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Autore: ___Page    13/03/2018    3 recensioni
«Iva tu… non l’hai già acquistata vero?» chiedo in un soffio e un angolo della sua bocca si contrae in un tic.
«A chili» conferma.
«Se non dovessimo trovare un’utilità per questo prodotto, il danno ammonterebbe a una cifra considerevole.»
«Ci serve più tempo!»
«Non lo abbiamo. Ci serve che la questione si riveli un affare entro Settembre o qualcuno del consiglio potrebbe… contrariarsi, diciamo. E la presentazione è programmata per Luglio. E deve essere l’affare dell’anno.»
***
Grazie alla geniale trovata di Iva ora mi ritrovo con il mio migliore amico che si sposa tra sei settimane, Sabo da gestire, un matrimonio da aiutare a organizzare e un progetto assurdo, impossibile, irrealizzabile dal cui successo dipende il futuro lavorativo mio, dei miei due collaboratori/amici, di un’altra buona fetta di colleghi e del mio capo.
Fantastico! Sono al settimo cielo!
***
«Ehi non mi piace che si usi quel termine per me!» protesta.
«Cosa?! Mestruato?!» domando con sfida, ma lui scuote la testa «Irritante?» riprovo, sollevando le sopracciglia, ma lui nega di nuovo «Gay?!» chiedo ancora. Incredula, lo guardo annuire solenne.
«Precisamente.»
No, io non ce la posso fare.
«Izo tu sei gay!!!»
Genere: Comico, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Koala, Nami, Nefertari Bibi, Trafalgar Law, Usop | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Ospedale di Raftel, ore 3:34.
La notte tra mercoledì e giovedì.
 
Caldo.
La prima sensazione che percepisco è di calore. Un caldo confortevole, molto più del letto in cui mi trovo.
Non è il mio letto. Il mio materasso non è così duro e il mio cuscino non è così morbido. Ma è un letto caldo e il mio cervello mi rassicura che non c'è da allarmarsi se non sono a casa. Che sono al sicuro.
Un suono.
Acuto e cadenzato. È vicino e sembra scandire il ritmo di qualcosa. Il fatto che sia così regolare mi rilassa, come se il suo essere regolare fosse per me sinonimo che va tutto bene e non devo preoccuparmi.
Nel mio cervello affiorano parole alla spicciolata che mi aiutano a mettere insieme i pezzi e capire dove sono.
Inalo profondamente mentre mi giro a pancia in su sulla barella. Provo sollievo nel constatare che non ho più dolore dappertutto, anche se non ricordavo di avere avuto dolore dappertutto.
C'è una luce bluastra nella stanza. Di quelle per illuminare senza disturbare il sonno.
Socchiudo gli occhi e scopro che la luce è filtrata da una tenda. Una tenda verde menta, lo so anche se nella penombra il colore non si vede.
Sono all'ospedale di Raftel.
Mi giro cauta verso la fonte del rumore, troppo vicino per provenire da uno degli altri letti nell'ambulatorio. E infatti c'è un monitor accanto al mio letto, con un discreto numero di fili che arrivano fino a me.
Mi acciglio. Perché mi hanno collegata al monitor? Pen aveva detto che andava tutto bene. Che sia insorta qualche complicazione dopo che mi sono addormentata?
Il monitor salta un bip quando il mio cuore perde un battito nel panico. Mi sono addormentata.
Mi sono addormentata e ho lasciato andare Law.
Premo la nuca nel cuscino, sperando mi inghiotta e soffochi. L'ho lasciato andare. E so benissimo che tanto non ci avrei comunque potuto fare niente, non avrei mai messo a repentaglio la sua felicità per un mio attimo di egoismo ma, per quanto patetico, non so cosa darei ora anche solo per sentirlo dire...
«Koala?»
Sgrano gli occhi.
La voce è impastata ma decisamente troppo lucida per essere di qualcuno che dormiva profondamente. 
Mi sollevo di scatto, il monitor impazzisce quando il mio battito accelera. Law si solleva ben dritto sulla sedia posizonata a circa metà della lunghezza della barella. Guarda il monitor con sguardo truce.
«Mi hai spaventata» metto subito in chiaro, prima che si faccia venire l’angoscia di un mio imminente arresto.
Ma cosa ci fa qui? Non sembra un sogno e nemmeno un’allucinazione. Anche se, ovviamente, se fosse un’allucinazione a me sembrerebbe vera per forza. 
«Scusa» si passa una mano tra i capelli scompigliati, lo sguardo è liquido.
Stava dormendo. Stava dormendo qui accanto a me. Cosa sta succedendo?
Il monitor minaccia una nuova accelerata che riesco a mettere presto a tacere. Law se ne accorge lo stesso ma stavolta rimane tranquillo. Ci studiamo a vicenda per una manciata di secondi, facendo a gara a chi riesce a capire per primo come sta l’altro senza chiedere.
Ha l’aria sfinita ma c’è un che di rilassato e sereno nella sua espressione, qualcosa che sembra andare al di là del semplice sollievo e che non riesco a classificare. I capelli sono in disordine, un velo di barba in più sulle guance, l’ago di una flebo infilato nel braccio, l’asta della flebo di fianco alla sua sedia.
Lo stomaco mi si contrae. Cos’è successo?
«Come ti senti?»
«Che hai fatto?!»
Ci parliamo sopra, io non riesco a staccare gli occhi dalla flebo. Almeno finché lui con due dita non mi prende il mento per obbligarmi a guardarlo in faccia. Il monitor accelera. Traditore infame.
«È solo fisiologica» annuncia senza possibilità di replica. «Vuoi un po’ d’acqua?»
Annuisco piano. Non so se ho esattamente sete ma la gola è un po’ secca e comunque rispondere sì mi concede qualche secondo per riflettere. Se non che, quando Law si alza per versarmi un po’ d’acqua in un bicchiere di plastica e poi porgermelo, pensare è l’ultima cosa che sono in grado di fare. Per tutta l’operazione non riesco a togliergli gli occhi di dosso. Non capisco perché è qui e nemmeno mi importerebbe se solo non ci fosse un’enorme spada di Damocle, con sopra scritto MATRIMONIO, che penzola sulle nostre teste.
Prendo coraggio per chiederglielo e, proprio in quel momento, lui si siede sul letto e io vado in tilt di nuovo. So che lo ha fatto anche prima ma ora è diverso, perché non c’è più la paura che mi sia successo chissà cosa e, forse sono solo molto stanca io, ma mi sembra che prima di puntellarsi sul materasso con la mano mi abbia sfiorato il fianco con i polpastrelli.
«Tuo padre ti ha portato una cosa» mi avvisa, prima di piegarsi in avanti e ravanare dentro a qualcosa che si trova ai piedi della sedia. Spalanco gli occhi e stringo le labbra.
Papà è qui?
Mi mordo la lingua prima che la domanda mi sfugga perché, se glielo chiedo, so che andrà a chiamarlo e voglio che rimanga ancora. Solo un altro po’.
Si risolleva con un sacchetto verde tra le mani e, gli occhi ormai abituati alla penombra, riconosco subito le mie caramelle preferite. Latte e menta, morbide. Me ne portava sempre una quando veniva a trovarmi alla casa affido. E poi me le comprava sempre quando ero ammalata.
Sorrido e sento gli occhi pizzicare.
«Ne vuoi una?» mi chiede Law, il tono divertito.
«Sì…»
Apre il pacchetto e infila una mano per estrarre due confetti, incartati singolarmente in un pochino di plastica. Me ne allunga una, che afferro senza spostare gli occhi dalle sue dita, impegnate a cercare di scartare l’altra. Solo ora mi accorgo che trema.
Vorrei chiedergli che ha, vorrei alzare una mano e accarezzarlo tra i capelli, sussurrargli che va tutto bene ma non posso.
Mastichiamo le nostre caramelle in silenzio, lui guarda fisso il muro, io sbircio di sottecchi i suoi movimenti.
È sbagliato, tutta questa situazione è sbagliata, lui non dovrebbe essere qui con me.
Prendo un altro sorso d’acqua, un altro respiro profondo. «Gli altri? Sono ancora qui?»
«No» nega con il capo, gli occhi ancora incantati alla parete. Sbatte le palpebre e si gira a guardarmi. «Sono andati tutti a casa, non proprio tutti volentieri, a parte papà e Tiger»
Provo un moto di incredulità. Aspetta, ha veramente chiamato Dragon “papà”? Sento un sorriso farsi strada sulle mie labbra, un sorriso che però subito diventa malinconico. Devo restare concentrata, restare sul pezzo.     
«Dovresti andare anche tu. Bibi ti starà aspettando e poi devi riposare» mando giù a fatica, gli occhi che prudono. «Mancano poco più di ventiquattr’ore al grande giorno»
Mi squadra per un attimo, dal viso al bacino di nuovo al viso, e anche lui sorride con malinconia. «Bibi non mi sta aspettando»
«Ma che dici?» scuoto il capo perplessa.
Law prende un respiro profondo, chiude un attimo gli occhi e poi: «Il matrimonio è saltato Koala»
Silenzio. Assoluto, assordante silenzio, interrotto solo dal ritmico suono del monitor, che ancora registra un battito regolare. Perché, in effetti, sono congelata, priva di qualsiasi reazione, intenta a cercare di capire.
Che… cosa… che?
«Che?!»
«Io e Bibi abbiamo deciso di non sposarci»
Il monitor accelera.
«Ko…»
Alzo le mani verso di lui, chiudo gli occhi e prendo un profondo respiro per calmare i battiti. Okay, riproviamo. «Tu e Bibi non vi sposate?»
Devo aver capito male. Deve esserci una parte che mi è sfuggita.
«No»
«Avete deciso di sposarvi solo ad Alubarna?»
«No. Abbiamo deciso di non sposarci e basta»
«Ma… ma perché?!»
Io non capisco. Non ha senso… non ha nessun senso…
«Hai avuto una crisi esistenziale per quello che è successo?» domando, il tono è quasi indignato.
«Koala…»
E lo so, so che mi sto tirando la zappa sui piedi ma non esiste che me ne stia zitta a guardarlo mentre getta alle ortiche la sua storia senza nemmeno un motivo. Voglio la sua felicità, anche se non fosse con me, perché è il mio migliore amico e lo amo e la sua felicità è la cosa più importante.
«Ti sei… ti sei spaventato, ti sei accorto che la vita è breve, hai avuto una distorta epifania sulle catene e i legami della vita?» elenco, sempre più infervorata.
«Koala ascoltami»
«Perché ti faccio notare che tu non eri nemmeno lì e se pensi di vivere scappando hai scelto la persona sbagliata per conf…»
«Sono innamorato di te!»
Per un millesimo di secondo è il vuoto. Poi il monitor comincia a suonare così in fretta da sembrare prossimo all’esplosione.
«Koala!» si agita.
«Sto bene!» rispondo d’istinto.
Ma quando metabolizzo mi accorgo che non è vero. Non sto bene. Bene non rende nemmeno lontanamente l’idea. Non sto bene. Sono confusa, sono scioccata, sono euforica e sono terrorizzata.
Sono al settimo cielo e ho l’irrazionale paura di essermi immaginata tutto. Non sto bene. Sto molto più che bene.
«Sto sognando» decido dopo alcuni secondi di assoluto nulla. Il mio cervello non riesce ad assimilare con la stessa velocità del mio corpo. E so che è troppo bello per essere vero.
«Mi sento di escluderlo»
«Okay allora…» “è uno scherzo” sto per dire – perché in effetti mi sento molto sveglia al momento, anche troppo probabilmente, anche se non così ancorata alla realtà – ma mi accorgo che sarebbe ingiusto dirlo, Law non scherzerebbe mai su una cosa del genere, non sarebbe mai così crudele. «…allora sono morta, sono in coma, sto allucinando per gli antidolorifici, non lo so, insomma…»
«Kay!» alza appena la voce, fermo ma al tempo stesso così dolce. In un modo così familiare eppure così sconosciuto. «Ti assicuro che è tutto molto reale, a partire da me»
Boccheggio, gli occhi fissi su di lui, che non distoglie lo sguardo per tenermi agganciata qui, alla realtà. La realtà. Tutto questo è reale.
«Tu sei…?» provo a richiedere conferma ma faccio fatica a parlare e, come se non bastasse, tremo anche come una foglia. «T-tu… tu mi…»
«Sì» esala e non c’è esitazione, nella sua voce o nei suoi occhi. C’è solo qualcosa che non osavo sperare di vedere e che comunque ho la grazia di vedere per molto poco, quando i miei iniziano ad appannarsi.
Sbatto furiosamente le palpebre ma quelli restano oscurati e umidicci e allora li asciugo anche con le mani ma tanto ho anche le guance bagnate.
«Ommioddio»
Non riesco a respirare.
«Ommioddio!»
Non riesco a respirare perché rido e piango tutto insieme e non riesco a parlare e così faccio l’unica cosa che credo di essere in grado di fare in questo momento.
Gli butto le braccia al collo e lo bacio.  

Lo bacio così, come se fosse la cosa più naturale del mondo. E lo è.  È naturale. Lo è quando lui risponde e mi afferra per i fianchi e lo è quando mi attira più vicina, quando approfondisce il contatto, e le lacrime si fermano e il mio cuore accelera e lui fa per staccarsi da me con urgenza.
«Law se ti azzardi a fermarti giuro che lo distruggo a mani nude, quel monitor» bisbiglio rapida sulle sue labbra. Sbianca per un attimo, perché sa che non è una minaccia a vuoto, ma con un ghigno ricomincia poi subito a baciarmi.
Sa di menta e zucchero e di terra bagnata dalla pioggia. Sa di lenzuola ancora calde. Sa di casa.
Mi stringo a lui, infilo le dita nei suoi capelli, memorizzo la sensazione delle sue mani che mi accarezzano la schiena, fino a fermarsi sulla mia nuca per tenermi vicina e rassicurarmi e coccolarmi.
Lo amo. Mio dio quanto lo amo.
È una tortura separarmi da lui, un incubo in un sogno quando, senza smettere mai di sorridermi, si alza e allontana da me. Ma sono tranquilla, va tutto bene. So che tornerà e avremo tanto di cui parlare e ora, per quanto combattutta, ho anche voglia di salutare papà.
«Devo andare a staccarmi la flebo» mormora, sfiorandomi il viso con la mano. Mi lascio cullare dal suo palmo, in estasi. Non mi sono mai sentita così, in totale balia di qualcuno eppure perfettamente al sicuro.
«Okay»
«Chiamo Tiger»
Mi limito ad annuire. Ho qualche difficoltà a pensare, figuriamoci parlare. Senza contare poi che gli lascerei fare qualsiasi cosa.
Si avvicina alla tenda e fa per scostarla.
«È tutto vero?»
La domanda mi sfugge prima che io riesca a frenarmi. Law si blocca con il braccio a mezz’aria e dopo un paio di secondi, che a me sembrano infiniti, si gira di nuovo a guardarmi.
Trattengo il fiato. Non andare. Non andare via. Resta.
Sento le guance scaldarsi sotto la sua occhiata, a metà tra l’incredulo, il divertito e, ancora fatico a crederci, l’innamorato. «Non… non è un sogno vero?» lo domando stavolta, con le le guance rosse e il respiro ancora accelerato e un sorriso che non vuole saperne di sparire.
Mi studia una manciata di secondi poi, con estrema cautela, sfila l’ago dal braccio e torna indietro. Si china su di me e io mi riappoggio al cuscino, tenendo i miei occhi puntati nei suoi, peggio di una calamita.
«Spero proprio di no» sussurra, mentre si avvicina.
Il monitor accelera di nuovo. Law si immobilizza, lancia un’occhiata in tralice all’apparecchio e poi, finalmente, si decide a spegnerlo prima di premere il suo sorriso contro il mio.
 
§
 

Ospedale di Raftel, un orario imprecisato intorno alle 11:00.
Giovedì.
 

«Credevo finissi prima il turno» spenzolo le gambe giù dalla barella, mentre lo osservo concetrato studiare il foglio di dimissione per accertarsi che ci sia scritto tutto.
«Con il macello di ieri sera nessuno ha potuto rispettare il riposo e chi riesce si è fermato un po’ di più. E poi ci tenevo a esserci per le tue dimissioni» conclude, chiudendo la cartella per rivolgermi un sorriso smagliante che ricambio grata.
Si scompiglia i capelli rossi, come se ne avessero poi bisogno, e si avvicina alla barella per sedersi accanto a me. «Stai bene?»
Aggrotto la fronte con un sorriso perplesso. «Dovresti essere tu a dirlo a me» gli faccio presente.
«Certo» recupera subito Pen. «E clinicamente infatti non c’è niente che non vada. Ma mi chiedevo se fosse tutto okay anche sotto altri aspetti o se… non so… magari avevi bisogno di una spalla amica per confidarti ecco»
Lo scruto ancora più accigliata. «Pen…» metabolizzo piano il pensiero. «Stai cercando di capire se c’è qualcosa tra me e Law?!»
«Dimmi solo sì o no! Ti prego! Ho scommesso un patrimonio sul sì e mi sto macerando nella preoccupazione, porca miseria!»
Sgrano gli occhi, basita. Hanno scommesso?! Su me e Law?! Ma è un ospedale o cosa?!
Mi scappa da ridere ma mi trattengo. So che suona sadico, ma voglio divertirmi un po’.
«Quanto hai puntato esattamente?»
«Abbastanza per comprarmi la moto se vinco»
Lo fisso per un attimo senza parlare, poi abbasso lo sguardo alle mie ginocchia. «Beh vedi… il fatto è che stanotte c’è stato effettivamente un… riavvicinamento diciamo. Solo che poi…» sospiro pesantemente.
«Poi?!» chiede impaziente, così impaziente che si sporge verso di me senza nemmeno rendersene conto.
«Pen, cosa stai facendo?»
Si ritira su di scatto, più per istinto che perché consapevole della situazione ambigua, e io mi sporgo appena per poter vedere oltre la sua figura. Law è a pochi passi dalla barella, in mano un borsone che riconosco come mio e lo sguardo di uno pronto a uccidere a sangue freddo se necessario.
«Facevo due chiacchiere con la mia paziente» Pen gli rivolge un sorriso smagliante.
«Puoi farle anche standole lontano»
«Perché?» Pen si acciglia un attimo e l’attimo dopo si illumina. «Ti da fastidio?» indaga, ammiccante e speranzoso.
Ridacchio a più non posso quando Law, dopo un’ultima occhiata truce a Pen, si avvicina per darmi un bacio. Quando si stacca da me, l’espressione di Pen è impagabile. Sembra un pesce che boccheggia fuori dall’acqua, gli occhi a palla e Law è sul punto di perdere del tutto la pazienza quando Pen lancia le braccia al soffitto.
«Sì!!! Evvai!!!» esulta, balzando in piedi e improvvisando quella che sembra una specie di danza irlandese, così scoordinata da fare a gara con Sabo.
«Ma che gli prende?» si acciglia Law.
«Oh niente, è solo che…»
«Cosa succede qui?» chiede un’altra voce incuriosita, accompagnata da una testa biondo scuro che fa capolino da dietro la tenda. «Ommioddio!» esclama poi l’infermiera – che se non ricordo male, dovrebbe essere Lamy. La famosa Lamy di Chopper – dopo aver studiato per un attimo l’inequivocabile posizione di Law, puntellato con le mani ai lati delle mie cosce, il busto ancora piegato. «Allora è vero! Ishley aveva ragione!!»
«Lamy, abbiamo vinto!» esclama Pen, porgendole entrambi i palmi per un doppio cinque. «Abbiamo vinto!!!»
«Cos’è che hanno vinto?» chiede Law, scioccato dal grado di follia a cui è costretto ad assistere.
«Una scommessa» rispondo con una stretta di spalle, mentre Pen solleva Lamy da terra per festeggiare. «Su di noi»
«Che cosa?!» si rigira di scatto verso di me e io ne approfitto per scoccargli un bacio sulla punta del naso.
«Non ti arrabbiare» lo ammonisco e intanto Pen rimette Lamy a terra e poi le lancia un’occhiata di apprezzamento abbastanza inequivocabile.
«Dovremmo festeggiare non credi?»
Lamy sgrana gli occhi. «Ah no! No, no, non ci provare nemmeno, Dottor Anaconda! Non voglio saperne!» lo ammonisce, alzando il palmo verso di lui anche se, vi dirò, non mi sembra convintissima.
«Di cosa non vuoi saperne?» Pen non si fa scoraggiare e avanza nonostante il braccio di Lamy frapposto tra loro, il sorriso seducente.
«Oh per l’amore del cielo» esclama Lamy, abbandonando l’area delimitata dalla tenda, rossa fino alla punta dei capelli e con un sorriso traditore sul volto.
«Dai Lamy! Solo una cena informale!» la insegue Pen, scomparendo alla nostra vista.
Law fissa il punto dove poco prima si trovavano i suoi colleghi, spaesato. «Dottor Anaconda?» domanda, a nessuno in particolare.
«Se ti può interessare, tu sei Dottor CGC»
«Cos…»
«Sta per "cento gradi centigradi" che, oltre a essere quello dell'acqua, è anche il punto di ebollizione del sangue» spiego, inarcando le sopracciglia. «Ishley si è impegnata davvero molto per tranquillizzarmi ieri sera» chino appena il capo di lato, con indulgenza. Law sa fin troppo bene che non può prendersela con lei se lo ha fatto per il mio bene, perché in pratica è come se avesse preventivamente eseguito una sua stessa richiesta. 
«Santo Roger…» sospira sfregandosi gli occhi e non ho alcuna difficoltà a sentire la voce nella sua testa che aggiunge “Sono circondato da un branco di deficienti”.
Sghignazzo sotto i baffi per poi allungare un braccio verso di lui, per reclamarlo. Gli passo una mano tra i capelli quando si siede accanto a me. «Com’è a casa? Avete già avvisato?» domando, un po’ impacciata visto il mio ruolo in tutta la faccenda. Ma quello che voglio capire ora è come sta lui, non mi interessa nient’altro.
«Per ora solo papà, Cora, Crocodile e Cobra. Volevamo avessero tutti il tempo di metabolizzare prima di sollevare il polverone oggi pomeriggio» mi spiega, sgusciando con la mano sotto alla mia, per intrecciare le nostre dita. «Sono solo mortificato per le spese non rimborsarbili. La stragrande maggioranza dei costi li ha coperti Cobra. Per non parlare del pranzo che andrà tutto sprecato. Zeff non la prenderà affatto bene, odia gettare via il cibo e da fastidio anche a me. Non c’è nemmeno il tempo per impacchettare tutto e inviarlo a Harahetternia» sospira mentre gli accarezzo il dorso della mano con il pollice.
Vorrei tanto poter fare qualcosa. E appena lo penso, il mio cervello si riattiva, fervido come non mai.
«Che ne dici di cambiarti e andare a casa?» interrompe il filo dei miei pensieri ma recupero in un attimo e subito annuisco in risposta. Law si sporge a baciarmi una tempia. «Aspetto qua fuori»
Come stanotte, lo osservo allontanarsi verso la tenda per lasciarmi la mia privacy. E come stanotte, lo fermo un attimo prima che possa effettivamente andarsene.
«Law, possiamo andare a Goa?» domando senza preamboli.
Si gira sorpreso a guardarmi. «Sì, certo» conferma, un po’ perplesso. «Ma sei sicura? Pensavo volessi andare da Nekozaemon»
«Sì è vero, ma non è da solo. È che c’è una cosa che vorrei fare. Forse mi è venuta un’idea»
 

§
 
 
Goa, un orario imprecisato intorno alle 23:00.
Giovedì.
 
 

Mi trascino sul letto, rimbalzando appena sul materasso morbido e fragrante. È stato un pomeriggio impegnativo, decisamente non il genere di giornata che una persona appena dimessa dall’ospedale, vittima di un trauma, dovrebbe trascorrere. Ma a mali estremi sono necessari estremi rimedi e tutti, nessuno escluso, hanno collaborato.
Resta solo da sperare che domani, alla fine, fili tutto liscio.
Sdraiata in obliquo sul letto, con addosso solo un paio di slip e un vogatore panna che mi sfiora le cosce, osservo Law finire di lavarsi i denti nel bagno annesso, un paio di boxer e una maglietta grigio blu aderente che non lasciano molto all’immaginazione.
Non che abbia da ridire. Anzi. Peccato solo che io sia esausta.
L’universo, a quanto pare, non si è ancora stancato di fare l’ironico con me. Questa è la stessa stanza dove, un mese fa, ho avanzato una mezza proposta indecente a Izou, tanta era l’astinenza in cui versavo, e ora che posso condividerla con l’uomo di cui sono innamorata, tutto quello che agogno è dormire tra le sue braccia.
Non che sia una brutta prospettiva, ovviamente. Tutt’altro.
Non ce la siamo sentiti di usare la stanza di Law e Sabo, o meglio lui ha preferito evitare, visto che ha dormito lì con Bibi durante la rimpatriata. Posso capirlo, in fondo siamo ancora tutti un po’ scossi dagli avvenimenti delle ultime ventiquattr’ore, compresi Bibi e Sabo, che hanno cenato qui insieme a noi, Ace e Perona, Rufy e Silk e ora sono tornati a Raftel, a casa di Sabo.
L’acqua del rubinetto si chiude e io mi scosto per fargli spazio quando esce dal bagno e spegne la luce, il tutto senza levarmi gli occhi di dosso. Mi raggiunge, si sdraia e mi accoglie subito sul suo petto, sfregando il palmo lungo il mio braccio.
«Giornata intensa eh?»
«Puoi dirlo» ridacchio, strusciando la fronte contro il suo collo. «Speriamo che vada tutto bene»  
«Ne sono sicuro» mi stringe, baciandomi sul capo. «È una tua idea dopotutto»
Mi giro a pancia in giù, sgambettando nell’aria. «Dovresti smetterla di farmi tutti questi complimenti. Potrei seriamente abituarmici» lo metto in guardia, punzecchiandogli il fianco.
«Non vedo il problema» minimizza subito lui, serio e impassibile. «Posso sempre negare che fosse un complimento»
«Non puoi negare una cosa evidente»
«Posso, se è la tua parola contro la mia»
«Oh, Law! Andiamo!» rido, picchiando una mano sul suo pettorale.
«No ma dico davvero. Come fai a dimostrarlo?» mi sfida.
«La metti su questo piano?» socchiudo gli occhi. «Vorrà dire che girerò per il resto dei miei giorni con un registratore sempre acceso addosso. Mi sembra la soluzione perfetta, soprattutto per quando discuteremo di cose stupide come di che colore dipingere le pareti del salotto o…» mi blocco di colpo, perdendo il sorriso.
In un istante, mi rendo conto di aver esagerato.
Sì è vero, ci siamo dichiarati, le cose tra noi filano naturali come se stessimo insieme da sempre ma non è passato nemmeno un giorno, è la sera prima di quello che sarebbe dovuto essere il suo matrimonio e, oltre a non avere idea di che progetti abbia Law per se stesso e con me, la mia uscita è stata parecchio indelicata.
Mortificata, abbasso lo sguardo e prendo aria per scusarmi ma non riesco a emettere un fiato.
«O che albero piantare in giardino» continua, posando una mano a coppa sulla mia guancia per farmi sollevare di nuovo gli occhi su di lui. Trattengo il fiato, gli occhi lucidi di colpa ed emozione. «O dove posizionare in cucina la lavastoviglie e il forno»
Sorrido, una lacrima rotola sulla mia guancia e sul suo pollice, mentre stringo la sua maglietta tra le dita. «Guarda che non è affatto stupido mettere la lavastoviglie al posto del forno»
«Certo che no…» mormora, roco, attirandomi sempre più vicina.
«Voglio dire…» continuo, lo sguardo fisso sulle sue labbra. Non so nemmeno più cosa sto dicendo. «La lavastoviglie si usa molto di più, è decisamente più pratico averla altezza uomo»
«È vero» conferma, aggiustando l’angolazione.
«E poi…»
«Stai zitta» mi tappa la bocca e smetto di pensare.
Infila una mano sotto al mio top, io salgo a cavalcioni su di lui, mentre ci mordiamo le labbra a vicenda e le nostre lingue danzano insieme. La stanchezza è dissolta, scomparsa nel nulla, insieme alla voglia di dormire. Almeno non subito.
Quando ci separiamo, dopo quelle che potrebbero essere state tranquillamente ore per me, le labbra gonfie, il respiro grosso, gli occhi traboccanti di voglia, l’atmosfera non ha niente a che vedere con quella di ieri notte.
C’è la stessa felicità e la stessa euforia ma c’è anche di più, molto di più. C’è voglia di essere sua, di appartenergli anima e corpo che non ha niente, niente a che fare con la mia astinenza, che mi fa tremare di emozione, che mi sta svuotando l’anima.
«Koala…» comincia, circondandomi il volto con entrambi le mani, pronunciando il mio nome con una passione che vibra nell’aria intorno a noi.
Mi vuole, tanto quanto io voglio lui, ma non osa.
Dovrebbe essere strano. Forse, anche imbarazzante.
Ma non lo è.
È assolutamente, totalmente, perfettamente giusto.
Mi schiaccio su di lui e quando le sue braccia mi circondano, inverte le nostre posizioni e mi sovrasta, lo sento.
Con ogni fibra, nervo e cellula del mio corpo.
Sono a casa.
  
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