The
Biggest Challenge
Perdono
parte seconda
Sakura strinse le labbra fino a
formare
una linea inespressiva, la fronte normalmente liscia increspata da una
singola
ruga obliqua. Le iridi smeraldine si piantarono sui volti delle sue
amiche,
scrutandole e chiedendosi per quale diavolo di motivo Ino e Tenten
apparissero
così rilassate.
Non
sanno mai prendere le cose con serietà.
Si trovavano in casa Uzumaki.
Normalmente,
quella sarebbe stata una serata come tante altre, dedicate al passare
del tempo
assieme, in compagnia di qualche bottiglia di vino. Tuttavia,
considerando che
Hinata cinque giorni prima aveva buttato fuori di casa il marito,
Sakura non
era sicura che ridere e scherzare fosse il comportamento più
adatto da tenere.
In quell’istante, Hinata
raggiunse le
amiche al tavolo del salotto, in mano un vassoio con tè e
dolcetti. La Sannin
accettò con un cenno del capo la bevanda calda,
approfittandone per osservare
da vicino l’amica. Hinata si comportava normalmente, ma il
suo occhio, ben
allenato a riconoscere sintomi negli ammalati, notò una
tensione latente nei
tratti della Hyuga, un malessere interiore che la kunoichi cercava di
nascondere dietro un caldo sorriso.
“Allora!” Ino
si sgranchì le spalle,
fissando con un sorriso Hinata. “Pronta a festeggiare la tua
ritrovata
libertà?”
“A volte mi chiedo come
mai tuo figlio non
si sia ancora suicidato…” borbottò
Sakura, rivolgendole un’occhiata di
rimprovero. “Siamo qui per aiutare un’amica, non
per dire stupidaggini!”
“Appunto! E cosa
c’è di meglio di un
locale pieno di manzi per dimenticare le proprie pene
d’amore?” replicò la
Yamanaka.
Hinata si trincerò
dietro un sorriso
diplomatico.
“Ti ringrazio per
l’offerta, Ino.”
mormorò, sorseggiando la propria tazza. “Ma non
posso uscire, di sopra ci sono
i bambini.”
“E ti
pareva…”
“Non dobbiamo per forza
impicciarci dei
problemi di Hinata.” dichiarò la Haruno.
“E’ vero che vuoi aprire un negozio di
armi ninja, Tenten?”
L’allieva di Gai sorrise.
“Diciamo che con Metal in
casa non posso
più assentarmi per le missioni come facevo prima.”
spiegò, addentando un
dolcetto. “Quindi sarei tentata di provare ad aprire un
negozio tutto mio di
armi ninja. Sarebbe bello poter sfruttare questa mia
passione.”
“Sì, tutto
magnifico!” Ino agitò una mano
con impazienza. “Perdonami Ten, ma in questo momento sono
molto più interessata
alla vita sentimentale della nostra cara Hinata!”
“Ino…”
Sakura sospirò, esasperata. “Hai la
sensibilità di un cucchiaino!”
“Cosa
c’è di male nel voler consolare
un’amica, scambiandosi nel frattempo qualche pettegolezzo
piccante?” con fare
cospiratorio, la kunoichi bionda si avvicinò ad Hinata.
“Quanto lungo c’è l’ha,
Hinata?”
“Ino!” le gote
della Hyuga si tinsero di
rosso, vergognandosi a morte della domanda impudica
dell’amica.
“Dai, ora che vi siete
lasciati puoi
dircelo! E’ formato Bijuu, oppure mignon?”
“Dacci un
taglio!” Sakura zittì l’amica
appena in tempo: il volto di Hinata si era tinto di un intenso rosso
tizzone,
come se qualcuno le stesse riempiendo la testa di acqua bollente.
“Siamo qui
per aiutarla, non per spettegolare come le peggiori oche!”
“D’accordo!”
Ino sbuffò, chiaramente
contrariata all’idea di non poter spettegolare su quanto
fossero stronzi i
maschi. Afferrò un paio di dolcetti, e si mise tranquilla a
sorseggiare il
proprio tè.
“Non dovete pensare che
io stia male, o
altro.” osservò Hinata, ritornando a sorridere
diplomaticamente. “Sto bene,
dico davvero.”
“No che non stai
bene.” ribatté subito
Tenten. “Nessuna donna potrebbe stare bene quando il proprio
matrimonio è
appeso ad un filo.”
“Parla per
te…”
“Ino, mangia e stai
zitta!” ringhiò la
Sannin, passandole l’intero vassoio dei biscotti.
“Sei pazza?! Guarda che
non sono come te,
che mangi addirittura i carboidrati!”
Hinata non rispose, osservando con
fare
vagamente interessato l’ennesimo battibecco tra Sakura ed
Ino. La sua mente
volò distante da quella casa, tornando a soffermarsi su
ciò che negli ultimi
giorni aveva disturbato il suo sonno.
La prima domanda che si era posta
era
perché. Perché Naruto aveva tenuto un simile
comportamento? Per quale motivo si
era rifiutato di rivelarle di aver stretto un simile legame con
un’altra donna?
Davvero suo marito aveva scelto di non riporre fiducia in lei, dopo
tutto
quello che avevano affrontato assieme?
Forse
è colpa mia. Aveva
riflettuto molto anche su di sé, domandandosi se la nascita
di quel legame
fosse da attribuire anche a lei. Era stata una cattiva compagna?
Possibile che
Himawari possedesse qualcosa che lei non aveva, qualcosa che aveva
attratto
Naruto, suo marito?
Himawari… il solo pensiero
che sua figlia tenesse lo stesso nome di quella donna sconosciuta la
riempiva
di disgusto. Naruto poteva avere una motivazione per nasconderle il suo
legame
con un’altra donna, ma darne il nome alla loro bambina lo
trovava
ingiustificabile, un gesto che non si sarebbe mai aspettato dalla
persona che
più ammirava e rispettava al mondo.
No,
non è colpa mia. La
rabbia per il nome incriminante della figlia le diede la forza di
respingere
ogni accusa sulle spalle del marito. Era colpa di Naruto se aveva perso
la
testa per un’altra donna, era colpa sua se aveva deciso di
non rivelarle nulla,
scegliendo di dare a loro figlia il nome della persona con la quale
aveva
tradito la sua fiducia ed infranto i loro voti coniugali.
Eppure, nonostante tutto,
sentì di provare
altro oltre alla rabbia. Era qualcosa di profondo, che si agitava in
sordina,
malmostoso e cupo. Tentò di ignorarlo, ma
cominciò a capire che non avrebbe
potuto farlo per sempre. Dovette affrontare il pensiero di una lontana
missione
segreta, tenuta nascosta al suo fidanzato dell’epoca per sei
lunghi anni.
Forse
io…
“Hinata?” la
voce di Tenten la riscosse di
colpo, facendola ripiombare bruscamente nel suo salotto. Vide tre paia
di occhi
squadrarla con scrupolosa attenzione, alla ricerca di un indizio su
cosa stesse
pensando, donandole la sgradevole sensazione di essere esposta in una
vetrina.
“Perdonatemi.”
mormorò, sfoderando
nuovamente il suo sorriso più diplomatico. “Ero
sovrappensiero.”
“E a cosa stavi
pensando?” chiese Ino. “A
come farla pagare a tuo marito?”
Sakura sospirò,
chiedendosi se non fosse
il caso di prendere a pugni la Yamanaka, ma decise di contenersi. Non
erano lì
per litigare ma per aiutare un’amica in difficoltà.
“Non stavo pensando a
nulla in
particolare.” rispose la Hyuga, scuotendo la testa.
“Con due bambini da badare,
arrivo alla sera sempre sfinita.”
“Hinata, piantala di fare
l’indifferente!”
sbottò Ino. “Non sei mai stata brava a mentire.
E’ palese che stai male per
Naruto, non devi vergognarti di questo con noi.”
La Hyuga non rispose. Strinse le
mani, le
iridi lilla oscurate da un velo di tristezza. In cuor suo, sapeva che
Ino aveva
ragione, che non aveva senso nascondersi dietro un dito innanzi a loro,
le sue
amiche di sempre. Eppure, una parte di lei respingeva l’idea
di sfogare il suo
malessere, di metterle al corrente di ciò che le corrodeva
la mente come il più
letale dei veleni. Probabilmente era l’orgoglio a frenarla,
la malsana invidia
che la portava a domandarsi come mai solo lei avesse un marito che
aveva
tradito in quel modo la sua fiducia, tornando a chiedersi se non fosse
dovuto
in parte anche al suo comportamento.
Il tocco di Sakura sulla sua spalla
la
fece sussultare, riscuotendola nuovamente dai propri pensieri.
“Ci conosciamo da quando
siamo bambine.”
dichiarò sorridendo la Sannin. “Non devi pensare
che ti giudicheremo o altro,
lo sai. Tenerti dentro tutto il malessere che provi ti
avvelenerà la mente e
basta.”
“Immagino di
no.” sospirò la bruna,
scuotendo la testa. “Ma il punto è che non ho
proprio idea di cosa fare.” si
morse le labbra, alla ricerca delle parole giuste. “Io e
Naruto-kun… conviviamo
da anni.” tacque per un istante, sentendo una fitta al petto
nel nominare il
marito. “Ma dopo… quello che è
accaduto, non so più cosa debbo fare, cosa
voglio, cosa sia giusto.” rivolse una muta richiesta
d’aiuto alle altre, le
quali cercarono in fretta le parole giuste da dire.
“Io credo che sia solo
questione di
tempo.” esordì Tenten. “Posso capire che
in questo momento ti senti sperduta,
ma non è la fine del mondo. Devi solo lasciare correre
qualche tempo. Se tra qualche
mese sentirai ancora di provare un sentimento per Naruto, e lui
ricambia,
allora vuol dire che il vostro legame è forte, che non
verrà rotto da un errore
vecchio di anni.”
“E come faccio ad essere
sicura che lui
provi ancora qualcosa per me?”
La madre di Metal tacque. Era
chiaro che
nessuno poteva avere quella certezza, a parte Naruto.
“Secondo me, la cosa
più importante adesso
è un’altra.” fu Sakura questa volta a
parlare. “Prima di prendere una
decisione, qualsiasi decisione, devi capire cosa provi per Naruto, se
sei
ancora innamorata di lui. Senza questa risposta, qualsiasi altro
discorso è superfluo.”
Hinata tacque. Era ancora
innamorata di
suo marito? Non si era mai posta questa domanda, forse per timore di
ricevere
una risposta per la quale non si sentiva assolutamente pronta. Naruto
era stato
il suo punto di riferimento, colui che le aveva permesso di diventare
una donna
forte e sicura di sé. Aveva imparato a conoscerlo,
comprendendo come dietro
quel sorriso caldo, che portava sempre sulle labbra, si nascondevano
dubbi,
dolore e paure. Naruto era un uomo intimamente fragile, che si era
temprato
attraverso molte perdite ed un dolore ai limiti dell’umana
sopportazione. Non
era perfetto, non era invincibile e dietro la corazza dorata che si
portava
appresso da più di dieci anni c’era tutto tranne
che l’eroe sicuro di sé a cui
tutta la nazione era abituata a vedere.
Forse era stata proprio quella
fragilità,
il peso del dover essere a tutti i costi un eroe che l’aveva
spinto tra le
braccia di un’altra donna, capace di poter comprendere quel
fardello.
La rabbia riprese a divampare
dentro il
suo stomaco, inacidendogli il sangue. Continuava a non accettare
l’idea che suo
marito non si fosse fidato di lei, chiedendosi cosa l’avesse
spinto a legarsi
così tanto ad un’altra donna e se tutto
ciò che avevano costruito negli ultimi
anni assieme non fosse altro che frutto dell’ipocrisia, di
aver voluto
nascondere il proprio tradimento dietro una montagna di bugie e
sorrisi, di
gesti premurosi e di dichiarazioni d’amore.
Tradimento, un sentimento che
Hinata aveva
imparato a conoscere bene, fin da quando era una bambina. Si era
sentita
tradita da sua madre, da una genitrice che l’aveva
abbandonata in mezzo ad un
mucchio di parenti altezzosi che la disprezzavano, con una sorella
minore a cui
badare ed un cugino che la odiava per tutto ciò che
rappresentava. Non aveva
mai avuto il coraggio di pensarlo veramente, ma una parte di lei, la
sua
essenza più nascosta, era convinta che la sua genitrice
fosse morta di
proposito, che avesse deciso di sua spontanea volontà di non
proseguire a
vivere. Con il tempo quel pensiero era scomparso, trasformando la
rabbia ed il
dolore in una sordida amarezza, ma ora le sembrava che il tempo fosse
scivolato
indietro. Era di nuovo una bambina di otto anni che non capiva per
quale motivo
la persona a cui era più legata l’avesse lasciata
sola.
Chiuse gli occhi. Rivide il volto
sconvolto di Naruto, la sua voce bisbigliare la propria colpa. Non
aveva
provato a scusarsi, non era rimasto per tentare di dissuaderla. Si era
assunto
tutta la colpa, come sempre, deciso a non rinnegare il gesto alla base
della
loro rottura.
E’
solo colpa sua… l’essenza
più nascosta di lei emerse rapida, ricolma di acido rancore.
Lo amavo, ho fatto il possibile per essere
una buona compagna e lui mi ha tradita alla prima occasione.
No! La sua mente si
ribellò all’idea di scaricare solo
sull’Uzumaki le colpe del fallimento del
loro rapporto. Come posso accusarlo di
avermi tenuto all’oscuro di tutto? L’ho spiato a
sua insaputa per sei anni. Gli
ho detto che l’amavo, che volevo costruirmi una famiglia con
lui, sono andata a
letto con lui… ed ogni volta che l’ho detto, io
gli stavo nascondendo ogni cosa.
La rabbia svanì,
lasciando il posto ad una
sensazione diversa: acida, che le entrò sotto la pelle,
procurandole l’amaro in
bocca. Come poteva accusare Naruto di non voler condividere un simile
segreto
se lei per prima aveva fatto lo stesso? Da quale pulpito poteva
rinfacciargli
le sue colpe? Accusarlo di essere l’unico responsabile
dell’ennesima crisi del
loro matrimonio?
No…
si
morse il labbro
inferiore fino a spaccarselo, mescolando il sapore ferroso del sangue
con
quello amaro del senso di colpa. Non ho
nessun diritto per poterlo criticare. Io non sono meglio di lui.
Sentì la presa sul
proprio stomaco
affievolirsi, come se ammettere le proprie colpe la facesse sentire
meglio. Non
sapeva ancora se ciò che provava per Naruto fosse lo stesso
sentimento di
prima, e neanche se voleva averlo di nuovo nella sua vita. Ma per la
prima
volta da quando aveva scacciato di casa suo marito, Hinata
capì che quella
situazione era anche colpa sua e la cosa stranamente la
rinfrancò: era
sicuramente più facile comprendere sé stessa di
qualsiasi altra persona, anche il
suo compagno.
Riaprì gli occhi,
constatando come le sue
amiche la stessero fissando, in attesa di un responso.
“Io…”
strinse le mani, cercando di farsi
forza. “Non so se amo ancora Naruto-kun.”
esordì infine. “Ma so che questa
situazione è figlia delle colpe di entrambi.” vide
Sakura annuire e ciò la
rinfrancò. “Lui non è il solo colpevole
e quindi… credo che dovremo parlarne.
In modo da capire… cosa fare del nostro
matrimonio.”
“Questa è
esattamente la risposta che mi
aspettavo.” la Sannin sorrise all’amica,
stringendole la mano. “Mettersi in
discussione, accettando il confronto con l’altro, sono il
primo passo per
risolvere questa situazione.”
“Io avevo proposto la
castrazione…”
“Ino!”
“Che
c’è? Se proprio non vuoi usare il
martello puoi anche usare la castrazione chimica! Due pasticche al
giorno
nascoste nel cibo per due settimane e ciao ciao
mascolinità!”
Tenten scoppiò a ridere,
soffocandosi con
il tè, mentre Sakura ed Hinata non sapevano se imitarla o
rimproverare la
Yamanaka per i suoi propositi attentatori nei confronti della
virilità
dell’Uzumaki.
“Comunque…”
l’Haruno tentò di riportare la
conversazione su un piano più serio. “Il mio
consiglio finale è questo: parla
con Naruto, spiegatevi, e solo allora prendi una decisione
definitiva.”
“Immagino che sia la
scelta migliore.” Hinata
sorseggiò dalla tazza, sentendo un calore nello stomaco che
con il tè aveva
poco a che fare. Non aveva fatto chiarezza riguardo i propri sentimenti
nei
confronti di Naruto, ma aveva compreso meglio ciò che
sentiva e soprattutto ora
sapeva cosa doveva fare. “Nei prossimi giorni
cercherò di contattarlo.”
“Comunque, nel caso
parlare non funzioni,
io continuo a sostenere l’idea del martello.”
“La possiamo piantare,
Ino?” domandò
esasperata Sakura. “Non serve che istighi Hinata alla
violenza, lei è magnifica
così com’è.”
“Scempiaggini! Una donna
che si rispetti
deve essere violenta, altrimenti poi gli uomini si sentono in diritto
di fare
le peggio porcate!”
“Solo perché
tu sei pazza, non significa
che tutte dobbiamo prendere esempio da te.”
“Non accetto critiche da
una persona con
la fronte così ampia da ospitare le facce di
pietra…”
Hinata si sforzò con
tutte le proprie
forze, ma alla fine cedette. Si mise a ridere assieme a Tenten,
osservando
Sakura ed Ino bisticciare. Per la prima volta dopo molto tempo, si
sentì bene,
priva di pensieri e preoccupazioni, libera da Naruto, Himawari o
Hazuba. Era
una sensazione magnifica, e fu grata alle sue amiche per questo.
Grazie…
scostò
gli occhi dal tavolo, rivolgendoli verso la finestra del salotto, la
mente che
continuava a fluttuare lontano dai suoi problemi, finalmente libera.
Ora
so cosa fare.
Con un elegante ghirigoro,
Shikamaru
terminò di compilare l’ennesimo documento della
giornata. Lo shinobi si
stiracchiò le spalle, pensando di farsi il quinto
caffè della mattina, quando
una pronta Mei glielo porse caldo e fumante.
“Ecco a lei,
Senpai.” il Nara accettò con
un sorriso. Negli ultimi anni la ragazza era cresciuta molto di
carattere,
rivelandosi un’inaspettata spalla per lo shinobi, il quale
ormai la riteneva indispensabile.
“Grazie.”
Shikamaru buttò via il mozzicone
che stringeva tra le labbra, accettando il bicchierino fumante con un
cenno del
capo. “Novità?”
“Prima ha chiamato sua
moglie.” rispose
prontamente con voce sicura la giovane kunoichi. “Chiedeva di
lei.”
“Spero tu le abbia
risposto come sempre.”
“Certamente.”
il sorriso della ragazza si
intensificò, sciorinando a memoria ciò che il
Nara le aveva inculcato fin
dall’inizio della loro collaborazione.
“Shikamaru-Senpai è attualmente
impegnato con una donna più bella di lei.”
“Quante volte devo
dirtelo? Non sono il
tuo Senpai.”
“A me piace chiamarla
così.” Shikamaru non
fece in tempo a finire il caffè che la kunoichi aveva
già afferrato il
bicchierino. “Tutto quello che so lo devo solo a
lei.”
“Mi mancava il fan
club…” lo shinobi emise
un sospiro, massaggiandosi lentamente le tempie. “Porta
questi documenti
all’Hokage. Deve firmarli entro stasera.”
Mei afferrò rapida il
fascicolo,
dirigendosi all’uscita. Non fece in tempo ad aprire la porta
che andò a
sbattere contro un perplesso Naruto, il quale si domandò per
quale motivo la
sua appendice nasale sembrava fosse stata appena colpita da
un’incudine d’acciaio.
“M-mi perdoni!”
Mei si affrettò a
raccogliere i fogli sfuggiteli, sparsi un po’ ovunque.
Malgrado il suo rapporto
con Shikamaru, la giovane kunoichi appariva ancora intimidita innanzi
all’eroe
di tutti gli shinobi. “Le chiedo scusa,
Naruto-sama!”
“Va tutto bene,
Mei.” borbottò l’Uzumaki,
massaggiandosi vigorosamente il naso dolorante. “E chiamami
solo Naruto, mi fai
sentire vecchio.”
“Ah… ok.
Allora, ora vado, Naruto-sa…
Naruto.” con un ultimo, tremulo, sorriso, la kunoichi
sparì con i fogli stretti
al petto, il tutto sotto lo sguardo divertito di Shikamaru.
“Complimenti.”
esordì quest’ultimo,
accendendosi una sigaretta senza smettere di scrivere. “Hai
fatto colpo, in
tutti i sensi.”
“Ti ricordo che sono
sposato, Shika.”
borbottò il biondo, stravaccandosi sulla seggiola innanzi
alla scrivania del
Nara.
“Sono già
partite le scommesse in ufficio
su quando Hinata chiederà il divorzio.” lo shinobi
delle ombre lanciò
un’occhiata divertita all’amico. “A
sentire gli allibratori, ti conviene
cominciare a guardarti in giro.”
“Shikamaru, possiamo
finirla con questi
giochetti?”
“Rilassati, sei ancora
molto popolare tra
le ragazze. Non appena si saprà che sei di nuovo in pista
scoppierà l’inferno,
ci puoi giurare.”
Naruto lo fissò in
cagnesco.
“Quanto ti stai
divertendo?”
“A vedere per una volta
che non è la mia
relazione ad essere con la merda al collo?”
l’assistente dell’Hokage soffiò
fumo grigiastro dalle labbra, un’espressione irritante sul
viso. “Non hai idea
quanto.”
“Siamo
in due.”
“Kurama!”
Naruto
lanciò un’occhiata esasperata all’amico
il quale si era comodamente
spaparanzato, un ghigno da vero stronzo sul muso. “Dovresti
aiutarmi. Gli amici servono a questo!”
“Può
essere, ma vederti in difficoltà è sempre un
passatempo piacevole.”
L’Uzumaki
preferì evitare di rispondergli
per una questione di principio, tornando a dedicare la propria
attenzione a
Shikamaru, il quale aveva proseguito il proprio lavoro come se
l’amico fosse
invisibile. Quando fece per aprire bocca però, il Nara lo
precedette.
“A cosa devo questa
visita?” borbottò, la
penna che scorreva stancamente tra i fogli.
Naruto incrociò le
braccia, percependo lo
stomaco contrarsi per il nervoso. Ora che era lì non aveva
la più pallida idea
di come impostare il discorso.
“Sono
venuto...” dichiarò infine, cercando
rapidamente di mettere ordine nella sua mente, operazione non delle
più
semplici. “Per un consiglio.”
Lo shinobi delle ombre
sbuffò una
nuvoletta di fumo dall’angolo sinistro della bocca, lo
sguardo fisso verso le
proprie pratiche.
“Un consiglio
riguardo…?”
Fece un profondo respiro,
preparando
accuratamente le parole da dire.
“Su Hinata.”
La penna proseguì nel
proprio tragitto,
imperterrita.
“Quando tu e
Temari… avete litigato per la
faccenda di Ino…” respirò nuovamente a
pieni polmoni. Era più difficile di
quanto credesse, non fosse altro per l’imbarazzo di rivangare
quella vecchia
storia. “Sì, insomma… come vi siete
rappacificati?”
Lo shinobi delle ombre interruppe
di colpo
il proprio scrivere. Alzò lentamente lo sguardo, il volto
impassibile. Per un
istante, Naruto fu convinto che l’amico l’avrebbe
scacciato dall’ufficio a
calci.
“Un anno e mezzo di
lavori domestici,
molte parolacce e diversi pugni in faccia.” Shikamaru
tornò a scrivere,
lasciando il Jinchuuriki più confuso di prima.
“In che senso?”
Sospirando, il Nara
appoggiò la penna,
comprendendo che quella mattina non era destino che potesse lavorare in
pace.
“Nel senso che per
rappacificarmi con lei
ci ho impiegato un anno e mezzo di lavori domestici, ho ricevuto
parecchi
insulti contro e per finire mi ha spaccato la faccia.” lo
guardò con il suo
sguardo penetrante. “Immagino che non fosse questa la
risposta che volevi.”
Naruto non rispose.
L’idea che Hinata
potesse prenderlo a pugni era ridicola. Tuttavia, era anche vero che
fino a
qualche anno prima avrebbe trovato ridicolo il pensiero di lui e sua
moglie in
crisi, cosa che invece era puntualmente accaduta.
“Beh… ma
immagino che ci sia stato qualche
segnale…”
“Naruto.”
Shikamaru parlò con tono secco,
facendo intendere all’amico che non desiderava rinvangare
quell’episodio del
suo passato. “E’ inutile che cerchi di risolvere
questa faccenda chiedendo
consiglio agli altri. Tu hai fatto questo casino, conosci meglio di
tutti tua
moglie e quindi spetta a te trovare una soluzione.” riprese a
scrivere, facendo
intendere come quella discussione fosse chiusa. Tuttavia, il successivo
borbottio dell’Uzumaki lo costrinse ad interrompere
nuovamente la sua
relazione.
“Dite tutti la stessa
cosa…” il
Jinchuuriki scrutò con sguardo torvo lo shinobi delle ombre,
quasi gli avesse
fatto un torto. “Come se per me fosse facile capire cosa
passa per la testa di
Hinata in questo momento.”
“E’ tua moglie.
Chi dovrebbe capirla?”
Naruto fece un versaccio
d’irritazione.
“Sono anni che Hinata
faccio sempre più
fatica a comprenderla, Shika! Tu lo sai, te l’ho
già detto tre anni fa: amo la
mia famiglia, ma a volte non capisco più gli atteggiamenti
di mia moglie! Ha
passato anni ad accusarmi di non avere fiducia in lei, di non credere
appieno
nel nostro legame. Ti sembro forse un uomo che non si fida della
propria
compagna? Avrei accettato l’idea di un lavoro mostruoso, di
comprare una casa a
debito, di fare due figli, di uccidere per
lei se fossi solo un porco interessato alle sue tette?!”
“Hinata sa benissimo
queste cose.” replicò
pacatamente Shikamaru, in contrasto con il tono amaro
dell’amico. “Ma proprio
perché conosce tutto questo, non si capacita del fatto che
tu le abbia nascosto
una cosa così importante come aver dato a tua figlia il nome
di una donna con
cui te la intendevi.”
“Io…”
allo shinobi mancò la voce per un
istante. “Io non me la intendevo con nessuna!”
“Hai dato il suo nome a
tua figlia, non
puoi negarlo.”
“Non è stata
una mia scelta, va bene? Non
del tutto!” senza volerlo, Naruto aveva iniziato ad alzare la
voce, frustrato
nel vedere come nessuno riuscisse a comprendere il motivo di quella
decisione.
“Tu non eri lì, Shika. Non puoi capire cosa
significa avere tra le mani il
cadavere di una persona che rispettavi e sapere che l’hai
uccisa tu, che è solo
colpa tua se ora è morta e marcisce in una tomba!”
“E perché non
l’hai detto ad Hinata?
Perché non le hai spiegato tutto questo anni fa? A
quest’ora non saresti qui a
lagnarti con il sottoscritto.”
L’Uzumaki non
replicò, ma la vena
ingrossata che pompava sul suo collo era un chiaro indice di come il
sistema
nervoso dell’eroe di tutti gli shinobi fosse in procinto di
crollare
“E’ inutile che
te la prendi con me.”
proseguì Shikamaru, imperturbabile innanzi alla rabbia
repressa a fatica
dell’amico. “Se tu avessi spiegato ad Hinata queste
cose anni fa, se avessi
cercato di farle comprendere come questa persona fosse così
importante per te,
sono sicuro che non avrebbe avuto nulla da ridire sulla scelta del nome
per tua
figlia.”
“La fai facile
tu.”
Il Nara sollevò un
sopracciglio con fare
polemico.
“Voglio ricordarti con
che razza di
persona condivido la mia casa. Credi davvero di poterti lamentare di
Hinata
Hyuga innanzi a me? A colui che ha sposato Subaku no Temari?”
“Vorrà dire
che nella prossima vita mi
metterò con Sasuke.” borbottò lo
shinobi biondo. “Almeno la finirai di fare lo
stronzo.”
“Se Hinata chiede il
divorzio lo potrai
già fare. Anche se non sono sicuro che Sakura accetterebbe
di dividere suo
marito con te…”
“Non è
divertente, Shika.”
“Sai cosa invece lo
è?” replicò seccamente
lo shinobi delle ombre, aspirando una boccata di fumo. “Trovo
molto ilare il
fatto che tu venga a chiedermi consiglio su una faccenda su cui sai
già tutto,
compresa la soluzione. Peccato che il tuo orgoglio ti frena
dall’attuarla, e
quindi resti qui come un idiota ad osservare il tuo matrimonio che va
in
pezzi.” soffiò fumo grigiastro dalle narici,
osservando con sguardo annoiato il
volto dell’amico contrarsi sulla difensiva. “Sai,
non ti credevo così
masochista. Ho sempre pensato che fosse Sasuke quello che tenta di
sabotare la
vostra coppia. Lui come l’ha presa?”
Non rispose, incapace di trovare la
voce.
Sentiva la pelle bruciare, come se le parole di Shikamaru
l’avessero sferzato,
mentre veniva costretto ad accettare il fatto che la soluzione era una
sola.
Non
che questo renda il tutto meno spiacevole.
Conosceva la risposta,
l’aveva sempre
saputa. Perché esitava? Qual era il motivo che gli incollava
le chiappe a
quella sedia, invece di andare fuori a tentare di salvare il proprio
matrimonio? Era l’orgoglio? La convinzione che non avesse
nulla di cui
rimproverarsi? Era diventato arrogante come Madara, incapace di vedere
la
verità se questa andava contro ciò in cui credeva?
Forse era paura? Il terrore di
vedere
Hinata rifiutarlo definitivamente, di vederla ricostruirsi una vita
senza di
lui? Di osservarla ritrovare la serenità con affianco un
altro uomo?
Sono
un vigliacco.
Chiuse gli occhi per un istante, disprezzandosi profondamente. Shika ha ragione: non riesco ad accettare i
miei errori, ed ho paura che questo la allontani definitivamente da me.
Si alzò di scatto,
uscendo a passi lenti,
il tutto sotto lo sguardo impassibile di Shikamaru.
“Era ora che si desse una
svegliata.” borbottò,
tornando ai propri fascicoli.
Camminava lentamente, lo sguardo
impassibile, i piedi che si muovevano verso una meta sconosciuta.
Sentiva il
bisogno di muoversi, di mettere in moto il proprio corpo, per evitare
che
rabbia, paura e frustrazione si mescolassero in un miscuglio letale.
Era arrabbiato. Con sé,
con Hinata, con il
mondo. Una furia che gli gorgogliava nel petto, inacidendogli il
sangue,
facendogli prudere le mani. Desiderava solamente qualcosa da fare a
pezzi
lentamente, con furia metodica, figlia di tutte le incomprensioni che
aveva
avuto negli anni con la Hyuga.
Perché?
si
conficcò le unghie nei palmi delle mani, la mascella
contratta. Perché con lei deve
essere tutto così
maledettamente complicato?
Non lo sapeva. Non aveva memoria di
quando
il suo rapporto con Hinata aveva cominciato a complicarsi, a diventare
qualcosa
di più. Gli appuntamenti romantici avevano lasciato spazio a
lunghe
discussioni, le dichiarazioni ad accuse, i sorrisi a sospiri
esasperati.
Eppure, in mezzo a tutta quella fiele era esistito l’amore,
il sentimento che
li aveva uniti per più di dieci anni, ma l’Uzumaki
era troppo furioso per
scorgerlo.
Un nervo del suo collo si
contrasse. Si
sentiva un idiota: sapeva che Hinata aveva avuto ragione a prendersela
con lui,
ma sentiva di non meritarselo. Aveva commesso molti errori, ma si era
sempre
sforzato di migliorarsi, di applicarsi, di diventare un buon marito ed
un buon
genitore. La kunoichi non poteva aver dimenticato tutto ciò
per un gesto
avvenuto anni prima.
Oppure sì?
Devo
calmarmi. Si
fermò di colpo in mezzo al corridoio, facendo lunghi
respiri. La rabbia lo
stava portando a sragionare. Doveva evitare quella sensazione se voleva
tornare
dalla sua famiglia.
Sempre
che Hinata mi voglia ancora… le budella gli si attorcigliarono
al solo
pensiero. L’idea che Hinata lo mollasse per mettersi con un
altro era assurda,
al limite del ridicolo. Eppure, la sua mente non poté fare a
meno di inviargli
l’immagine di sua moglie abbracciata ad un individuo
sconosciuto, alto, moro e
con una vaga somiglianza a Sasuke. Il solo vederli assieme gli
provocò la
nausea.
Calmati…
devi stare calmo. Hinata è tua moglie, se saprai parlarle
nel modo giusto, non
succederà nulla di tutto questo.
“Parlare
nel modo giusto? Tu? Più facile che io diventi
mortale!”
“Non
è il momento, Kurama! Non sono in vena di
scherzare!”
“Certo
che è il momento.” la
volpe schioccò le fauci per il nervoso, squadrando il
proprio Jinchuuriki con
occhio critico. “Sai benissimo
quello
che devi fare. Quindi piantala di tergiversare e fallo!”
“Non
è così semplice!” lo
shinobi incrociò le braccia, stizzito dal tono saccente
dell’amico. “Perché
devo prendermi solo io le colpe di
questo fallimento? Ho dimostrato più volte di non essere
l’irresponsabile che
Hinata dipinge!”
“Tua
moglie non pensa proprio nulla del genere su di te.” la voce rombante
del Bijju si tinse di una nota di esasperazione. “Sei
stato tu a fare una cazzata, quindi è giusto che sia tu a
fare il
primo passo, che è quello di scusarti.”
“Sai
benissimo che non potevo fare altrimenti.”
Kurama si erse in tutta la sua
considerevole altezza, ruggendo a pieni polmoni contro
l’Uzumaki.
“Smettila
di cercare scuse!” ruggì,
gli occhi scarlatti ricolmi di irritazione. “E’
stata una tua scelta quella di legarti a quella donna, così
come
quella di darne il nome alla tua mocciosa! Piantala di fare il codardo
ed
assumiti le tue responsabilità!”
Naruto non replicò.
Percepì del giusto
nelle parole del Bijuu, qualcosa che andava oltre il tono sferzante con
cui
l’aveva spronato. Era stata una sua scelta quella di baciare
di Himawari, di
darne il nome alla figlia, di nascondere tutto ad Hinata. Era stata una
sua
decisione, libera da condizionamenti o da costrizioni. Negare quel
fatto,
scaricando parte delle sue responsabilità sulla moglie era
meschino, qualcosa
che non gli apparteneva.
Kurama
ha ragione… devo comportarmi come un uomo, non da vigliacco.
Riprese a muoversi, lasciandosi
alle
spalle l’ufficio. Per la prima volta dopo anni, aveva deciso
di mettere
qualcos’altro innanzi al lavoro.
Il Bijuu sogghignò.
Hanabi fissò
l’immensa magione innanzi a
sé con sguardo critico. Era una costruzione squadrata, con
due ali laterali che
si diramavano in forme rettangolari, immersa in un giardino dalle
dimensioni
faraoniche. Ogni cosa appariva lussuosa e sfarzosa in maniera
quantomeno disdicevole.
Hanabi discendeva da una famiglia molto ricca, ma per quanto
anticonformista, anche
lei sosteneva il motto degli Hyuga sulla frugalità e sul
trattenersi dal
mostrare apertamente la propria ricchezza.
Superò il cancello con
un balzo,
incamminandosi con passo tranquillo lungo il selciato lastricato in
quarzo.
Vide fontane e ruscelli artificiali gorgogliare allegramente, mentre
insetti di
vario tipo svolazzavano da pianta a pianta. Per un istante, la kunoichi
fu
sicura di aver intravisto un uccello esotico dal piumaggio
coloratissimo. Ogni
cosa in quel luogo sembrava essere stata posizionata con cura
meticolosa, una
muta testimonianza della ricchezza e del potere della famiglia
Yogonuchi.
Hanabi non era una stupida.
Conosceva di
fama quella famiglia, ma il chiacchiericcio non era una fonte
attendibile. Per
quanto la parte di sé più arrogante le intimava
di non temere nessuno, in
quanto Hyuga, il suo cervello era consapevole che se voleva aiutare
veramente
Aimi, doveva mostrarsi diplomatica, evitando gesti che potessero
offendere la
sua potente famiglia.
Giunse infine innanzi al portone,
in legno
scuro, intarsiato con figure astratte di vario genere. La kunoichi si
mise a
studiarle dopo aver suonato il campanello, trovando strano osservare
simili
scene sulla porta di casa di una famiglia così opulente. Un
secondo sguardo le
fece comprendere come quelle che a prima vista apparivano come scenari
fantastici erano in realtà la storia del Paese del Fuoco,
raccontata dal punto
di vista degli Yogonuchi, l’ennesimo richiamo di
quest’ultimi alle proprie
origini.
La porta venne aperta da un
maggiordomo
sulla quarantina, impeccabile nel proprio vestito scuro e con stampata
sul
volto una magnifica maschera di fredda indifferenza mista a disprezzo.
Hanabi
si chiese se non fosse finita dentro un romanzo poliziesco.
“Desidera?”
domandò il servitore con voce
strascicata.
“Sono qui per vedere
Aimi.” fu la secca
risposta della kunoichi.
“In questo momento,
Aimi-sama è
indisposta.” l’uomo squadrò con vago
disgusto gli abiti da ninja consunti della
donna. “Lei sarebbe…?”
“Hanabi Hyuga.”
rimase sorpresa di non
vederlo cambiare espressione innanzi al suo cognome. “Sono
l’insegnante di Aimi
e negli ultimi giorni è stata assente.”
“Capisco.” il
maggiordomo sembrava
irritato da quella visita. “Tuttavia, come le ho
già spiegato, Aimi-sama è
attualmente indisposta. La prego di ripassare un altro
giorno.”
“In questo caso, sarebbe
possibile parlare
con uno dei genitori di Aimi?” domandò rapida la
Hyuga, evitando che il
servitore le sbattesse la porta in faccia.
“Katashi-sama
è un uomo molto occupato e
non ha tempo da perdere con un ninja.” fu la secca replica di
quest’ultimo,
sottolineando la parola ninja con il massimo disprezzo possibile.
“La prego di
prendere un appuntamento.”
Tentò di chiudere la
porta, ma Hanabi
glielo impedì con una mano.
“Forse non hai capito
bene chi sono…”
dichiarò quest’ultima con voce bassa, stanca di
essere insultata da quella
specie di pinguino altezzoso. “Quando uno Hyuga chiede
qualcosa, non lo puoi
liquidare con un insulto, non se ci tieni alla vita.” fu con
piacere che vide
finalmente una vaga preoccupazione negli occhi dell’uomo.
“Quindi ora vai dal
tuo padrone e digli che se non mi riceverà subito,
sarà l’errore più grande che
farà in tutta la sua vita.”
Per un istante, la kunoichi lesse
sul
volto dell’uomo la tentazione di buttarla fuori a calci, ma
infine si fece, a
malincuore, da parte.
“Seguitemi.”
Hanabi entrò nella villa
trattenendo a
stento una smorfia. Odiava far pesare il proprio cognome, la faceva
sembrare
una specie di ragazzina viziata, ma in quel momento il bene di Aimi
veniva
prima di ogni cosa.
Percorsero un lungo corridoio,
ricco di
sfarzo oltre il limite del buongusto. C’erano candelabri
ricolmi di diamanti
appesi sul soffitto a distanza regolare, quadri ad olio molto costosi
alle
pareti, e morbidi tappeti esotici a ricoprire un pavimento fatto
interamente di
marmo bianco, complementare con le pareti laccate in oro, con intarsi
in
argento. Era assurdo anche solo pensare quanto fosse costato erigere
tutta
quell’opulenza, il cui scopo era di intimidire chiunque
osasse varcarne la
soglia. Hanabi la trovava solamente pacchiana e di cattivo gusto, e si
domandò
come fosse possibile che una ragazza semplice e determinata come Aimi
fosse
cresciuta in un ambiente simile.
Giunsero innanzi ad una porta
bianca, ai
cui lati erano presenti due statue in marmo nero che raffiguravano i
simboli
del paese del Fuoco. Il maggiordomo bussò una volta prima di
entrare, intimando
ad Hanabi di attendere lì. Quest’ultima ne
approfittò per osservare un grosso
camino che si stagliava, quasi come una bocca oscura, a poca distanza.
Aveva
chiaramente lo scopo di riscaldare l’ambiente durante
l’inverno, ma si chiese
per quale motivo gli Yogonuchi si servissero di simili mezzi al posto
del
moderno riscaldamento elettrico. Dedusse che fossero una famiglia che
amava
mostrare le proprie origini e quella casa, in effetti, appariva come un
enorme
mausoleo, custode della ricchezza e dell’arroganza della
famiglia.
La porta bianca si
riaprì. Il maggiordomo
ne riemerse con sguardo seccato, quasi fosse stato costretto ad
ingoiare
qualcosa di molto amaro.
“Katashi-sama la
attende.”
L’ambiente in cui Hanabi
entrò fu molto
simile a ciò che aveva visto fino a quel momento. Era
chiaramente un ufficio,
ma così grande e sfarzoso da far apparire
l’appartamento dove in cui viveva una
minuscola topaia. Grandi librerie ricolme di testi di vario genere
erano
accatastate alle pareti, mentre un lungo tappetto rosso portava ad una
scrivania di legno chiaro, dietro la quale era posta una poltrona di
pelle
nera, attualmente vuota. Sullo sfondo, un uomo era intento a fissare
una
gigantesca vetrata, che dava una visuale del giardino attorno alla
villa.
Katashi Yogonuchi era diverso da
come la
Hyuga se l’era immaginato. Era un uomo alto, che doveva aver
superato da poco i
quarant’anni. Aveva un fisico atletico ed un viso
affascinante e rasato,
seppure indurito da un’espressione severa. Possedeva gli
stessi capelli della
figlia, di un biondo dorato, raccolti in una breve coda, mentre gli
occhi erano
color grigio ferro. Indossava un’impeccabile completo da uomo
scuro,
ingentilito da una cravatta blu notte, mentre le sue scarpe splendevano
sotto
la morbida luce del lampadario, dando l’idea di un uomo
estremamente attento
alla propria immagine.
“Si accomodi
pure.” esordì con voce fredda
ed informale, indicando una rigida sedia alla kunoichi, sedendosi sulla
poltrona di pelle. “Gradisce qualcosa da bere?”
“No, grazie.”
“Da fumare?”
Katashi aprì una scatola con
dentro delle piccole sigarette.
“La ringrazio, ma non
fumo.”
Lo Yogonuchi si accese una
sigaretta,
soffiò la prima boccata dal naso e rivolse il proprio
sguardo freddo e
calcolatore alla Hyuga.
“Prima che lei parli,
desidero porgerle le
mie scuse per il comportamento di Gombei.”
dichiarò, interrompendo sul nascere
ciò che aveva da dire Hanabi. “Conosco la sua
famiglia, e nutro grande rispetto
per coloro che difendono Konoha da così tante
generazioni.”
“La ringrazio.”
rispose Hanabi, indecisa
sull’approccio da usare. Per quanto i modi del padrone di
casa fossero gentili,
la sua voce era rimasta fredda ed informale. “Come forse
saprà, il motivo della
mia presenza qui riguarda Aimi. Negli ultimi giorni è stata
assente, e mi sono
preoccupata.”
Il volto di Katashi si
indurì
ulteriormente, dando vita ad una maschera gelida.
“Aimi ha mancato a delle
lezioni?” ripeté
con voce bassa, aspirando una boccata di fumo.
“Precisamente. In quanto
sua insegnante,
ho pensato fosse corretto venire a sincerarmi del motivo di tale
assenza.”
“Ha fatto
benissimo.” fu la secca replica
del padrone di casa, il quale pigiò un bottone posizionato
sotto la sua
scrivania. “Ma lascerò le spiegazioni ad Aimi
stessa.”
il maggiordomo Gombei
aprì la porta.
“Avete
chiamato?”
“Gombei, porta qui mia
figlia.” fu il
comando secco di Katashi. “Dille che non tollererò
più di due minuti di
attesa.”
Il servitore non
replicò, uscendo
silenziosamente dall’ufficio. Hanabi sentì il
proprio stomaco rivoltarsi per la
rabbia: non aveva apprezzato per niente il tono freddo e sprezzante con
il
quale il suo anfitrione aveva definito la figlia.
“Posso chiederle qualche
informazione in
più riguardo Aimi?” domandò, nel
tentativo di rompere il silenzio teso che si
era creato. “Purtroppo, temo di non essere a conoscenza
dell’intero quadro
familiare.”
Katashi per un istante fu
chiaramente
tentato di non rispondere, ma infine rispose, seppure con tono
vagamente
irritato.
“Io e mia moglie ci
trasferimmo a Konoha
pochi mesi dopo la fine della Grande Guerra, come forse lei
saprà già. All’epoca
lei era incinta di Aimi. Nacque sei mesi dopo il nostro arrivo, ma
durante il
parto una complicanza portò alla morte di mia moglie. Da
allora sono rimasto
vedovo ed ho cresciuto da solo Aimi e suo fratello maggiore,
Ichiro.”
“Aimi ha un fratello
maggiore?” esclamò
sorpresa Hanabi. “Non me l’aveva mai
detto.”
“Ichiro è
più grande di quattro anni, e
lavora in un ramo dell’azienda di famiglia.”
Takashi sbatté parte della cenere
della propria sigaretta in un portacenere in avorio, chiaramente
annoiato da
quella discussione. “Da quello che so, hanno un discreto
rapporto i due.”
La kunoichi trattenne a stento un
gesto di
disappunto, ma le sue sopracciglia si alzarono in
un’espressione di
incredulità. Non riusciva a credere che quell’uomo
non conoscesse minimamente il
rapporto che intercorreva tra i suoi figli.
In quell’istante, la
porta si aprì,
facendo entrare la figura di Aimi. Quest’ultima
impallidì di colpo nel vedere la
sua Sensei, facendo capire a quest’ultima come non avesse
minimamente previsto
una sua visita. I suoi occhi cerulei si spostavano febbrilmente da
Hanabi al genitore
“Padre, mi avete fatta
chiamare?” esordì
con voce bassa e rispettosa.
“Vieni avanti.”
Takashi indurì il proprio
sguardo, ricomponendo la maschera di gelida collera. “Questo
ninja ha
dichiarato di essere il tuo insegnante, è
corretto?”
Aimi si fermò di colpo
una volta giunta
affianco ad Hanabi. Sembrava incapace di fissare negli occhi il
genitore.
“Ti ho fatto una
domanda!”
“Sì,
padre.” borbottò la ragazzina,
tenendo gli occhi fissi sul pavimento. “Hanabi-Sensei
è la mia insegnante.”
L’espressione sul volto
di Takashi
divenne, se possibile, ancora più dura, intrisa di disprezzo
e rabbia.
“Saresti così
gentile da spiegarmi per
quale motivo hai saltato delle lezioni?” domandò.
Aimi non rispose. Sembrava incapace
di
proferire parola. Hanabi provò il desiderio spasmodico di
proteggerla dalla
furia del padre, il quale era palese che la terrorizzasse.
“Tu sei una
delusione.” esclamò l’uomo,
sputando la parola delusione con tanto disprezzo da colpire la figlia
come se
l’avesse schiaffeggiata. “Non solo rinneghi le
tradizioni di famiglia, ma ora
ti prendi pure il lusso di non mantenere gli impegni che ti sei
assunta. Con
quale coraggio osi ancora definirti mia figlia? Così
infanghi il mio nome e
quello della tua defunta madre, te ne rendi conto?”
“Non…”
le parole uscirono a spezzoni dalle
labbra della Genin. “Non è vero. Io…
io…”
“Basta
così.” Takashi alzò una mano,
facendo tacere immediatamente la figlia. “Non intendo
proseguire questa
discussione davanti ad un’ospite. Ne riparleremo a cena, ma
se desideri
continuare a definirti mia figlia devi cambiare atteggiamento, e lo
pretendo
subito.”
La kunoichi percepì
chiaramente le proprie
viscere contorcersi per la furia. Aimi sembrava sul punto di mettersi a
piangere, ma non cedette, come se avesse già vissuto una
simile scena.
“Puoi andare.”
Takashi riportò la sua
attenzione alla sua ospite, degnando la figlia della stessa
considerazione che
avrebbe riservato ad un soprammobile di cattivo gusto.
Quest’ultima si voltò,
trattenendosi a stento di correre, il tutto mentre Hanabi si ripeteva
che
picchiare a sangue il padrone di casa non avrebbe portato alcun
giovamento alla
sua causa. La rabbia però era bruciante.
Tratta
sua figlia come fosse spazzatura. Il pensiero di suo padre e di come
aveva
trattato per anni sua sorella la rese semplicemente furiosa,
costringendola a
richiamare tutto il proprio autocontrollo per non perdere la calma.
“Mi scuso per lo
spettacolo disdicevole a
cui avete assistito.” dichiarò Takashi, una volta
che Aimi chiuse la porta
dell’ufficio alle sue spalle. “Le prometto che mia
figlia non salterà più
alcuna lezione, ha la mia parola.”
La
parola di uno stronzo. Contrasse i muscoli facciali,
obbligandoli a stirarsi
in un sorriso diplomatico. Le costò ogni oncia di energia
mentale che
possedeva.
“Ne sono
lieta.” si alzò di colpo, presa
da un’idea improvvisa. “Potrei parlare in privato
con Aimi? Desidero informarla
di quello che è avvenuto nei giorni in cui è
stata assente.”
Il padrone di casa si
limitò a richiamare
il proprio maggiordomo.
“Gombei le
mostrerà la strada.”
Hanabi seguì il distinto
servitore fuori
dall’ufficio. Un istante prima di chiudersi la porta alle
spalle, si voltò,
spinta da una curiosità irrefrenabile. Katashi era intento a
leggere un
documento dall’aria ufficiale, l’espressione del
volto più rilassata. Per un
istante, la Hyuga credette di vedere sua padre Hiashi, intento a
denigrare sua
sorella maggiore, provocandole un sorriso freddo e privo di gioia.
Certe
cose non cambiano mai.
Entrare nella stanza di Aimi fu una
sorpresa per Hanabi. Si aspettava qualcosa di pacchiano e vistoso, in
linea con
il resto della villa. La Hyuga invece fu fatta entrare in una stanza
grande
come il suo intero appartamento, ma dimensioni a parte possedeva una
sobrietà
ammirevole.
Carta da parati di un blu notte
avvolgeva
l’ambiente, dove a farla da padrone erano i libri. Erano
presenti ovunque:
sopra mensole, sulla scrivania, in vari ripiani, tutti in rigoroso
ordine e ben
tenuti. Il resto del mobilio comprendeva un grande letto matrimoniale,
con
lenzuola color oro, un comodino al suo fianco pieno di foto, e due
grandi
armadi ricolmi di vestiti il cui interno era il solo posto sfuggito
all’ordine
assillante che regnava nella stanza.
La ragazza era seduta sul letto, le
ginocchia strette al petto, lo sguardo spento e privo della
determinazione che
l’aveva sempre contraddistinta. Quando vide la propria
insegnante entrare, i
suoi occhi cerulei si strinsero in due fessure, fissando con odio la
nuova
arrivata attraverso l’apertura delle gambe.
“Perché
è venuta?”
Hanabi avanzò nella
stanza, sedendosi al
suo fianco. Nonostante mantenesse un’espressione impassibile,
dentro di sé era
vagamente divertita dall’espressione furiosa della sua
allieva.
“Eri sparita, mi sembrava
il minimo venire
a sapere come stavi.”
“Perché
è venuta?!” ripeté con voce
stridula la Genin, voltandosi di scatto. “Non gliene
è mai fregato nulla di me!
Per quale motivo è dovuta venire fin qui?!”
“Ti sbagli.”
Hanabi indurì il proprio
sguardo, piantando le proprie iridi color lavanda in quelle celesti di
Aimi.
“Sei mia allieva.”
“Non
più!” la ragazza abbassò lo sguardo
verso il pavimento, l’ira che sfumava rapidamente in
amarezza. “Non ho più
intenzione di fare il ninja. E’ chiaro che non fa per
me.”
Hanabi si trattenne dal colpirla.
Il suo
primo impulso fu quello di afferrarla per le spalle e scuoterla fino a
quando
non avesse capito che lei aveva tutte le carte in regola per diventare
una
grandissima kunoichi. Ricordandosi però della condizione
impostale da Sakura,
la Hyuga si alzò, alla ricerca delle parole giuste. La sua
attenzione tuttavia,
fu catturata dal volto di una giovane donna bionda, la quale
capeggiava, in
solitaria oppure in compagnia, in tutte le foto presenti nella stanza.
La Jonin
si avvicinò fino a prenderne una in mano, osservando come i
suoi occhi fossero
identici a quelli di Aimi.
“Era mia
madre.” quest’ultima afferrò la
foto dalle mani di Hanabi. “E’ morta due ore dopo
che sono nata.”
Hanabi non seppe cosa dire: aveva
conosciuto il dolore in passato, vedendo morire così tante
persone che aveva
perso il conto. Eppure, c’era qualcosa di malinconico nella
voce della giovane
Yogonuchi, una tristezza intrisa di un desiderio spasmodico, capace di
smuovere
anche il suo cuore ormai assuefatto alla violenza.
Io
non sono diversa da lei. Quel pensiero la colpì
con la violenza di un ceffone.
Anche lei era stata la causa della morte di sua madre, anche lei per
anni si
era portata sulle spalle quel dolore disumano, immenso per le piccole
spalle di
una bambina. Eppure, a differenza della Yogonuchi, aveva avuto Hinata,
che era
stata capace di restarle sempre accanto, in ogni situazione, non
accusandola
neanche per un istante della morte della loro genitrice. Un conforto
che ad
Aimi era stato, molto probabilmente, negato.
“Mi dispiace.”
le parole le apparvero
vuote anche alle sue orecchie. “So cosa provi.”
Aimi sbuffò.
“Lei non sa un bel
niente.”
“Ti sbagli.” La
Jonin non mollò per un
istante gli occhi della sua allieva. Questa volta decise di scavare
più a
fondo, di andare oltre la cortina di rabbia che li attanagliava.
Ciò che vide
era sfumato in molti modi diversi, ma era rappresentabile con una
singola
parola: dolore.
Il
dolore di sentirsi responsabili della morte della propria madre, il
dolore di
non rendere orgoglioso il proprio padre, il dolore di avere un fratello
scostante, immerso in un lavoro troppo arido per la sua giovane
età… chiuse per un
istante gli occhi, scavando nel proprio passato, percependo una
sensazione molto
simile venire a galla dai meandri più oscuri della sua anima.
Come
ho fatto a non vederlo prima?
“Mia madre è
morta per darmi alla luce.”
riaprì gli occhi, scandendo le parole con voce bassa e
lenta, simile alle fusa
di un gatto. “Ho passato anni a chiedermi per quale motivo
fosse successo tutto
questo, se non sarebbe stato meglio per la mia famiglia che io non
fossi mai
nata.” osservò gli occhi di Aimi spalancarsi e
capì di averle letto nel cuore,
di aver compreso i pensieri più oscuri e cupi del suo
essere. “Solo dopo molti
anni, ho capito che quel dolore non mi apparteneva.”
Si avvicinò alla quella
persona così
simile a lei. Ciò che vide fu molto di più di
un’allieva e comprese quali
parole doveva usare.
Le appoggiò le mani
sulle spalle,
sorridendole dolcemente.
“Non è
importante se tua madre fosse
felice di dare la vita per te oppure no.” dichiarò
con voce sicura. “Non
portarti sulle spalle questo peso, perché non è
tua la responsabilità. Essere
al mondo non è mai una colpa, Aimi.”
Capì di aver detto le
parole giuste
osservando la sua reazione. Aimi strinse le mani con tanta forza da
conficcarsi
le unghie nei palmi delle mani, gli occhi coperti da una patina
liquida. Stava
cercando in ogni modo di trattenere le lacrime, incapace di reggere una
delle
poche frasi di supporto ricevute nella sua breve vita.
“Non è
così semplice!” le parole le
uscirono di getto dalle labbra, desiderosa soltanto di scaricarsi, di
liberare
la frustrazione che covava da anni. “Lei ha visto…
io non sono capace di
essere… un ninja. Non sono come Mirai o
come…”
“Me?” un
sorriso freddo deturpò il volto
della Hyuga. “Fidati Aimi: Non sono la persona più
adatta ad essere presa
d’esempio. Esistono moltissimi ninja a questo mondo migliori
di me… anche come
persone.”
“Me ne dica
uno!” sbottò la Genin, tirando
su con il naso. “E non mi parli di un Hokage!”
Il sorriso di Hanabi divenne caldo,
quasi
divertito.
“Sakura Haruno.”
Le sopracciglia chiare della
Yogonuchi si
sollevarono verso l’alto.
“La Sannin
leggendaria?” il suo sguardo
mutò rapidamente dal sorpreso all’irato.
“Non è giusto! Sakura Haruno è
praticamente al livello di un Hokage!”
“Lo so
benissimo.” ora la Jonin sfoderava
il suo classico sorrisetto, capace di irritare qualsiasi persona
presente sulla
faccia della Terra. “E la sai una cosa? La Sannin
è in cerca di allievi…”
La parola allievi
volteggiò per alcuni
secondi sopra le loro teste. Aimi incassò quella frase come
se la Hyuga le
avesse tirato uno schiaffo. Rimase attonita, a fissare con occhi
spalancati la
sua Sensei, incapace di accettare che quelle parole fossero state
pronunciate
sul serio.
“Non fare quella faccia,
Aimi.” la prese
in giro quest’ultima, le labbra tese in un ghigno
mefistofelico. “Non ti ho
mica detto che devi andare a catturare un Bijuu.”
“Ma
io…” la ragazza sembrava aver perso
l’uso della voce. “Come può
pensare… che io…”
“Tu hai tutte le
capacità per poter
diventare allieva di una Sannin.” proseguì la
Jonin, continuando a sorridere.
“Sei intelligente, determinata e molto capace. Non credo di
sbagliare se dico
che sei senza alcun dubbio il Genin migliore del tuo anno.”
“No!” la
Yogonuchi scosse la testa. “Lei
si sbaglia! Io… non sono brava a fare nulla. L’ha
sentito mio padre… sono la
vergogna della…”
Uno schiaffo echeggiò
nella stanza. Aimi
cadde al suolo, sorpresa dal bruciore penetrante che percepiva al
livello della
guancia sinistra. Si sfiorò il punto arrossato, alzando gli
occhi, dove
incrociò quelli lampeggianti di rabbia della sua Sensei.
“Non osare mai
più dire una cosa del
genere!” Hanabi sembrava spiritata, come se la ragazza
l’avesse offesa in modo
irreparabile. “Tu non sei una vergogna, Aimi! Hai grandi
capacità e lo sai!
Quindi smettila di trovare scuse ed affronta la vita!”
Aimi rimase immobile, lo sguardo
fisso sul
volto della sua insegnante. Era impossibile capire cosa le stesse
passando per
la testa, ma Hanabi non se ne preoccupò.
“Domani mattina ti
aspetterò davanti
all’ospedale.” le ordinò, rialzandola da
terra con facilità irrisoria. “Ti
presenterò Sakura Haruno e le chiederai di diventare sua
apprendista.”
“Io…”
la Yogonuchi sembrava voler dire
qualcosa, ma la Hyuga la precedette, scompigliandole dolcemente i
capelli
dorati.
“Credimi,
Aimi.” tornò a sorriderle. “Hai
grandi capacità, devi solo avere maggiore fiducia in te
stessa.”
Si diresse verso
l’uscita. Non era sicura
che Aimi il giorno dopo si sarebbe presentata in ospedale, ma la cosa
era
relativa. L’avrebbe trascinata di forza se costretta. Ormai
aveva deciso:
rendere quella ragazza una grandissima kunoichi sarebbe stato il suo
modo di
farsi perdonare per la sua cecità, la sua
incapacità di capire quanto fosse
simile a sé.
E Aimi lo sarebbe diventata, ne era
convinta.
Non
intendo lasciarti sprofondare nel dolore, Aimi.
E’
una promessa.
Stava lì, immobile
innanzi alla porta di
casa, chiedendosi per quale diavolo di motivo non riuscisse a suonare
il
campanello, entrare e spiegare ogni cosa con sua moglie.
Sono
un perfetto idiota.
Si passò la protesi tra
i capelli,
sospirando. Si era ripetuto dentro di sé talmente tante
volte le parole da dire
che Kurama aveva minacciato di strappargli la lingua. Eppure,
nonostante
sapesse che non aveva senso indugiare ulteriormente, rimaneva con i
piedi
incollati al pianerottolo, quasi sperando che le cose si potessero
risolvere da
sole.
Chissà
se rideresti nel vedermi ora, Wari. Pensò con amarezza. L’eroe di tutti gli shinobi che se la fa
sotto ad affrontare sua
moglie.
Pensare a lei lo riempì
di una sensazione
contrastante, un misto tra amarezza e fastidio. Non desiderava rovinare
i
ricordi di Himawari, ma allo stesso tempo non poteva negare che erano
stati
proprio quei ricordi ad aver portato sull’orlo della rottura
il suo matrimonio.
Sono
solo un egoista! Là dentro c’è la mia
famiglia ed io sono qua a crogiolarmi nel
passato!
Forse fu il pensiero di Himawari,
la sua incapacità
di uscire da quello stallo, ma improvvisamente sentì come
una mano calda
sostenere la sua protesi, portandola a suonare il campanello
dolcemente, mentre
una risata che non udiva da anni gli soffiò dolcemente nelle
orecchie, troppo
impercettibile per essere sicuro di averla percepita sul serio.
Wari?!
Si
voltò di scatto, quasi si aspettasse di trovarsela davanti,
con i suoi vestiti
da uomo, pronta a sorreggerlo ed aiutarlo come sempre, il sorriso dolce
impresso nei suoi lineamenti. I suoi occhi scrutarono il buio attorno a
sé
febbrilmente, mentre un ricordo venne lentamente a galla dentro di lui,
riportandogli parole che aveva ormai dimenticato.
“Io
ti proteggerò… proprio come tu farai con il
nostro popolo.”
Wari…
Si rigirò, osservando il
volto di sua
moglie, splendido come sempre, riempirsi di sorpresa nel ritrovarselo
davanti.
La trovò bellissima, mentre comprendeva finalmente cosa
doveva fare.
Ti
sono debitore.
“Ciao.”
provò a sorridere, cercando di
vedere la fiamma dell’amore negli occhi della consorte.
“Posso entrare?”
Hinata rimase immobile per alcuni
istanti,
apparentemente paralizzata dalla sorpresa. Sembrava aver perso la
capacità di
parlare, proprio come quando da piccola si trovava di fronte
l’Uzumaki.
“Non ci vorrà
molto, te lo prometto.”
insistette con dolcezza il Jinchuuriki, riuscendo a convincere la Hyuga
a farlo
entrare.
Comunque
vada a finire.
Era pronto a lottare per la sua
famiglia.
CONTINUA
Chiamatemi Giambo… Dottor Giambo!
Bene, dopo un mese e mezzo di
inscusabile
ritardo, eccomi a voi con il primo capitolo del 2018. Dopo aver
concluso il mio
percorso universitario triennale *Inno alla Gioia di Beethoven, fuochi
d’artificio
in aria, bandiere sventolano gioiose al vento* ed aver iniziato
già con un bel
lavoro in attesa della magistrale *Dies Irae di Mozart, cielo plumbeo,
occhi
disperati al cielo in attesa della morte* ecco a voi il nuovo capitolo!
Dunque, all’inizio la mia
idea era di
chiudere questa faccenda del perdono con questo capitolo, ma la
complessità dei
rapporti in gioco (Hinata-Naruto, Mirai-Aimi, Aimi-Hanabi) mi ha
convinto a
dividere in due parti questo capitolo che rischiava di diventare
abnormemente
lungo. Spero che la faccenda non vi dispiaccia troppo, ma vorrei
evitare di
fare qualcosa di eccessivamente sbrigativo o poco convincente.
Se vi state domandando a quale
missione
segreta Hinata faccia riferimento vi consiglio di andare a rileggervi i
capitoli 4 e 5 di questa raccolta, dove avevo lasciato questa faccenda
un po’
in sospeso, ed ero desideroso di rimetterla in gioco.
Bene, anche questo capitolo
è giusto alla
fine. Come al solito ringrazio chiunque legga o segue questa raccolta e
ricordo
che qualsiasi recensione, negativa o positiva, è ben
accetta. Se avete critiche,
suggerimenti, consigli o correzioni fatevi sotto che non mordo mica!
Un saluto!
Giambo