. Erano di nuovo tutti insieme. Erano a pezzi, ci sarebbe stato da aiutare anche Califa e Blueno ma, Kumadori ne era sicuro, il peggio era passato.

 

Rob Lucci depose la sua collega in un morbido nido di coperte, all’interno del furgone, tra gli zaini e i cappotti. Quando furono saliti con un salto nel cargo anche Blueno, Jabura, Kumadori e Fukuro, Lucci ordinò alla pilota di partire e il furgone sfrecciò nella notte, portando finalmente in salvo gli ultimi due agenti.

Ben concentrata sulla guida, Lilian Rea Yaeger guidò il furgone su per delle pietraie per non lasciare impronte, fece molti giri a vuoto per far perdere qualsiasi traccia, e per due ore e mezza guidò nella notte più nera con i fari deboli che rischiaravano lo stretto necessario per non finire in qualche fosso. Per fortuna dopo i primi cinquanta chilometri arrivarono su una strada di collegamento tra città molto importanti della Red Line, e sul selciato battuto le impronte erano tante, troppe per riuscire a capire che direzione avessero preso i fuggiaschi; quando poi, alle prime luci dell’alba, finirono sotto un tremendo nubifragio, gli agenti ebbero la certezza che nessuno sarebbe riuscito a ritrovare le loro impronte fuori dal bunker, che sarebbero state cancellate dalla pioggia e dal fango.

Blueno era devastato e si sedette in un angolo, e anche lui fu avvolto nelle coperte. A differenza di Califa, sentiva bene, e Kaku fu bravissimo a spiegargli in poche parole che era al sicuro, che erano in fuga da mesi ma che non si sarebbero fatti riprendere, ora che erano di nuovo tutti insieme.

Lucci invece, seduto sul sedile anteriore, non smetteva di voltarsi verso il cargo e controllare Califa: le sue condizioni erano disastrose, e l’uomo sapeva che c’era una sola persona in grado di aiutarla: Caro Vegapunk. Così, nonostante all’inizio il piano prevedesse diversamente, aveva deciso in accordo con tutti di tornare sui loro passi e insediarsi di nuovo nel rifugio di pietra, che aveva il vantaggio di essere a pochi chilometri dalla casa della scienziata. Non sapeva se e come avrebbe aiutato anche Califa, ma il leader decise che valeva la pena fare un tentativo.

Blueno non parlava, il che non cambiava molto dal solito, però per esperienza comune anche lui probabilmente era stato sottoposto a interventi orribili. Caro Vegapunk avrebbe dovuto occuparsi anche di lui, o Lucci le avrebbe raso al suolo la casa.

Tutti e due se ne stavano avvolti nelle coperte, tra i loro amici e colleghi che gli avevano offerto acqua, biscotti, vestiti, tutto quello che avevano a disposizione in quel mezzo di fortuna. Califa, che non aveva più l’udito, né la vista, era disorientata, tanto che per confortarla Kumadori e Jabura rimasero vicini a lei tutto il tempo.

 

 

Quando, dopo ore, arrivarono al rifugio di pietra, fra le ghiacciate montagne della Red Line, Lucci prese in braccio Califa e la portò nel piccolo ricovero. La donna poteva camminare, ce la faceva, ma per motivi di rapidità e di praticità Lucci preferì tagliare la testa al toro e andare per metodi più spicci. Non poteva rischiare che inciampasse nella neve altissima, e guidarla passo dopo passo fino al rifugio di pietra avrebbe richiesto del tempo che non avevano: era nascosto e andava raggiunto dopo diversi minuti di cammino su un sentiero abbandonato, in pessime condizioni, mentre tutt’attorno infuriava la bufera. Attenti a cancellare le impronte, una volta lasciato il furgone in una grotta riparata a qualche chilometro di distanze, erano andati tutti in direzioni diverse, per confondere eventuali inseguitori. Difficilissimo che qualcuno fosse riuscito a seguirli, ma si parlava della sicurezza della famiglia, e nessuno voleva correre rischi o farli correre agli altri.

Blueno riuscì a camminare, anche se sostenuto da Kumadori e da Fukuro. Qualche minuto di cammino, e la porta del rifugio finalmente si chiuse alle spalle dell’ultimo governativo.

Kaku, che aveva portato la stufetta a gas, l’accese subito per riscaldare l’unico ambiente, anche se adesso che erano in sette (otto, con Hattori; nove, con la segretaria che al momento stava facendo un giro nei paraggi per controllare che non fossero seguiti) sarebbe diventato caldo in un attimo; anzi, c’era decisamente poco spazio. Meno male che era una soluzione molto temporanea, solo il tempo di portare Califa e Blueno da Caro e capire cosa fare della propria esistenza da lì in avanti.

Appena il rifugio si scaldò un po’, e appena Fukuro e Kumadori misero a posto i sacchi a pelo e le coperte che costituivano i letti di tutti, ritrovando gli spazi in cui avevano dormito per mesi, Blueno crollò addormentato, come prevedibile. Kaku rimandò al giorno seguente le spiegazioni, senza preoccuparsi.

Diversa la situazione di Califa: toglierle la benda che aveva sugli occhi sembrava a tutti un modo per denudarla ancora della sua dignità, come i carcerieri che le avevano tolto i vestiti e avevano usato il suo corpo per sperimentazioni. E la donna, quando qualcuno posava le dita sulla benda, si ritraeva dicendo di no; ma il volto era sporco di sangue, che colava da sotto quella benda, e bisognava almeno toglierla: era lercia, e bisognava medicare la donna qualsiasi cosa fosse successo ai suoi occhi. Gli uomini però, davanti a quel rifiuto così pietoso, non ebbero il coraggio di strappargliela dagli occhi: a dirla tutta, avevano paura di quello che avrebbero trovato sotto, o che non avrebbero trovato.

Non sapevano cosa fare, non riuscivano a farsi capire, avrebbero voluto dirle che appena si sarebbe sentita meglio, e appena sarebbero stati certi che nessuno li avrebbe cercati lì, l’avrebbero portata da Caro Vegapunk, ma non sapevano come fare.

Quando Lilian tornò dal suo giro, rassicurò tutti: erano soli nel raggio di chilometri e chilometri, non c’era nessuno, potevano riposarsi per qualche ora. Ma Kaku la richiamò: il suo compito non era finito, per quel giorno.

«Califa non sta bene e non ci lascia avvicinare» disse alla ragazza.

Califa si era chiusa a riccio sulla sua brandina e si era stretta nella coperta. Fukuro si era avvicinato per darle l’acqua da una bottiglietta, ma la donna tremava e sembrava scappare dal collega, anche se non aveva la forza fisica per farlo.

Kaku non era uno psicologo, ma sapeva che Califa doveva essere in preda a qualche crisi per quello che aveva passato. 

Lilian sospirò. Capiva, e se l’aspettava. Califa era sempre stata molto più… fragile, in un certo senso, rispetto agli altri suoi colleghi, con “le spalle meno larghe”. Si tolse il giaccone gelido e si concentrò sulla donna pateticamente avvolta nelle coperte militari che erano state del suo Canadair. L’ex prigioniera aveva il volto e il ventre rivolti verso il muro e le gambe incrociate, creando una vera e propria fortezza con le sue spalle. Singhiozzava in preda allo shock.

Rob Lucci era in piedi nelle vicinanze, taciturno e scuro come il mare quando le correnti sottomarine agitano le sabbie, e osservava la sua collega in preda al panico, senza riuscire a riemergere.

Lilian si inginocchiò accanto a Califa e cominciò ad accarezzarle le spalle, tranquilla. Avrebbe voluto parlare. Le avrebbe potuto dire qualcosa per confortarla, e invece non riuscì a fare nulla che non fosse guardare sconsolata verso Kaku, che rimaneva nelle vicinanze.

Califa non smetteva di tremare, e non si riusciva nemmeno a capire se capisse che vicino a lei c’era la pilota a consolarla. A tutti era bastata un’occhiata per capire che quello era qualcosa che aveva a che fare con lo shock subito, e tutti sapevano benissimo di non avere idea di come gestire la situazione nell’immediato. Specialmente se Califa aveva reazioni così distanti dai loro modi di pensare.

«Non capisco…» mormorò Kaku « Siamo addestrati anche per sopportare queste circostanze, non dovrebbe… »

«Siete persone!» disse Lilian spazientita «Lo so che siete addestrati, che siete superumani, che siete armi di distruzione di massa. Ma siete persone. E le persone a volte sono fragili. Tutto qui.»

Kaku non ribatté; incrociò le braccia e rimase a guardare le due donne vicine, impegnate in un dialogo fatto di gesti lentissimi. Poi, alla fine, Lilian alzò la testa e guardò più intensamente verso Kaku, che intanto si era inginocchiato vicino a loro, come se gli volesse chiedere qualcosa che non riusciva a esprimere a voce, o forse stava solo seguendo il filo dei propri pensieri.

Prese la mano di Califa, stese il palmo verso l’alto, e con un dito (gelato, era appena tornata dall’esterno), tracciò una lettera.

C

C come Casa. C come Califa.

Poi tracciò una A. Poi una L, poi una I, sempre in stampatello. Alla F, la donna aveva smesso di tremare.

«Califa» sussurrò la donna, leggendo quello che Lili le aveva appena “scritto” sulla mano.

Se a Kaku brillavano gli occhi, Lilian era commossa fino alle lacrime. Califa riuscì a mettersi seduta, e protese di nuovo la mano aperta verso Lilian e verso Kaku.

Stava chiedendo loro di parlarle ancora.

 

Riuscirono a spiegarle ogni cosa, con quel metodo lento ma efficace. Persino delle protesi, di Caro Vegapunk, delle ali di Hattori. Le chiesero dove sentisse dolore, se potevano fare qualcosa, se volesse delle medicine specifiche. E infine Lilian le chiese il permesso di toglierle la fascia per disinfettare quello che c’era sotto. E Califa, dopo molte esitazioni, disse di sì.

Lilian tolse la benda molto piano, tagliando delicatamente la stoffa all’altezza di una tempia, dopo essersi lavata bene le mani e con Jabura a farle coraggio perché non tremasse nel curare la sfortunata agente.

Meno male, che Califa non vedeva. Non seppe mai le espressioni di gelido raccapriccio sui volti dei suoi amici, non sentì mai le imprecazioni di Jabura, ascoltò solo la vibrazione delle pareti, scosse da Kumadori che vi batteva sopra i pugni in un pianto disperato.

Quel che Califa sentì, invece, fu il capino di Hattori che le strofinava le mani, l’odore di dopobarba di Lucci proprio vicino a lei, gli abbracci soffici di Kumadori, e poi tante mani che prendevano le sue per dirle, senza parole, che era tutto finito. “Vegapunk”, tracciò Jabura sui suoi palmi, per ricordarle di non preoccuparsi, sarebbe tornata a vedere, avrebbe riavuto i suoi meravigliosi occhi blu.

 

 

«Ancora qua? Non eravate andati a farvi uccidere per ritrovare i vostri amici?»

Caro Vegapunk, signore e signori, campionessa mondiale di tripla simpatia carpiata, slalom gigante delle buone maniere e insulto artistico su ghiaccio.

Nel suo salotto c’era Rob Lucci, altero e superbo, che nei mesi passati aveva recuperato tutto il suo charme e la sua forma fisica; anche se era vestito con degli abiti pesanti, da neve, raccattati chissà dove ed era coperto da un mantello sformato decisamente troppo grande, il suo sguardo assassino e fiero continuava a forare le pareti, e ostentava la stessa arroganza che sfoggiava quando era il leader della sezione del CP0 con sede a Catarina. Dietro di lui c’erano una donna dai lunghi capelli biondi con gli occhi bendati (e sulla cui benda qualcuno aveva disegnato due occhioni femminili con tanto di ciglia) e un uomo corpulento dallo sguardo triste.

Rob Lucci odiava chiedere a Caro Vegapunk di fare qualcosa per lui, ma amava poterle ricordare che era merito della sua squadra se lei e il padre erano vivi. C’era in ballo la vita di Califa e di Blueno, e se era un sacrificio che avevano fatto prima Lilian, poi Kaku, e poi Jabura, allora anche lui poteva bussare alla porta di Caro Vegapunk e chiederle, per favore, di aiutarli.

«Non dica assurdità» rispose sdegnoso Lucci togliendosi la tuba e scuotendo sul tappeto la neve che s’era posata sulla falda «Siamo dei professionisti, una semplice missione di recupero non ci causa nessun problema»

E in effetti, notò la giunonica scienziata, tutte le protesi che aveva costruito erano integre; anche quelle di Jabura lo erano, anche se non le vedeva, ma se l’uomo era in piedi (e se stava fuori casa prendendo a palle di neve quella ribalda dell’ex pilota) voleva dire che anche la sua protesi funzionava ancora.

«E ora cosa dovrei fare? Sentiamo» sibilò piantandosi a tacchi larghi davanti all’uomo, al centro del suo meraviglioso salotto nella casa del paesino invernale dove si era nascosta.

Caro Vegapunk era l’unica persona al mondo che si permettesse di sfidare Rob Lucci. Certo, sfidarlo a cazzotti o sparargli addosso era semplice, ma nessuno osava stare completamente disarmato davanti a lui e provocarlo sfacciatamente: l’unica eccezione era Caro.

Rob Lucci con un gesto rapido sfilò la benda a Califa, liberando il suo sguardo cieco, e contemporaneamente ordinò a Blueno di aprire la bocca.

Caro Vegapunk non fece un plissé.

«Tutto qui?» disse con una punta di delusione. «Tutte queste storie per così poco?»

Fece dietrofront e si avviò nel corridoio.

Arrivata a metà si girò. «Su! Muoviti! Non ho tutto il giorno!» disse a uno tra Califa e Blueno, ma senza far capire con chi ce l’avesse.

Califa, che non poteva aver sentito, rimase ferma al suo posto, dritta come un fuso.

Blueno, in un gesto interrogativo, si portò una mano al petto, come a domandare: “ce l’hai con me?”

Caro tornò sui suoi passi, seccata. « No, a te ti metto a posto durante la pausa » gli rispose. Prese sbrigativamente per mano Califa e cercò di portarla via, ma l’agente si puntò spaventata i piedi e rifiutò di muoversi: giustamente, non aveva sentito niente, né visto nulla, aveva solo percepito una mano sconosciuta che voleva trascinarla.

Lucci schiumò di rabbia, dentro sé, e il flebile istinto di famiglia che i suoi colleghi avevano risvegliato urlò con forza contro quel sopruso. Era costretto dalle circostanze a mettere un freno all’istinto di sgozzare Caro Vegapunk: doveva fare da tramite tra quell’insopportabile donna e Califa.

Mise una mano metallica sulla spalla della collega, che immediatamente lo percepì, le prese una mano, e cominciò a scrivere sul palmo alcune parole per rassicurarla e per spiegarle cosa stava per succederle.

Caro Vegapunk osservava quel dialogo con le labbra strette e gli occhi pieni di una malcelata curiosità scientifica; fosse stata una psicologa, una sociologa, o una qualsiasi studiosa del comportamento umano, quel gruppo di agenti sarebbe stato pane per i suoi denti: gli ex bambini problematici, diventati assassini e addestrati a non avere legami se non con la Giustizia Oscura, avevano sviluppato un senso di affezione per i loro colleghi, al punto da rimanere loro accanto e rischiare la propria vita per salvarli, quando il buonsenso avrebbe suggerito di scappare.

Considerando poi il passato di Rob Lucci, i suoi modi di affrontare problemi legati alla giustizia, il suo carattere e la sua arroganza, quello che stava succedendo nel salotto era un vero miracolo, una cosa che la donna avrebbe giurato potesse accadere per il piccione, non certo per un altro essere umano.

«Va bene» disse infine Califa «Vengo» tese la mano, che fu presa da Caro, e insieme sparirono nel corridoio semibuio.

 

 

La luce le dava un po’ fastidio, ma sarebbe passato presto. I filtri dovevano calibrarsi da soli, l’avrebbero fatto nei giorni successivi e, se voleva, poteva indossare dei comuni occhiali da sole, proprio come se quegli occhi azzurri fossero stati i suoi.

I rumori erano amplificati, ma non così tanto da dare fastidio. Erano più nitidi, più puliti. Se avesse voluto un po’ di silenzio, poteva chiudere le comunicazioni premendo un minuscolo pulsantino dietro il padiglione sinistro.

Califa se ne stava seduta nel salotto di casa Vegapunk e guardava fuori dalla finestra, assaporando ogni dettaglio di quel panorama invernale: la neve che scendeva, i balconi di legno, le fontanelle agli angoli delle strade, le orme nella neve lasciate dalle persone. Tutto le sembrava nuovo e bellissimo. Il soffice rumore che facevano i fiocchi bianchi posandosi sul davanzale le faceva venire voglia di allungare un dito e toccarli.

Dell’operazione non aveva che un vago ricordo, spazzato via dalla sua nuova, vecchia, immagine: due occhi azzurri uguali a quelli che aveva mesi prima, che le avevano donato i genitori alla nascita, e un minuscolo monile dorato, tanto leggero da essere impercettibile, che le sfiorava le orecchie e le si infilava nei fori dei timpani.

Blueno, seduto vicino a lei sul divano, ogni tanto borbottava qualcosa che somigliava a un “sssà, sssà, prova, prova » deglutiva e riprovava, mentre Caro Vegapunk, che si preparava la colazione in cucina, li teneva sott’occhio.

Non che non si fidasse delle proprie creazioni, ovviamente, ma ogni lavoro aveva bisogno di un minimo periodo di osservazioni, per assicurarsi che tutto filasse liscio e non ci fossero problemi di rigetto.

Califa sentì dei passi sul vialetto d’ingresso e si girò verso la porta di casa. Poi, all’improvviso, il campanello.

«Alla buon’ora» osservò la voce della scienziata.

 

 

«Mi vedi? Quante dita sono queste?» disse Jabura sbandierando la mano sinistra, quella con due dita in meno grazie a una vecchia missione.

«Jabura» lo ammonì la donna seguendo il collega con lo sguardo «Questa è molestia sessuale, e su quella mano hai al massimo tre dita»

«E tu? Stai bene?  domandò Kaku a Blueno, visto che costui non si pronunciava.

«Sto benissimo, può andare» rispose l’ex oste di Water Seven, con una voce che sembrava la sua e che proveniva… da qualche parte nella sua pancia.

«Chapapa, ora non sei più l’unico ventriloquo» osservò con una risata Fukuro, scucendosi la zip, in direzione di Rob Lucci.

«Non aveva solo la lingua, fuori uso» spiegò la scienziata «Ho dovuto ricostruirgli mezza trachea e sostituire le corde vocali che… no, non ve lo dico cosa ho trovato là dentro» decise, in uno slancio di magnanimità «Dovrà ricordarsi di muovere le labbra, altrimenti rischia di spaventare la gente» suggerì. Poi, guardando quello scemo a cui aveva sostituito la spina dorsale che faceva le prove per veder muovere gli occhi bionici della sua collega, disse:«Ehi, biondina. Perché non gli fai vedere lo zoom?»

«Perché è molestia sessuale» si difese la “biondina”. Mosse leggermente le sopracciglia, come se si stesse sforzando in maniera lieve, e subito l’occhio destro, con un rumorino metallico, si allungò ben oltre l’orbita, sporgendo quasi oltre il naso della ragazza, e rivelando una sorta di montatura dorata che sorreggeva l’intero bulbo oculare, che pareva di vetro e porcellana, e riluceva alla luce del giorno.

Lilian strillò: «È UNA FIGATA PAZZESCA!!!»

«Zitta, sciocca!» la sgridò Lucci.

«FIORIR SUL CARO VISO VEGGO LA ROSA, TORNANO I GRANDI OCCHI AL SORRISO INSIDIANDO!» cantò Kumadori sciogliendosi in pianto.

«Obiettivo digitale, ottimo per appostamenti. Funziona come un 300 mm ma la misura è quella di un occhio umano, a prova di polvere e schizzi, anallergico, con un diaframma massimo di 1.2,8. Non ringraziatemi» disse Caro sorseggiando il suo caffè.

 

 

Uscirono dalla grande casa di Caro Vegapunk con la speranza di non doverci tornare mai più, e di non dover portare lì altri amici che stavano combattendo tra la vita e la morte.

Camminando sotto la neve, salirono tutti sul furgone, dove erano ammassate tutte le loro cose: avevano lasciato il rifugio di pietra, stavolta per sempre.

Rob Lucci si preoccupò che Califa e Blueno, gli ultimi arrivati, stessero comodi e al caldo, visto che ancora dovevano ristabilirsi del tutto, si scambiò uno sguardo con Kaku per sapere se dalle sue parti era tutto a posto, e Jabura… poteva anche crepare, per quanto gli importava, pensò assicurandosi che avesse anche lui delle coperte per appoggiarsi all’interno del furgone, e non ne distribuisse troppe agli altri. Kumadori e Fukuro, infagottati nelle pellicce, erano in fondo a tutto, e aspettavano di partire.

«Mi dica lei, boss» disse Lilian, già seduta al posto di guida, inforcando gli occhiali da sole «la porto dove vuole»

Rob Lucci, con Hattori sulle ginocchia, chiuse lo sportello del furgone montando al fianco della pilota, preparandosi alla partenza. «Andremo dall’unico che, a quanto pare, era ben informato di tutta questa situazione fin dall’inizio» disse Lucci.

«Intendi Spandam?» indovinò Jabura.

«Esatto.» tuonò Rob Lucci. Era la seconda e ultima volta che quel maledetto insetto riusciva a far del male a lui e a tutti i suoi colleghi. Stavolta, adesso che il Governo Mondiale non esisteva più, nulla l’avrebbe salvato dalla vendetta di quei sette assassini, le cui vite erano state rovinate due volte dal tradimento e dalla codardia di quell’omuncolo.

Lilian annuì decisa. « Dove, boss?»

 «Riportaci a Catarina»

 

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Sorpresa! Sono tornata ad aggiornare questa storia! Avevo ancora una gran voglia di scriverci su, e quindi ho approfittato del Cow-T (una gara a squadre organizzata dal sito LandeDiFandom) per aggiungere l'ultimo capitolo e portare in salvo anche Califa e Blueno!


Dedicato ai recensori di questa storia, John Spangler e Shinigami di fiori: grazie! Davvero grazie! 


Poche chiacchiere: il "metodo" che usano gli agenti per comunicare con Califa, tracciare le lettere sui suoi palmi e sfruttare il suo senso del tatto, mi è venuto in mente leggendo la storia di Helen Keller, attivista americana sordocieca che imparò a leggere e scrivere quando la sua maestra, Anne Sullivan, usò con lei lo stesso metodo.
Kumadori, quando vede Califa tornare a vedere e sentire, non poteva che intonare i versi "All'amica risanata" di Ugo Foscolo!

E per stasera è tutto! Rimanete sintonizzati, entro una decina di giorni sarà aggiornata anche la raccolta "Sette bambini decisamente cattivi"!

Grazie e un bacione,

Yellow Canadair

  
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