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Autore: Agent Janice    30/01/2018    2 recensioni
«Sono l'Agente Phil Coulson, lavoro per la Strategic, Homeland, Intervention, Enforcement & Logistic Division. Sei al sicuro adesso.»
Questa che (spero) state per leggere è la storia che ho creato intorno all'Agente Phil Coulson, mio personaggio preferito dell' MCU e dela serie TV "Marvel's Agents of S.H.I.E.L.D."
La storia comincia nel 2002, circa dieci anni prima gli avvenimenti del film "Marvel's The Avengers" e della "Battaglia di New York", ed ha come protagonista una ragazza, personaggio di mia invenzione, che non ha un vero nome se non il codice 3-1-7 che l'Istituto in cui è segregata le ha affibbiato. Non rivelo di più su di lei, non sono brava nei riassunti vi rovinerei i punti interessanti dei primi capitoli. E' una storia di lotta tra bene e male, come la 'casa delle idee', la Marvel, ci insegna e che, se riesco a portare a termine, dovrebbe ripercorrere e rivisitare alcune delle vicende salienti che abbiamo visto sia nei film, sia nella serie tv.
Genere: Avventura, Romantico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maria Hill, Melinda May, Nick Fury, Nuovo personaggio, Phil Coulson
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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And the thing that gets to me
Is you'll never really see
And the thing that freaks me out
Is I'll always be in doubt

It is a lovely thing that we have
It is a lovely thing that we
It is a lovely thing, the animal
The animal instinct

[Animal Instinct - The Cranberries | In loving memory of Dolores O’Riordan]

_______

Per Janice fu strano ritrovarsi di fronte alla porta dietro la quale si trovava quella che fino a cinque anni prima era stata la sua stanza.

Tempo addietro l’avrebbe considerata come ‘il suo unico rifugio’, ma con il senno di adesso comprendeva che in realtà non era stata altro che ‘la sua prigione’.

 

“Eccomi di nuovo qui…” pensò strofinandosi le mani sui pantaloni della divisa cercando di pulirle da fastidiose sensazioni.Nonostante tutte le incertezze, la stanchezza fisica e la pressione mentale che cominciavano a farsi sentire, la ragazza non si perse d’animo, con fermezza afferrò la maniglia della porta frangifiamma e spinse facendola cedere con cigolio acuto di cardini arrugginiti che fece stringere i denti ad alcuni dei colleghi che attendevano alle sue spalle.  
Al contatto del freddo metallo della maniglia con la sua pelle, numerosi ricordi iniziarono a scivolar fuori dalle pareti del dimenticatoio, facendosi largo sinuosamente nella sua mente come un piccolo ruscello.

L’uscio nell’aprirsi, trasformando il cigolio in un vero e proprio stridio, rivelò al team l’ennesimo ampio e bianco corridoio bagnato da una luce soffusa, a causa di alcuni neon ormai scarichi che sfarfallavano debolmente minacciando di spegnersi da un momento all’altro.
Lungo le due pareti bianche, ad intervalli regolari incastonate nel muro c’erano le porte in metallo grigio-blu delle stanze che un tempo erano dedicate ad ospitare quegli individui che in quel luogo erano stati soltanto degli esperimenti.
Alcune di esse erano blindate elettronicamente, mentre altre erano porte ordinarie. Su ognuna vi era inchiodata una targhetta ad altezza sguardo con su inciso il nome dell’occupante della camera:

2-6-3

0-7-2

E cosí via.
‘3-1-7. Qui in mezzo c’é anche la sua stanza...’ Pensò Coulson serrando i denti in un gesto nervoso mentre entrava nel corridoio dietro ai suoi colleghi.

Il team di agenti non ebbe bisogno di ordini diretti da Fury per procedere nell’esplorazione, si divisero in modo quasi automatico in squadre da due persone ed entrarono a controllare le stanze accessibili.
Janice lasció che i suoi colleghi la sorpassassero per rimanere nel corridoio da sola con Coulson. 
Quando ciò accadde, pochi istanti dopo, si giró verso lui con un’idea precisa in mente ma indecisa sul da farsi. Pensierosa passó lo sguardo da Coulson ad un punto preciso verso la fine del corridoio per un paio di volte, prima di arrendersi al proprio istinto.
«Per favore, venga con me...» gli chiese incamminandosi verso la meta senza aspettare risposte e soprattutto ignorando la stanza che avrebbero dovuto ispezionare.
Coulson la seguì senza obiettare, sapeva che il loro obbiettivo era la porta con la targhetta 3-1-7, infatti bastarono pochi passi e Janice si arrestò davanti alla terzultima porta.

 

[_ 3 - 1 - 7 _]

 

Coulson, alle spalle della ragazza, percepí un improvviso senso di sgomento che gli si attanaglió alle viscere con artigli profondi costringendolo a qualche attimo di apnea.
Si portò una mano allo stomaco incontrando peró la superficie ruvida del giubbotto in kevlar.
Leggere il vecchio ‘nome’ di Janice su quella porta lo costrinse a razionalizzare bruscamente quanto profondamente quella faccenda lo coinvolgesse.
Egoisticamente il nostro cervello ci fa affrontare certi momenti davvero delicati in un modo che si potrebbe definire ‘freddo’, ‘distaccato’, ‘disinteressato’, addirittura ‘insensibile’...
In realtà avviene l’esatto opposto, non si tratta di mera freddezza ma bensì di un sistema di difesa che il nostro cervello innalza per permetterci di affrontare e gestire un grosso impatto emotivo.
Quindi Coulson era appena passato da uno stato di distaccamento professionale schierato in difesa, ad uno stato di angoscia interiore.

Non voleva sapere.

Non voleva vedere.

Non voleva che quella dannata stanza di cui Janice gli aveva raccontato essere stata uno dei pochi luoghi di tranquillità lì all’Istituto, diventasse reale.
DANNAZIONE. «Oh, dannazione...» il pensiero si espresse in parole dandogli atto del forte contrasto tra il suo guscio, atono e calmo, al suo interiore, agitato e sotto shock.
Janice alzó lo sguardo verso il viso dell’uomo, un po’ sorpresa che la barriera di formalità si stesse abbassando nuovamente: «Mi creda, a confronto con quello che abbiamo visto negli altri reparti, questo non é niente...»
Coulson annuí tirando un angolo della bocca in un mezzo sorriso, non voleva assolutamente caricare le spalle della ragazza con la sua apprensione, era lì per supportarla non per rincarare la dose.
«Mi raccomando agente, si pulisca le scarpe prima di entrare. Ho la moquette in camera.»
Scherzó Janice aprendo la porta.
Nel buio la sua mano trovó automaticamente l’interruttore elettrico: luce fù e Coulson guardó subito il pavimento dove effettivamente c’era della moquette, grigia e tristissima. Secondo un’osservazione personale dell’agente, che non espresse a voce alta, era anche fuori luogo e decisamente poco igenica per un posto come quello.  
«Prossima volta andiamo a comprarla insieme...» voleva farle una battuta e stare al gioco ma il suo innato carisma era andato a nascondersi da qualche parte, lasciandolo senza via di fuga e con un tono di voce apatico.
Si scambiarono un’occhiata di comprensione, Janice uscì dai panni di agente lanciandogli un malizioso occhiolino.
«Magari con una bella aquila bianca stampata sopra.»  evidentemente prendendo in giro la Strategic, la ragazza mimò con un gesto esagerato con le braccia le dimensioni che avrebbe dovuto avere il simbolo stampato sulla moquette. 
L’uomo sorrise passandole accanto per entrare nella piccola stanza. Si era reso conto che, al contrario di lui, da quando erano entrati in quella parte di Istituto, Janice, seppur ancora pallida da quello che avevano visto poco prima, appariva molto più tranquilla.
Le motivazioni potevano essere tante, tra cui le più plausibili secondo Coulson erano: o che l’aveva addestrata troppo bene e quella era tutta calma apparente, oppure era la quiete prima della tempesta.
La conosceva abbastanza bene da poter affermare che poteva essere la seconda opzione. La domanda era: cosa succederà quando la tempesta scoppierà e farà straripare i torrenti della memoria? 

Mentre Coulson ragionava su un possibile crollo psicologico da parte di Janice, si diede un’occhiata veloce in giro e la prima cosa che gli saltò all’occhio era l’austerità dell’ambiente: la stanza era piccolissima conteneva solo un lettino ad una piazza con cuscino, lenzuola bianche e una coperta grigia arruffati in disordine sopra al sottile materasso, appoggiato alla parete a sinistra; poi un piccolo armadietto striminzito di legno a due ante, appoggiato al muro proprio di fronte a loro ed infine quello che davvero catturò l’attenzione dell’agente...
L’unica nota di colore di quella stanza era sulla parete alla sua sinistra dove decine di disegni attaccati al muro con dello scotch facevano da cornice ad una piccola ed essenziale scrivania sul cui ripiano vi erano appoggiati dei pennarelli, delle matite ed una lampada da ufficio in plastica.
L’uomo in silenzio si avvicinó ai disegni per guardarli da vicino, sapeva che Janice era brava nel disegno, lo aveva scoperto i primi tempi in cui si allenavano, lei per ricordarsi i diversi schemi di combattimento e le diverse dinamiche di esecuzione le aveva disegnate al dettaglio su un’agenda, annotandovi intorno tutti gli accorgimenti che le erano stati detti e le aveva infine mostrate a Coulson per conferma, ma non gli aveva mai fatto vedere nulla di personale.
Lo sguardo gli cadde sul primo foglio della fila centrale attaccato alla parete, vi era stato scritto ‘3-1-7', in diversi colori, stili e caratteri, sembrava come quando ad un bambino si insegna a scrivere il proprio nome con la differenza che in questo caso ogni scritta era eseguita con una calligrafia già matura. 
Scorrendo con lo sguardo sul foglio subito accanto, che era leggermente sovrapposto e con un angolo arricciolato, vide quello che inizialmente interpretò essere un bambino che giocava con un gatto... o forse, a guardarlo meglio, poteva essere una bambina che giocava con un gatto.
L’uomo corrugó la fronte concentrandosi, gli venne in mente che poteva essere una sorta di ‘autoritratto’, perché quella immagine gli ricordò quando, tempo addietro, Janice gli aveva raccontato della coppia di anziani che viveva nella casa dirimpetto a quella dei suoi genitori. I due avevano un gatto, e se ne stava a giornate sane seduto o sdraiato a prendere il sole sul balcone della finestra di cucina o sulla sedia in vimini che avevano nel porticato. 
Lei lo guardava dalla finestra del piccolo salotto, lo adorava perché era bellissimo, tigrato chiaro, con il pelo lungo e lucido, pensava sarebbe stato morbidissimo da accarezzare e giocarci insieme, ma i suoi genitori, di cui non riusciva nemmeno a ricordarne il viso, non le avevano mai permesso di toccarlo.
‘Questo non puó - assolutamente - in alcun modo, essere un ricordo indotto da un macchinario.’
Coulson, immerso ancora in quel ricordo, cercò di auto-convincersi sfiorando il foglio con le dita, cercando di stendere quell’angolino arricciato.
Indugiando con lo sguardo su quel disegno un’altro ricordo venne richiamato alla mente dall’agente.

*****

Il ricordo risaliva ad una sera d’inverno particolarmente fredda di quattro anni prima, pochi mesi dopo da quando l’agente Coulson aveva preso Janice sotto la sua supervisione.

 

Uscendo dalla ex-base della Strategic dove si svolgevano le loro lezioni, entrambi rimasero a bocca aperta ritrovandosi di fronte ad una vera e propria bufera di neve.
Si guardarono negli occhi, increduli.
Per un attimo pensarono che in qualche modo fossero stati teleportati in un’altro posto o addirittura in un’altra realtà, dato che in quella parte di California vedere la neve, anche se si trovavano nella stagione più fredda, era più unico che raro.
Prendendo atto di quell'evento straordinario, Coulson decise che la scelta migliore per quella sera fosse fermarsi a casa sua, essendo questa molto più vicina a dove si trovavano in quel momento di quanto non fosse tornare fino all’accademia della Strategic, affrontando un tempo del genere.
Quella non era stata la prima volta in cui Janice veniva invitata a casa dell’agente Coulson, era già capitato che si fossero fermati a pranzo da lui dopo qualche allenamento, sulla strada per tornare all’accademia.
Era contenta che la Strategic le avesse concesso il permesso di rimanere, al di là delle condizioni climatiche del momento, le piaceva passare del tempo in quella casa. Era semplice, accogliente ed ogni angolo raccontava qualcosa del proprietario: le sue diverse collezioni, i libri che leggeva, la sua mania dei sottobicchieri* e l’ordine impeccabile; per farla breve agli occhi della giovane donna, quella era una casa vera.
Varcata la soglia si levarono le giacche, accesero il riscaldamento e andarono dritti in cucina dove chiacchierando del più e del meno mentre Coulson preparava una cena calda.
Appena, seduti  al tavolino, cominciarono a mangiare, qualcosa cominciò a far rumore contro il vetro appannato della finestra che si trovava sopra al ripiano della cucina davanti a loro.
«Oddio, cosa ci fa ancora fuori...» Coulson si alzò svelto per andare ad aprire alla finestra.
«Cosa é ‘ancora’ fuo...» Janice si ammutolì quando vide far capolino nella stanza una vecchia gatta di tre colori.
Si alzò subito anche lei per andare incontro alla gatta: «Da quando hai un gatto?»
«Non é mia.» asserì l’uomo prendendo un vecchio straccio di spugna da sotto al lavabo per asciugare la bestiola dalla neve che le si stava sciogliendo addosso: «É randagia, sono anni che gira nel vicinato. Dorme e mangia due o tre giorni in una casa e poi cambia, va a trovare qualcun altro.»
La micia miagolò con voce fioca all’uomo, a suo modo gli stava spiegando che razza di serataccia aveva passato.
«Non dare la colpa a me. Hai una cuccia sul retro a tua disposizione.»
E questo la gatta lo sapeva, peccato che Coulson ancora non si era accorto che la gattaiola installata sulla porta della lavanderia si era incantata.
Janice guardò incredula l’uomo mentre rispondeva a tono alla creatura.
«Sai, ti facevo più tipo da cani, non da gatti.»
Coulson sorrise finendo di asciugare la bestiola che non gradiva granché le maniere sbrigative dell’uomo.
«Infatti se non lavorassi alla Strategic un cane lo avrei preso. Ma io e Baffi-Mozzi** ci siamo trovati, siamo due vagabondi che ogni tanto sentono nostalgia di casa.»
«Baffi-Cosa?»
Coulson non rispose a parole, si limitò a tirate su il musino della gatta mostrando a Janice i baffi molto corti e storti che le adornavano le guance.
«Oh, ho capito.» lo sguardo della ragazza passò per un paio di volte dall’uomo alla bestiola prima di chiedere:«Secondo te, posso toccarla?» moriva dalla voglia di farlo.
«Vai, vai é buona. Al massimo scopriamo che sei una Dolittle.»
Janice non capì la battuta e Coulson alzò gli occhi al cielo in un falso gesto di scocciatura: «Dopo cena ti faccio vedere il film e capirai.».
La gatta, finalmente libera dall’asciugamano-trappola si allungò, un po’ per stiracchiarsi un po’ per accorciare le distanze con la sconosiuta ed annusarla incuriosita.
Janice, altrettanto incuriosita, allungò una mano ad accarezzarla.
Non appena le dita sfiorarono la fronte e le orecchie della micia, delle sonore fusa cominciarono ad uscire dalla creatura, mentre Janice non percepì niente di più che pelo morbido.
Guardando le due ‘donne' fare amicizia, Coulson pensò a quando gli era stato raccontato dalla ragazza stessa che all’Istituto gli scienziati testavano le abilità a distanza dei soggetti con poteri paranormali su cavie animali, come: cani, topi e conigli.
Janice ne aveva sofferto molto, perché aveva sempre provato una certa affinità con quelle creature. Erano come lei, spauriti e sfruttati, presi e messi lì senza nessun diritto di scelta. 
Come lei avevano avuto la sfortuna di non contare niente. 
Potevano urlare, potevano piangere, potevano implorare, a loro modo, ma niente faceva cambiare idea ai loro aguzzini, ai loro torturatori. 
Coulson inarcò gli angoli della bocca verso il basso ripensando a quel dialogo con lei mentre riempivano il dossier per l’INDEX.  
«Venite, si cerca qualcosa da mangiare per Baffi e finiamo anche noi di cenare.»

La serata finì con Janice e la gatta abbracciate sul divano e Coulson isolato, in poltrona. Tutti e tre a guardare il Dr. Dolittle. 

*****

Coulson tornò al presente di fronte a quella parete piena di disegni di una Janice bambina che non aveva conosciuto.

Facendo una panoramica sugli altri fogli notò che quasi tutti rappresentavano animali, dai più comuni ai più esotici, dai mammiferi ai volatili e agli anfibi, alcuni insetti e diversi animali marini; in poche parole sembrava la redazione di una bambina aspirante fotografa della National Geographic.
Si potevano distinguere i disegni di quando era bambina, imprecisi e molto cartooneschi, da quelli più recenti che al contrario erano fatti molto bene, in modo quasi impeccabile... d’altronde, purtroppo o per fortuna, di tempo per far pratica ne aveva avuto.
Gli tornò alla mente un altro buffo episodio.
Un paio di anni prima, sia lei che Coulson erano riusciti ad avere un intero week-end libero e l’uomo aveva preso l’occasione al volo per portarla a vedere lo zoo di San Diego.
La prima cosa che in quel momento a lui  tornó in mente fu che al ristorante dello zoo un cameriere li aveva scambiati per fidanzati, cosa che sul momento lo aveva fatto sorridere perché si era preparato di più a cose come: “Sua figlia si é divertita?”
Tra loro due non c’era cosí tanta differenza d’età, ma lui era convinto che la sua stempiatura lo facesse sembrare più vecchio dei suoi 38 anni.
Janice invece aveva sfoderato un’espressione tronfia di fronte al cameriere leggendo in faccia a Coulson la sua meraviglia. Era diventata brava a comprenderlo. 
Durante la visita lei era rimasta affascinata da tutti quegli animali, la emozionó vederli dal vivo. 
Li conosceva tutti, li aveva visti in documentari e libri ma non avrebbe mai immaginato o perlomeno non ricordava che esistesse possibilità di vederli così da vicino, così facilmente.
La cosa che però fece rattristare Coulson a fine serata, quando ebbero finito il tour fu l’espressione negli occhi di Janice. 
«E’ stata una bella giornata.»
Se ne era uscita stringendosi nel cappotto. 
«Però fa un po’ tristezza vedere tutti questi animali costretti a vivere una vita fatta di routine in spazi così stretti, giorno dopo giorno…»
Coulson le aveva annuito con un leggero cenno della testa:«Sono pienamente d’accordo.»
Anche lui si teneva stretto dentro al cappotto per il freddo: «Però cerca di vederla in questo modo, molti degli zoo moderni sono una sorta di ‘discarica di rimpianti’, l’uomo sta cercando di rimediare ad anni di maltrattamenti nei circhi, deforestazione, bracconaggio, e alla stessa concezione di zoo che c’era una volta e persino ai laboratori...» si interruppe perché ascoltandosi si rese conto di quanto l’Istituto e la Strategic fossero per Janice un po’ lo stesso concetto che un laboratorio e un parco riabilitativo potevano essere per una scimmietta da laboratorio.
Strinse i denti cercando di trovare le parole giuste per esprimere il proprio pensiero senza offenderla.
Si avvicinó a lei, mentre camminavano per raggiungere la macchina, e tirando fuori la mano sinistra dalla tasca le passò il braccio intorno alle spalle: «Purtroppo Jan, ci sono prigioni che ti possono rovinare la vita e poi ci sono mura sicure che cercano di rimediarvi...» abbassò lo sguardo verso di lei: «Noi cerchiamo solo di farti da scudo, di proteggerti, non di segregarti.»
«Lo so, agente Coul…»

«COULSON...»
La voce di Fury interruppe bruscamente il flusso di ricordi dell’agente.

Tutto accadde nel giro di pochissimi istanti, sotto allo sguardo di Coulson i fogli attaccati alla parete avevano cominciato a vibrare debolmente, aumentando d’intensità a vista d’occhi, seguiti a ruota dalla piccola scrivania che cominciò a vibrare scostandosi dalla parete.
Un terremoto!’ pensò allarmato l’agente aprendo istintivamente le braccia in modo da mantenere l’equilibrio durante la scossa imminente… che però non arrivò.
La piccola scrivania continuava a vibrare contro il muro ma il pavimento era immobile.
Si rese conto che era qualcosa di elettrico nell’aria a muoversi...
«Phil, dannazione! E’ Janice...» Fury ringhiò quelle parole: «...fa qualcosa!» 
Coulson si giró verso l’ingresso della stanza sentendo dei brividi corrergli lungo la pelle, vide Fury appoggiato con una spalla allo stipite della porta che si stava reggendo la testa con le mani in una smorfia di fastidio. 
Quella forza invisibile aumentò di intensità strappando via i fogli dalla parete che cominciarono a vibrare nell’aria.
Coulson si girò verso Janice e la vide sdraiata in terra in preda alle convulsioni con stretta in mano la coperta del letto che fluttuava, vicino a lei, a pochi centimetri da terra. 
La ragazza teneva I denti stretti e gli occhi sbarrati, non emetteva suoni. 
«Janice! No, no… no.» Coulson si fiondò verso di lei cercando di soccorrerla: «Janice, sono qui. E’ tutto a posto.»
Cercò di aprirle la bocca per tirarle fuori la lingua in modo da non fargliela ingoiare, come si fa durante un attacco epilettico, ma la mandibola era serrata con forza. 
Al contatto del viso di Janice con le mani dell’agente gli occhi della ragazza si socchiusero e cominciò a piangere. 
«BASTA. Non ce la faccio più.» con tono sgomento cominciò ad implorare.
«Fermatevi, FA MALE.»
Coulson le sollevò il busto da terra appoggiandosela addosso. Le tolse i capelli dal viso e cercó di farla tornare al presente.
«Janice, sono Coulson, ti prego torna in te.» 
«Vi prego…FERMATELO.»
«Hey, siamo qui. Sei al sicuro.»
Continuava ad accarezzarle il viso sperando che smettesse di ricordare.
«No, no, no, no… fa male. Vi prego FA MALE...»
Janice urlò inarcandosi tra le braccia di Coulson che la strinse per non farla cadere.
«Rilassati Janice. Ti prego, calma.»
Fury biascicò qualcosa ma un senso di nausea lo pervase, la testa era ovattata e mettere insieme due pensieri stava diventando difficile.
«La co...»
«...cope...ta»
Coulson vide la coperta tra le dita della ragazza, gliela strappò letteralmente di mano in modo violento.
«Janice sono l’Agente...»
«...Phil Coulson con la Strategic Homeland Intervention e Logistics Division. Sei al sicuro adesso.» la ragazza ripeté le parole del primo incontro con l’agente,  usando la cadenza tipica di Coulson, ma questa volta non bastarono a farla tornare in se. 
«Non toccate la mia famiglia! Voi non potete fare questo. Che volete fare?»
L’accento era cambiato, non apparteneva né alla ragazza né a Coulson.
Anche l’atmosfera era cambiata. I fogli e il tavolo si erano placati. Fury non era più sotto l’influenza di Janice.
Ma Janice continuava a ricordare.
In modo meno empatico, più distaccato.
«Ho fatto quello che mi avete chiesto.» disse con lo sguardo vuoto, usando ancora l’accento estraneo.
«La mia famiglia. Loro non c’entravano niente. Che diritto avete...»
La mano di Janice strinse il braccio di Coulson. Lottò per tornare in sé e far tornare ad essere un torrentello il fiume in piena che la stava sopraffacendo.
Coulson e Fury erano vicino a lei, cercando di aiutarla.
«Forza ragazzina, puoi farcela.» le disse Fury senza osare toccarla. Ne aveva già avuto abbastanza.
Gli occhi di Janice stavano cercando di mettere a fuoco, stavano tornando vigili…
«C’é il Dr. Roy.» biascicò.
Si alzò a sedere, affaticata e tremante.
«É nella stanza infondo al corridoio. É ferito e disarmato.»
Combatté l’istinto di vomitare nuovamente.
«Ci sono degli esplosivi sulla porta.»
Coulson e Fury si guardarono stupiti in volto, chi diavolo era il Dr. Roy? Era forse l'uomo che li aveva chiamati?
«Prendo due degli artificieri e vado a controllare. Voi restate...»
«No, vengo anche io. Mi conosce. Non rischierà di farmi del male.»
Coulson l’aiutò a sedersi sul letto e sganciandole i guanti dalla cintura glieli fece indossare.
«Mi dispiace, signore.» si rivolse a Coulson con espressione delusa.
«Ho bisogno di proteggervi.» Tirò fuori il vecchio cerchietto da una delle tasche della divisa e se lo posizionò dietro la nuca.
«Non lo avevi già indosso?» domandò Fury sorpreso.
Coulson e Janice si guardarono, la ragazza comprese in quel momento che il suo Supervisore non era stato del tutto trasparente con il Direttore. Non sapeva cosa rispondere, non voleva metterlo nei guai, ma come poteva negare l’evidenza?
«É colpa mia, signore.» rispose Coulson.
«Lo sai che non sei parte del programma della INDEX…?»
«Sì, signore.»
«Bene. Quando torneremo alla Base ti prenderai il cazziatone. Per ora Agente Coulson procediamo.»
«Sì, signore.» Coulson abbassò lo sguardo imbarazzato. 
Janice gli strinse la mano alzandosi dal letto non appena Fury girò loro le spalle e sottovoce gli disse: «Mi dispiace… Non volevo...»
Coulson le sorrise in modo affettuoso e colpevole: «No, è colpa mia. Era una mia responsabilità.»



Sottobicchieri* : nella prima stagione di Agents of S.H.I.E.L.D. Coulson più di una volta viene sottolineata la precisione e l'accuratezza dell'agente nell'usare i sottobicchieri. 

Baffi-Mozzi**: era il nome della gatta che aveva mia nonna quando ero piccola. Non era vecchia quando la prese con se, ma aveva i baffi corti corti. 
 
Sclero dell'autrice: Abemus Capitolum! 
In barba al latino maccheronico questo capitolo è stato un reale parto. Ho passato mesi a scrivere le tre righe sul ricordo di Coulson con Janice che incontra Baffi-Mozzi. Perchè?! Perchè non riuscivo a rendere realistica e veloce la scena. Tutt'ora penso che non torni, una persona con poteri come Janice come agirebbe?! Ormai è una donna... cosa sopravarrebbe il suo desiderio di bambina oppure la concretezza di adulta con poteri paranormali?! Queste le domande che mi hanno fatto buttare via 5 versioni di quella scena (passando dalle 3/4 pagine ciascuna per finire a fare il riassunto del riassunto, per stringere). Avete idee? Consigli per migliorare questa scena? Sono tutta orecchi ed appunti per quando farò la rilettura completa (e festeggerò i miei 50 anni con voi x°D fate conto che ora ne ho 27...)
Comunque seriamente se sono uscita dai personaggi, se ho semplificato troppo ditemelo, che mi organizzo per rendere il tutto più concreto e meno 'fiabesco'. 

Ps. Sì, sono animalista, che non si capisce?! x°D

 

   
 
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