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Autore: IamNotPrinceHamlet    10/03/2018    2 recensioni
Seattle, 1990. Angela Pacifico, detta Angie, è una quasi 18enne italoamericana, appassionata di film, musica e cartoni animati. Timida e imbranata, sopravvive grazie a cinismo e ironia, che non risparmia nemmeno a sé stessa. Si trasferisce nell'Emerald City per frequentare il college, ma l'incontro con una ragazza apparentemente molto diversa da lei le cambia la vita: si ritrova catapultata nel bel mezzo della scena musicale più interessante, eterogenea e folle del momento, ma soprattutto trova nuovi bizzarri amici. E non solo.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nel capitolo precedente: su consiglio di Meg, Angie chiama Susan Silver esponendogli il suo problema e chiedendo spiegazioni sulla data a San Diego. Angie scopre che i Mookie Blaylock ora si chiamano Pearl Jam. Susan le promette di chiamare qualcuno degli Alice in Chains perché la vada a prendere e fra tutti chiama proprio Jerry Ca ntrell. Jerry la va a recuperare e non la riconosce subito visto il cambio di look, che a lui non piace. Durante il viaggio parlano più o meno tranquillamente e a Jerry sembra ci sia di nuovo la vecchia intesa. Non vuole ammetterlo, ma si illude di avere ancora speranze e che lei sia venuta a San Diego per vedere proprio lui. La accompagna in albergo dagli altri, che la accolgono felici e stupiti, felici sono soprattutto i vincitori della scommessa. Angie chiede di Eddie perché non è con gli altri, Jerry l’accompagna alla spiaggia lì vicino, dove sta facendo surf con il suo amico Craig. Angie e Eddie si incontrano e da come si comportano Jerry ha un’improvvisa illuminazione e capisce che tra i due c’è più di un’amicizia. Se ne va ferito mentre i due non si tolgono gli occhi di dosso. Craig conosce Angie e prende in giro Eddie davanti a lei, suggerendo poi che l’amico ospiti la ragazza visto che è per colpa sua che ha sbagliato giorno. Eddie ovviamente accetta e i due vanno da Eddie, mentre Craig se ne va lasciandoli soli.

***

“Non fissare, non fissare, non fissare…” ripete la parte buona della mia coscienza mentre prendo posto in macchina e Eddie si adopera per fissare la tavola al portapacchi.

“Capezzoli, capezzoli, capezzoli…” ribatte la parte malata spingendomi a lanciare un'altra occhiata al di là del finestrino per ammirare il surfista che si è liberato per metà della muta e ne indossa solo la parte inferiore.

Inutile dire quale metà stia prendendo il sopravvento sull'altra. Se non mi do una calmata finirò per rispondere alla sua prossima domanda urlandogli Capezzoli! in faccia. Non che ci siano solo quelli da guardare, insomma, i dettagli interessanti non mancano, dagli addominali agli altri muscoli che… beh, insomma mi sembrano distribuiti più che bene, su cui scivolano ancora piccole goccioline d'acqua dai capelli bagnati, dai piccoli nei sul petto a quella sottile e quasi invisibile striscia di peluria che dall'ombelico va giù giù… Forse un tuffetto rinfrescante nell'oceano avrei dovuto farlo anch'io.

“Arrivo subito eh! Scusa ancora per tutti i casini che ti ho combinato” Eddie richiama la mia attenzione e voltandomi ringrazio istantaneamente dio per gli occhiali da sole a specchio che nascondono alla sua vista i miei occhi probabilmente spiritati che lo vedono appoggiarsi al cofano dell'auto, intento a togliersi completamente la muta. Cos'ho fatto di male, o di bene, per meritarmi questo?

Cap… capirai che casini: due giorni in più a San Diego con vitto, alloggio e concerto inclusi, sono proprio la persona più sfortunata del mondo!” gli semi-urlo dal finestrino.

“Sull'alloggio e il concerto non ci sono dubbi, il vitto lascerà un po’ a desiderare, perché in casa non ho praticamente niente” ridacchia imbarazzato per il suo frigo vuoto, mentre non mostra alcuna timidezza nel tirare giù la muta portandosi dietro per un piccolo tratto anche parte dei pantaloncini che indossa sotto, per poi risistemarseli lentamente in vita.

“Beh, un telefono per ordinare una pizza a domicilio ce l'hai, no?” e per chiamare un'ambulanza, che mi servirà presto se andiamo avanti di questo passo.

Eddie fa sì con la testa mentre sfila una gamba e saltella maldestramente su un piede solo, come farebbe una persona qualunque, come farei io, totalmente incurante o ignaro, o entrambe, della sua bellezza devastante e degli effetti che questa sta avendo su di me.

“Dopo aver sistemato tutto coi biglietti eccetera ti porto a fare un giretto turistico, ti va?” propone, finalmente libero dalla muta che ora è tra le sue mani e viene prontamente lanciata nel bagagliaio. Da qui lo vedo tirare fuori un asciugamano con cui si tampona il corpo e i capelli e in un attimo mi ritrovo con delle prove inoppugnabili per confutare la teoria del karma, della reincarnazione e delle vite precedenti, cazzate in cui comunque non ho mai creduto. Perché se l'anima migra di corpo in corpo per elevarsi su un piano di coscienza superiore, come può il gradino più basso essere occupato dalle rocce o dagli altri oggetti cosiddetti inanimati? Ci sono persone che conducono esistenze di gran lunga molto più insignificanti dell'asciugamano di Eddie in questo momento, che mi sembra invece il perfetto punto d'arrivo una volta liberatici del nostro debito karmico, il modo migliore di trascendere l'esistenza. Le mie considerazioni spirituali, ma altamente terrene, si interrompono quando Eddie mi raggiunge in macchina sedendosi al posto di guida, con delle Converse slacciate ai piedi e l'asciugamano momentaneamente appoggiato sulle ginocchia mentre s'infila una maglietta grigia dei Dead Kennedys. “Non ti va?”

“Eh? No, sì! Sì sì, certo che mi va. Non vorrei sconvolgere i tuoi piani comunque…”

“Non ci sono piani da sconvolgere, non avevo fatto progetti per oggi” mi rassicura mentre si asciuga ancora un po’ i capelli.

“Sicuro?”

“Sicuro. Perciò meno male che sei arrivata: adesso il mio progetto sei tu” mi dà una via di mezzo tra un pizzicotto e un buffetto sulla guancia e lancia l'asciugamano sui sedili posteriori prima di mettere in moto e partire.

“Di chi è questa macchina?”

“Del mio amico Jamie, me la presta finché sono qui, visto che il mio pickup è rimasto a Seattle”

“Anche la tua tavola è rimasta a Seattle, o sbaglio? Questa non mi sembra la tua” domando e lui si gira e mi guarda come stupito, come se gli sembrasse strano che io possa ricordarmi di una cosa del genere.

“Già, è di Jamie anche quella” risponde abbassando il parasole per bloccare i raggi, che ora non gli puntano più gli occhi, ma continuano a colpire i suoi riccioli rivelandone le punte più chiare e appena più asciutte. Non l'ho mai visto così bello e non c'entra niente il fatto che fosse mezzo nudo fino a cinque minuti fa. E’ bello di una bellezza luminosa e delicata, ma allo stesso tempo viva, calda e in un certo senso selvatica, sanguigna. Sarà che non l'avevo mai visto al sole della California.

“Se ti ha prestato anche la muta ti ha fatto tutto il completo ahahah” ma cosa cazzo rido?

“No, quella è mia, era rimasta a casa. Anche perché Jamie è alto un metro e novanta, la sua muta la perderei alla prima onda” illustra sghignazzando un'immagine in cui personalmente non ci vedo nulla da ridere, anzi… INSOMMA, ANGIE, RIPIGLIATI!

Cap... capisco, eheh” cos'ho appena finito di dire?! Ti comporti come se non avessi mai visto un bel ragazzo finora. Come se non avessi mai visto Eddie. Voglio dire, siete amici da un po’, ci hai pure dormito assieme, lo sai da un pezzo che è figo, Cristo santo!

“Non noti niente?” mi interroga dopo un po’ e io lo guardo come un marito che guarda smarrito la moglie che è appena stata dal parrucchiere e la vede sempre uguale. Ma quella che ha cambiato pettinatura sono io e in lui non noto niente di diverso, a parte l'essere appunto più gnocco del solito, ma dubito sia questa la cosa che Eddie sta cercando di farmi capire.

“Uhm… no. Cosa?” Eddie stacca le mani dal volante e le allarga con i palmi in alto, come per indicare qualcosa di palesemente evidente, ma io ancora non capisco e azzardo: “C'entra la macchina?”

Eddie scuote la testa e allunga la mano sull'autoradio, alzando il volume.

As long as I gaze on Waterloo sunset, I am in paradise…

“AH! La canzone! E’ la mia cassetta?”

“Pensavi stessero passando casualmente i Kinks alla radio?”

“Poteva essere… Allora ti piace!”

“Certo, mi sembra di avertelo già detto”

“Sì, intendo dire che ti piace sul serio”

“Quale sarebbe la differenza?”

“Che ti piace tanto da tenerla in macchina. E non sapevi nemmeno che ci saremmo visti”

“Eheh, no, non è stata una mossa pianificata per fare colpo” chiarisce mentre siamo fermi a un semaforo, con lo sguardo rivolto alla costa alla sua sinistra. Colpo? Che colpo?

Parcheggiamo lungo la strada costiera dopodiché Eddie recupera prima la tavola, poi la muta dal bagagliaio e mi fa strada in direzione della spiaggia. Seguiamo un sentiero che si dissolve nella sabbia e mentre abbasso lo sguardo per constatare di nuovo quanto le mie scarpe siano poco adatte, prendendo per un attimo in considerazione l'idea di toglierle del tutto, vengo quasi investita da una coppia di ragazze che fanno jogging e che mi chiedono prontamente scusa, senza tuttavia perdere minimamente il passo. Un centinaio di metri più avanti il sentiero riprende, proprio dietro a una serie di panchine disposte a L sotto un albero di sicomoro basso ma dalla chioma molto ampia. La casa di Eddie è poco più in là, nascosta da altri alberi, dei pini di una varietà che non conosco, a un passo dall'oceano e dalla costa che immagino brulicante di surfisti e bagnanti nei mesi estivi, ma allo stesso tempo parzialmente isolata, quasi nascosta, dietro a questa vegetazione tipicamente marittima. La casa è davvero come me l'aspettavo, forse un po’ più piccola, di un solo piano, color verde acqua, circondata da uno steccato di legno non dipinto, con una siepe non troppo alta sul davanti, cinque gradini che conducono al portico e all'entrata.

“Prego, dopo di te” Eddie mi invita a entrare e mi accorgo che con le mani occupate da muta,  tavola e mazzo di chiavi, mi sta tenendo aperto il cancelletto con un piede e realizzo che piuttosto sarebbe toccato a me aiutarlo, ma ormai… Entro velocemente e salgo la scaletta, mentre Eddie appoggia la tavola a terra nel cortile e stende la muta sulla ringhiera del portico. La casa sarà anche un po’ nascosta, ma qui la spiaggia e l'oceano si vedono benissimo.

“Bel panorama!” esclamo appoggiandomi alla balaustra e facendo un bel respiro di aria salmastra del Pacifico, che però è asciutta e leggera.

“Già. E adesso è anche meglio.” mi volto e vedo Eddie appoggiato allo stipite della porta aperta, con le mani nelle tasche dei suoi pantaloncini, che guarda a terra con un mezzo sorriso, prima di alzare lo sguardo e farmi un cenno “Dai, entra”

“Permesso…” dico come se ci fosse qualcun altro a parte noi e mi sento subito scema per questo.

“Siamo soli, non c'è nessun altro in casa, Angie.” Eddie sorride e butta le chiavi su un tavolino rotondo di metallo che sta accanto al divano. Così facendo nota due paia di boxer che troneggiano in cima a una pila di panni apparentemente sporchi ammucchiati proprio sul sofà e li acchiappa al volo, per poi allontanarsi in un'altra stanza. Torna con una cesta vuota, che riempie velocemente mentre si scusa imbarazzato “Cazzo. Scusa il casino, non aspettavo ospiti”

Io però non ci faccio troppo caso, sono più intenta ad analizzare l'interno della stanza. Il colore predominante è il blu, nei due divani, nei cuscini, nei mobili della saletta, nel frigorifero, in un paio di quadri astratti appesi alle pareti, perfino nel bollitore appoggiato al piccolo angolo cottura e sulla copertina della rivista sportiva appoggiata all'altro tavolino rettangolare tra il divano e la tv. Ecco, che Eddie abbia una tv mi pare strano, ma il baseball e il basket dovrà pur guardarli da qualche parte, no? Per non parlare delle televendite. Forse sarebbe più utile in camera da letto.

“Tranquillo, figurati. E poi non c'è casino. E’ una bella casa, complimenti”

“Grazie. Sarà mia fino alla fine del mese, quindi dato che sono qui ho pensato di sfruttarla un altro po’, visto che tanto l'ho già pagata” commenta allontanandosi di nuovo con la cesta del bucato.

“Ottima idea” mi avvicino alla zona cucina e noto che le sedie attorno al tavolo grande non sono tutte uguali, due sono di legno verniciato di nero, due sono pieghevoli come quelle da campeggio, sempre nere.

“Vuoi fare una doccia?” domanda innocentemente rispuntando in soggiorno, di nuovo senza maglietta e con un altro asciugamano al collo.

“Mmh?”

“Dovrei farla anch'io”

“Ah” a quanto pare ho perso l'uso della parola e mi esprimo solo attraverso suoni gutturali o vocalici.

“Vai prima tu se vuoi, io la faccio dopo” precisa guardandomi perplesso.

Ma certo, dopo.

“No, tranquillo, non la devo fare, vai pure”

“Sicura?”

“Sì, vai a farti la doccia, magari mi do giusto una rinfrescata quando hai finito”

“Guarda che posso aspettare”

“Anch'io! E poi, in realtà ci sarebbe un altro favore che dovrei chiederti”

“Ma certo, chiedimi pure”

“Dovrei fare una telefonata, anzi due. Una a Meg per dirle che fine ho fatto e un'altra alla mia amica Dina”

“Quella che studia a Los Angeles?”

“Lei! Le avevo detto che sarei venuta in California per un concerto di amici in questi giorni ed eravamo rimaste d'accordo di sentirci per fare in modo di vederci”

“Ok, non c'è problema. Il telefono dovrebbe essere da qualche parte in mezzo ai cuscini del divano”

“Sarò velocissima, prometto”

“Fai pure con comodo, io vado. Ah dammi che lo metto in camera,” torna verso di me e mi fa cenno di porgergli il mio zaino “e ovviamente fai come se fossi a casa tua: guarda la tv, bevi qualcosa, leggi un libro, riposati… Puoi fare tutto quello che vuoi, ok?”

“Grazie. Però stanotte dormo sul divano, è bello grande e sembra comodo” propongo indicando quello ad angolo appoggiato alla parete.

“Certo, certo. Io vado, eh?” Eddie si allunga proprio su quel divano, infila una mano tra i cuscini e ne estrae il cordless, che appoggia al tavolino prima di andarsene di nuovo.

Comunque sto migliorando, non ho rischiato di dire capezzoli stavolta.

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Come immaginavo, trovare parcheggio all'aeroporto si rivela un'impresa impossibile. Dopo aver fatto scendere Angie, ho provato a sostare davanti all'ingresso del terminal, ma sono stato invitato ad allontanarmi poco dopo. Ho trovato un buco in una stradina laterale vicino alla Guardia Costiera, saranno una ventina di minuti a piedi da lì all'aeroporto e io sto camminando già da dieci. Anzi, sto correndo. Cosa sono venti minuti quando ho ben due giorni da trascorrere con lei? Due giorni. Rido da solo come un coglione. Da un lato me lo sentivo che sarebbe venuta, beh, diciamo che ci speravo, ma dall'altro non volevo illudermi troppo per non rimanerci male in caso non l'avesse fatto. Invece l'ha fatto e grazie alla mia confusione mentale nel comunicarle le date, abbiamo un giorno in più da passare insieme. Bella mossa, Eddie! Se avessi voluto farlo apposta, non ci sarei riuscito così bene. Mentre cammino lungo la Harbor guardo a destra e a sinistra per vedere se per caso ci sia Angie tra le persone che si dirigono nella direzione opposta, anche se le ho detto di aspettarmi all'entrata una volta finito se non mi avesse visto là fuori. E probabilmente sta seguendo le istruzioni perché non la vedo e con il suo nuovo colore di capelli non dovrebbe essere difficile individuarla anche in mezzo ad altre persone. Mi piacciono i suoi capelli, è come se avesse tirato fuori qualcosa che finora era rimasto nascosto, i suoi colori più intimi. Poi si sa che cambiare pettinatura più o meno drasticamente riflette spesso anche un cambiamento generale, la voglia di dare un taglio con una situazione passata e ricominciare e, visti gli eventi spiacevoli degli ultimi tempi, trovo che sia un ottimo segnale. E a parte tutto, le stanno bene, veramente. E’ bellissima, libera, in vacanza, lontana dai doveri e dalle costrizioni di tutti i giorni. L'idea di vederla al di fuori del solito contesto mi incuriosisce. Aspetto il mio turno alle strisce pedonali e penso che non posso lasciarmi scappare questa occasione, devo fare qualcosa, ho già perso un sacco di tempo. Devo dichiararmi una volta per tutte e poi come va va. Se dovesse respingermi ci starei male, ma poi lei tornerebbe a Seattle e anch'io dopo una ventina di giorni, e una volta tornati alla nostra quotidianità sarebbe forse più facile fare finta che nulla sia mai successo. Forse.

 

Arrivo all'aeroporto e la vedo proprio dove l'ho lasciata, seduta sul marciapiede con gli occhiali sulla testa, il mento appoggiato allo zaino che tiene in grembo e un broncio irresistibile sul viso. Sarà arrabbiata perché l'ho fatta aspettare. Saprò come farmi perdonare…

“Ehi, eccomi! Scusa, ma i parcheggi qui costano una fucilata e io sono un pezzente, ho parcheggiato a casa di dio.” la raggiungo con una piccola corsetta e lei mi guarda senza alzarsi né parlare, ancora imbronciata. A quanto pare l'ho combinata grossa, dovrò sfoderare tutte le mie armi “Tutto ok? E’ tanto che aspetti?”

“No, sono stata dentro fino adesso a parlare con la tipa al desk per cercare di trovare una soluzione, ma non c'è stato verso” risponde sospirando e allora capisco che non è arrabbiata con me.

“Che vuoi dire?” le chiedo sedendomi accanto a lei.

“Non mi possono cambiare il biglietto di ritorno”

“Come no? E perché? Io l'ho fatto un sacco di volte da Chicago, quando mi cambiavano i turni all'ultimo”

“Chicago?” chiede lei col faccino sempre triste, ma stranita dalla mia affermazione.

“E’ lì che sono nato, ci vive gran parte della mia famiglia da parte di mia madre e molti amici. Anch'io ho vissuto lì per anni”

“Pensavo fossi di San Diego”

“Sono venuto qui da bambino coi miei… sì beh, insomma, con mia madre e quell'altro, assieme ai miei fratelli. Fino all'ultimo anno di liceo ho vissuto qui, poi sono tornato a Chicago. E poi di nuovo qui, circa sei… sette anni fa, più o meno”

“Quindi tieni più per i Padres o per i Cubs?” accenna un sorrisino che per un attimo scaccia via le preoccupazioni dal suo volto.

“Secondo te?”

“Beh in entrambi i casi sei messo malissimo, ma penso più i Cubs. Mi sai di uno che ha il gusto della tragedia” rigira il coltello nella piaga, ma la lascio fare volentieri.

“Almeno noi qualcosina l'abbiamo vinta”

“Non negli ultimi 82 anni” ribatte con una bella faccetta tosta e vorrei tanto punirla. Con un bacio a tradimento magari.

“Torneremo a vincere… dobbiamo solo aspettare il 2015, no? Contro Miami, giusto?” il mio riferimento cinematografico scioglie il ghigno beffardo in una dolce risata.

“Ahahah sì, quando Miami avrà una squadra”

“Comunque non ho capito perché non puoi cambiare la data del volo”

“Perché ho preso il biglietto con un'offerta super-economica e non sono stata lì a informarmi su tutte le condizioni. Praticamente potevo cambiare data e destinazione fino a sette giorni prima, solo la data tre giorni prima. E non è neanche rimborsabile”

“Va beh, cazzo, un giorno in più! L'addetta non poteva chiudere un occhio?” ribatto incazzato.

“In realtà dovevo cambiare anche la destinazione…” spiega levandosi gli occhiali dalla testa.

“Perché?”

“Beh perché… ecco, già che partivo mi sono fatta dare qualche giorno in più e… beh, avevo pensato di andare a trovare mia madre… e mio padre” Angie gioca ad aprire e chiudere le bacchette degli occhiali

“A Boise?”

“Sì, esatto!” risponde prima che io abbia finito di parlare.

“E poi da Boise hai fatto un altro biglietto per Seattle immagino”

“Non rimborsabile neanche quello” aggiunge sconsolata per poi portarsi una delle bacchette alla bocca, iniziando a mordicchiarla, ed è l'ennesima immagine di lei che vorrei fotografare da quando è arrivata, per averla sempre con me e non dimenticarla, anche se mi sembra alquanto improbabile che io mi possa scordare di tutto questo.

“Bel casino”

“Praticamente pur di risparmiare, in realtà, ci ho smenato un sacco di soldi”

“Hai dovuto prenotare un altro volo quindi”

“No” sospira e mi spiazza.

“Ah, allora hai risolto alla fine?” chiedo confuso.

“No, non ho risolto, ma non ho comprato un altro biglietto aereo, non me lo posso permettere” scuote la testa, sempre con la stanghetta degli occhiali fra le labbra.

“Te li presto io”

“Tu?” mi guarda scettica e istintivamente mi squadro anch'io da solo dall'alto al basso senza sapere il motivo.

“Sì, perché?”

“Tu che hai parcheggiato a due miglia di distanza da qui per non pagare un parcheggio?”

“Va beh, perché quella sarebbe stata una spesa superflua. Tu invece ci devi tornare per forza a Seattle" ma davvero ci devi tornare per forza? Potresti anche rimanere.

"Appunto"

“E quindi? Come fai?” resti qui con me e poi ci segui per ciò che resta del tour fino a tornare a casa a Seattle insieme. Insieme in tutti i sensi magari, come una coppia, perché no.

“C'è solo un modo per tornare a Seattle”

 

“Tu sei pazza”

“Secondo te cos'altro potevo fare?” anche se indossa gli occhiali lo so che sta alzando gli occhi al cielo mentre usciamo dalla stazione dei pullman.

“E’ un giorno di viaggio, anzi, di più. Lo so perché l'ho fatto. Beh, in macchina, però praticamente è la stessa cosa. A parte il fatto che ero leggermente incazzato e schiacciando un po’ di più sul pedale probabilmente ci ho messo qualche ora meno”

“In compenso ti sei perso dopo”

“Eheh già… Comunque non cambiare discorso, in autobus è una mazzata. Devi pure cambiare”

“Va beh, si cambia a Los Angeles, poi è tutta una tirata”

“Appunto, tutta una tirata, in un autobus, uno spazio scomodo e ristretto. Proprio tu che sei claustrofobica poi!” continuo camminandole accanto lungo l'assolato San Ysidro Boulevard.

“Grazie, Ed, tu sì che sei di conforto. Anche l'aereo è uno spazio ristretto, ma l'autobus mi costa un terzo del volo, quindi…”

“Però il viaggio dura un terzo di quello in pullman”

“Sono abituata ai viaggi lunghi, non è un problema” commenta facendo spallucce e contemporaneamente raccogliendo i capelli, ancora molto lunghi, in una coda con un elastico.

“E’ tutta colpa mia. Per farmi perdonare ti offro il pranzo, così poi ti faccio fare un giretto”

“Non l'abbiamo già fatto il giretto? Ti ho fatto girare mezza San Diego”

“Ma è stato per necessitaà, non hai visto niente di bello”

“Questo non è vero! Ho visto… beh, prima di tutto ho visto casa tua”

“Ha!”

“Beh ho visto la costa, le spiagge, l'oceano, ho fatto un sacco di foto. Oh e il ponte di Simon&Simon!”

“Che?!”

“Il ponte! Tornando alla macchina dall'aeroporto…” esclama indicando il punto in cui dovrebbe più o meno stare il ponte in linea d'aria, dietro ai palazzi “Ho fotografato anche quello”

“Il Coronado Bridge”

“Sì! E’ quello della sigla di Simon&Simon”

“Eheh sì. Però non ti ho portata a Coronado, che alla fine non è che abbia un granché da offrire, a parte alberghi di lusso e basi navali” penso ad alta voce mentre le apro lo sportello dell'auto e la faccio salire.

“E allora dove mi porti?” mi chiede quando salgo in macchina anch'io e il suo entusiasmo è così genuino che la porterei in capo al mondo, invece la porto a mangiare.

 

Subway?” mi domanda con una smorfia divertita appena parcheggiamo di fronte al fast food “Un vero simbolo della città di San Diego”

Jack in the box” è un po’ fuori mano da qui, ti ci porto domani” rispondo mentre lei scatta una foto della facciata.

“Ammettilo, in realtà mi volevi portare a vedere lo stadio dei Padres” scherza indicandomi l'ingresso di Petco Park in fondo alla strada.

“No, in realtà ti volevo portare in un raffinato ristorante di pesce di Little Italy, ma sai com'è, sono un povero musicista con le pezze al culo che non si può permettere un parcheggio” ironizzo mentre entriamo.

“Non ti sarai offeso? Guarda che era per rid-”

“Ma va, figurati, stavo scherzando anch'io” faccio scivolare il braccio attorno alle sue spalle e la stringo mentre camminiamo verso il bancone per ordinare.

Mentre divoriamo i nostri panini, vegetariano io e al tonno lei, mi parla dell'università, dei nuovi pezzi dei Soundgarden che le ha fatto sentire Chris e che a quanto pare sono una bomba, di Hannigan che fa impazzire tutti cambiando allestimento del market ogni dieci minuti, delle brioches comprate nella panetteria francese di Pike Place in cui è tornata e che ha mangiato sulla terrazza panoramica, senza di me. Sono a San Diego, a casa mia, eppure non posso che provare nostalgia per quella che è ormai diventata la mia nuova casa e per Angie. Ce l'ho qui, seduta di fronte a me, vicina come probabilmente non è mai stata finora, eppure mi manca, ancora, terribilmente.

“Quindi… Pearl Jam eh?”

“Già”

“Da dove salta fuori il nome? Come vi è venuto in mente?” mi interroga mentre mi ruba dal vassoio una delle patatine che aveva giurato di non volere al momento di ordinare.

“Beh, non c'è un solo motivo ed è stata una cosa graduale, cioè, ci siamo arrivati pian piano”

“Cioè?”

“Ci piaceva Pearl, piaceva molto a Stone e non dispiaceva nemmeno a me, anche per alcune coincidenze, ma non solo”

“Per esempio?”

“E’ il nome della mia bisnonna”

“Davvero?”

“Eh sì”

“E magari faceva la marmellata” aggiunge ridendo e prendendo un sorso di coca.

“Eheheh no, almeno, non credo”

“E’ anche un album molto figo di Janis Joplin”

“Vero. E nello slang dei surfisti è quando il muso della tavola ti si pianta nell'onda facendoti cappottare e fare un bel giretto stile centrifuga della lavatrice”

“Ahahah davvero? Io pensavo fosse per Earl The Pearl Monroe

“Anche!”

“Da un cestista dei Nets a uno dei Knicks, che fantasia!”

“E poi c'è il significato letterale, che trovo piuttosto interessante. La perla, sai come si forma?”

“Un corpo estraneo entra nell'ostrica, che per difendersi dall'irritazione produce degli strati minerali per isolarla. Più o meno”

“Esatto. Praticamente si tratta di un dolore che si trasforma in qualcosa di meraviglioso, un conflitto emotivo/creativo che trasforma un granello di sabbia in un gioiello prezioso”

“E’ un'immagine molto forte. E delicata allo stesso tempo”

“Appunto, una cosa così preziosa e delicata che nasce dalla sofferenza”

“Un'ottima metafora dell'arte”

“Già, verissimo” adoro parlare con lei, adoro il fatto che mi capisca al volo e che con lei si possa chiacchierare di qualsiasi cosa, dalle cadute rovinose sul surf all'arte, dalla disposizione maniacale dei pacchetti di gomme al mini market alle sfighe dei Cubs, senza che nessuna di queste conversazioni risulti più banale delle altre. Ogni argomento è curioso e interessante con lei, ogni parola suona più affascinante e vera se è lei a pronunciarla. Il cibo è più buono quando lo condivido con Angie e anche Subway sembra più bello, le sedie più comode, le lampade più luminose e il peperoni disegnati sul bancone più verdi. Persino i Mr Big alla radio mi sembrano meno pallosi del solito.

“Però, che voce Eric Martin, eh?” commenta come se mi leggesse nel pensiero.

“Sì, ehm, non è male, anche se non è il mio genere, è bravo”

“E Jam?”

“Cosa?”

“Abbiamo capito il perché di Pearl, ma Jam da dove esce?”

“Da un concerto di Neil Young coi Crazy Horse”

“Quando? Dove?!”

“Alla Sports Arena di Los Angeles, la settimana scorsa, ci siamo andati tutti”

“E che aspettavi a dirmelo?? Eheh che figata, ma perché Jam?”

“Perché ogni cazzo di canzone si perdeva in una jam infinita, non che ci dispiacesse, anzi, è stato grande. Al ritorno dal concerto, mentre ne discutevamo, Jeff se n'è uscito con ‘che ne dite di Pearl jam?’ e l'idea è piaciuta a tutti”

“Cioè è piaciuta a Stone, che poi ha permesso che vi piacesse”

“Brava, vedo che hai capito”

 

Dopo pranzo ci rimettiamo in macchina, anche se il viaggio stavolta è breve.

“Mi porti in un parco a correre per smaltire il panino di Subway?” chiede quando legge il cartello all'incrocio che indica Balboa Park.

“No, ti porto in un parco perché è uno dei più belli della città e avrai qualcosa di decente da fotografare”

Ci facciamo praticamente tutti i musei, da quello antropologico al museo Timken. Vederle brillare gli occhi mentre ammira un dipinto del Guercino e, quasi alla stessa maniera, mentre visitiamo la mostra sulle creature mitologiche: praticamente una mostra sui mostri, gioco di parole infelice che però la fa continuamente scoppiare in un irresistibile risolino. La porto al giardino botanico, dove dà ulteriore prova delle sue conoscenze in fatto di piante, e ci troviamo d'accordo nel voler evitare lo zoo, perché gli animali in cattività mettono tristezza a entrambi. Dopo l'estenuante giro la convinco a prendere un gelato, che consumiamo seduti a una panchina di fronte alla California Bell Tower. Angie mi chiede di tenerle il cono mentre fotografa l'edificio.

“Grazie” molla la macchina fotografica e riprende il gelato.

“Di niente. Allora, come ti è sembrato?” le chiedo proprio nel momento in cui i lampioni del parco si accendono uno dopo l'altro.

“Fighissimo! E pieno di edifici molto particolari, di stili diversi, barocco, romanico, gotico, c'è di tutto. E la vegetazione è incredibile”

“Edifici che tra l'altro conoscevi già” butto lì pregustando l'effetto sorpresa.

“No, te l'ho detto che è la prima volta che vengo qui” nega prima di mordere un angolino di cialda.

“Lo so, ma li conoscevi già ugualmente, fidati”

“Che vuoi dire?”

“Che li hai già visti, anche se non dal vivo”

“E dove?”

“Probabilmente nello stesso posto in cui hai visto il Coronado Bridge”

“Eh?”

“In uno schermo” spiego disegnando un rettangolo con le dita.

“Aspetta… vuoi dire che questo parco è stato il set di qualcosa?”

“Più o meno”

“Come più o meno?? O sì o no!” Angie si fa sempre più curiosa e mi piace farla stare sulle spine.

“Sì, diciamo che ci hanno girato alcune scene di un film. Un film molto importante”

“Un film”

“Che tu hai visto, lo so per certo”

“Oh cazzo! Che film?”

“Indovina”

“No, dai dimmelo!” mi implora avvicinandosi di più a me sulla panchina.

“A dire il vero sono stupito che tu non l'abbia già intuito da sola”

“Film in bianco e nero o a colori?”

“Bianco e nero”

“Mmm… E’ difficile così, su due piedi… Dammi un indizio” Angie si accorge di aver ignorato il gelato per troppo tempo e cerca di salvare le goccioline alla panna che le stanno colando sulla mano. Con la lingua ovviamente. Così però è lei che mi tiene sulle spine.

Xanadu” cedo e le do l'aiutino.

“Come la canzone di Olivia Newton John?” chiede non capendo il nesso.

“Eheh no, come la residenza di qualcuno”

“CAZZO, NO” si alza ritta in piedi e fissa di nuovo la California Tower.

“E invece sì”

“LA CASA DI KANE!”

“Brava! Ci sei arrivata” finisco il gelato e le faccio un applauso.

“QUARTO POTERE! L'hanno girato qui?” si calma e si risiede.

“Non tutto, la scena del cinegiornale, hai presente? Ci sono delle riprese esterne di Xanadu. Beh, le hanno fatte qui”

News on the march…

“La torre, la statua equestre del Cid, il museo d'arte e anche quello antropologico, anche il teatro del Prado e il giardino botanico con lo stagno” elenco tutti gli edifici contando sulle dita.

“Mi hai portato qui apposta”

“Ci penso da quando mi hai nominato Quarto potere la sera del concerto al Rkcndy. A San Diego lo sanno tutti che qui hanno fatto delle riprese per il film. Mi ricordo che nel momento in cui ne hai parlato ho pensato, ecco, se mai dovesse venire a San Diego devo portarla assolut-” cerco di spiegarle come mi è venuta l'idea cercando di non sembrare un malato di mente che si fissa su dei dettagli stupidi quando vengo investito da un abbraccio tanto inatteso quanto piacevole. Angie non è una che abbraccia tanto, non è fisica nelle sue manifestazioni d'affetto, anzi, diciamo che poche volte l'ho vista manifestare l'affetto con qualcosa che non fosse una pacca o una sberla, tanto meno con me.

“Mi hai fatto un regalo stupendo” mugugna dietro al mio collo, mentre lo zoom della sua macchina fotografica mi si è piantato nello sterno, ma non ho la minima intenzione di fare nulla per allontanarla.

“Eheh figurati, per così poco”

“Non è poco”

“San Diego non è Hollywood, ma ci difendiamo bene anche noi. Se avessimo avuto altri giorni ti avrei portata agli Universal Studios”

“Vuoi vedermi morta?” si stacca leggermente da me per guardarmi negli occhi, ma tenendomi sempre tra le sue braccia, e questo sarebbe un momento perfetto per un bacio. Se solo non fossi un povero stronzo.

“Nah. Almeno, non prima del concerto di domani. Ma soprattutto, non prima di questa sera”

“Allora, si può sapere di che si tratta?” Angie molla definitivamente la presa e studia attentamente il mio viso per cercare di carpirne delle informazioni.

“Mmm posso darti degli indizi” le faccio alzandomi dalla panchina, che nel frattempo mi ha fatto il culo a listelli.

“Ok, sono tutta orecchi”

“Andremo in un locale”

“Un locale, ok. Che locale?”

“Un locale piuttosto brutto, direi”

“Ok, quindi la scommessa è andare in un posto di merda?”

“Anche, ma è un posto di merda che richiede un abbigliamento consono. Per questo urge un salto da Value Village prima di cena” le porgo la mano per invitarla ad alzarsi.

“Value Village? Dobbiamo vestirci vintage? Oddio, è un locale a tema??”

“In un certo senso…”

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“Cos'è, Stone? Sei già stanco?” mi apostrofa la nostra Dancing Queen non più seventeenquando le faccio segno che sto per andare al bar e abbandonarla sulla pista da ballo.

“No, dovresti saperlo che secondo me la colonna sonora di Saturday Night Fever è il punto più basso della carriera dei Bee Gees!” rispondo facendo riferimento al pezzo appena messo dal dj, dopo aver praticamente tagliato con l'accetta Boogie Wonderland.

Eddie non stava scherzando quando ce l'ha proposta: lo Yates club è veramente la discoteca peggiore di San Diego, anzi, probabilmente è il locale più brutto d'America e lo dico solo perché non ho ancora visitato il resto del mondo. A cominciare dall'ingresso, in un vicolo agghiacciante e buio, dove sei costretto a fare una fila eterna su una scala a chiocciola scricchiolante, dove ti fai un sacco di aspettative vista la mole di persone in attesa. E invece dentro fa più schifo di fuori, è un buco, dove funziona una strobo su tre e la zona più illuminata è il bar. Alla palla rotante luminosa al centro della cosiddetta pista da ballo manca qualche specchietto di troppo, il soffitto è talmente basso che se sali su un tavolo per ballare e non sei alto come Angie rischi di prendere a testate i faretti, le cubiste ballano peggio di me, che potrei essere tranquillamente loro figlio, il dj mette musica da cd, che saltano in continuazione, e quando non saltano ci pensa lui a fare delle pause eterne tra un pezzo e l'altro. Però una cosa positiva c'è: il bar è supereconomico, e vorrei ben vedere. Angie però si sta divertendo un mondo, con i suoi orecchini giganti, gli occhialini con le lenti rosse a forma di cuore e la sua camicia optical con le maniche più scampanate che io abbia mai visto. E dopotutto, mi stavo divertendo anch'io, ma mi divertirò di più quando arriveranno tutti i MachoMen che hanno perso la scommessa. Il primo, il soldato Dave, è venuto assieme a me ed Angie e lo ritrovo al bar con Jerry il Cowboy.

“Ehi Stone, come ti sei vestito? Ah no, aspetta, sei come al solito” scherza Jerry sollevando il cappello quando mi vede.

“Taci, che sono anni che stai puntando questo gilet leopardato, ma te lo puoi scordare!”

Finiamo per offrirci da bere a vicenda e non posso non notare le occhiate furtive lanciate da Cantrell a Angie, che ora si sta lanciando nelle danze con un tizio vestito di pelle e con un casco da motociclista in testa. Intuisco che sia dei nostri, ma solo alla seconda giravolta scomposta realizzo che si tratta di McCready. Comunque trovo incredibile come una come Angie si possa vergognare come una ladra per un finto lento con Cornell il giorno del suo compleanno davanti a quattro amici in croce, ma non mostrare nessuna traccia di timidezza nel ballare in una discoteca piena di gente. C'è da dire che balla bene eh, ma secondo me anche sli shottini che si è fatta assieme a noi in camera di Krusen hanno contribuito a questo scioglimento delle inibizioni. Io e Dave andiamo a sederci sui divanetti color vomito a bordo pista, lasciando Jerry a rosicare per Angie, e incontriamo Layne, incredibilmente l'unico vestito normale del gruppo che ha deciso di non piegarsi alle logiche della serata anni Settanta di questo posto infame, e Sean, che praticamente è vestito come al solito con jeans e camicia a quadri aperta, ma con un caschetto in testa a indicare che la sua scelta è caduta sull'operaio. Ma non sapevamo che il meglio doveva ancora venire e ci viene servito dopo qualche minuto dal terzetto che si affaccia all'ingresso del locale: a sinistra Eddie che sfoggia un completo AZZURRO gilet e pantaloni a zampa d'antologia, con camicia floreale sotto e stivaletti chiari, purtroppo temo senza zeppa visto che mi sembra alto uguale; a destra Mike Starr, pantaloni di pelle SCAMOSCIATA, stivali, petto nudo coperto da un imprecisato numero di collane, eye liner nero attorno agli occhi, fascia colorata tra i capelli, non capisco di che colore perché le luci del cazzo della discoteca la fanno sembrare arcobaleno; ma la vera chicca è lui, la mia anima gemella, il mio Jeffrey, che oltre ad aver raccattato dei pantaloni neri di pelle da qualche parte, forse dallo stesso negozio di dubbio gusto dove si è rifornito Starr, ha rispolverato un prezioso cimelio… la storica canotta rosa con scritta viola San Franciscoche ci stava quasi per far ammazzare quando abbiamo aperto il concerto dei Samhain coi Green River. Ti puoi presentare a un concerto punk conciato così? Sì, se ti chiami Jeff Ament e hai due palle così. Aveva pure le scarpe da ballo, che credo stia indossando tutt'ora, se non vedo male.

“Oh mio dio, Jeff! Non pensavo che quella canotta esistesse ancora! Credevo te l'avessero fatta a brandelli i fan di Danzig” lo accolgo piegato in due dalle risate quando il magico trio si avvicina.

“E invece no, è rimasta intatta, a differenza della mia faccia. Ma tu non puoi saperlo, te la sei data a gambe con Bruce!” ribatte il bassista, ancora col dente avvelenato per quella vecchia storia.

“Ma mi vedi? Cos'avrei potuto fare? Difenderti col sarcasmo?”

“Di cosa state parlando?” chiede Eddie guardandosi attorno nel locale, con aria meno schifata degli altri, probabilmente perché conosce già il posto e soprattutto perché sta cercando qualcuno.

“Di un simpatico aneddoto dei tempi dei Green River, ce ne sono tanti che meritano di essere tramandati” gli spiego facendo posto a Jeff sul divano più scomodo della California.

“Neanche Mark Arm è un body builder, ma lui mi ha difeso”

“E ne ha prese tante quanto te, io sono stato previdente”

“Ma tu perché ti sei travestito? Non avevi scommesso che sarebbe venuta?” Dave pone una domanda più che lecita a Starr, che risponde con un'alzata di sopracciglio.

“Travestito? In che senso?” risponde confuso e tutti scoppiamo a ridergli in faccia “Allora? Mi volete spiegare?”

“Pensava, cioè, tutti pensavamo fossi l'indiano dei Village People” Jeff fa luce sul piccolo mistero.

“Ma che indiano! E poi sarebbe appropriazione culturale, non lo farei mai” aggiunge Mike e tutti smettiamo istantaneamente di ridere, perché da uno così, che quasi sicuramente è anche già mezzo ubriaco o fatto, non ti aspetti una critica sull'oppressione e la spoliazione da parte della cultura dominante.

“Hai ragione, Mike, non pensavo che tu-” Layne fa per intavolare un discorso, ma viene interrotto dal Papp… ehm, volevo dire dal Principe Azzurro impaziente.

“Ma a proposito della scommessa, dov'è Angie?”

“E’ laggiù, vicino al bar, dove ci sono quelle luci verdi e blu che sembrano alghe che galleggiano”

“Aspetta… Dove c'è la tipa che sta ballando sul tavolo?” mi chiede e io già pregusto il tonfo che sta per fare la sua mascella su questa pavimentazione scadente.

“No, Angie è la tipa che sta ballando sul tavolo”

  
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