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Autore: PawsOfFire    03/02/2018    2 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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“Clock”

“Click”

“Clock”

 

“Volker,

per favore, potrebbe spiegarmi cosa ci fa un mazzo di oche appeso al mio carro?”

“Non sapevo dove appenderle, Capitano! Allora ho pensato…”

“Perché lei pensa…”

“…ho pensato: perché non lasciare che spurghino in un luogo sicuro, in alto e sempre a portata di mano?”

 

Questo era una giornata tipo nella gelida Russia. Il paesaggio era sempre lo stesso, infido e bianco, coperto da pini ed altri sempreverdi che poi così verdi non erano, essendo carichi di neve fino alla cima.

Le uniche cose che cambiavano, sostanzialmente, erano il nostro carro antiestetico ed un nuovo membro dell’equipaggio che nessuno aveva richiesto ma che ci era stato affibbiato in qualità di marconista.

Il terzo in un anno. Auguri.

A volte, mentre lo osservavo sparare alla fauna selvatica, mi chiedevo che fine avesse fatto Maik, l’unico soldato degno di essere definito tale.

Prima che impazzisse, ovvio.  Voci di corridoio dicevano di averlo visto muoversi a quattro zampe ed uccidere a morsi alcuni soldati russi. Come Fiete, praticamente.

Per fortuna, in una scala da Wolfmann a Kemple, Volker si piazzava praticamente in mezzo.

Buona mira ma inettitudine in quanto marconista. Ogni tanto riusciva ad indovinare la rotella giusta ma la frequenza sbagliata, facendo vibrare nelle nostre cuffie un orrido fischio che mandava Tom su tutte le furie.

Potevo sorvolare su questo particolare. Potevo anche chiudere un occhio sul fatto che uscisse tutte le notti a cacciare selvaggina.

L’unica cosa che non potevo tollerare, però, era l’uso indignitoso di Furia Nera terza, uno dei nuovissimi Jagdpanther che avevamo ottenuto in qualità di uomini scelti, nonostante il Colonnello adorasse sottolineare di come sostanzialmente il nostro compito fosse quello di fare da cavie nella speranza che qualche errore di fabbrica ci faccesse saltare in aria.

“Ha presente cosa succede quando il motore si surriscalda, Hofler?” chiesi al mio sottoposto. Lui mi guardò un po’ esitante, prima di esternare un: “certo, Capitano! Salta tutto in aria!”

“Santo cielo Hofler, no. Questo problema lo hanno risolto per fortuna. L’acciaio diventerebbe bollente e le tue oche finirebbero per bruciarsi…”

Osservai la sua figura corrugarsi in un’espressione di lento compiacimento. Volker era giovane, certo, ma superava ampiamente la media delle nuove reclute con i suoi ventitré anni. Piccoletto, con delle grosse orecchie ed un naso speciale, ma non si poteva definire nel complesso una brutta figura, anzi. Con i suoi occhi verdi ed i capelli biondo scuro faceva sospirare tutte le infermiere del fronte orientale.

“Potrebbe essere un nuovo metodo di cottura, Capitano. Sa, a guerra finita vorrei aprire un ristorante. Se lo immagini, Basti!”

“Non mi chiami per nome…”

“Panzergrill! Specialità, oca al carroccio! O era al cartoccio?”

Senza rendermene conto il giovane soldato aveva iniziato a toccarmi il braccio e tirare la manica della divisa, scrollandomi come una zucca secca. Dovetti allontanarmi con un ringhio disgustato per tentare di farlo desistere ma lui, recidivo, tornò ad attaccarsi al mio braccio con fare morboso.

“Eh, Capitano? Verrà a trovarmi, quando la guerra sarà finita? La farò mangiare gratis tutti i giovedì sera! E dice che potrò portarmi a casa un carro armato per uso culinario?”

“Hofler per favore. Apprezzo il suo invito e sicuramente passerò a mangiare le tue oche a guerra finita ma le ricordo che per adesso sono il suo superiore e non è concesso toccarmi con insistenza, a meno che tu non sia una bella donna. Ma, visto che lei non risponde al requisito, potrei mandarla davanti alla corte Marziale”

Solo così il carrista smise di toccarmi. Fece marcia indietro, allontanandosi da me di qualche passo, prima di voltarmi la schiena e tornare al carro, alzandosi sulle punte dei piedi per controllare lo stato delle sue oche putrefatte.

Non c’è niente di meglio di iniziare la giornata con un po’ di sano nonnismo! Trattenendo il respiro e portando la schiena più dritta di quanto già facessi, riuscivo a sembrare ancora più alto, minaccioso e tremendamente affascinante, più di quanto non fossi già normalmente, incutendo la giusta quantità di terrore nei miei sottoposti, che, intimoriti dalla mia presenza, si affrettavano a lavorare rapidi sotto la mia supervisione.

Immersi nella neve, con una vecchia mappa ed il freddo nelle ossa, serviva una figura carismatica come la mia. L’umore degli uomini scivolava sempre più a picco ogni giorno che passava, toccando vette di esasperante depressione.

Erano sempre più convinti di essere stati abbandonati. Ed io, che li incitavo a tenere duro e non mollare mai, cercavo di respingere questa morsa allo stomaco che lentamente stava corrodendo anche me.

Tutto era iniziato dopo il nostro ritorno al fronte. Non avendo praticamente materiale per stabilire un campo degno del nome, avevamo incaricato Müller, un ex architetto di Rosenheim, di disegnare con un bastone sulla neve la pianta di un edificio, con tanto di stanze private, bagni, salotto e cantina. Così avevamo creato dal nulla il nostro circolo ufficiali con tanto di tavolo e sedie, costituite da un fusto di benzina vuoto e due tronchi d’albero spezzati dal peso della neve.

Senza bicchieri, senza alcool e senza praticamente nulla, discutevano davanti ad una mappa chiazzata di caffè e divorata dai tarli, riportante un foro di circa dieci centimetri nella zona di Mosca, rendendo la lettura ancora più difficile di quanto già fosse in quelle condizioni.

Avevamo una porta, però. Tutti dovevano bussare prima di entrare, con tanto di cerimonioso “chi è? Sono Faust, mi apra! Ci mancherebbe, entri pure!” e via dicendo.

Molto emozionante. Se non fosse che, escluso il Colonnello, erano rimasti quattro ufficiali inferiori al comando di circa quattro carri l’uno.

Durante uno di questi meeting il Colonnello decise di impepare il discorso, che in genere iniziava serio e sfociava in figa, con tutte le novità che nessuno di noi si era mai curato di tenere al corrente.

Si alzò bruscamente, chiuse la cartina e ci squadrò con lo sguardo da maestro delle elementari, mettendoci immediatamente a tacere.

“Visto l’orario, immagino sia giusto darvi queste notizie che mi sono appena giunte e di cui nessuno si era mai premurato di tenermi al corrente. Abbiamo perso il Nordafrica, gli americani sono arrivati in Sicilia e l’Italia ci ha voltato le spalle. Con questo vi auguro un buon sonno che avrei un certo torpore, sono due notti che non chiudo occhio Achen per favore inizi lei il turno di guardia e poi Faust gli dia il cambio…”

Il vociare divenne intenso. “Incredibile!” esordì il Capocarro Braun lisciandosi le maniche del cappotto “tutto in un solo giorno!”

“In realtà” lo corresse il Colonnello “sono notizie vecchie di mesi. Credo non gli importi più molto inviare informazioni al fronte orientale, ma sono solo supposizioni”

L’uomo sbadigliò rumorosamente, coprendosi la bocca con la mano, prima di voltarci le spalle diretto verso le sue inesistenti stanze.

“Questa sarebbe la buonanotte? Come cazzo faccio a dormire adesso?” imprecò il pittore pazzo dal salottino, alzandosi rabbioso in direzione del circolo degli ufficiali “Lei era nella stanza vicina! Come ha fatto ad origliare i nostri discorsi?”

“Temo che il Colonnello abbia lasciato la porta aperta…”

“Bussi prima di entrare!”

Per una manciata di secondi l’uomo desistette, osservando con il volto dubbiosamente contratto la planimetria perfettamente disegnata dell’edificio. Studiò a fondo la posizione della porta immaginaria, prima di esclamare un: “Accidenti, avete ragione! Non avevo proprio visto i muri…forse c’è solo bisogno di una bella riverniciatura…”

Contro ogni previsione il pensiero della guerra oramai persa divenne poco più di un lieve eco in lontananza, non più spaventoso delle luci dei Katjusa che esplodevano a chissà quanti chilometri di distanza, appena visibili nel tramonto limpido della Russia.

Abbandonai la stanza mentre loro, in fibrillazione, decidevano di ritoccare le pareti con immagini belligeranti di aquile nere che sfidavano aquile a due teste in incredibili lotte aeree, prima di soccombere sotto i becchi e gli artigli affilati delle prime.

 

Spazio ed ossigeno a parte, dormire in un carro armato non era la cosa peggiore che potesse succedere al fronte.

Forse non era comodo ma, almeno, era sufficientemente caldo da non farci morire congelati. Difficile prendere sonno in certe condizioni. Non che sarei comunque riuscito ad addormentarmi, con quelle notizie. Al diavolo tutto il resto, ero preoccupato per la sorte di mio fratello, paracadutista in nord Africa. Il fatto che non avessi ricevuto notizie sulla sua sorte, né risposte alle mie missive, mi rendeva terribilmente inquieto.

Oramai nemmeno ero più certo che arrivassero, le lettere. Mancavano i rifornimenti, figuriamoci queste quisquilie.

Chiesi al Capocarro Joseph Achen di iniziare io il turno di guardia. Inutile dire che acconsentì con inaudita gioia, abbandonandomi con inaudita rapidità.

Presi per sicurezza una pastiglia di Pervitin e lasciai che la notte scorresse sulla mia testa come nuvole, mentre l’organo di Stalin tornava a tacere per fare spazio a quell’incredibile silenzio che solo l’inverno sa offrire.

 

Indubbiamente fu il miglior pattugliamento della mia vita. Seduto su un tronco, in silenzio, al freddo, con un cappotto malamente imbottito ed un accendino del quale agognavo il calore. I russi purtroppo hanno occhi ovunque: per questo dovetti accontentarmi del calore del nostro caminetto finto ma disegnato impeccabilmente.

Ero convinto che qualcuno, prima o poi, mi avrebbe dato il cambio.

Ed invece rimasi a fare la guardia per tutta la notte. Solo alle sei il Colonnello si accorse di me. Lungi dal sorgere del sole, ci apprestavamo allo sporco lavoro che oramai ci toccava da parecchi giorni: difendere la zona.

Non c’era niente di interessante ma gli ordini erano stati chiari: alla peggio, almeno, potevamo ritirarci in quelle che sembravano rovine di un casolare e difendere quello.

Improvvisamente ogni cosa era diventata essenziale, anche le più sacrificabili. I russi ci stavano spingendo sempre più verso sud, Novgorod era caduta nell’esatto momento in cui noi non eravamo presenti (impegnati nell’addestramento all’uso dei cacciacarri) Penso sia questo l’esatto motivo per il quale abbiamo perso la città.

“Vede, Colonnello, il mancato uso della tenaglia a tenaglia è stato fondamentale per i russi. Lo spieghi a Von Küchler*, vedrà che sarà comprensivo e capirà i suoi errori”

“In realtà, Faust” il mio superiore mi diede le spalle, preferendo osservare l’esatto centro di un tronco di pino “mi ero alzato per una banale pisciata, se mi permette il termine. Non certo per essere seguito dal suo farfugliare insensate tattiche militari

Adesso gradirei un po' di privacy, come si suol dire…”

Quanto pudore!

Mi allontanai biascicando insulti a denti stretti, facendo attenzione a non essere udito.

 

Finalmente, dopo tanta attesa, scorgemmo lo scafo di un cacciacarri oltre la folta coltre di sempreverdi. In realtà, ad essere puntigliosi, udimmo il ronzio del motore ben prima che il cingolato si palesasse ai nostri sguardi.

Incurante della boscaglia il carro si faceva strada sradicando i fusti più leggeri, scortando in qualità di leader un paio di camionette adibite al trasporto delle truppe, un furgoncino di rifornimenti, un sistema d’arma Katjusa** ed altri due cacciacarri che riconoscemmo come ISU-152***

Il carro di testa, però, era totalmente sconosciuto.**** Non avevamo mai visto niente di simile in vita nostra. Piatto, basso e coriaceo come uno scarafaggio, a prima vista sembrava molto più leggero rispetto ai nostri carri della stessa fattura. Caricava gli ostacoli come un ariete moderno, veloce e compatto, senza eccessi o sporgenze che potessero ostacolare la sua copertura.

Per fortuna si accorse di noi con relativa tardezza, dandoci il tempo di preparare un’azzardata offensiva. Aver trovato una divisione corazzata tedesca, seppur sfoltita, lo aveva disorientato. Esitante, inizialmente il carro nemico tentò di fare marcia indietro, mostrando con sfacciata arroganza la corazza frontale e facendoci intuire con nemmeno troppa difficoltà quale fosse il punto forte della struttura.

Mentre i due carri laterali cercavano di fornire un passaggio sicuro alla fanteria, il carro di testa decise di attaccarci, uscendo finalmente allo scoperto.

Doveva essere nostro, quel bestione! Diedi a Tom l’ordine di ingaggiare, cercando il modo migliore per fiancheggiarlo.

Mentre Martin e Klaus direzionavano il cannone per tentare una strisciata sul fianco, Volker interruppe l‘incredibile assetto da guerra esclamando: “Le mie oche!”

“Al diavolo, le tue oche! Dovevi toglierle prima!” sbuffò il pilota, preparandosi ad arretrare di qualche metro per favorire l’attacco.

“Sono importanti! Devo dirlo ai russi prima che sia troppo tardi!”

Prima che qualcuno riuscisse a fermalo lui era già sbucato fuori dal carro.

Ordinai la retromarcia, interrompendo l’ordine. Il cannoniere mantenne la sua posizione e, a cannone carico, avremmo dovuto avere la risposta repentina in caso di attacco.

Inspirando profondamente decisi di fare capolino dal carro, coprendomi per sicurezza con la cappotta protettiva.

“Hofler, che sta facendo! Torni al suo posto!” urlai, osservando quello che stava per essere il mio ex marconista correre incontro ad una morte certa.

Il bestione russo, titubante, sembrò arretrare anche lui di qualche metro, mosso da una strana curiosità. Dal muso piatto del caccicarri sbucò perfino il mitragliere che, con una preventiva pistola carica in mano, si rivolse a quel piccolo tedesco sfacciato.

L’attesa fu infinita e snervante. Le due parti in gioco erano tese ed in fibrillazione, desiderose di mettere le mani sui nuovi modelli dei carri avversari.

Tranne i due marconisti che, in un’accozzaglia di tedesco e russo, sembravano avere trovato l’amicizia vera.

“Spegnete tutto, spegnete i motori, siamo giunti ad un accordo!” Volker ci fece segno di resa e, in risposta, il cacciacarri nemico spense i motori. Afflitto, ordinai a Tom di fare lo stesso.

“Per quattro oche hanno detto che leveranno il disturbo!” il mio uomo sembrava entusiasta. Corse dal cannone della Furia, arrampicandosi per staccare un paio di pennuti che, nel frattempo, avevano già iniziato a cuocersi per il calore del cingolato.

Raggiunsi l’apice di dubbiosità quando perfino il capocarro russo abbandonò il mezzo per prendere personalmente il bottino.

Lo analizzai accuratamente. Un tipo borioso e gonfio di petto che si atteggiava come se fosse l’unico capocarro dell’Unione sovietica. Dopo aver ricevuto i pennuti, l’uomo articolò un complicato discorso in un tedesco elementare con il sottoscritto che, per precauzione, aveva deciso di stare al riparo all’interno del Carro, rivolgendomi a lui dall’altro dei tre metri d’altezza del Jagdpanther in modo tale che fosse lui ad alzare la testa in segno di rispetto e non viceversa.

“Io Capitano di Cjornij…nero. Ricordati di me quando io diventare…più grande di tutti in carri armati”

“Non si preoccupi, Herr! Si ricordi di noi, piuttosto. Della Furia Nera, perché sarò IO a divenire il più grande carrista del Reich…anche se, con modestia, dovrei già esserlo.”

Seguirono attimi di insospettabile silenzio. Il russo (che nel frattempo sembrava aver gonfiato ulteriormente il petto) colse la palla al balzo: “Vedremo quando ci incontreremo di nuovo. Oggi essere voi in numero molto maggiore. Un giorno duelleremo come cavalieri e decideremo chi sarà il più grande di tutti”

“Affare fatto”

Il Capitano russo sembrò soddisfatto dell’accordo. Ringraziò cortesemente per le oche, prima di allontanarsi verso il suo carro a grandi falcate, svegliando il pilota che, nel frattempo era uscito a fumare e si era addormentato ai pedi del cingolato con il fumo ancora acceso tra le labbra.

Li osservammo sparire tra gli alberi mentre, con una certa disillusione, mi accorgevo di come il Colonnello e tutti gli altri avessero battuto una ritirata strategica e si fossero accasati nel famigerato casolare distrutto da difendere.

“Dannato russo borioso che osa mettere in discussione la nostra bravura” borbottai, dando l’ordine di marcia.

“Invece era simpatico, Capitano” mi corresse Volker con un sorriso, mentre riprendeva il posto tra i suoi comandi. Aveva deciso di portare i pennuti rimanenti con sé, attirando l’attenzione ed i desideri di Fiete.

“Le somigliava un po’, non crede?”

“Impossibile!” sbottai, corrugando le sopracciglia con estremo disappunto.

“Io non sono certo così vanitoso, non ho la camminata da piccione come…quel tizio.

Sarà lui quello fanfarone. Io sono semplicemente magnifico e modesto come un agnellino di prima lana…”


Note:

*Georg Von Küchler, Feldmaresciallo che coordinò l'operazione

** Detto anche Organo di Stalin, lanciarazzi

*** Cacciacarri russo

**** Prototipo di quello che diventerà SU-100, uno dei più temuti semoventi russi. Amichevolmente veniva soprannominato "fotto tutto" era leggermente distruttivo...

   
 
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