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Autore: Nina Ninetta    28/02/2018    2 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 15

Parla di un rumore, prima del silenzio e poi …
 

 
 
Il cellulare di Eri squillò per la terza volta nel giro di pochi minuti. La ragazzina allontanò Kingsley da lei, farfugliando qualcosa del tipo “devo rispondere”. Rodriguez tuttavia non aveva nessuno voglia di separarsi dalla giapponese, la trattenne sotto di sé, le gambe intrecciate, lasciandole baci ovunque sul viso, sulle guance, sulla punta del naso, sulle labbra.
Dopo le prime e fugaci esperienze nella stalla, sul giaciglio di paglia che li aveva visti insieme durante i primordiali approcci a quel nuovo mondo che si era aperto loro, tutto da scoprire e gustare, Kingsley aveva avuto la brillante idea di evadere la sorveglianza della servitù e di rotolarsi con la sua fidanzatina comodamente sdraiati sul letto, nella propria stanza. All’inizio Eri sembrava aver fatto un passo indietro, la luce del sole e quell’ambiente decisamente meno angusto del piccolo e intimo nascondiglio in fondo alla scuderia la intimorivano. Non potevano chiudere le tapparelle, né tirare le tende o le inservienti l’avrebbero notato dabbasso e si sarebbero precipitate nella camera per farla arieggiare. Si era dovuta abituare all’idea che Kingsley la guardasse nuda nella sua interezza, con il corpo illuminato a giorno dai raggi solari. C’era anche il rovescio della medaglia, ossia il fatto che anche il fisico di lui fosse decisamente più nitido: mentre nella stalla aveva solo potuto toccarlo ed esplorarlo con la punta delle dita, adesso riusciva a vederlo perfettamente. Si, all’inizio era stato davvero imbarazzante come situazione, ma giorno dopo giorno si era abituata a quelle nuove sensazioni.
La suoneria del telefono si zittì proprio quando la ragazza era riuscita a liberarsi di Rodriguez ed era già con un piede sul pavimento. Ricadde con la testa sul cuscino sospirando e lui le si affacciò a ridosso, sorridendo, mentre con l’indice destro le percorreva l’addome piatto, disegnando cerchi concentrici. Eri iniziò a giocherellare con la sua treccina:
«Ho paura che fosse mia madre» disse pensierosa.
«Ma no» rispose lui, posandole un bacio sull’ombelico. «Vedrai che è qualche compagna di classe» un altro bacio all’altezza dello sterno «che inizia a preoccuparsi per la tua assenza.» Nuovo bacio vicino alla curva del piccolo seno.
«Ma se non ci si fila nessuno a noi due. Non si saranno neanche accorti che manchiamo da scuola da tutti questi giorni.»
«Meglio così» aggiunse il ragazzo francese, salendo fino a sfiorarle le labbra, cadendo pian piano in un bacio più acceso, ma ad interrompere l’atmosfera fu ancora una volta la suoneria del cellulare. Questa volta Eri lasciò il letto con un balzo, inginocchiandosi vicino al proprio zaino per pescare il telefonino dalla tasca anteriore e quando vide lampeggiare il nome di okaasan sullo schermo ebbe una paura tremenda di esser stata scoperta. All’improvviso gli sbagli e gli errori che aveva fatto fino a quel momento le apparvero nella loro completa gravità, mentre un pensiero si faceva largo nella sua mente: “okaasan mi vieterà di vedere ancora Kingsley”.
 
Yumiko avviò ancora una volta la chiamata con il tasto rapido. Si sorreggeva la testa con la mano e il gomito posato contro lo sportello della macchina. Ricardo Salas le era seduto di fianco, guidando e provando a destreggiarsi nel traffico all’ora di punta, ma i semafori e gli incroci rendevano alquanto ardua l’impresa. Dal momento in cui aveva ricevuto la telefonata dall’istituto scolastico, la donna era entrata in una specie di stato confusionale, aveva detto si e no cinque parole in spagnolo e le restanti in giapponese, cosa che aveva reso quasi impossibile una conversazione razionale con lei e alla fine Ricardo si era arreso all’idea di farle domande o di rincuorarla, a volte aveva l’impressione che neanche lo sentisse.
Erano fermi al semaforo, davanti e dietro di loro una fila interminabile di auto, motoveicoli, biciclette e lava vetri che si accostavano alle vetture con una spazzola e tre o quattro pacchetti di fazzoletti. Lo spagnolo udì distintamente la voce metallica della signorina all’altro capo del telefono che, dopo una serie di squilli, chiedeva di lasciare un messaggio alla segreteria e fu esattamente quello che fece Yumiko – forse per la quarta volta – nella sua lingua madre. Ricardo non parlava giapponese ovviamente, ma non fu difficile immaginarsi quello che strillava la donna. Questa chiuse la conversazione e quasi lanciò il cellulare sul cruscotto della Yaris, tenendosi la testa con entrambe le mani. Vedendola in quello stato il ragazzo si sentì dannatamente stupido per averle detto quelle cose dopo che la preside aveva telefonato:
«Che ti frega? Manco fosse tua figlia!»
«É sotto la mia responsabilità!» Aveva risposto Yumiko vestendosi in fretta, con il cellulare sorretto dalla spalla e schiacciato contro l’orecchio: sarebbe stata solo la prima di tante altre chiamate andate a vuoto.
Lui allungò la mano e la posò sulla testa della giapponese, ma questa non si mosse di una virgola. Un ciclone di brutti pensieri stava turbinando nella sua mente e ne era completamente sopraffatta. L’unica cosa che le veniva bene era telefonare e telefonare ancora, e così fece e quando dopo l’ennesima chiamata Eri rispose, Yumiko scoppiò in un pianto isterico:
«Perché cazzo non rispondi al telefono?» La sedicenne fece per dire qualcosa, ma sua madre non le diede il tempo. «Che te l’ho comprato a fare? Per chattare con le amiche?» Di nuovo Eri provò a spiegare, ma non ci fu verso. «Dove sei?»
Ecco la domanda da un milione di dollari! Pensò la piccola giapponese con il cuore che andava più forte di quando Kingsley l’aveva baciata la prima volta:
«So-sono a scuola» e lì tutta la frustrazione di Yumiko esplose come una bomba ad orologeria. Dopo aver temuto per la vita di sua figlia, adesso subentrava la rabbia di essere stata tradita, presa in giro, messa da parte, abbagliata dalla felicità del suo nuovo amore che un pochino l’aveva rammollita come mamma e, quindi, sentinella.
Ricardo Salas non capì praticamente niente di quella lite, l’unica cosa che sapeva era ciò che era evidente ai suoi occhi: accanto a lui c’era una donna distrutta dalla collera, che urlava con ira e piangeva di rabbia. Anche un altro sentimento si stava facendo strada dentro di lui, dopo quello che lo stava facendo sentire come uno stolto per la frase pronunciata dopo la telefonata della preside, ed era il senso di colpa. Lui temeva di conoscere il motivo di quell’atteggiamento da parte di Eri - che stando alle parole di Yumiko era sempre stata una ragazzina con la testa sulle spalle e più matura di quelli della sua età - ed era un ragazzo con la treccina e l’aria di qualcuno che è in eterna lotta con il mondo. Aveva sbagliato. Avrebbe dovuto dire a Yumiko che sua sorella aveva un fidanzatino.
Quando finalmente accostò davanti l’istituto, Yumiko scese dall’auto senza spiccicar parola e lui fu costretto a rincorrerla e a fermarla per le braccia, aveva gli occhi rossi e gonfi, la punta del naso arrossata. Mentre le parlava le asciugò le lacrime sul viso:
«Se vuoi entrò con te» disse, ma lei allontanò la mano di lui e scosse il capo, chiedendogli di attendere fuori, in macchina, se preferiva poteva tornarsene a casa con i mezzi pubblici. Salas rispose che l’avrebbe aspettata, poi le posò un lieve bacio sulle labbra e la osservò mentre si incamminava verso l’entrata della scuola.
 
Con sua somma meraviglia nell’ufficio della preside non era la sola, vi trovò già un uomo basso e tarchiato, i capelli marroni così lucidi che sicuramente erano tinti o un parrucchino, il viso imbronciato e la pelle abbronzata era tutta raggrinzita sulla guance. La preside era comodamente seduta nella sua poltrona, mentre l’uomo le era di fronte, in piedi, e sbraitava con ampi gesti delle braccia. La donna lo presentò, era Matteo Rodriguez, il ministro degli affari esteri. Yumiko gli strinse la mano, provando un brivido lungo la spina dorsale, era una persona viscida e le ricordava un rospo.
«Signora Okada Morales.» La preside si alzò e le fece cenno di accomodarsi, proprio davanti a lei, al fianco del rospo. «Come stavo spiegando al signor Rodriguez-»
«Ministro Rodriguez» la corresse lui, schiarendosi la voce e gonfiandosi il petto.
«Ministro» ripeté la preside con aria stanca, «sua figlia Eri Joaquin Morales è assente da scuola da più di dieci giorni oramai.» A Yumiko pareva di star vivendo un incubo, la voce lenta e profonda della preside le giungeva ovattata, come se fosse in una ampolla d’acqua «E insieme a lei manca anche un altro studente, il figlio del qui presente ministro.»
La giapponese voltò piano il collo per guardare il rospo, il quale riprese a sbraitare come un folle. Non comprese una parola di ciò che stava dicendo, quella rivelazione era stata la goccia fatale, il colpo di grazia. Sua figlia in giro chissà dove con uno sconosciuto...
Perché tutto stava assumendo dannatamente la sensazione di deja-vù?
Sua madre che viene chiamata dall’istituto di Tokio per essere avvertita che il rendimento della figlia, Yumiko Okada, era calato vertiginosamente nell’ultimo mese; la strigliata davanti alla preside della sua vecchia scuola; la confessione quel giorno stesso che era follemente innamorata di Joaquin: uno straniero dalla pelle ambrata e le spalle larghe.
«Signora Okada Morales?» Dal tono preoccupato della preside doveva chiamarla già da un po’ di tempo. «Si sente bene? Vuole dell’acqua?»
«Mia figlia sarà qui a momenti, le ho telefonato» provò ad ingoiare della saliva, ma la bocca e la gola era troppo asciutte. «È una brava ragazza, non… non» una lacrima le rigò il viso e si affrettò ad asciugarla. Ora capiva come si era dovuta sentire la sua okaasan quel giorno e d’improvviso desiderò averla vicina per poterla stringere a sé e chiederle scusa. L’aveva delusa, l’aveva insultata. L’aveva abbandonata.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta dell’ufficio che si aprì piano, cigolando sui cardini. Yumiko non dovette neanche voltarsi indietro per sapere che si trattava di Eri e dell’altro, il figlio del ministro rospo. Guardarla in faccia le avrebbe fatto perdere quel poco di buon senso che le rimaneva.
Il ministro balzò dalla sedia rovesciandola sul pavimento e scaraventandosi contro Kingsley, afferrandolo per il collo del giubbino e sbattendolo contro il muro. Iniziò ad inveire senza ritegno, mentre il ragazzo lo fissava dall’alto, le labbra strette. La preside li raggiunse, gridando al di sopra dell’uomo e intimandogli di lasciarlo stare, anche Eri faceva quello che poteva per separare i due uomini, ma solo le minacce della preside di chiamare la polizia distolsero l’uomo dall’intento di spaccargli la faccia.
Yumiko aveva resistito abbastanza per i suoi gusti. Si alzò e senza voltarsi chiese alla preside se c’erano delle carte da firmare, la donna si ricompose e gliele mostrò. Le firmò, chiedendo alla fine se sua figlia potesse riprendere a seguire le lezioni già dal giorno seguente:
«Signora Okada Morales.»
«Solo Okada andrà bene.»
«Signora Okada, le volevo parlare di-»
«Non si preoccupi, accompagnerò personalmente mia figlia fin dentro l’aula. Allora, può riprendere già da domani?» La preside sospirò e annuì con un cenno del capo. «Bene. Buona giornata.» Yumiko si voltò e i primi occhi che incrociarono non furono quelli di Eri, bensì quelli color nocciola di Kingsley Rodriguez, il suo muso imbronciato, il suo sguardo fiero. Si fissarono per un attimo che parve interminabile, studiandosi come due cani pronti ad azzannarsi alla prima mossa falsa dell’altro, poi Yumiko afferrò il polso di sua figlia - incurante delle lacrime di quest’ultima e degli scongiuri di aspettare, di lasciarle spiegare - e la trascinò così fin dentro la macchina, dove stava attendendo Ricardo.
Quest’ultimo quasi si spaventò vedendo la piccola giapponese piangere e disperarsi a quella maniera, chiedendo perdono alla donna che lui credeva sua sorella maggiore:
«Gomena-sai okaasan, gomena-sai» continuava a scusarsi Eri. «Io lo amo, okaasan, tu mi puoi capire, no?» Dinnanzi all’indifferenza della donna si rivolse a Ricardo, strattonandolo per un braccio. «Diglielo pure tu, diglielo quanto sono felice con Kingsley, diglielo.»
«Lo sappiamo che adesso sei arrabbiata Yumiko, però Eri ha solo sedici anni, è il suo primo amore e-»
«Tu lo sapevi?» Sbottò la donna, sempre più infastidita. «Lo sapevi e me l’hai tenuto nascosto?»
«Non è la fine del mondo, non è successo niente» si schermì il ragazzo.
«Fantastico!» Esclamò Yumiko allargando le braccia. «Tradita da entrambi, meraviglioso! Davvero stupendo!»
E il bello doveva ancora venire.
 
Appena giunsero a casa Eri si precipitò nella sua stanza. Quasi inciampò quando aprendo la porta Macchia le schizzò fra i piedi, abbaiando a scodinzolando per la felicità di essere finalmente libera. La ragazzina la guardò aggrottando la fronte, voltandosi verso sua madre, domandandole perché mai la cagnolina fosse rinchiusa nella sua camera. La donna liquidò la domanda della figlia con un minaccioso:
«Io e te non abbiamo ancora finito!»
A quelle parole Eri si rintanò nella propria stanza, intenta a non uscirci per i prossimi venti anni.
Macchia corse per tutta la casa, fermandosi poi a qualche metro da Ricardo e ringhiandogli contro. Quell’intruso non le garbava per niente, se ne doveva andare. Lui la scacciò con un movimento appena accennato della gamba e l’animale corse nella sua cuccetta, nascondendo il musetto nero fra le zampe. Yumiko la carezzò e le concesse una versione extra di croccantini, poi si sedette al tavolo della cucina e si accese una sigaretta:
«L’hai chiusa tu nella stanza di Eri?»
«Quando stiamo insieme non fa altro che mugolare per tutto il tempo» Salas si avvicinò alla donna. «Mi rende nervoso e mi distrae dal mio lavoro» le posò un bacio sulle labbra, ma la giapponese si scostò con garbo, tirando una boccata dalla cicca.
«Non posso più lavorare al night» disse senza giri di parole. Il ragazzo sospirò e si accomodò dall’altra parte del tavolo, di fronte a lei.
«Lo so.»
«Credevo che Eri fosse oramai capace di badare a sé stessa, ed invece…» la donna distolse lo sguardo, gli occhi le si riempirono di lacrime e la voce si incrinò.
«Ehi, guarda che non è successo niente.» Lui allungò la mano per prendere la sua. «Ha sedici anni, alla sua età è normale fare follie per amore.»
A chi lo dici, pensò Yumiko, ma proprio perché lei ne aveva fatta una da cui non era potuta tornare indietro, ci teneva particolarmente che sua figlia, la sua bambina, non avesse rimpianti in futuro.
«E per quanto riguarda il lavoro, in ufficio ci sono diverse scartoffie da sistemare, c’è da rispondere alle e-mail, al telefono che squilla in continuazione. Insomma, abbiamo urgente bisogno di una segretaria.» Gli occhi della donna si lasciarono sfuggire una lacrima e lo spagnolo si distese sulla superficie del tavolo per asciugargliela con il pollice. «La paga rimarrebbe la stessa, le ore diminuirebbero.» Sorrise. «Che ne dici?»
«Dico che sei il mio angelo custode.»
«L’angelo custode è uno scalino più importante dell’anima gemella, oppure…?»
Yumiko lo rimproverò con un’occhiataccia e lui mostrò i palmi in segno di resa.
 
Eri fu accompagnata a scuola tutti i giorni da sua madre, fin dentro l’aula, proprio come aveva promesso alla preside otto giorni prima. La ragazzina attraversava il corridoio a testa bassa, leggermente più indietro di Yumiko che, al contrario, camminava a testa alta, con i tacchetti delle scarpe che riecheggiavano in tutto l’ambiente, improvvisamente silenzioso al loro passaggio. Alcune volte Kingsley era già seduto al banco – dopo la sfuriata del professore per il bacio a cui aveva assistito, erano tornati a sedere vicini – ed era impossibile non osservarsi a vicenda fra lui e la mamma di Eri. Quello che indispettiva più di ogni altra cosa la donna era il suo sguardo impenetrabile, strafottente, come se niente e nessuno avesse potuto nuocergli. Di sicuro la reazione del padre adottivo del ragazzo - era stato lo stesso Ricardo a raccontarglielo, omettendo il fatto che il ministro Rodriguez fosse anche Johnny, l’amante segreto e immortale di Oscar - le aveva dato da pensare e non poco. Che fosse un uomo viscido e austero lo aveva notato dal momento che l’aveva guardato in faccia, ma da lì ad attaccare un ragazzino mettendolo con le spalle al muro, letteralmente parlando, c’era una gran bella differenza. Riusciva a comprendere perfettamente cosa c’avesse trovato in lui sua figlia, spersa in un mondo che non le apparteneva aveva trovato uno come lei: un disadattato, uno straniero in terra straniera, con un passato difficile come il proprio, solo contro tutti. Di certo questo non giustificava il comportamento adottato da qualche mese a quella parte, le bugie che aveva architettato, i lunghi pomeriggi che diceva di stare al corso di recupero di spagnolo quando invece era in giro con quello lì.
Dopo una settimana e poco più la preside l’attese davanti ai cancelli d’entrata della scuola, affermando che non c’era bisogno che l’accompagnasse fin dentro la classe, che sua figlia era una ragazza intelligente e sicuramente aveva capito la lezione e gli sbagli commessi. Yumiko si era convinta e da allora la lasciava davanti l’istituto, osservandola fin quando non la vedeva entrare e sparire oltre le porte. Poi si recava al lavoro fino all’ora di uscita da scuola di Eri che aspettava seduta in auto, talvolta in compagnia di Ricardo Salas. Aveva notato che sua figlia sembrava sollevata nel vederlo, forse consapevole che grazie alla sua presenza non avrebbe dovuto affrontare il terzo grado a cui sua madre la sottoponeva durante il tragitto da scuola a casa. Quando beccavano il semaforo rosso a Eri veniva la voglia di scendere e farsela a piedi piuttosto che rispondere alle domande di Yumiko. Questo ovviamente non accadeva davanti a Ricardo che riusciva sempre a stemperare l’atmosfera con le sue battute spiritose.
 
Eri e Kingsley erano le persone che soffrivano di più in quel periodo. I giorni che trascorrevano insieme nella stanza di lui erano finiti, le scappatelle sul tetto dell’edificio scolastico si erano concluse. Era diventato addirittura faticoso scambiarsi un semplice bacio, costretti in aula sotto lo sguardo dei compagni di classe, i quali non facevano che alimentare le dicerie sul loro conto, o sotto gli sguardi vigili dei bidelli e dei professori in giro per i corridoio della scuola, quando avevano tentato di incontrarsi con la scusa di dover andare in bagno; parlavano a lungo su Facebook e con i messaggi sul cellulare. Rodriguez non le chiedeva mai di sua madre, gli era bastato uno sguardo per capire che lui non le andava a genio, ma di questo non si meravigliava. Non era mai stato simpatico a nessuno, eccetto ad Eri.
Le cose peggiorarono quando la ragazza si assentò da scuola per qualche giorno. All’inizio Kingsley credeva che la cosa peggiore di tutta quella storia fosse il fatto di non poter più passare del tempo assieme, sudandosi perfino un innocuo tocco di mani sotto il banco o fingere di raccogliere una matita per scambiarsi un ingenuo bacetto. Invece i giorni trascorsi senza vederla furono anche peggiori degli altri. I soli messaggi non bastavano più, le telefonate a notte fonda non lo soddisfacevano come prima. Eri a volte non ce la faceva neanche a parlare al cellulare, diceva di essere stanca, di avere quella perenne sensazione di vomito, ed erano ormai diversi dì che si precipitava in bagno a rigettare non appena apriva gli occhi la mattina.
«Ho l’influenza, Kingsley, mi sono beccata un virus intestinale.»
Preoccupata Yumiko la portò in visita dal medico di famiglia. Dopo aver esaminato sua figlia, l’uomo in camice bianco le si sedette di fronte, si tolse gli occhiali da vista e pulì le lenti spesse con un fazzoletto. La donna ebbe l’impressione che evitasse di guardarla in faccia.
«Signora» si schiarì la voce, la giapponese iniziava a spazientirsi e si sistemò meglio sulla poltroncina in pelle scura. «Ha mai pensato che sua figlia potesse essere incinta?»
Eri si stava ancora tirando giù la maglietta, seduta sul lettino immacolato dello studio, udendo quelle parole alzò il capo di colpo, il cuore trasformato in un tamburo nel petto. Sua madre era letteralmente pietrificata. Scese con un balzo e cominciò ad urlare contro l’uomo:
«Io ho l’influenza! Mi dia delle medicine da prendere e tra due giorni sarò guarita.» Non ricevendo risposta né dall’uno, né dall’altra, proseguì, strappando un foglietto dal block notes del medico e sbattendoglielo davanti, afferrò una penna al volo dal porta oggetti e la posò sul foglio. «Avanti, mi scriva le medicine!»
Solo allora Yumiko si alzò, molto composta ma con il viso pallido, sfiorò il braccio di sua figlia per dirle di andare via, tuttavia la ragazza la scacciò, tornando a prendersela con l’uomo.
«Questi medici di merda occidentali non sanno neanche riconoscere una stupida influenza!»
«Eri, andiamo.»
«NO! Voglio delle medicine per guarire!» Yumiko le strinse il braccio con maggior forza, strattonandola affinché la ragazzina la guardasse negli occhi.
«Andiamo, ho detto!» Salutò il dottore con un cenno del capo e trascinò sua figlia con sé. In sala d’attesa tutti i presenti le fissarono ammutoliti, Eri fece una linguaccia ad una donna di mezza età e urlò  ad un’altra cosa cazzo avesse da guardare.
Durante la strada del ritorno la piccola asiatica non fece che giurare a sua madre di non essere incinta, era impossibile! Ma Yumiko le conosceva fin troppo bene quelle suppliche e quelle lacrime disperate: se fosse stata davvero certa di quello che le stava giurando non avrebbe pianto disperata, come uno che chiede di revocare la propria condanna a morte. La donna non disse una sola parola, l’unica volta che lo fece fu quando parcheggiò dinnanzi ad una farmacia e farfugliò di aspettarla in macchina. Ritornò dopo una decina di minuti, aveva comprato un test di gravidanza. Eri riprese a strillare, a giurare su sé stessa che mai l’avrebbe fatto perché non era incinta, eppure il risultato del test decretò tutt’altro.
Yumiko era seduta al tavolo della cucina, al solito posto, quello vicino ai fornelli, Eri se ne stava con le mani intrecciate sotto il mento. Se sua mamma non l’avesse conosciuta abbastanza c’era quasi da pensare che stesse pregando Gesù Cristo. Nel corso di quella attesa i secondi si trasformarono in ore e i minuti in giorni, e quando il test confermò l’ipotesi del dottore fu come se un’enorme voragine si spalancasse sotto ai piedi delle due donne.
La maggiore si coprì il volto con le mani. Era così arrabbiata, così confusa, così incredula che non riusciva neanche a piangere; al contrario di Eri che invece riprese la sua litania di scuse e di improbabilità. Sua mamma tirò via le mani dal viso e l’ascoltò a lungo prima di interromperla:
«Come hai potuto?»
«Io non ho fatto niente! Devi credermi mamma, io non ho-»
«Come hai potuto farmi questo?»
«Sarà stato un errore, sarà rotto!» Eri prese in mano il test di gravidanza e cominciò a studiarlo su e giù, a destra e a sinistra, come se cercasse qualcosa, magari un pulsante minuscolo.
«Hai solo sedici anni, Eri, sedici! Sai cosa significa, eh? Lo sai?» Yumiko si alzò e batté il palmo sul tavolo, il tono di voce salì di qualche decibel.
«Deve essere per forza rotto, in questo Paese di merda non funziona niente!»
La donna glielo strappò dalle mani e lo scagliò a terra. L’aggeggio urtò il muro e si spezzò in due parti.
«Non ci sono errori! Non è rotto! Sei incinta! Incinta! Di quello lì che neanche conosci!»
«Lo conosco invece. E lo amo anche e lui ama me!» Eri piangeva e parlava, tremando da capo a piedi.
«No che non lo conosci!»
«Vuol dire che allora anche tu quando sei rimasta incinta di papà non lo conoscevi per niente!» D’istinto Yumiko la colpì in faccia con uno schiaffo.
La ragazzina si toccò la guancia dolorante, non poteva crederci, non poteva star accadendo davvero. Sua madre l’aveva picchiata: in sedici anni di vita mai aveva alzato le mani su di lei e adesso le aveva mollato un ceffone. Quando tornò a guardarla stava piangendo.
«Non parlare di tua padre e me a questo modo. Noi ci amavamo davvero!»
«Ed è lo stesso sentimento che proviamo noi, okaasan!» Eri le toccò la mano, la stessa che l’aveva colpita. «Crescerò questo figlio come tu hai cresciuto me.» Yumiko indietreggiò, scuotendo il capo.
«Tu non hai idea di tutte le cose a cui dovrai rinunciare, non sai niente. Non sai che dovrai restare a casa il sabato sera mentre le tue compagne escono a divertirsi; non sai che dovrai rinunciare all’università; alla tua libertà; alla tua giovinezza. A tutte le volte che dovrai soffrire quando ti sentirai emarginata o alle occasioni di lavoro che ti verranno negate perché hai un figlio. Tu non immagini nemmeno quello che si prova a sentirsi diversa.» La giapponese si fermò a prendere aria. «Domani facciamo le carte per l’aborto.»
«Mi dispiace se sono stata un peso per te.» Eri chinò il capo.
«Non ho detto questo, cerco solo di farti capire che-»
«Mi dispiace davvero.» Eri si voltò e corse via, spalancò la porta d’ingresso con una tale ferocia che questa finì contro la parete facendo cadere un quadro appeso alla parete, la cornice di vetro si ruppe. La ragazzina corse giù per le scale, saltandole a due a due. Yumiko le fu subito dietro, tuttavia il tentativo di raggiungerla si rivelò vano. La chiamò con quanta voce aveva in gola, ma sua figlia non si fermò e quando giunse in strada di lei non c’era più traccia.
 
Eri corse senza fermarsi per quasi un chilometro. Le gambe le dolevano e più volte furono sul punto di abbandonarla rischiando di farla rotolare sull’asfalto del marciapiede. Il cuore le martellava in petto, fino nelle tempie; una fitta lancinante le squarciò il lato destro dello stomaco e oramai i polmoni ricevevano meno aria di quanta ne lasciavano uscire. Si accomodò su una panchina in ferro battuto, alzando lo sguardo sulla luna quasi piena, chiedendosi se anche in Giappone fosse così bella e luminosa.
Dei sussurri alle sue spalle la fecero tornare nella difficile realtà in cui si trovava. Si voltò: una coppietta passeggiava mano nella mano, la gelateria dai gelati buonissimi stava chiudendo. Solo allora si ricordò dell’ora tarda e, soprattutto, che era in giro per la città sola e indifesa. Cercò il cellulare nella tasca del giubbotto, ma non trovò né il telefono né tantomeno il giubbotto. Bella fregatura! Tornata a casa dal medico se l’era tolto e l’aveva gettato sul divano, poi per la fretta di scappare via non l’aveva recuperato. Di rientrare non ci pensava neanche, se avesse avuto il cellulare con sé avrebbe chiamato Kingsley che sicuramente sarebbe passato a prenderla al volo. Di arrivare a piedi fino alla sua abitazione non se ne parlava, troppo distante per raggiungerla priva di un autoveicolo, senza contare il fatto che dovevano essere le 23 passate. Fu in quel momento però che ebbe un’illuminazione: la casa di Ricardo Salas, al contrario, distava solo pochi minuti.
 
 
   
  
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