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Autore: PawsOfFire    13/03/2018    2 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
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Pioveva da tre giorni e non accennava a fermarsi.
Quella che fino a poco tempo prima era una distesa di neve aveva iniziato a sciogliersi, complice l’avanzata della primavera che, lentamente, iniziavamo a percepire grazie ai raggi del sole finalmente più tiepidi.
Giorni strazianti, fatti di marcia incessante sotto una torrida e gelida tempesta d’acqua. Il Colonnello, quando finalmente era riuscito a riallacciare i contatti con i piani alti, aveva ricevuto l’ordine di raggruppare quei pochi uomini che erano rimasti e confluire nelle armate del sud.
Fu un tragitto silenzioso e carico di rassegnazione. Ad ogni passo sembravamo guadagnare un po’ di luce e caldo, lasciandoci alle spalle quel terribile inverno russo, in quella immensa nazione che, presto o tardi, avremmo abbandonato a cuor pesante.
Durante la nostra discesa ci unimmo a diversi gruppi, fino a formare una scarna e debole armata, composta perlopiù da uomini troppo stanchi per vivere, gente che aveva assediato Stalingrado per tre lunghi anni e che adesso si ritrovava catapultata in una nuova guerra, un nuovo incubo.
A volte sembravamo affetti da allucinazioni audio visive e ci chiedevamo come ancora fosse possibile mantenere una parvenza di umanità in tutto questo immenso inferno.
Mi viene in mente il volto di mio zio Maximilian, uno dei fratelli di mia madre. Ne conservo i ricordi di quando ero un bambino, di quest’uomo senza naso e senza occhio, completamente sfregiato dal fuoco. Piccolo com’ero, mi faceva una paura mostruosa. Mio fratello Stefan addirittura piangeva alla sua vista, così io ed Alfred dovevamo chiuderlo nello sgabuzzino per farlo tacere e non farci fare brutta figura.
Non parlava molto, Maximilian. Aveva la bocca deformata e biascicava le parole con enorme sofferenza. Essendo tre pezzi di merda finiti, eravamo soliti a chiamarlo tra noi “Il mostro di Ravensburg” ed eravamo convintissimi che un giorno ci avrebbe mangiati tutti.
L’unica realtà, però, era quella di un sopravvissuto di Verdun, che espugnò Fort Vaux al buio, tra il tanfo dei cadaveri e l’acqua fin dentro gli stivali, arso vivo dal fuoco e dal caldo.
Mai, in tutta la mia vita, avrei mai pensato di fare la sua stessa fine.
Erano gli anni d’oro della repubblica di Weimar, cazzo! 
Nella strada battuta alla buona i cingoli del nostro carro affondavano pesantemente nel fango. Talvolta (purtroppo succedeva spesso) alcuni scivolavano nel pantano, incagliandosi nei fossi melmosi, costringendoci a rallentare per aiutare i malcapitati ad uscire dal pantano. A questo punto legavamo il carro incassato a quello davanti, in modo tale da aiutarlo a rimettersi in carreggiata.
Perdevamo un sacco di tempo così ma, magra consolazione, con questa pioggia non avremmo visto aerei.
Vedevamo, però, i cannoneggiamenti in lontananza.
Giorno e notte rischiaravano il cielo con la loro luce gialla ed inquietante.
Fin quando ce li ritrovammo completamente addosso.
Pioveva, stranamente. A dirla tutta, era un fantastico nubifragio di inizio marzo. Noi ed un’altra manciata di carri venne congedata, preparando il grosso delle armate per uno scontro diretto con i russi.
Fino a nuovo ordine avevamo un bellissimo deposito contenente qualunque sorta di bendidio a disposizione.
Ci accampammo lì, con la raccomandazione più sentita del feldmaresciallo di non toccare quella cuccagna più del dovuto.
Balle.
Il primo giorno, dopo esserci tolti l’acqua dagli stivali, ci lanciammo come bestie assassine su una cassa di aringhe affumicate. La sfondammo a mani nude, sforzando appena i chiodi con un’asta di metallo al grido di “vaffancul al generale, noi vogliamo sol mangiare”
Non contenti, sfondammo un secondo barile, questa volta contenente del vino acetato…e qui si fermò la nostra furia mangereccia, trasformatasi improvvisamente in un fiume di vomito e soldati striscianti.
Modestamente io non ero tra quelli. Infinitamente saggio, avevo preferito astenermi da quell’intruglio maleodorante.
In quanto essere sano, dovetti improvvisarmi medico di fronte. Un gran medico, oltretutto. Avevo imparato dal migliore, Biermann sarebbe stato fiero di me.
Fare le diagnosi era incredibilmente semplice: dopo aver misurato il polso al paziente e non disponendo di materiale medico, il più era fatto: se c’era il battito andava lasciato al suo posto. Tutti gli altri, invece, fuori dal deposito.
Quegli stronzi, approfittando delle mie scarse, seppur prodigiose, conoscenze mediche, finsero più volte di essere morti e giuro, non riuscivo a percepire loro alcun battito. Dopo aver buttati fuori i sedicenti morti dal capanno misteriosamente tornavano in vita gridando al miracolo, scappando in direzione opposta alla nostra.
Per fortuna c’era Von Stroheim con noi.
Sapeva come fare giustizia: gli bastava contare fino a tre e sparare un unico colpo sulla testa del disertore. Aveva un che di aggraziato nel portamento delle armi: qualcosa di estremamente elegante che noi inconsciamente ammiravamo, nel modo in cui tendeva il collo mentre prendeva la mira, sempre con la sua fida sigaretta tra le labbra. In molti adoravano assistere al gesto di grazia con il quale eseguiva metodiche e ripetute fucilazioni. C’era qualcosa che aleggiava, oltre la paura e la morte, che rendeva gli uomini assennati e desiderosi di scappare, un sentimento più forte della certezza che Von Stroheim avrebbe sparato alle loro teste. Era il nostro cane da guardia e, come tale, si comportava. A fine giornata zampettava scodinzolando dal suo superiore, notificandogli la sua bravura per ricevere una pacca sulla spalla e due paroline motivazionali.
Non durò molto: in breve tempo i russi ci furono nuovamente addosso e noi, spolpati fino all’osso, non riuscivamo a metterci in contatto con le truppe stanziate in Romania.
Sotto la pioggia scrociante ed i fiumi di fango uscimmo dai nostri depositi. Ci lasciarono giusto il tempo per controllare i serbatoi dei nostri carri prima di spronarci alla marcia.
Almeno eravamo all’asciutto. Sotto di noi gli artiglieri si spaccavano la schiena per trascinare pesanti macchine da contraerea e cannoni, formando lunghi solchi di fango.
“Bah” esclamò Tom dubbioso, tirando forte col naso. Si era preso un brutto raffreddore e più di una volta tememmo si girasse in bronchite: invece, fortunatamente, non peggiorò mai.
Quando i primi mortai furono lanciati finalmente ci diedero l’ordine di avanzare. Lo scenario che si palesò davanti ai nostri occhi non era di certo dei migliori. Il primo impatto, sostanzialmente, era quello di una distesa piana completamente ricoperta di rottami abbandonati.
Nostra roba, oltretutto. Potevamo contare almeno dieci Panther in ottimo stato, abbandonati in balia del fango e dei russi perché nessuno era riuscito a tirarli fuori dal pantano. Se avevamo l’occasione, ci fermavamo a svuotare i serbatoi prima che lo facesse il nemico anche se, puntualmente, arrivavamo sempre troppo tardi.
Fu in una di queste occasioni che la nostra armata venne attaccata dai russi. Sembravano fottutamente inarrestabili, perfino con la marea di fango che scivolava lungo il terreno appena inclinato del lungofiume.
Non era questo a preoccuparci per davvero: il fatto che fossero numericamente il doppio fece scaturire dalla bocca di Tom una raffinatissima e contorta imprecazione mentre, con estrema difficoltà, tentava di mettersi in assetto di guerra.
Era stato un fottuto azzardo presentarsi con un Jagdpanther in un simile scenario: non potendo contare sulla velocità, l’unica cosa che avrebbe salvato questa corazza di burro sarebbero state le preghiere.
Sfondammo una lunga fila di pali, cercando il modo migliore per fiancheggiare il nemico che, furbescamente, copiava le nostre mosse e le ripeteva a specchio, facendosi coprire i fianchi dai vicini…
Vabbè, vicini. A sinistra avevamo il capocarro Klaus Aachen e tutta la sua combriccola fottuta di cervello, col pittore ed i due ragazzini obiettori di coscienza.
A destra un perfetto sconosciuto riciclato da Stalingrado.
Appoggiato alla mia botola, tenevo strettamente in mano la radiolina dei comandi. L’acqua penetrava a goccioloni dentro il carro, evaporando a contatto con l’immenso calore che sprigionava.
Il capocarro Aachen mi lanciò un’occhiata preoccupata. Gli sorrisi, cercando di rassicurarlo.
“Ho bisogno di qualcosa di forte…Aachen, venga con me, mi faccia compagnia e magari anche da scudo nel caso fossi in pericolo”
“Per favore Capitano, questo non è il momento di giocare!”
mi rimproverò Tom mentre cercava disperatamente di arretrare, rischiando di incassare fango tra i nostri cingoli e seppellirci definitivamente.
“Anche lei, col naso grosso. Andiamo ad aprire il culo a quei russi!”
Questa volta mi rivolsi al mio vicino di carro, quello a destra.
“Sono il Caporale Hoffman, per la miseria!”
“Piacere, Capitano Faust. Ma non credo sia il momento dei convenevoli…”
Il nostro discorso venne interrotto da una forte esplosione a pochi metri da noi, seguita da una eruzione impetuosa di fango. Sotto allo spesso fumo scorgemmo il relitto di un cannone anticarro e quel poco che rimaneva del suo equipaggio.
“Andiamo, dai! Aachen…Jager, ruota la torre a sinistra e carica…carica qualcosa di potente…un ottantotto millimetri dovrebbe bastare…”
“Ricevuto!”

Osservai con i binocoli la posizione dei nemici.
Da lontano, oltre la spessa nebbia che trasudava dal terreno, potevo scorgere le figure di almeno cinque carri nemici, due dei quali riuscivo a distinguere come T-43, grazie al cielo.
“Weisz, riesci a piazzarti più…cazzo…come si dice…ho la parola sulla punta della lingua!”
“Trasversale? Mi faccio coprire dal Panhter?”
“Si, ecco!”

L’emozione mi tradiva. Essendo io un tipo immensamente sensibile, quando sentivo puzza di vittoria finivo sempre per commettere qualche spicciolo errore.
Questa volta mi rivolsi al carro sulla mia destra. Hoffman mi lanciò uno sguardo carico di fiducia (o almeno così pensai, dato che portavamo tutti gli occhiali) che contraccambiai, facendogli un cenno d’intesa.
“Nasone! Puoi portarti un po’ più avanti? Ci serve copertura!”
Tom rallentò il passo mentre il Panther ci superava, nascondendo con la corazza una buona parte della nostra placca frontale.
Sorrisi.
“Adesso Jager, gira il cannone! A sinistra, ancora un po’…”
Avevamo puntato ad un carro medio, un po’ più distante dal resto del gruppo. Confidando nel fattore “fine campo” il semovente aveva ben pensato di non essere visto da nessuno, così aveva ruotato la torretta completamente a sinistra, sparando dal lato opposto al nostro…
“Vai, mettigli il cingolo fuori uso!”
Non mancò il colpo. Il T-43, però, si accorse di noi e ruotò a gran velocità la torretta, mirando alla placca frontale del nostro Jagdpanther.
Fu a quel punto che nasone tradì la copertura ed arretrò fino a portarsi dietro di noi, con buona pace e sicurezza del suo equipaggio.
“Stronzo!” urlai “sono un Capitano, io! Torni al suo posto e ci copra!”
Nessuna risposta. Hoffman continuò ad ignorarmi, preferendo ingaggiare con un russo dall’altra parte del campo.
“Herr Faust, carico?”
“Zitto Jager. E comunque, Caporale, di grosso ha solo il naso, infame!”
“Capitano, punto alla torre?”
“Non mi interrompa, Aachen!”

Tom stava arretrando lentamente, spostandosi verso destra in un tentativo di fiancheggiamento. Il carro avversario aveva lasciato completamente scoperto un angolo debole tra torretta e placca frontale.
Questione di pochi attimi.
Avrei dovuto dare l’ordine.
“Ce l’hai talmente piccolo che la tua donna lo ha scambiato per la cordicella di un paralume! Ed ha tirato abbastanza forte da…”
Un colpo partì dal mio carro. In un attimo vidi la torretta del T-43 nemico aprirsi in due, strappando via capocarro e cannone e facendoli volare per diversi metri, piantandosi infine nel fango con un tonfo molle e sordo.
“Come si chiama…naso grosso, con lei faccio i conti più tardi!” sbottai, accendendo la radio per tornare a comunicare con i miei uomini.
“Era un tentativo di ammutinamento, quello?”
“Capitano!” fu Volker a rispondermi.
“Le abbiamo tipo salvato la vita! Siamo anche un po’ telepatici, no?”

Perché tutti in questa compagnia ambiscono al battaglione di disciplina?
“Avevo chiesto di aspettare!” ringhiai. Mi stavano facendo perdere la concentrazione, questi dannati-
Non ebbi il tempo di formulare il pensiero che un colpo strisciò a pochi metri da noi, facendo tremare l’intera corazza.  Pochi secondi dopo un’esplosione di proiettili iniziò a ticchettare sulla torretta, rimbalzando con un breve schiocco.
Quello stronzo stava, indubbiamente, mirando verso di me, costringendomi a rientrare nel carro.
“Aachen…Jager…ruotate la torre e tentate di prendergli il fianco…Weisz…”
“Capitano, so cosa devo fare!”
replicò Tom a denti stretti, cercando di coprire un autoblindato che, velocissimo, tentava un giro di ricognizione alla ricerca di cannoni e fanteria da abbattere: fu una corsa stolta e, in breve tempo, si impantanò nel fango e da lì non riuscì più a muoversi, divenendo bersaglio ambito di un cacciacarri particolarmente lungo e piatto.
Provai ad uscire dal carro, ancora una volta. La pioggia aveva reso i miei occhiali completamente appannati e rigati da enormi goccioni, pieni d’acqua per metà. Strizzai gli occhi, cercando di concentrarmi per salvare l’autoblindato.
“Aachen, sposta la torre a sinistra, ancora un po’…ti dico io quando colpire”
“Ricevuto”

Fu questione di secondi. Quando Weisz si allineò al fianco avversario, feci partire il colpo, scardinandogli il cingolo e bucando una parte del fianco. In risposta il carro rimase immobile, spiazzato, mentre una nube di vapore leggera fuoriusciva dalla ferita appena procurata.
In un secondo colpo riuscimmo a farlo saltare in aria. Bastò una minima fuoriuscita del carburante affinché prendesse fuoco brutalmente, quel tipo di calore inumano che la pioggia battente riesciva a tenere a bada ma non a placare.
“Ottimo lavoro! Adesso fate un po’ di spazio…vediamo se riusciamo a prendere i poveretti…”
Cercai nasone per coprire il nostro salvataggio ma non trovai altro che la carcassa squassata di un Panther con il fianco completamente aperto ed il cannone a raggiera come un fiore di prato…
Cercai il capocarro Aachen in mezzo alla folla: nonostante i russi ci stessero decimando come mosche loro…eccoli là, molti metri più indietro, sommersi nel fango fino a metà cingolo.
A giudicare dallo stato del loro carro, dovevano averlo abbandonato già da parecchio tempo…da quali pavidi esseri che sono…
Sospirai.
“Voi! Dell’autoblindato! Saltate su, in fretta!”
Chiesi a Tom di affiancarsi alla loro vettura fuori uso, assicurandomi prima di essere coperti dalla carcassa del mezzo.
Uno alla volta, con immensa fatica, riuscimmo a salvarli per miracolo…un carro, un altro stramaledetto carro aveva aperto il fuoco con la mitragliatrice verso di noi.
Eravamo strettissimi, adesso. L’aria all’interno del carro era calda e satura, completamente rarefatta dai nostri respiri. Io stesso sentivo la testa pesante e ciondolante.
Non sapevo esattamente quanto tempo fosse passato dall’inizio dello scontro. Minuti?
Ore, forse. Quando richiusi la botola sulla mia testa e svuotare gli occhiali pieni d’acqua mi accorsi, solo sfilandomi la montatura, che quello che scorreva sulle mie tempie non era solo acqua.
Fango. Sangue. Un proiettile doveva avermi preso di striscio e…esaltato, impasticcato come ero, nemmeno percepivo il dolore.
Quando riemersi, ancora una volta, la nebbia si era alzata lungo le nostre fila.
Spessa come un muro, faticavo a trovare tracce di vita, amica e nemica.
Solo una lunga fila di carri abbandonati e rottami. Talvolta misere figure che si incespicavano nel pantano e nella foga schiacciate dai cingoli dei carri…e adesso giacevano come frattaglie in conche rozzamente rossastre.
Il terreno esalava fetore di visceri, combustibile e fango. Questo odore mi sferzò il viso con una zaffata fetida, rivoltandomi lo stomaco…
“Capitano, va tutto bene?” Fu Volker, il marconista, a chiamarmi.
“Se ci sono problemi posso sempre inviare il mio piccione da guerra, Mein Schatz!”*
“Da quando hai un piccione da guerra?”
chiese Tom, cercando di fare marcia indietro con il carro.
“L’ho trovato qualche giorno fa, mentre cacciavo le oche! È un piccione con grandi aspirazioni, eh! Voglio che diventi fotografo di guerra! Vero, tesorino?”
Perfetto, pensai distrattamente, mentre osservavo la distesa alla ricerca di forme di vita ostili.
Dopo il Circo Volante della povera anima di Von Richtofen seguiva, in quanto erede spirituale, il circo Rotante di Bastian Faust col cane ed il piccione. Dimenticavo, il Barone aveva anche un babbuino.
Beh, io ne avevo quattro, di scimmiette: una era perfino addetta alla guida di un carro armato…
“Capitano!”
Ecco, il macaco al volante che invoca la mia benedizione.
“Weisz?”
“Ci siamo impantanati! Cazzo…”
“Posso inviare un messaggio ai nostri con Mein Schatz, no? Verranno a soccorrerci!” ipotizzò Volker, recuperando una penna ed un foglietto di carta da…da qualche parte, beh.
“Se questo serve a liberarsi del piccione…”
Ringraziavo il cielo di non poter vedere cosa cazzo stava accadendo là sotto perché troppo concentrato a fare la guerra.
Oltre la terra, i cingoli ed il fango, disseminati ovunque, troppi carri amici giacevano squassati o dimenticati dai loro proprietari perché oramai inagibili, completamente avvolti dal fango ed incapaci di muoversi…tra i tronchi degli alberi abbattuti ed il lieve sfrigolare di qualche fuocherello oramai spento e fumoso. Solo qualche movimento in lontananza faceva presagire che lo scontro era ancora in corso.
In questo momento di debolezza, quando abbassammo per un attimo, un fottuto attimo le difese, che un boato spezzò la nostra quiete, distruggendo completamente la catena dei cingoli della beneamata furia terza.
Un colpo basso, laterale, che fece tremare l’intera scocca d’acciaio…
“Maledizione! I comandi…non…”
Il caldo si fece nuovamente opprimente, accompagnato dal buio totale, un intenso odore di fumo ed il lento e inesorabile gocciare liquido che…
“Cazzo, il motore! Dal retro! Uscite!”
Non ci restava che una manciata di secondi a disposizione…il tempo di caricare e sparare ed il prossimo colpo ci avrebbe condotti direttamente all’altro mondo.
In quanto Capitano, ovvero colui che per ultimo abbandonala nave, presi in braccio quei venti chili di un Fiete uggiolante ed uscii dalla mia botola per primo, noncurante dei proiettili di un tiratore perfettamente consapevole della nostra posizione.
Con i tre ospiti, un cane adulto ed una gabbia con piccione non era esattamente semplice scappare agevolmente da una sola uscita…
Fortunatamente, però, quando il secondo colpo si incassò nella parte frontale eravamo oramai tutti fuori dal carro ma non lontani…e la pioggia di detriti e fanghiglia ci investì appieno, sporcandoci da capo a piedi.
Diedi uno sguardo ai miei uomini: Martin aveva avuto difficoltà ad uscire dal carro e sembrava un po’ scosso. Dei tre uomini della ricognizione…
“Hans! Dove sei, Hans!” Gridò uno dei due rimasti, lanciandosi verso i rottami bollenti della Furia.
Il commilitone era poco più indietro, riverso a terra in grumo di fango boccheggiante.
“Sto bene” mormorò, trascinandosi strisciando verso di noi. “Non riesco…solo ad alzarmi…”
Ma, a ben pensarci, forse sarebbe stato meglio anche per noi strisciare nel fango e mimetizzarci tra i canali d’acqua per renderci invisibili ai russi che, lentamente, scavalcavano le nostre linee dopo averci annientato. La chiamano “Rasputitsa” i russi “Schlammperiode” il periodo di fango, che aveva fermato chiunque, perfino Napoleone, dal mettere le mani sulla Russia.
Che poi mi chiedevo, strisciando come un verme assieme a tutti i miei uomini alla ricerca della salvezza, cosa ci avranno mai trovato di così interessante nella Russia? Sicuramente non devono mai esserci stati, nemmeno una volta! Se avessero provato almeno una volta nella loro vita un soggiorno in questo delizioso posticino (e lo affermavo mentre mi distruggevo le mani nuotando nel pantano umido e ghiacciato) avrebbero trovato solo tonnellate di neve e mura di fango spesse mezzo metro, altroché!




Note:

* Mein Schatz: letteralmente " mio tesoro" ma traducibile gergalmente come "Mio caro" 
Riferimento parodizzato Cher Ami (caro amico, in francese) il piccione americano che salvò il battaglione perduto durante la Grande Guerra.


Nota d'Autore!

Finalmente sono riuscita a portare un nuovo capitolo! mi scuso con la mia incredibile lentezza: riesco nemmeno a mantenere i ritmi che mi ero prefissata...
Prima o poi ci riuscirò! 

 
   
 
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