CAPITOLO
V
Il Ballo
Max
Max
parcheggiò la macchina a qualche isolato di distanza. Il motore si
spense con
un singhiozzo, ma lei non lasciò andare il volante: la schiena ritta
contro il
sedile, le braccia tese, riusciva soltanto a guardare di fronte a sé,
gli occhi
sbarrati. Tentò di regolarizzare il respiro, e di calmare il turbinio
di
pensieri che le frullavano in testa. Avrebbero dovuto andare alla
polizia? No,
come potevano spiegare loro che la loro amica era stata divorata da un
mostro
che avevano evocato per sbaglio? Nessuno avrebbe creduto ad una storia
del
genere. Piuttosto, vedendola coperta di sangue e in stato confusionale,
avrebbero pensato che lei avesse qualcosa a che fare con la sua morte.
Potevano
raccontare la cosa come se si fosse trattato di un incidente, ma
sarebbero
comunque finiti nei guai per essere entrati in una zona recintata senza
permesso, senza contare che una semplice caduta dalle scale non avrebbe
giustificato la quantità di sangue che le era schizzata addosso, né le
condizioni
del corpo di Jocelyn. Sempre che ci fosse ancora, il suo corpo. No,
risolse infine Max, riacquistando lucidità. Dovevano comportarsi come
se nulla
fosse successo, come se quel giorno non avessero visto Joss. Se
avessero
ritrovato i resti della ragazza nel centro commerciale, vedendone le
condizioni
avrebbero sicuramente pensato a un’aggressione da parte di qualche
animale
selvatico, e, in quel modo, lei non ci sarebbe finita di mezzo.
Rilassando
le braccia, prese finalmente un ultimo respiro.
“Richie, ascoltami bene, adesso”, disse Max, rivolgendosi al ragazzino.
“Non
possiamo andare dalla polizia. Non possiamo dire di sapere niente di
quello che
è successo a Joss, o penserebbero ad un nostro coinvolgimento. Non
penso
crederebbero alla storia del mostro”. Richie annuì, in silenzio. “Non
possiamo
fare nulla, per Joss, ora. E se vogliamo occuparci di quel mostro, è
meglio che
io non venga arrestata”. Lui annuì ancora, sempre sull’orlo delle
lacrime.
“Quindi, ora andiamo a casa, dirai a tua madre che abbiamo preso in
prestito la
sua macchina per andare a riportare un libro in biblioteca, o qualcosa
del
genere”, proseguì Max. All’improvviso, le venne in mente di non avere
le chiavi
del veicolo: dovevano essere rimaste in tasca a Joss. Si chiese se
Richie si
fosse domandato come avesse potuto far partire la macchina senza
chiavi. Decise
di non chiedere nulla. “Tua… Tua madre ha delle chiavi di riserva,
no?”. “Sì.
Ne abbiamo tre: una la tiene mamma, una è appesa all’ingresso, e una…
una…”
Richie deglutì. “Una la teneva Joss”, concluse.
“Ottimo”, disse Max. “Dille che abbiamo usato quella di riserva”. Max
si sporse
verso di lui, staccando le mani dal volante per prendergli il viso tra
le mani.
Richie alzò lo sguardo, sorpreso, mentre lei lo guardava fisso negli
occhi, con
gravità. “Ce la farai, Richie? Hai capito quello che ti ho detto di
fare, e
perché lo devi fare?”.
Richie arrossì, fissando dentro agli occhi di Max, quasi come se ne
fosse
ipnotizzato. Si riprese, scuotendo appena la testa. “S-sì. Sì, capisco.
È tutto
ciò che possiamo fare. Ce la farò, Max, non preoccuparti. Ci penso io”.
Max sospirò. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma si rese conto che lo
avrebbe
imbrattato di sangue. Così, gli disse solo: “Mi dispiace, Rich. Mi
dispiace
tanto. È colpa mia”.
“Non è colpa tua” ribatté lui, serio. “Joss ha fatto qualcosa di molto
stupido,
e per caso tu eri lì, e non sei riuscita a fermarla. Se non ci fossi
stata,
l’avrebbe fatto comunque. E comunque, non potevamo sapere che quella
storia
fosse vera…”. Max sospirò, cacciando indietro le lacrime che le
pungevano gli
occhi. “Lo so”, disse solamente, corrucciata. Poi si alzò, aprì la
portiera
della macchina e scese, esaminandola, alla ricerca di tracce di sangue.
Non
sembrava che ce ne fossero: c’era solo qualche impronta insanguinata
sul
volante. Guardandosi, si assicurò di essere sporca solo sul viso e sul
petto.
Poi, si pulì con una salvietta le mani ed il volante, e infine risalì,
mise in
moto, e si diresse verso casa.
La
strada di fronte alla caffetteria era deserta. Scendendo, controllò
ancora una
volta di non aver lasciato tracce. Controllò anche che Richie fosse
pulito e
insospettabile, e lavò via le tracce del pianto dal suo volto. Poi, lo
guardò
correre in casa, e dopo aprì il bagagliaio, si caricò la cassa con la
sfera
rimanente sulle spalle e infine, approfittando dell’oscurità, scivolò
come un
fantasma dalla porta di ingresso, salì le scale di corsa e si infilò
nell’appartamento. Sbatté la porta, lasciò cadere la cassa e si
accasciò sul
pavimento, il volto nascosto tra le mani. Tremava e singhiozzava
incontrollabilmente, ora che non doveva più trattenersi. Aveva visto
una
persona morire di una morte terribile davanti ai suoi occhi, ed era
tutta colpa
della loro stupidità. Si sarebbe picchiata, in quel momento: si rese
conto di
essere solo una ragazzina idiota.
Quando riuscì a ricomporsi, esaminò il contenuto della cassa, tremante,
assicurandosi che la sfera fosse intatta, e ferma. Vista così, sembrava
solo un
ammasso di fango secco. Max sentì una morsa gelata attraversarle lo
stomaco, ma
sapeva di non avere scelta: doveva custodirla. Liberarsene poteva
significare
che finisse nelle mani sbagliate, facendo fare a qualcun altro la fine
di Joss.
Non era certo entusiasta di dormire nella stessa stanza di un uovo
contenente
un potenziale mostro assassino, ma non poteva fare molto altro: Joss
era morta,
e non poteva permettere che qualcun altro perdesse la vita a causa sua.
Così,
spinse la cassa sotto al letto, pregando qualunque divinità che la
sfera non si
risvegliasse, e finalmente si diresse in bagno.
Si osservò allo specchio, e vide che era conciata parecchio male: il
sangue le
aveva schizzato il volto, i capelli e il petto, dove si era allargato
in grosse
chiazze scure, penetrando nei vestiti. Max si spogliò, mettendo giacca,
maglietta, pantaloni, scarpe, e biancheria a mollo in una tinozza di
acqua
bollente, dopo aver spruzzato dello smacchiatore sulle tracce di
sangue. Si
infilò poi in doccia, lavandosi con attenzione, mentre ai suoi piedi
l’acqua e
il sapone si tingevano di rosso. Una volta uscita, svuotò la tinozza,
la lavò,
mise i vestiti in lavatrice, e pulì il piatto e le pareti della doccia.
Fece lo
stesso con il pavimento, seppure non avesse gocciolato sangue entrando,
ripassando mentalmente tutto ciò che aveva fatto da quando era salita
in macchina
a quando ne era scesa, pensando se avesse dimenticato qualcosa.
Quando, finalmente, ritirò i vestiti dalla lavatrice, notando che ogni
traccia
di sangue era scomparsa, si tranquillizzò giusto un poco.
Si buttò sul letto, gli occhi sbarrati. Ovviamente, non ci sarebbe
stato verso
di dormire, questo Max lo sapeva. Passò una notte insonne ed inquieta,
fissando
l’orizzonte in attesa di vedere le prime tracce dell’alba. I suoi
pensieri
vagavano da Jocelyn, al mostro, alla sfera sotto il suo letto. Non
aveva idea
di cosa fare.
Quando
il cielo si ingrigì appena, si alzò, fece colazione, e si preparò
lentamente
per andare a lezione. Aveva ragionato sul fatto che sarebbe potuto
sembrare
sospetto non presentarsi, e, inoltre, l’idea di restare nella stessa
stanza con
quella sfera la faceva impazzire. Aveva deciso di lasciarla a casa, per
quanto
la inquietasse il pensiero di sua zia che, solo due piani più sotto, si
aggirava ignara. Tuttavia, lasciarla in macchina in un parcheggio
brulicante di
studenti le parve un’idea ancora peggiore. Così, distrutta, ma incapace
di
sentire la stanchezza, salì in macchina, mise in moto e partì alla
volta di
Heathfeld, come ogni mattina.
Alice
Alice
scivolò nel posto accanto a Max a informatica, Alex al seguito. La
ragazza
fissava nel vuoto, il viso appoggiato sul palmo della mano, gli occhi
sbarrati,
e sembrava non avere un bell’aspetto. “Max?” Alice la chiamò, incerta,
ma lei
non ebbe reazioni. “Max. Max!” Alice la scosse dolcemente per un
braccio, e Max
sobbalzò sulla sedia, guardandosi intorno stranita. “Ciao. Scusami, non
volevo
disturbarti. È solo che… ehm… sembravi… Stai bene?”, disse, guardandola
con
aria interrogativa. Max strizzò gli occhi e si stropicciò la fronte,
riprendendosi. Era pallida come un cencio. “Sì, sì, io… non ho dormito
molto,
stanotte. Ma sto bene”.
“Beh, ti conviene andare a casa a riposarti, allora” Alex sorrise,
stiracchiandosi, “Perché stanotte ci sarà da uscire di testa!”. Max lo
guardò,
confusa. “S… Stanotte?”, disse, incerta. “Ma sì, il ballo! È stasera,
non
ricordi?”. Alex la guardò, improvvisamente preoccupato. “Non lasciarmi
da solo,
eh!”.
Alice guardò Max stringersi
le braccia intorno alla vita, in un involontario gesto difensivo che le
fece
tenerezza. “Certo che no. Non ti darò buca. Dormirò qualche ora oggi
pomeriggio, ecco”. Max fece un sorriso dall’aria forzata, ma lei
continuò a
osservarla di sbieco per tutta la durata della lezione. Al suono della
campana,
Max si affrettò ad uscire dall’aula, come suo solito, e, come ormai era
tradizione, Alice la seguì, scorgendola in fondo al corridoio mentre si
infilava
in bagno. Aprì leggermente la porta, facendo attenzione a non farsi
notare: Max
stava in piedi, reggendo il suo peso sulle braccia, i palmi delle mani
appoggiati al lavandino, la testa china. Tremava incontrollabilmente.
Alice si infilò all’interno del bagno, mentre Max, alzando il viso, la
scorse
nel riflesso dello specchio. Le sue guance erano rigate di lacrime: Max
le
asciugò frettolosamente con le maniche, nascondendosi il volto. Alice
si
avvicinò con calma, posando una mano sul suo avambraccio, e attese,
finché Max
non sollevò lo sguardo, guardandola finalmente negli occhi. Schiuse le
labbra
per dire qualcosa, ma sembrò non riuscirci: così, si morse il labbro
inferiore,
tremante, abbassando nuovamente gli occhi.
“Cosa c’è che non va?”. Alice la tirò leggermente per un braccio,
facendola
voltare, e poi spingendola indietro, in modo che appoggiasse la schiena
al
lavandino. Max scosse la testa, le mani sul volto. “Max, parlami. Ne
hai palesemente
bisogno”. Max la guardò, finché, con un filo di voce, le disse: “Non
posso. Non
posso, Alice. È pericoloso”. “Se è pericoloso, significa che tu sei in
pericolo, e se è così, io voglio
aiutarti”. Si fissarono negli occhi per qualche secondo, e Alice
sostenne il
suo sguardo, decisa. Infine, Max si raddrizzò di scatto, trascinandola
in un
angolo, e abbassandosi, in modo che i loro volti distassero solo pochi
centimetri. “Cosa mi diresti se ti dicessi che ho visto qualcuno
morire?”,
bisbigliò, a denti stretti. Alice la guardò, scioccata. “Cosa mi
diresti se ti
dicessi che ieri, nel centro commerciale abbandonato, un mostro ha
risucchiato
la faccia di Jocelyn Bennet?”. Aveva una strana luce negli occhi,
sembrava
quasi pazza.
“Penso… penso che tu abbia bisogno di riposarti. Ti riporto a casa, e
lì
possiamo parlarne, che ne dici?”. Max scosse violentemente la testa, e
assunse
un’aria terrorizzata. “No. Non a casa. Non è sicuro”. “Allora andiamo a
casa
mia”, ribatté Alice. “Va meglio, così? Ti faccio un tè o qualcosa, e
potrai
riposarti. Poi, una volta che ti sarai calmata, parleremo di questa
cosa”. Max
si appoggiò al muro, stropicciandosi gli occhi. “Va bene”, disse
soltanto.
Circa venti minuti più tardi, si stavano dirigendo alla macchina di
Max. Alice
aveva lasciato le chiavi della sua ad Alex, ma insistette per guidare.
“Non sei
nelle condizioni”, disse seccamente a Max. Lei la guardò, belligerante,
ma
Alice troncò il litigio sul nascere. “Vuoi restare qui a discutere, o
ci diamo
una mossa? Ti giuro che guido alla perfezione”. Senza dire una parola,
Max la
fissò. Poi, lentamente, estrasse le chiavi della macchina da una tasca
del
giubbotto, e, tenendole tra il pollice e l’indice, le lasciò oscillare
un po’
sopra al palmo teso di Alice, per poi lasciarle cadere all’improvviso.
Lei le
afferrò con uno scatto. “Ottimo”, le sorrise soddisfatta.
Più tardi, Alice la fece
accomodare sul divano: non ci volle molto perché Max crollasse
addormentata,
evidentemente esausta. Alice la guardò: anche nel sonno, non riusciva
ad apparire
rilassata. Si chiese che cosa diamine le fosse successo, e cosa
significasse
quello che le aveva detto nei bagni. Passò qualche ora così, finché non
si
svegliò di colpo, guardandosi intorno. Alice le posò una mano sulla
spalla,
risospingendola a posto, e spiegandole dove si trovasse.
“Oh”. Max si portò una mano
alla fronte, e le scoccò uno sguardo apologetico. “Devo essere
crollata. Mi
spiace, davvero”. “Non preoccuparti”. Alice si morse un labbro,
guardandola. “Ad
ogni modo, grazie. Non… non potevo dormire a casa, e direi che è merito
tuo se
stasera non mi addormenterò sulla spalla di tuo fratello”. Alice sentì
un peso
scivolarle sullo stomaco, a quelle parole: il ballo. Le era passato di
mente.
Max si alzò. “A proposito”, proseguì “credo che farei meglio ad andare
a
prepararmi”. “E la cosa di cui dovevamo parlare?”. Alice si alzò a sua
volta,
immusonita. “Ne… ne possiamo parlare, non so… in un altro momento?” Max
la guardò,
seria. Alice sentì di odiarla: voleva davvero rimandare una cosa così?
“Sul
serio, Al. Non me la sento, adesso”. Il fatto che l’avesse chiamata con
un
nomignolo le fece un effetto strano. La guardò, e si sentì intenerire
alla
vista del suo viso provato. “Non c’è problema”, disse, tentando di
sorriderle. “Ci
vediamo stasera, allora”. Quando ballerai
con mio fratello, aggiunse mentalmente.
Un’ora più tardi, in casa Dawson, erano tutti presi dai preparativi.
Alice se
ne sarebbe stata volentieri a casa: non le andava di guardare suo
fratello
avere Max tutta per sé per una sera, ma, allo stesso modo, non si
spiegava il perché
di questi suoi pensieri.
Sentì Ben imprecare, al piano di sotto. Allacciò la zip del suo vestito
blu,
indossò i tacchi alti e si guardò allo specchio: era bella, Alice,
quella sera.
I capelli lisci e neri le scendevano dolcemente sulle spalle, e il
colore del
vestito si intonava ai suoi occhi.
Scese le scale, trovando
Alex in agitazione nel suo smoking nero, e Ben che, sorprendentemente,
sembrava
nelle sue stesse identiche condizioni.
“Cosa succede?” chiese lei, circospetta.
“Jocelyn non si fa sentire da ieri”. Ben camminava avanti e indietro,
passandosi una mano tra i capelli di tanto in tanto. “Non posso credere
che mi
dia buca per il ballo, quella stronza!”. Sferrò un calcio al muro. Poi,
assunse
un’aria preoccupata. “Non le sarà successo niente, vero?”, chiese,
torcendosi
le mani. “Cosa mi diresti se ti dicessi
che ieri, nel centro commerciale abbandonato, un mostro ha risucchiato
la
faccia di Jocelyn Bennet?”. Le parole di Max le risuonarono
nelle orecchie,
e lei sentì un peso sul cuore, sebbene le trovasse incredibili. “Va’ a
prenderla a casa, Ben. Qualunque cosa sia successo, te lo spiegherà”,
rispose
quindi Alice, semplicemente. “Giusto” borbottò lui, dirigendosi alla
porta, e
spalancandola solo per trovarsi davanti Brett, che sfoggiava un
sorrisone nel
suo completo grigio. “Comportati bene”, gli ringhiò Ben, uscendo.
“Non c’è bisogno di raccomandazioni. Io sono un gentiluomo, non è vero,
piccola?”. Brett ammiccò ad Alice, che sentì lo stomaco rivoltarsi.
“Sei più
figa del solito, stasera”, aggiunse. “Sì, grazie” disse lei, senza
guardarlo, e
facendo per uscire.
“Al?”. Alice si voltò, al suono della voce di suo fratello, il cui
sguardo
oscillava tra Brett e lei, a disagio. “Non… non è che potreste
accompagnarmi?”.
Alice lo fissò, sorpresa. “Non devi passare a prendere Max?”, chiese.
“Viene da sola…”. Alex si
guardò i piedi, arrossendo. Brett rise sguaiatamente, ed Alice sentì la
bile
risalirle lungo lo stomaco: aveva voglia di prenderlo a pugni, e la
serata non
era ancora iniziata. “Allora vieni con noi”, disse, secca.
Poco più tardi, davanti all’ingresso della sala da ballo della scuola,
dove si
teneva la festa, Alice si chiese mentalmente, per l’ennesima volta, chi
diavolo
gliel’avesse fatto fare di obbedire alle convenzioni sociali ed andare
al ballo
con Brett, che aveva sparato una battutaccia dietro l’altra, mentre
guidava.
Alex si tormentava le mani, guardandosi intorno. “Ehi, nanetto”. Brett
gli
circondò le spalle con un braccio. “Sei sicuro che non ti abbia dato
buca?
Guarda che se così fosse te ne troviamo un’altra che sia… alla tua altezza” Brett ridacchiò da
solo, ma Alex, guardando alle
spalle di Alice, parve illuminarsi.
“E’ arrivata”, disse. Alice si voltò. Max si fermò a pochi passi da
loro, di
una bellezza mozzafiato in un vestito rosso scuro. Un’elegante treccia
raccoglieva
parte dei suoi capelli, lasciando alcuni dei suoi boccoli ricadere in
una
cascata di lato. Alex le si avvicinò, e lei gli sorrise, esitante.
Arrossendo,
ma sorridendo a sua volta, lui le prese il braccio. “Sei davvero
bellissima”,
disse, raggiante. Max rise. “Anche tu non sei niente male, piccoletto”.
Non
indossava i tacchi, ma era comunque più alta di Alex. “Che ne direste
di
entrare, madame?”. “Ne sarei deliziata, monsieur”. I due risero
ancora, e, oltrepassandoli, Max lanciò uno sguardo di fuoco a Brett,
sorridendo
invece frettolosamente ad Alice. Lei sentì le guance andarle a fuoco.
“Beh, ci diamo una mossa?”
disse Brett, afferrandola per un braccio e quasi trascinandola dentro,
mentre
lei, trasognata, seguiva Max con lo sguardo.
La sala da ballo era arredata elegantemente, e una massa di studenti
avvolti in
vestiti colorati occupava già la pista da ballo. Brett la condusse al
banco dei
drink, che era già gremito, dove iniziò a sbraitare e ridere con i suoi
amici,
dandole di tanto in tanto qualche pacca sulla spalla. Le ragazze che li
accompagnavano socializzavano tra loro, ma Alice, a braccia conserte,
scrutava
la sala alla ricerca di Max e di suo fratello. Li vide in un angolo,
vicino ad
un paio di altri studenti, mentre chiacchieravano. Max sorrideva e
rideva come
Alice non l’aveva mai vista fare: sembravano divertirsi. Incurante di
quello
che accadeva intorno a lei, mosse qualche passo nella loro direzione.
Brett la
afferrò per un gomito, trattenendola. “Hey, dove vai, bellezza?”,
disse,
traendola a sé. Infastidita, Alice pose un minimo di distanza tra se
stessa e
il petto di lui. “Vado da mio fratello”, rispose a denti stretti.
“Oh, assolutamente no! Ora andiamo a ballare!”, rispose lui. La
trascinò in
pista, dove le si allacciò stretto, muovendosi sconclusionatamente a
tempo di
musica. Alice adorava ballare, e non solo in modo professionistico, ma
sentì l’impulso
di vomitargli sulle scarpe.
Dopo quelli che sembrarono alcuni giorni di quella tortura, intravide
nuovamente Max ed Alex sulla pista da ballo. Lei sembrava leggermente
preoccupata, mentre lui le mostrava, probabilmente, come ballare. Alla
fine,
parve prenderci la mano, e la canzone cambiò in un lento. I due
rimasero a
distanza, ma parlavano fitto, lui che la guidava con le mani sulla sua
vita, e
lei che lo seguiva, le braccia intorno al suo collo.
Alice si sentì bruciare dentro. All’improvviso, Brett ficcò la faccia
nell’incavo
tra il suo collo e la sua spalla, premendole le labbra sulla pelle, e
lei fece
un balzo all’indietro, orripilata.
Combattuta tra il desiderio di picchiarlo, di picchiare Alex, di
picchiare Max,
o semplicemente di chiederle di ballare, riuscì solo a ringhiare “Ho
bisogno di
un po’ d’aria”.
Brett fece un sorriso
sornione, che lei ignorò. “Molto bene, allora. Facciamo una
passeggiata. Una
signorina come te non può uscire da sola”.
I due si diressero all’uscita,
mentre lui le avvolgeva un braccio intorno alla vita.
Una volta fuori, lei inspirò profondamente, ad occhi chiusi, per
calmarsi. Non
aveva senso che si sentisse così. Certo, il suo partner faceva schifo.
Per lo
meno, ora Brett teneva la bocca chiusa. Era piacevole camminare in
silenzio,
pensò. Almeno, lo pensò finché non sentì il suono della macchina di
Brett che
si apriva.
All’improvviso, Alice realizzò che si trovavano nel bel mezzo del
parcheggio.
La musica della festa si sentiva solo in lontananza, e Brett spalancò
la
portiera della macchina, in attesa.
“Che stai facendo?”. Alice indietreggiò istintivamente. Brett rise. “Va
bene
essere avventurosi, ma non vorrai mica farlo qui fuori, no?”.
“Fare cosa?”. Il sorriso di Brett
si
irrigidì un poco. “Coraggio, Alice. Non fare storie, ora. Non è
divertente”.
“Credo che tu abbia capito male. Io volevo solamente fare una
passeggiata,
Brett”, rispose lei, fredda.
“Certo, e sappiamo tutti come finiscono le passeggiate,
no? Entra in macchina”, rispose Brett, spazientito.
“No. Io torno dentro”.
“Certo, come no!”. Brett la
afferrò per un braccio, tirandola a sé. “Lasciami!” strillò lei, la
voce rotta
dal panico. “Entra nella cazzo di macchina!”.
I due lottarono brevemente,
ma lui era troppo grosso, troppo forte. Prendendola per i polsi, la
bloccò,
spingendola contro la fiancata della vettura. Lei sbatté contro la
portiera, cercando
inutilmente di liberarsi. Le premeva addosso con tutto il corpo.
“Smettila-smettila, che ti piace!”.
Soffocò le sue
grida forzandola in un bacio. Alice tentò di morderlo, di calciarlo, ma
lui
rise, facendo per sollevarle la gonna.
Un pugno sbucò dal nulla, colpendo Brett sulla tempia, e facendolo
cadere. Alice
si piegò in avanti, le lacrime che le rigavano il volto. Scivolò
lentamente
lungo la fiancata della macchina. Lui gemette, sfiorandosi la testa.
Max
torreggiava sopra di lui, lo sguardo in fiamme. “Vattene”, scandì. La
sua voce
era una lama di ghiaccio, letale. Sembrava pronta ad ucciderlo.
“Fatti i cazzi tuoi, Caulfield, dannazione!”. Brett fece per scattare
in piedi,
caricando Max, ma, prima che potesse fare qualunque cosa, lei allungò
la mano,
le dita contorte come se stesse stringendo qualcosa. Brett si portò le
mani
alla gola, tossendo, scivolando a terra, e venendo poi rialzato su,
come se la
mano invisibile di un gigante lo stesse trascinando. Sbatté contro un
palo,
cercando di togliersi la morsa invisibile che lo stingeva al collo. Max
fece
qualche passo in avanti, gli occhi fissi su di lui, la mano tesa e
un’espressione
di puro odio sul volto. Brett iniziò a diventare viola, gli occhi
strabuzzati.
Alla fine, respirando affannosamente, Max abbassò la mano, riluttante,
e lui
cadde a terra, tossendo, senza fiato. Poi, si voltò verso Alice,
aiutandola a
rialzarsi, e fece qualcosa che lei non si sarebbe mai aspettata: la
abbracciò,
stringendola forte a sé. Colta di sorpresa, Alice si ritrovò a
ricambiare l’abbraccio,
aggrappandosi a Max come un naufrago ad un salvagente. Nascose il viso
nella
sua spalla, singhiozzando e tremando.
“Stai bene?”, mormorò Max, dolcemente. Alice annuì con forza. “Ora sì”,
rispose. “Allora, per favore, puoi portarmi via, prima che io lo
ammazzi?”. La
voce di Max tremò pericolosamente. Alice la prese per mano, e si
allontanarono,
fino a raggiungere la vecchia Golf di Max. Salì, e Alice la imitò. Max
mise in
moto, guardando fisso di fronte a sé, e iniziò a guidare, restando in
silenzio.
Alice guardò Heathfeld allontanarsi dal finestrino, ancora scossa.
“Non ti sto rapendo”, disse infine Max. “Ti porto a bere qualcosa di
caldo. E
ho bisogno di mettere qualche chilometro tra me e Brett, altrimenti
stasera mi
arrestano”. Per qualche motivo, Alice non pensò che fosse
un’esagerazione.
“Grazie”, disse solo. “Se
non ci fossi stata tu, io… non so come sarebbe finita. Anzi, lo so. È
tutta
colpa mia”, aggiunse. “Me l’avevi detto di Brett, mi avevi avvertita, e
io
invece sono andata lo stesso con lui, per dare retta a…”. “Zitta”, la
interruppe seccamente Max. “Ascoltami bene. Niente di quello che è
successo
stasera è colpa tua. L’unico che ha colpe, qui, è quell’idiota di
Brett”.
Pronunciando il suo nome, Max strinse le mani sul volante, al punto che
le sue
nocche sbiancarono. Alice non sarebbe riuscita a esprimere a parole la
gratitudine che provava, così restò zitta, guardando la città
addormentata
scorrere di fianco a loro.
Poco più tardi, stavano entrando nella caffetteria della zia di Max. Il
locale
era vuoto, e Chelsea Caulfield, dietro al bancone, stava asciugando dei
bicchieri.
“Max!”, esclamò, vedendola
entrare. Sembrava sorpresa di vederla. Max fece cenno ad Alice di
sedersi a un
tavolo appartato, in un angolo, e scambiò qualche parola con la zia.
Tornò
pochi minuti dopo, tra le mani un vassoio con due fette di torta, due
tazze di tè
fumante e un bicchiere d’acqua.
Scivolò sul divanetto
accanto ad Alice, disponendo le vivande di fronte a loro. “Bevi”,
ordinò poi,
porgendole l’acqua. Lei obbedì, non rendendosi conto di quanta sete
avesse
finché non ebbe vuotato il bicchiere.
“La torta è al triplo cioccolato-una delle mie preferite. Spero non ti
dispiaccia che mi sia presa la libertà di scegliere anche per te”.
Alice rise debolmente. “Non credo potrei mai lamentarmi di ricevere una
torta
al triplo cioccolato”, rispose. Ne assaggiò una forchettata: era
deliziosa.
“Non saresti dovuta uscire da sola con Brett, comunque”, osservò Max,
addentando la sua.
“Lo so. Brett è orribile. Non volevo andare con lui, stavo uscendo per
i fatti
miei. Ero arrabbiata… e mi ha seguita”. Alice si sentì riprendere
calore piano
piano, la paura che scivolava via, mentre si lasciava cullare dalla
voce
morbida di Max.
“Arrabbiata?”, disse Max,
interrogativa. “Sì. Tu e Alex vi stavate divertendo, e io ero bloccata
con quello”, disse, infilzando i
resti della
torta con veemenza.
“Ah. Eri gelosa, quindi”, disse
Max,
l’ombra di un ghigno che le aleggiava sulle labbra. “Non ero- sta’
zitta!”,
ribatté Alice, arrossendo suo malgrado. “Come hai fatto a trovarmi,
comunque?”.
“Ti ho vista uscire con
Brett, e ti ho seguita. Gli stavo leggendo la mente da tutta la sera,
non mi
piaceva affatto”. “Quindi, mi stavi spiando?”,
la stuzzicò Alice, dandole un colpetto col gomito. “Stavo tenendo d’occhio Brett. E ho fatto bene,
direi”. Alice rabbrividì,
senza rispondere: ripensare a quello che era appena successo le faceva
venire
una morsa gelata allo stomaco.
“Sei tranquilla, ora?”,
chiese Max. Alice ci pensò su. Le rivenne in mente la sensazione di
nausea che
aveva provato nell’avere Brett addosso. In quel momento, le era quasi
sembrato
suo padre. “Sì, lo sono. Mi sa… è che queste cose hanno particolare
effetto su
di me… da quando mio padre…”. Alice si interruppe bruscamente.
“Da quando tuo padre…?” la incalzò Max. Alice le sorrise. “Mi spiace,
Misteriosa Max, ma anche io ho i miei segreti. Forse, quando ti aprirai
anche
tu, te ne potrò parlare”, tagliò corto lei. Max non insistette. “Ad
ogni modo,
grazie per avermi salvata. Sei il mio angelo
custode”, le disse, con un sorriso leggermente malizioso. Max
fece una
smorfia. “Taci, Dawson. Lo sai che avrei salvato qualunque altra
ragazza, al
tuo posto”, ribatté. Lei rise. “Però, non stavi controllando gli
accompagnatori
di ogni altra ragazza questa sera. Stavi controllando il mio.
Chissà quante ragazze non
stai salvando, in questo momento, solo per stare qui con me”.
“Beh, immagino che nessuna di quelle ragazze stesse morendo di gelosia al pensiero di non poter ballare
con me, al posto del proprio
fratello
gemello”, rispose Max, sorridendole. Alice non rispose: invece, prese
un po’
della glassa rimasta nel piatto e gliela spalmò in faccia. “Hey! Ma
quanti anni
hai, Biancaneve? Cinque?”. Lottarono un po’, e nel processo altra
glassa finì
sulle loro facce. Infine, si ripulirono, e Alice appoggiò la testa
sulla spalla
di Max, sospirando. La sentì irrigidirsi, e poi rilassarsi: infine, Max
allungò
una mano, coprendo la sua, sul tavolo, e stringendola, forse per
confortarla.
Rimasero un po’ così, prima che Alice si voltasse a guardarla. Il suo
viso era
un po’ troppo vicino: si ritrovò a fissare i suoi occhi verdi, persa,
avvicinandosi ancora, involontariamente.
La borsa di Alice squillò e vibrò, facendole sobbalzare entrambe. Si
allontanarono, arrossendo, mentre lei frugava nella borsa, estraendo
finalmente
il cellulare, e rischiando di scaraventarlo a terra grazie al tremito
delle
mani. Riuscì a rispondere. “Che c’è?”, disse, portandolo all’orecchio.
Era
Alex.
“Stai bene? Dove sei? Sei con Brett? Max è con voi?”, esclamò,
preoccupato. “Sto
bene, sto bene, Alex”, rispose Alice. “Sono con Max. Ora arriviamo, e
ti
spiego, okay? Tranquillo”. Scambiò ancora qualche battuta con il
fratello,
prima di riattaccare. Si rivolse quindi a Max. “Penso che sia meglio
tornare,
prima che chiamino la polizia”, disse. Max si alzò. “Scommetto che ora
tuo
fratello è felice che l’abbia fatto venire in macchina con te, per non
lasciarti sola col gorilla”, fece, calma. “Cosa? L’hai fatto apposta?”,
chiese
Alice. Max si limitò a farle l’occhiolino.
Una mezz’oretta più tardi, stavano parcheggiando vicino alla scuola.
Scesero, e
Max le mise un braccio intorno alle spalle, scortandola nell’oscurità.
Alice si
rese conto che stavano per passare di nuovo vicino alla macchina di
Brett, e si
sentì mancare. Cercò di trattenersi, quando si rese conto che Max si
era
bloccata. La guardò, interrogativa. Fissava qualcosa di fronte a loro,
ed era
sbiancata. Alice seguì il suo sguardo, e urlò. Sotto al lampione,
qualcosa di
grosso e scuro stava divorando quello che restava di Brett. Al suo
grido, la
creatura si voltò, emettendo un suono a metà tra un sibilo e un
ruggito. Non
aveva né naso né occhi, solo una lunga fenditura piena di denti aguzzi
alla
base della testa. La creatura scattò verso di lei, ma Max si frappose
tra di
loro, salvandola per la seconda volta. Sollevò la mano destra, e la
creatura
volò all’indietro, uggiolando. Max si preparò al combattimento, ma, con
un ultimo
ululato di dolore, il mostro fuggì, perdendosi nell’oscurità.
Max cadde in ginocchio, reggendosi il petto, ansimante. Alice si
accovacciò al
suo fianco. “Max! Max! Stai bene?”. Lei annuì, risollevandosi con
calma, gli
occhi fissi sul cadavere di Brett. Un’espressione di orrore le deformò
il viso.
“L’abbiamo lasciato qui, da solo…”. “Max, non è stata colpa tua! Max,
ascoltami! Non potevi saperlo…”. “Sì, che potevo. Lo sapevo. Ho già
visto
quelle cose”, rispose lei. “Cosa… cosa era?”. Cose?
Significava che ce n’era più di una in giro? Alice la prese
per le spalle, scuotendola. “Max, parlami,
dannazione!”.
“Lo farò. Ti parlerò. Ma dobbiamo andarcene da qui, e in fretta.
Potrebbe
tornare. Corri a prendere tuo fratello, io vi aspetto in macchina
davanti all’ingresso”,
disse Max, agitata. Alice la guardò, nel panico. “Non ti lascio sola…”
cominciò. “Vai!”, disse
semplicemente
Max, correndo verso la macchina. Alice si voltò, e corse a perdifiato
verso la
sala da ballo, cercando di individuare Alex tra la massa di studenti.
Il
fratello era in attesa vicino alla porta. Lei lo prese per un braccio,
tirandolo. “Cosa stai facendo? Al, fermati!”. “Vieni!
Vieni e basta!”. La macchina di Max spuntò sgommando, e i
due si fiondarono dentro. “Che sta succedendo?”, chiese Alex, dal
sedile
posteriore.
“Non lo so nemmeno io”. Max ingranò la marcia e partì a tutta birra.
“Ma mi sa
che ci tocca scoprirlo”.