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Autore: i luv rainbow    26/01/2018    1 recensioni
La grotta finalmente si fa più affollata con l'aggiunta di Oliver al gruppo, anche se il giorno in cui saranno tutti riuniti è ancora lontano. Jason però, dopo essersi assicurato che tutti quanti stanno bene, cerca come sempre andarsene e sparire nella giungla. Le cose però andranno diversamente, visto che stavolta i suoi nemici sono stati più bravi del solito a cercare di ucciderlo...
FanFic incentrata sul rapporto d'amicizia tra Ollie e J, con contorno di Bromance tra fratelli Brody e quel pizzico di Vaas/Jason che ovviamente non guasta mai. Pubblicazione settimanale (possibilmente, altrimenti slitta a quella dopo...o a quella dopo ancora).
Max lunghezza tra i 5 o 6 capitoli (Forse anche 8 o 9).
[2° Parte The Warrior Inside Me - Tutti i missing moment del gioco parte 3]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Slash | Personaggi: Jason Brody, Oliver Carswell, Vaas Montenegro
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Warrior Inside Me'
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I Got You

Author - I luv Rainbow
(I_luv_Rainbow_000)
EFP | AO3

The Demons Inside Ourselves

Ero svenuto. Per la seconda volta avevo mentito ad Oliver sulla mia salute, per poi collassare pallido ed esangue sotto i suoi occhi; l’ultima cosa che ricordavo prima di quel momento, fu che mi afferrò in tempo, evitando ancora una volta che finissi per cadere faccia a terra. L’ultima cosa che udii invece, oltre ad uno strano rumore scoppiettante in lontananza, fu il mio nome pronunciato dalla sua bocca e seguito dalle parole «mi dispiace»

Quando ripresi sensi mi ritrovai a vagare con lo sguardo in una stanza illuminata; il colore rosa fu la prima cosa che mi colpì e nel cominciare a percepire la voce del Dr. Earnhardt, finalmente, iniziai a capire dove mi trovassi…

«…insomma, non sono un vero medico sai – o un chirurgo» mi stava spiegando e sembrava essere solo la parte centrale di un discorso iniziato chissà quanto prima. Peccato che io fino a quel momento ero rimasto privo di coscienza, anche se il vecchio dottore inglese, ancora un po’ perso con la mente tra gli effetti di quelle sostanze pericolose che lui stesso produceva, non se n’era affatto accorto: «Lo sia Jason, no? Sono un chimico. Un bravissimo chimico! ho tanta roba su cui sto lavorando ora e per cui i pirati non vedono l’ora di metterci le mani sopra, come le pillole gialle, ricordi? Non ho ancora perfezionato bene la formula ma ci sono vicino, di sicuro ne andranno entusiasti quando finalmente saranno complete; io stesso le proverò per primo…» continuava ancora ed ancora a parlare, con una certa calma rilassatezza dovevo ammettere, ma sembrava anche senza fine. Chinato su di me, costantemente, più precisamente al livello del mio ventre, munito di attrezzi come forbici, ago e filo, sembrava impegnato ad “aggiustare” qualcosa che non andava. Poi notai il sangue, le bende e capii che stava cercando di ricucirmi ancora quella maledetta ferita; la stessa che mi aveva già fatto perdere i sensi davanti a tutti nella grotta.

«Dove…Dov’è Oliver?» fu la prima cosa che chiesi anche se mi risultò difficile, sentivo la bocca un po’ impastata ed ero ancora molto debole. Per un attimo mi sentii stordito sulla situazione ma fortunatamente la voce del mio migliore amico non tardò ad arrivare alle mie orecchie.

«Jason!» lo vidi spuntare oltre l’inglese, tutto sorridente, ed ora anche consolato non appena constatò con i suoi stessi occhi che di nuovo mi muovevo e parlavo.

Per un attimo ricaddi sul morbido materasso su cui giacevo e sospirai sollevato. Quel lettino da bambina era più comodo di quanto mi aspettassi e il constatare alla vista che tutto andava bene, non poteva far altro che confortarmi. Tanto che per un attimo chiusi gli occhi e mi rilassai.

«Bene, ho quasi finito. Vedi di stare fermo e riposarti ora, non vorrei ricucirti questa ferita per la terza volta e poi te l’ho già detto: sono un chimico non un medico, sono più bravo a trafficare con quello che ho giù nella serra, che con ciò che ti sta dentro. Cerca di ricordartelo» mi avvertì anche se lo fece piuttosto distrattamente, con la mente che sembrava ancora parecchio annebbiata. Poi si alzò e Oliver prese quasi il suo posto, sedendosi sul letto, praticamente accanto dove stavo disteso. Lo vidi di nuovo con uno spinello in mano a fumarsi altra erba, ma nonostante quel sorriso sollevato, notai che fosse ancora scosso per quello che avevo permesso accadere per la seconda dannatissima volta.

Nel frattempo il dottore era giù uscito dalla stanza mormorando sul del the che ci avrebbe preparato, giusto per rilassarci – non dubitavo che ci avrebbe aggiunto dell’altro di proprio per ottenere l’effetto.

«Scusa» gli dissi soltanto, sentendomi ancora con la coscienza ancora troppo volatile per poter parlare, ma continuai comunque a farlo: «Non succederà mai più, te lo prometto» cercai di rassicurarlo.

Almeno speravo.

Oliver mi guardò con occhi lucidi, sorrideva, ma potevo benissimo vedere come fosse ancora scosso; di come l’idea della mia morte lo terrorizzasse forse più della propria.

«No Jason, non fa niente» mi rispose, facendo cadere una parte dello spinello già bruciato nel posacenere che aveva in mano e che poi posò sul piccolo comodino lì vicino: «E poi, quante volte te l’ho detto io? Giusto? Soprattutto quando non era palesemente vero» mi disse con una risata amara: «non ti sei mai arrabbiato una sola volta per questo…né mi hai odiato» continuando a sorridermi, ma i suoi occhi erano rossi e lucidi ed io non potei che guardarlo con dispiacere per questo – lottando per poter rimanere cosciente nel frattempo, ma senza la minaccia di nessuno pericolo.

Volevo solo continuare a parlare con lui.

«Perché tiri fuori questo ora? Sai che non ha più alcuna importanza» gli dissi sforzandomi, sentendomi quasi sprofondare nel mondo dei sogni da come non potei far altro che richiudere gli occhi e rigirare la testa nel cuscino come a dovermi riaddormentare. E poi, infondo, non era nient’altro che la verità; non c’era niente che importasse più di quel periodo, così come non ci fosse niente che sentivo mi dovesse.

«Sì sì, lo so; hai ragione» mi rispose sorridendo un po’ commosso come al solito, potevo percepirlo dalla sua voce visto come restai con gli occhi chiusi, ancora annebbiato da una sonnolenza persistente.

Ma continuavo ad ascoltarlo.

«Hey J, sai una cosa» richiamò la mia attenzione ma con semplice calma ed io aprii un poco gli occhi per guardarlo, nonostante potessi assopirmi da un momento all’altro: «So che quando eravamo nella grotta ti ho detto di no…ma ora penso che in realtà, lasciarti andare è proprio quello di cui hai bisogno. Quindi favorisci pure» mi invitò poi, porgendomi lo stesso spinello che si stava fumando fino ad un attimo prima. Io lo guardai con occhi stanchi, ma sorrisi e lo accettai.

Fin da quando avevo riportato Ollie nella grotta, nel vederlo fumare, avevo sentito la voglia di fare qualche tiro anch’io.

Così lo presi dalle sue dita e me lo portai alle labbra, inspirai, tornando a avvertire l’inconfondibile sapore nella mia bocca, oltre che al piacevole odore. Nel mentre Oliver continuava a guardarmi con occhi un po’ rossi, ma sorrideva e dalla sua espressione sembrava quasi volesse abbracciarmi forte – probabilmente serviva più a lui che a me in quel momento. Ma non avevo le forze per potermi sollevare e soddisfare questo suo desiderio; a malapena ne avevo per continuare a rimanere sveglio e non sprofondare nella dimensione irreale dei sogni.

Ma questo non voleva affatto dire che non potevo dargli quello di cui aveva bisogno.

Richiusi gli occhi, rilassato. Uno sbuffo di fumo lasciò la mia bocca, raccogliendosi in una piccola nuvola poco sopra la mia testa, per poi dispendersi nell’aria, mentre la mia testa sprofondò ancora di più nel cuscino come sentii ormai che le forze mi stavano lentamente lasciando, ma dolcemente stavolta; cullandomi e invitandomi semplicemente al sonno.

«…Anch’io ti voglio bene Oliver»

.... .... .... ....

Dando le spalle alla ringhiera di legno del gazebo, non molto prima, Oliver ci si appoggiò altrettanto, standomi a fianco mentre parlavamo; forse aveva notato la mia aria stanca, anche se cercavo di mascherarlo in tutti i modi. Stringere il cacciavite nella mia tasca mi dava sicurezza, ma non poteva di certo aiutarmi come una buona dose di caffè…o una bella flebo di sangue. Dovevo migliorare. Non potevo permettermi di perdere una giornata intera a riposo, per quanto mi sarebbe piaciuto, per quanto sarebbe stato meraviglioso che con un tocco di bacchetta, ogni cosa sarebbe potuta tornare al proprio posto. Ma questa non era la realtà e se volevo guadagnare un futuro per le persone che amavo, dovevo sacrificarmi e impegnarmi a versare sangue – letteralmente.

Sollevai il viso, guardai il mio migliore amico, continuai a sorseggiare e a sorridere mentre seguivo il suo discorso e intanto mi facevo una promessa.

Non avrei mai raccontato a nessuno di loro cosa stavo realmente diventando…a quanta violenza mi stavo abituando, a quanta dolore io stesso ero diventando capace non solo di sopportare, ma anche di provocare. All’essere in cui mi stavo trasformando. Certo, forse esageravo, forse era solo un falso presentimento, ma per certo avevo questa terribile sensazione, dal profondo, che qualcosa dentro di me avesse incominciato a sgretolarsi, che lo stesse facendo tutt’ora, pian piano – la mia vita. Il mio io. La mia sanità mentale – e che prima o poi, presto o tardi, non avrei più potuto ignorarlo.

Ma per ora cacciavo il pensiero. Sorridevo. Mentivo.

Non avevo raccontato ad Oliver nemmeno un terzo delle cose che accadevano e che mi erano accadute. In realtà non credo che l’avrei fatto mai e per quella lunga notte, mi ero quasi convinto che avrei potuto farcela. Poi d’improvviso, il mio migliore amico pronunciò l’ultima frase che avrei mai voluto sentire.

«Com'è successo?»

Mi bloccai. Per un istante prima fissai il vuoto davanti a me rimanendo di pietra, poi mi ritrovai di colpo annebbiato, come se avessi appena preso un pugno in faccia.

«C-com'è successo, cosa?» gli chiesi poi, riprendendomi quel poco che bastava per fare lo sprovveduto, ma credo fosse la performance più penosa che io abbia mai recitato. Oliver aveva sicuramente capito che cercavo solo di evitare l’argomento, ma non me lo fece pesare.

«Intendo...di Grant» non appena sentii il suo nome mi parve di crollare.

Quando l’avevo salvato, quello stesso pomeriggio, l’adrenalina mi aveva impedito di mostrare debolezza. Di evitare di rompermi nel solo sentire quelle cinque lettere. Ma ora era diverso, non avevo nulla a tenermi in piedi, e così quella parte di me che cercavo di soffocare disperatamente prese velocemente il sopravvento. Non ero preparato affatto per quella domanda e forse evitavo di stare il più possibile con loro, ognuno dei miei amici, proprio per evitarla completamente.

Non volevo ricordare la morte di Grant e l’avevo chiuso apposta in cassetto ermetico per non doverlo fare mai, ma in quel momento, così vulnerabile com’ero, mi venne spontaneo frantumare quella maledetta cassaforte ed estrarlo. E la prima cosa che sentii nel rammentare, la prima cosa che io provai, stranamente non fu la tristezza, che invece mi accompagnò l’attimo dopo, ma rabbia. Cieca e dolorosa.

All'inizio mi ritrovai a stringere i pugni con le lacrime già agli occhi, come mi tornò alla mente la figura eretta di Vaas, che rideva tutto divertito dal suo palcoscenico di lamiere e legna, come a doversi far ammirare – così sadicamente compiaciuto del suo operato e del suo impulso di fare a pezzi la vita come se non avesse valore – mentre ingenti litri di sangue uscivano a schizzo dal collo forato di mio fratello, imbrattandomi tutto. Lavato via, dalle rapide di quel fiume che dieci minuti dopo mi avrebbero quasi portato alla morte.

Dio. Quanto desideravo fargliela pagare.

Quando desideravo restituirgli, almeno un minimo, di tutto quel dolore che mi aveva fatto provare; demoralizzato solo dalla consapevolezza, che probabilmente non esisteva nulla a questo mondo a cui quel bastardo tenesse abbastanza dal soffrici come un cane nel perderla. Che non avrei mai potuto farlo piegare dal dolore come aveva fatto con me…come ancora, faceva con me. Avrei voluto almeno poterlo usare per sfogarmi; pugnalarlo a morte nel ventre, o magari proprio al centro del torace, aprire un buco, scavare là doveva aveva un abisso profondo di oscurità e follia al posto cuore; fargli pagare sangue per sangue…

Ma lui non c'era. Non c'era mai quando avrebbe potuto darmi soddisfazione e gli unici ad essere lì in quel gazebo, eravamo solamente io ed Oliver…

Così scoppiai semplicemente in lacrime.

Oliver mi guardò spaventato come quasi crollai nuovamente sotto la forza del mio stesso peso, ma la verità è che scivolai fino a toccare il pavimento del gazebo e finire per usare la ringhiera come schienale. Ollie si mise seduto anche lui, standomi vicino ma non sapendo che fare e credo che non sapesse nemmeno cosa dire all'inizio perché sul mio volto c'era sì tristezza, dolore, ma anche rabbia e frustrazione – dovevo dare l'idea di essere la cosa più fragile e debole sulla faccia della terra. Ma anche che da un momento all'altro potevo sempre trasformarmi, rialzarmi all'improvviso, diventare dinamo pura e incendiare il mondo. Il viso mi si riempì di lacrime e mostrava occhi rossi e inferociti, mentre il mio corpo tremava o forse fremeva, nemmeno io stesso sapevo dire quale delle due fosse giusta; ed ero silenzioso, così silenzioso che facevo paura, come una carica pronta ad esplodere da un momento all'altro.

In attimo Oliver mi fu accanto, inginocchiato vicino.

«Scusami J, i-io sono solo un idiota, sì, lascia perdere, lasciamo perdere! Cambiamo argo…» mi disse provando a farmi dimenticare tutto visto che non c’era modo di rispondergli senza che mi riducessi in uno stato tanto pietoso. Le mani infilate nei capelli, il dolore nel corpo che nella testa. Le fitte che stavano facendo appezzi il mio stesso cuore; chiusi gli occhi e d’improvviso vidi nuovamente il corpo senza vita di Grant, come fosse proprio lì, accanto a me. Fu allora che inizia a lasciare andare ad una triste e patetica serie di singhiozzi.

«Volevamo scappare» inizia a raccontargli improvvisamente con voce strozzata.

Oliver mi guardò a bocca aperta, incredulo più di me nel sentire che avessi ancora della voce per poter parlare.

«Io non ero...non ero nemmeno sicuro di riuscire a muovermi» gli rivelai, con la gola quasi bloccata e le lacrime che mi rigavano il viso, ricordando a quel patetico disastro che ero in principio, prima che incominciasse la mia trasformazione in guerriero: «Se non fosse stato per Grant non sarei nemmeno stato in grado di rimettermi in piedi» confessai quasi vergognandomi, coprendomi il viso con una mano nell'essere consapevole che senza di lui, senza mio fratello maggiore, io non sarei mai riuscito a scappare da quella dannata gabbia. Che senza sentirlo vicino, al mio fianco, non avrei neanche avuto il coraggio di iniziare e continuare questa guerra, lottando al fianco dei Rakyat per abbattere l’esercito dei pirati – che a volte mi capitava persino di udire chiaramente la sua voce come se fosse ancora qui, accanto a me; ma questo non l’avrei mai raccontato a nessuno.

Di colpo divenni di nuovo muto, lo sguardo perso ed un silenzio che metteva fin troppa paura. Per un attimo non udimmo nulla, nemmeno i grilli frinire.

«C’è l’avevamo quasi fatta…» dissi poi, con un filo sottile di voce. Interrompendomi di nuovo.

Non avevo gli occhi chiusi stavolta, ma l’avevo comunque di fronte a me, il suo cadavere steso per terra. Bianco, rigido, freddo. Immobile senza più fiato nei polmoni e sangue scorrergli fluido e accesso nelle vene. Solamente l’involucro vuoto di tutto quello su cui si era basato il mio mondo.

«Poi gli ha sparato…»

Oliver mi guardo con aria confusa, non potendo capire veramente né chi né come, ma io davanti a me ora vedevo la canna di quella maledetta pistola. Vedevo il sangue iniziare improvvisamente ad uscire dalla gola di mio fratello. Le mie mani premere sulla sua giugulare disperatamente, come se potesse davvero servire a qualcosa. Le mie mani imbrattate, rosse, completamente coperte del suo preziosissimo sangue…

Non mi ero accorto di star fissando per davvero le mie mani in quel momento, come di non essermi accorto della faccia terrorizzata del mio migliore amico, del suo insistente chiamarmi e cercare di riportarmi alla realtà. Del fatto che il sangue che mi appiccicava le dita fosse vero.

Il mio.

«C'era così tanto sangue Ollie...così tanto…» continuai però a mormorare, perso in quelle terribili allucinazioni.

«Va bene Jason, ora basta. Ti prego…» incominciò a dirmi pentito della sua richiesta, prendendomi le mani e spaventandosi nuovamente: «mio dio ma sono fredde. Sei troppo freddo!» esclamò toccandomi, confermando solo che c’era qualcosa che di nuovo non andava.

«Ci ho provato a salvarlo...giuro che ci ho provato…» continuai a piangere inconsolabile. Anche il viso di Oliver a quel punto era tra le lacrime.

La testa mi tornò a girare, così leggera, come se non l’avessi nemmeno sulle spalle.

La ferita mi si era riaperta e stavo rischiando di morire dissanguato un'altra volta; lo sapevo che era troppo presto per farsi una dannata passeggiata, ma io, testardo come al solito, avevo deciso che non fosse poi così rilevante...

.... .... .... ....

Il ragazzino biondo si sentiva così svuotato. Da giorni non mangiava, da giorni non aveva fatto altro che rinchiudersi in una stanza e farsi, uscendo solo poco fa dalla nebbia che era divenuta la propria mente e rendendosi conto solo in quel momento dello schifo che era diventato il suo appartamento. Ma non aveva voglia di pensarci. In realtà aveva perso la forza di concentrarsi su qualsiasi cosa tanto tempo fa e l’eroina lo aveva aiutato parecchio nel ridurre il proprio senso di realtà, rendendolo ormai fiacco e lento.

Uscendo fuori, nascondendosi dietro un paio di grossi occhiali da sole e dentro una costosa e grossa giacca – nella speranza di apparire meno bianco e scheletrico – si incamminò verso la solita strada, che lo avrebbe portato al solito posto, dove avrebbe potuto rifornirsi per l’ennesima volta e ripetere la settimana esattamente così come l’aveva appena passata.

Come uno zombi a cui spuntava una siringa dal braccio. Ma quel giorno, accadde qualcosa di diverso.

«Oliver?» si sentì chiamare e per un momento il ragazzino trasalì, poi si volse, ritrovandosi di fronte l’ultima persona che avrebbe mai voluto incontrare da quando il suo fisico aveva iniziato a mostrare i segni inconfondibili della tossicodipendenza – oltre che vergognandosi per le ripugnati compagnie che stava iniziando a frequentare un po’ troppo assiduamente.

Ma la persona che l’aveva fermato non era uno di loro. La persona che l’aveva chiamato era Jason – l’unico vero amico che avesse mai avuto il mondo.

«E da un paio di mesi che non ti fai più sentire» gli disse e per un attimo il biondo si sentì stringere il cuore con colpevolezza, anche se nel tono dell’altro non c’era il minimo segno di accusa. Al contrario, c’era un sorriso, come se traboccasse di gioia nell’essere riuscito a rincontrarlo dopo tanti giorni di assoluto silenzio – come se il giovane tossico avesse cercato di troncare ogni rapporto e in parte era vero. Non poteva, non riusciva ad ingannarsi che Jason, per quanto ingenuo, ad una sola occhiata non capisse quello che stava ormai facendo da settimane al proprio corpo, dello schifo e della degradazione in cui stava sprofondando senza provare il minimo senso di colpa. Però…in quei soli due mesi, aveva anche dimenticato che c’era un motivo se voleva un bene dell’anima a quel ragazzo ed ora gli si era nuovamente presentato davanti agli occhi, in tutta la sua commovente semplicità: «Senti un po’, ti va di venire con me e gli altri? Stiamo andando a mangiare e bere qualcosa alla spiaggia. Che ne dici?» aggiunse con sorriso solare e in un primo momento non seppe nemmeno che rispondergli.

Jason non lo stava solo guardando, ma andava oltre. Sapeva perfettamente per cos’era dovuta la magrezza e il pallore, ma decise volutamente di ignorarlo. Voleva a tutti costi che gli andasse dietro e in quel momento ed era abbastanza testardo da non demordere per nessun motivo al mondo. Lo conosceva bene ed ora che ricordava nuovamente il suo carattere, sapeva perfettamente che era come se il ragazzino moro si trovasse di fronte ad un naufrago in mezzo al mare e che piuttosto che lasciarlo annegare si sarebbe tuffato anche lui, rischiando di morire oppure vivere, purché valesse per entrambi.

Accettò l’invito e lo seguì.

E non fu solo perché, per nulla al mondo, l’avrebbe mai messo a contatto con quell’abisso di tenebra che era l’ambiente naturale dei tossici come lui. Ma perché più semplicemente, Jason riusciva a star lì senza vergognarsi della presenza di quell’amico che poggiava i piedi sull’orlo del baratro.

Più tardi gli sarebbe quasi venuto da piangere – non poteva credere che stava davvero per giocarsi un rapporto simile.

Forse quell’incontro fu fortuito, forse cambiò tutto, perché da lì a diversi mesi più il giovane Oliver Carswell, dopo aver toccato il fondo, trovò finalmente il coraggio di entrare in comunità e di lasciarsi aiutare da chi avrebbe potuto farlo per davvero. Jason andò sempre a trovarlo, quasi tutti i giorni, e quando l’amico poté finalmente dichiararsi “pulito”, il moro lo invitò spesso a passare intere giornate insieme, oltre che ad ospitarlo regolarmente da lui.

…e questo Oliver non lo avrebbe mai dimenticato.

1 questo avamposto in realtà non esiste nel gioco, me lo sono inventata di sana pianta.
   
 
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